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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • LIBRO II
    • Cap.56 Altri doveri ricercati da Alfonso ne' suoi Congregati.
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Cap.56

Altri doveri ricercati da Alfonso ne' suoi Congregati.

 


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Se fuori di casa voleva Alfonso i suoi Missionarj altrettanti Apostoli, in casa li voleva tanti romiti. "Fuori, diceva egli, dovete uscire per santificare gli altri: in casa dovete trattenervi per santificare voi medesimi. Prefisse per tutti, come fine essenziale, l'imitazione di Gesù Cristo capo di Missonarj, e volle che ognuno sforzato si fosse per imitarne gli esempj.

Ogni mese propose per tutti una delle virtù, che più fu a cuore al Salvatore, per mettersi in pratica; e che due volte il giorno ognuno esaminar dovea se stesso sopra l'esercizio di quella virtù, cioè la mattina prima di pranzo, e la sera prima di andarsi a letto. "L'esame, egli dicea, è quello che raccoglie le immondezze tutte, che sparse vi sono nell'anima nostra. Sembra netta la stanza, e non è così. Menandosi la scopa, risultano le immondezze. Queste ci umiliano, e confondono, e ci fanno risolvere in meglio. Bisogna impiegarci di proposito, e giuocar bene la scopa, se vogliamo approfittarci".

 

Desiderando ne' suoi il sommo della perfezione, inculcava sempre la sodezza del fondamento, cioè la santa Umiltà. "Umiltà, dicea, è necessaria in Missione, ed Umiltà, ripeteva, è necessaria in casa. Umiltà, fratelli miei, in ogni tempo e luogo, se vogliamo dar gusto a Dio.

Il fine della nostra Congregazione è di renderci simili a Gesù Cristo, ma umiliato, e disprezzato. A questo tendono tutte le regole; e questo è il fine principale del nostro istituto. Chi non si prefige questo scopo, non solo non anderà mai avanti, ma anderà sempre addietro. Se vi è umiltà, vi sarà santità, ma se questa manca, manca tutto. Questa dote per esser mancata in Lucifero, lo fe trovare tizzone d'inferno; e questo è quello, che fa distinguere un protestante eretico, da un Cattolico Romano".

 

Voleva tra tutti scambievole stima, e venerazione; e che ognuno stimato si fosse inferiore all'altro nel talento, e nelle altre doti naturali. Facevali orrore anche il solo nome di propria stima. Per Alfonso


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era questa una bestemmia. "Questa maledetta parola ha rovinato, e rovina, ei diceva; tanti secolari, tanti Preti, tante Case Religiose, e ne manda tanti in purgatorio, ed anche all'inferno.
Se un soggetto, disse un giorno nella comune conferenza, mi affacciasse una di queste proposizioni, mi sembrarebbe vedere un dannato. Se in Congregazione s'introducesse questo maledetto spirito, meglio sarebbe, che si distruggesse; ed io prego sempre Iddio, che la faccia distruggere, se mai sieno per introdursi sentimenti così pestiferi".

 

Un padre, e non mi sovviene in che occasione, si risentì con dire: e la stima mia! Fu questa una parola più che ereticale. Sopra di questo raggirò Alfonso tutto il sermone nel giorno di Sabbato alla Comunità, ripetendo sempre: e la stima mia!" La stima nostra, ei disse, è l'essere svergognati, avviliti, e divenuti, come addivenne Gesù Cristo l'oppobrio dell'uomo, è l'abbiezione della plebe". Non potendo farsi pace, come tra Congregati una tal bestemmia, si accese in modo nel ripetere stima mia, ed onor mio, che fu tocco ne' fianchi a vista di tutti, da un accidente assai doloroso.

 

In ossequio della santa Umiltà, non volle fra soggetti, anzi ebbe in orrore gara di precedenza, qualunque fossero i loro diversi impieghi, e qualità, nè servitù particolare per chicchessia de' medesimi.

Ognuno, non accettuandosi il Rettore, scopar dovea di per se la propria stanza, rifarsi il letto, e provvedere a suoi bisogni. Volle, che i Padri anche in giro lavassero in cucina per settimana le scodelle, e servissero a tavola, con recarsi a gloria il praticare gli esercizj più vili, per far acquisto dell'Umiltà cristiana. Similmente che il Rettore anch'egli servisse a tavola un giorno della settimana, ed il Ministro un giorno servisse a tavola, ed in un altro lavasse le scodelle.
L'umiltà, in senso di Alfonso, era e doveva essere tra tutti la virtù predominante, e singolare.

 

Tre volte il giorno, come dissi, stabilì mezz'ora per volta, in conformità del Profeta Reale, l'orazione mentale; cioè mattina, e sera da tutti in Coro, e prima di Vespro ognuno nella propria stanza. Similmente volle preceduta all'orazione vespertina altra mezz'ora di lezione spirituale sulle gesta de' Santi, come per prossimo apparecchio alla meditazione. Desiderava egli, che ognuno affezionato si fosse ad un esercizio così salutare. "L'orazione, ripeteva, è il cibo, ed il nutrimento dell'anima. Per mezzo di essa si vive vita spirituale, e perfetta".
Come inculcavala, così voleva vederne il profitto. "Voi tutti fratelli miei , disse un giorno parlando alla Comunità, siete uomini di orazione, e la fate tre volte al giorno. Vediamo se vivete una vita perfetta. I fratelli sarebbero tali, se facessero bene il proprio officio di cuoco, portinaio, ed altro. Gli studenti se usassero umiltà col proprio Lettore, studiassero con impegno, e con retta intenzione di approfittarsi


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in salute del prossimo. I Padri viverebbero una vita spiriuale; e perfetta, se zelassero l'onore di Dio, la salute delle anime, e si vedessero modesti, umili, ubbedienti, e raccolti. Siamo imperfetti, parlo di me, perchè non si fa bene l'orazione".

 

Per vantaggio dello spirito ogni mese prescrisse per ogn'uno un giorno di ritiramento, in rigoroso silenzio: così ogn'anno dieci giorni di esercizj. "Gran cosa, disse un giorno, è l'esercizio della preghiera, e dell'esame, quando questi ritiramenti vengon fatti con spirito di umiltà, e con impegno di approfittarsi. Ogn'altro mezzo rendesi inutile, se colla preghiera manca l'umiltà, che è il mezzo de' mezzi.

 

Volendo fomentare tra soggetti l'interiore raccoglimento, ed amore alla solitudine, prescrisse, terminata la ricreazione dopo pranzo, la mattina, tre ore di silenzio. Egli chiamava picciolo questo silenzio, perchè permettevasi a fiato qualche parola necessaria. La sera però, sonato l'Angiolo del Signore, tolta l'ora della ricreazione, volle rigoroso silenzio, sino terminata l'orazione della mattina; nè dirsi parola a chiunque senza il permesso di chi presiede.

 

Non soffriva veder disoccupato taluno, o vagando per la casa. Era sua massima, che ove non si ama la stanza, e l'applicazione, non vi può essere nè raccoglimento, nè spirito di orazione. Era anche suo detto:" un'anima dissipata è come una piazza aperta, e non custodita: non vi è tentazione, che non ci abbia l'ingresso; e fatto sera si ritrova carica di mille mancanze, ne sa come, e quando le ha commesse.

 

Volle, che ognuno visitato avesse privatamente ogni giorno Gesù Sacramentato. Questo divin Sacramento era per Alfonso la calamita del proprio cuore. Soleva dire, che chi ha sete della giustizia, e non si disseta a questa fonte, sarà sempre arido, e sitibondo.

Invigilava, che detta si fosse la S. Messa con posatezza, e raccoglimento, e che non si fosse impiegato meno di mezz'ora, ed un'altra mezz'ora spesa si fosse nel rendimento delle grazie. Non vi era pena maggiore per Alfonso, quanto veder celebrata la Messa con fretta, e con poca divozione. Volevala divota, ma non lunga, che ristuccasse il Popolo. "Ho saputo, disse un giorno ad un giovanetto Sacerdote, che sei eterno nella Messa, ma non va bene: "da oggi innanzi voglio, che non passate mezz'ora, e se passa, per penitenza lasciate le frutta a tavola.
Così inculcò a tutti particolar divozione per Maria Santissima. Volle, che ogni giorno ognuno visitato avesse la sua imagine in Chiesa, oltre la recita della terza parte di Rosario.

 

Avendo a cuore la mortificazione cristiana, e specialmente l'interiore delle passioni, raccomandavala con modo particolare, e praticavala coll'esempio. "I soggetti di questo istituto, così prescrisse nella regola,


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attenderanno principalmente a mortificare il loro interno, vincere le passioni, ed a negare la propria volontà".

Per esercizio dell'esterna mortificazione stabilì la disciplina a carne nuda in comune di Mercoledì, e Venerdì. Egli l'avrebbe voluta, come per tanti anni erasi praticato, anche il Lunedì, e Sabbato, se non fosse stato moderato dall'Eminentissimo Spinelli, che anche tolse il digiuno del Venerdì.
Prescrisse l'Avvento, e novena dello Spirito Santo anche col digiuno, e stretto digiuno ordinò nelle sette festività di Maria Santissima. Non volendo eccesso in questa virtù, ed avendo riguardo alla salute de' soggetti, inibì altra volontaria mortificazione, non avendosi il permesso del Direttore, e Rettore di Casa.
Così in ogni settimana volle per tutti un giorno di sollievo, per imprendersi con maggior lena le applicazioni spirituali, e letterarie.

 

Vietò anche per spirito di mortificazione, qualunque sodisfazione benchè innocente, ma non conveniente al proprio stato, cioè ogni sorta di caccia, e qualunque divertimento di giuoco. Così ogni animaluccio non necessario in comune, cioè cagnolini, o uccelli di gabbia. "Una bestiuola di queste, ci disse un giorno, è capace tal volta attirarsi il nostro cuore".

 

Esiggeva tra i suoi, come dissi, un distacco totale da proprj parenti, ed interdisse, come cosa essenziale, il portarsi in propria casa, se non in morte di Padre, e Madre. Di quest'osservanza ne fu estremamente geloso.
Avendo cercato il P. D. Carlo Gajano, uomo vecchio, e di specchiata virtù, visitare una sua nipotina nel Monistero di Ravello, Alfonso ce lo negò rotondamente.
Maggiormente non potea soffrire veder anzioso taluno de' negoziati di casa sua. "Lasciamo, diceva nelle comuni conferenze, e ripetevalo spesso, che i morti sepeliscano i proprj morti. Se sono in auge, ci alienano dalla santa povertà, e forse dalla vocazione: se bisognosi, ci opprimono il cuore, e maggiormente ci spostano, persuasi di poterli sollevare".

Eragli così a cuore questo distacco, che stimavalo, come caratteristica di un Congregato.

 

Sollecitudine somma egli ebbe per qualunque infermo, anche per il menomo tra fratelli servienti: ma non permetteva, che, per ristabilirsi in salute andato si fosse in propria casa. "Non è il Perù, ei dicea, la casa propria, che distilla balsami, e rimette in sanità. Iddio ci ha dato tanti climi diversi, quante sono le case, che abbiamo. A chi non giova una, potrà giovar l'altra; e chi viene in Congregazione, non viene per godere, ma per patire, e morirvi da santo".

Altre volte diceva: "la Casa nostra è la Congregazione, portiamoci da figli, che questa madre non è per negarci quanto ci bisogna. Stimava egli, che tanto era cercar di andare in casa propria, quanto licenziarsi dalla Congregazione. "L'infermità, disse tante volte, è la pietra paragone


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della vera santità: chi non si contenta nella casa di Dio, di quello, che Dio lì dà, non cerca più Dio, ma se stesso. Mai non potrà goder pace, ne taluno di questi può persistere nella Congregazione".

Raccomandava bensì ai Rettori locali tutta la carità cogl'infermi: e bisognando, soleva dire, che si vendano anche i Calici, per sollevare i nostri fratelli.

 

Troppo geloso fu Alfonso, come altrove si è detto, per qualunque commercio di lettere. Indispensabilmente voleva, che tutte passassero sotto l'occhio de' Rettori locali; che in questo s'invigilasse con modo particolare, e non si permettesse carteggio con chiunque, se non per cose utili, e necessarie.

"Ordiniamo a Portinari delle Case, ed a tutti i fratelli, così in una sua Circolare, che tutte le lettere, eccetto quelle si mandano a Consultori, o che da questi si scrivono, tutte si portino al Superiore della Casa, o della Missione. Ed essendoci lettere di cose di coscienza, si regoleranno questi secondo la costituzione del Capitolo. E soggiunge: se taluno de' fratelli servienti trascurasse questo mio ordine, comandiamo ad ognuno de' soggetti, che ricevendo lettere, non le possa aprire, nè mandar delle sue, se prima non le porti a vedere al Superiore; ed incarichiamo con modo speciale la coscienza de' Superiori, ad esiggere a rigore quest'osservanza, con ben mortificare gl'inosservanti; altrimenti essi me ne daranno conto, e saranno anche penitenziati, considerando, che quest'osservanza è di molto peso per molte ragioni, più che ad alcuno semprerà".
 Era sua massima, che siccome la morte entra nell'Anima per le finestre de' sensi: così il veleno delle cose mondane s'intromette nelle Case Religiose col carteggio al di fuori.

 

Siccome in Missione, così, senza giusto motivo, odiava in casa qualunque dimestichezza co' secolari. Voleva si soccorressero nello spirito, e non si barattasse il tempo in discorsi inutili.

Trattenendosi tra di noi in Nocera il nostro Avvocato, ed indi Consigliere, D. Gaetano Celano, ed avendo richiesto una mattina aver seco a pranzo nelle stanze di sopra un Padre di sua confidenza, li fu negato da Alfonso. Per lo stesso motivo proibì ancora, che non s'introducessero secolari nelle proprie stanze, e che portando il bosogno, ricevuti si fossero ne' luoghi destinati.

 

Siccome inculcava, che ognuno si fosse fatto tutto a tutti per guadagnar tutti in Gesù Cristo, così vietò, che ingeriti si fossero in cose non convenienti al proprio stato; specialmente l'aver parte in trattati di matrimonj, di contratti, o testamenti, potendone derivare il proprio avvilimento, o inquietudine tra le parti: così il far compari, come cosa scrupolosa per se stessa.

Non potè egli evitare ne' primi tempi far da compare ad un figliuolo Cavaliere suo parente. Perchè credeva si mancasse nell'insegnarli i doveri cristiani, ne viveva angustiatissimo.


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Essendo morto il figliuolo, Alfonso respirò, perchè in età non capace di malizia; e ringraziò Iddio, per averlo tolto d'angustia.

 

Per troncare i passi a qualunque ambizione, obbligò i soggetti, come dissi, a non pretendere direttamente, o indirettamente fuori di Congregazione qualunque dignità, o beneficio; ed offerto, che fosse tenuto ognuno rinunciarlo, se obbligato non fosse con precetto formale, o dal Papa, o dal Rettore Maggiore.

Così per non distogliere i soggetti dall'esercizio delle Missioni, anche proibì qualunque impiego al di fuori della Congregazione. Non volle Rettorie di Seminarj. "I Seminarj, diceva, richieggono i migliori soggetti. Questi affezionandosi al Seminario, perdono l'affetto alla Congregazione, e colla perdita della vocazione si affezionano al comodo, ed alla propria libertà".

 

Così ne anche volle direzione di Monache, siano di clausura, o conservatorio, nè in comune, nè in particolare. Una Monaca in senso suo è capace tener occupato tutto l'uomo, e non la sodisfa. Proibì ancora darsi loro fuori di Missione gli santi esercizj. Solo negl'ultimi tempi, concorrendovi qualche ragionevole motivo, permiselo a qualche Monistero.

 

Vietò similmente i Quaresimali, come d'impedimento alle Missioni. Egli ponderava così: "Chi è destinato per quest'impiego, non esce in Missione prima di Quaresima, dovendo prepararvisi; e fatto Pasqua, non è prudenza il destinarlo in Missione, perchè defatigato. Questo è il meno male. Tutto è libertà, ei diceva, per lo soggetto stando fuori; e ritornato in casa, meno subbordinato si vede, e meno amante dell'osservanza. Mutata la scena, il suddito, per li docati, che ha portati, si ritrova Rettore, ed il Rettore addivenuto suddito. Oltre di questo non è possibile, che non si adulteri la semplicità dello stile, e che non si metta in tuono la propria superbia.

 

Certi zeli indiscreti da lui non furono mai approvati; anzi li castigava, perchè di amarezza agli altri, ed odiosi per la Congregazione. Poco sodisfatta stava una Diocesi del proprio Vescovo. Mosso da zelo il P. D. Giovanni Rizzi, si avanzò a farlo carico, con una lettera, della sua obbligazione. Monsignore l'ebbe a male; e perchè diocesano, si dimostrò disgustato colla nostra Casa.

Avendolo saputo Alfonso, scrisse a me, essendo io Rettore: "dite al P. Rizzi, che non ha fatto bene: esso l'ha fatto per zelo; ma non sa, che a noi è proibito, fuori di Confessione, intricarci in cose, che possono ad altri causare disturbo. Che lasci, per amor di Dio, questi zeli da oggi avanti; dica tre Ave Maria per penitenza; e venendo Monsignore in Casa, è di bene, che in secreto vada a buttarsi a suoi piedi, li cerchi perdono, e si accusi di sua indiscretezza.

 

Scambievole affezione sopratutto egli voleva tra i soggetti, ed


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i Superiori.  Stabilì per conseguir questo, che ogni mese ciascun soggetto far dovesse un aperta di cuore col proprio Rettore, ch'ei chiamava conto di coscienza. Il soggetto esponendo con confidenza di figlio i suoi bisogni, ed il Superiore facendosene carico, darvi providenza con viscere di padre. Maggiormente se tentato ei fosse, e prevenuto di qualche cosa contro il medesimo.
"Questo, ei diceva, e il mezzo de' mezzi per mantenere l'armonia, e molto più la confidenza tra il Rettore, ed i soggetti. I Chierici però dovevano farlo ogni quindeci giorni, e i Novizj ogni otto, perchè questi meno addestrati a combattere con se stessi, e più travagliati dallo spirito tentatore.




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