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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 4
    • Cap.35 Presenza di spirito in Alfonso, ed altre sue profezie nell'ultimo anno di sua vita.
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Cap.35

Presenza di spirito in Alfonso, ed altre sue profezie nell'ultimo anno di sua vita.

 


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Siamo nell'anno novantesimo di Alfonso, e del secolo il 1786. Com'egli accostavasi al termine, così vieppiù cercava sbrigarsi dalle creature, e da ogni cosa che a Dio nol portasse. Troppo importune riuscivano per lui le visite di schietto complimento. Non mancavano queste, specialmente di persone rispettabili, che passando per Nocera, o erano di ritorno, o portavansi in Napoli. Volendosene sbrigare non dava udienza a veruno. La situazione del corpo, quel non vedersi di faccia, la sua sordia, quel non dar risposta, e non interloquire al discorso, ognuno, credendolo alienato di mente, davasi in dietro.

 

Non succedeva così, essendovi persone Religiose, o essendovi cosa di rilevanza. In questi casi sembrava risvegliarsi Monsignore, e richiamando i sensi, interloquiva, e dava a tempo le sue risposte. Essendo venuti per visitarlo da S. Agata il gentiluomo D. Pasquale de Robertis col P. Maestro Carotenuto, Minor Conventuale, per quanto il De Robertis si sforzava per darsi a conoscere, Monsignore, non volendo attaccar discorso, non diede a capire averlo conosciuto. Accostandosi il P. Maestro, e sentendo esser Religioso, chiese se fosse Sacerdote. Esponendogli questi i suoi bisogni, diedegli tutta la soddisfazione.

 

Furono da lui in questi ultimi tempi altri due Padri Conventuali. Fattosegli capire che uno, essendo Sacerdote novello, voleva baciargli la mano, Monsignore in sentir Sacerdote, esclamando disse: Gran dignità, gran dignità la dignità Sacerdotale. Raccomandandosi quello alle sue orazioni. Io sono un miserabile, rispose Monsignore, pregate voi il Signore per me: son vicino a dare il gran passo dal tempo all'Eternità, e debbo presentarmi innanzi al Tribunale di Dio. Lo disse così acceso di volto, e con tale spavento, che, atterriti i due Frati, se ne calarono dicendo, se Monsignore teme, di noi che sarà?

Era così grande l'idea che aveva della dignità Sacerdotale, che pensandoci trasecolava, ed usciva di se. Essendo ascesi al Sacerdozio i nostri giovani Pappacena, e Pizzo, e portandosi da Monsignore per ringraziarlo, e baciargli la mano, Monsignore, in ossequio del Sacerdozio ricevuto, volle baciarla ad essi, e baciandola esclamò: oh la gran dignità, oh la gran dignità del Sacerdote: ora siete più voi, che qualunque Sovrano, Re, o Imperatore.

 

Capitò in Casa nostra nell'Ottobre dell'anno 1786 con sua moglie e col Marchese di S. Lucia, il Consigliere D. Gaetano Celano.


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Professavasi da Monsignore, e da tutta la Congregazione al Celano una somma obbligazione. Egli solo in tutt'i nostri passati anfratti ci aveva sostenuti. Licenziandosi vollero baciar la mano a Monsignore. In atto stava mangiando; ed in sentir il Consiglier Celano, si sbriga, e fa togliere il tavolino. Complimentò quei Signori il meglio, che potè; e volgendo il discorso, esortò marito e moglie ad amarsi scambievolmente, rilevando, che il bene del marito è il bene della moglie, così per l'opposto, e che essendo una medesima cosa marito e moglie, aver dovevano un medesimo volere, ed odiare tra di loro qualunque disparità di sentimento. Anche al Marchese disse: io sempre ho fatto stima della casa vostra.

Vale a dire, che capiva, quando voleva, e diveniva stolido, quando non voleva.

 

La rettitudine di mente non però, e la sua presenza di spirito sperimentavasi negli affari, che maggiormente facevano peso, ed erano intrigati. Essendosi determinata in Consulta l'espulsione di un Soggetto; e necessitandovi il consenso di Monsignore, riflettendo, richiese se tutti i Consultori erano stati uniformi.
"Se vi è stato, disse, taluno in contrario, voglio sentirne i motivi, e la difesa; e se per i suoi trasporti era stato altre volte corretto". Non contento di questo, dimandò, se i Consultori erano stati divisi, cercandosi il voto per imbasciata, o tutti uniti in un medesimo luogo: quando si sta unito, soggiunse, la cosa si esamina con altra posatezza, la verità riluce, e si fa manifesta con altra chiarezza. Così fattosi carico di tutto, prese la penna, e firmò la Consulta.

 

Essendosi rappresentato dal P. Villani, che pensavasi dare un certo impiego ad un Soggetto, ma più per farlo inteso, che per altro, Monsignore riflettendoci, non sapete,  gli disse, che costui nella tale occasione si portò così così.  Fu tale il suo riflesso, che si desistette da quello si era pensato.

 

Pervenne da Napoli, per consigliarsi con esso, il P. Folgori, Pio Operario. Fatto inteso Monsignore, disse, che foss'entrato, e per circa un quarto di ora l'intese a soddisfazione. Uscendo fuori il Padre Folgori disse, "che prima di venire eragli stato detto, che Monsignore era stonato di testa; e che avendoci parlato non era così, avendo ben capito tutto ciò, che avevagli proposto, e che in tutto dato gli aveva congrua risposta".

 

Con istupore di ognuno anche la memoria non gli mancava. Tempo innanzi il Signore D. Lucio Tortora mandò pregandolo per il Fratello Leonardo che raccomandato avesse a Dio suo fratello D. Tommaso. Essendo stato a visitarlo agli otto di Novembre con D. Michele Tortora, sovvenendo a Monsignore la preghiera già fatta, richiese D. Lucio come ne stesse il suo Fratello D. Tommaso. Questa reminiscenza stupiti fe restare quei due gentiluomini.


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Mesi prima della morte ci fu cosa, che sbalordì ognuno. Avendogli scritto dal Monistero di S. Marcellino D. Brianna Carafa, che D. Teresa sua Nipote danneggiavasi nella salute colla soverchia astinenza, si dovette stentare per farcelo capire. Essendo stato sospeso per un pezzo, chiese chi fosse Superiora, ed essendosegli detto, che era la medesima D. Brianna, riflettendo e sapendo la di lei condotta, volle si fosse scritto alla Nipote, che avesse ubbidito; vale a dire, che prima giudicò della qualità della Superiora, e poi si determinò. Soggiungendosegli, esservi anche lettera di D. Teresa, che diceva non farlo per mortificazione, ma perché lo stomaco nol ricercava, Monsignore, cambiando decreto, disse: ora ci vuole un terzo. Fe rescrivere a D. Brianna, che rimettevasi al Confessore, ed alla Nipote, che dipeso avesse da chi la diriggeva.
Con questa prudenza giudicava Alfonso anche in età, che quasi abbandonato vedevasi dal vigore dello spirito, e che sembrava a tutti non uomo, ma cadavere, anzi ombra di cadavere, e non di uomo.

 

Contava già con consolazione comune gli anni 90. compiti. La mattina de' 27. Settembre 1786. il P. Villani avendo celebrato una Messa solenne coll'assistenza della Comunità in ringraziamento a Dio, che degnavasi conservarci il comun padre, unito coi nostri si portò da Monsignore per augurargli felicissima l'entrata del novantesimo anno. Si confuse Alfonso a tal notizia: Non merito tanto, rispose: tutto è misericordia di Dio; e così dicendo proruppe in un dolce pianto. Soggiungendo il P. Villani, che coll'assistenza della Comunità erasi cantata Messa solenne in ringraziamento a Dio, resto obbligato ai Padri, disse Monsignore, Iddio li paghi la carità per la Messa celebrata.

 

A' 10. Novembre del medesimo anno, il P. D. Francesco Garzilli, che precedevalo negli anni passò all'eternità. Fattone inteso Monsignore per raccomandarlo a Dio, sentendolo morto, si rassegnò al Divino volere. Avendo recitato coi nostri un De profundis, disse: anche io sono uno di questi giovanetti.

 

Come accostavasi al termine, così investendolo sempre più lo spirito di Dio, in Dio vedeva ciò, che eragli nascosto. Essendo caduto infermo nel Decembre del 1786. il Medico D. Francesco Tortora, che assisteva Monsignore nelle sue indisposizioni, mandò pregandolo per il Fratello Leonardo, che l'avesse raccomandato a Dio. Diciamo un Ave Maria alla Madonna,  disse Monsignore, e recitò anche le Litanie.

Licenziandosi il Fratello, disse che avesse continuato a pregare Dio, e Maria Santissima; ma egli senza punto esitare, rispose: è morto. Il giorno appresso fu di nuovo a ricordargli il Fratello Leonardo di raccomandarlo a Dio; ma Monsignore non diedegli risposta. L'infermità non era mortale, ma dopo due giorni cioè a 27. del Mese, D. Francesco, fuori di aspettativa, passò all'altra vita.


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Stava infermo nel Monistero di S. Pietro Martire in Napoli il P. Maestro Caputo, quell'istesso, che in qualità di Rettore del Seminario convivuto aveva con Alfonso in S. Agata. Avendolo saputo le Monache Domenicane in Nocera, in dove vi era stato Priore, mandarono da Monsignore per averlo presente nelle sue orazioni. A capo di più giorni (erano gli otto di Ottobre 1786.) Monsignore volgendosi, verso le ventidue, al Fratello Francescantonio, disse: Il P. Maestro è morto;  e quegli dicendogli, che era vivo, e che le Monache volevano l'avesse raccomandato a Dio, via , ripigliò Monsignore, è morto. Di fatti in quel giorno alle ore due della notte il P. Maestro fu all'eternità, ed alle 22 era entrato nell'agonia.

 

Abbiamo altra cosa, che sorprende. Avevasi in casa per sovrano comando sul principio dell'anno 1787 un giovine Napoletano, ma discolo, ed incorreggibile. Questi di sera ebbe la temerità introdurre in camera una donna travestita da militare. Monsignore verso un ora di notte cominciò a gridare: Vi è donna in Casa, cacciate via la femmina. Il Fratello, e servitore credendola debolezza di mente, quietatevi, gli dissero, che la Casa è chiusa, e non vi sono donne.

Di nuovo il giovine la sera susseguente introdusse la medesima donna, e di nuovo Monsignore incominciò a strepitare: Ve l'ho detto, e torno a dire, che vi è donna in Casa: or ora cacciatela fuori.  Né anche se ne fe caso.

Essendo calati alla seconda tavola il Fratello, ed il servitore raccontavano agli altri, facendosi delle risate, questo supposto vaneggiamento. Stava anch'esso il giovine a tavola. In sentir questo ebbe a morire. Sale su, e fa uscire in fretta la donna; ma dubitando non fosse scoverto, di soppiatto la mattina per tempo ritirossi in Napoli. Tanto confidò il medesimo giovine ad un Seminarista della Cava, imbrattato anch'esso di simil farina.




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