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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • LIBRO II
    • Cap.57 Somma povertà, e stretta Ubbedienza esatta da Alfonso ne' suoi Congregati.
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Cap.57

Somma povertà, e stretta Ubbedienza esatta da Alfonso ne' suoi Congregati.

 


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Sopra due virtù, come sopra due basi, stabilì Alfonso tutto l'edificio di sua Congregazione: cioè Povertà, ed Ubbedienza.

Se queste due virtù, soleva egli dire, si mantengono in vigore, la Congregazione non è mai per crollare, e lo spirito, anzichè mancare, si vedrà sempre più accresciuto, ed in maggior fervore. Quanto sulle prime egli abbozzò intorno a questo nella Città di Scala, ed indi perfezionò nella Casa de' Ciorani, tanto con suo compiacimento, confirmato ei vide dalla Sede Apostolica.

 

Benchè sia padrone ogni soggetto de' suoi beni patrimoniali, egli bensì proibì a tutti, che dell'usufrutto di quelli far non si potesse verun uso da chiunque di essi, a sua propria disposizione, e che lasciato si fosse a beneficio delle proprie case.
Non permise depositi di proprio dominio; e se permise i livelli, perchè povera la Congregazione, questi esser dovevano nella piena disposizione de' rispettivi Superiori. Stabilì ancora, che qualunque denaro pervenuto si vedesse a chiunque come Congregato, o per limosina, o per benevolenza, o per rispetto delle proprie fatiche, tutto si dovesse presentare a Superiori, e disporsi da quelli a loro arbitrio.
Credette con questo aver chiusa la porta all'umana cupidigia; e non avendo il soggetto libertà di possedere in Congregazione, e disporne ad arbitrio, esente si vedesse da qualunque inquietudine.

 

Geloso Alfonso della santa Povertà voleva, che da' rispettivi Rettori zelata si fosse con iscrupolosa esattezza; ed affinchè in avvenire introdotto non si vedesse verun rilasciamento, similmente stabilì, potersi chiunque fosse, e si ritrovasse manchevole in questo, anche mandarsi via dalla Congregazione; anzi se il Superior Maggiore permettesse per sua debolezza innovar cosa contro la povertà da esso stabilita, volle,


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che pienamente provato, deporre si potesse dalla carica, con restar privo in perpetuo di voce attiva, e passiva.

 

Tutto doveva esser povero, quanto era per bisognare ai soggetti. Proibì l'uso della seta, o capicciola, e qualunque sorta di vanità, o leggerezza: e così in comune, che in particolare anche l'uso di qualsivoglia cosa o di oro, o di argento. Volle sottana, e cappa di semplice saja, e panno ordinario: le calze rotte, e triviali, così le scarpe all'apostolica, e senz'attillatura. Non permise canne indiane, ma una croccia boscareccia per bastone, anche senza gorbia, o pomo. Di ferro volle le forchette a tavola, i piatti, e vetri di minor spesa. Così tutt'altro, che esser doveva di loro uso.

 

Povertà volle nelle stanze. Non permise armarj, o altri comodi, ma un semplice tavolino con fodero senza chiave. Ordinarie, ed uniformi esser dovevano le tele per loro uso, ma in mano del guardarobba di casa. Non volle libri di proprio dominio; e portando il bisogno, prender si dovevano dalla comune libreria. Anche un aco, un filo non doveva essere in proprietà del soggetto, ed occorrendo, ritrovavasi in luogo determinato. Semplici pagliacci, come dissi, destinò per letti, proibendo il materasso: accordò bensì i cuscini di lana, ma questi, e lensuoli di tela comune. Tutto l'arredo della stanza non erano che tre, o quattro sedie, quattro imagini in semplice carta, un candeliere di rozza creta, e due, o tre libri spirituali.

 

Povera, e senza fasto volle ancora tutta la Casa. Stabilì le stanze palmi dieci in lunghezza, e dodici in larghezza; i dormitorj larghi palmi otto; vietò i balconi di ferro al di fuori; non volle nelle stanze, o corridori suffitta di tela, o di carte miniate; nè altro, che ispirar potesse ornamento, e vanità.

Sul principio invece di vetri, si usavano alle finestre delle carte incerate, e ne' finestroni una semplice telaccia; ma patendo il lume, e non potendosi studiare, permise quattro vetri nelle stanze, e non più, di un palmo in larghezza.
Benchè tutto spirasse povertà, e miseria, per Alfonso però sembrava scialoso, avendo egli in mira il petroso di S. Pietro di Alcantara, e non altre fabriche magnifiche, e spaziose.

 

Avendo tolto di mezzo il mio, e tuo, ed esentato il soggetto dall'anzia di possedere, e disporre, stabilì tra tutti un vivere perfettamente comune, e senza veruna parzialità; e se amava la Povertà, piucchè questa, amava Alfonso la Vita Comune, se non si vuol dire, che l'una, e l'altra unita, erano come la gemma più preziosa del proprio cuore.

"Se manca la perfetta Comunità, non possono mancare, ei diceva, sollecitudini, ed invidie. Chi può, e chi non può; ma chi può, di necessità rendesi invidioso a chi meno può. Quest'è tra Regolari la sorgente di mille inconvenienti. Chi non può, anche malis artibus


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non manca procurarsi, ciò che li bisogna.
Era così geloso per la vita comune, che ove vedesse in taluno de' Superiori poca sollecitudine per li bisogni de' soggetti, ardeva di santo zelo, correggeva, e dava di mano a castighi. Carità, e Comunità erano sinonimi in senso di Alfonso.

Voleva povertà, ma non miseria tra i suoi, e tale, che offendesse il decoro. Avendo veduto le scarpe in un Chierico, non atte all'uso, Alfonso non parlò; ma fece tal guardata alle scarpe, ed al Rettore, che mandollo carico di meraviglia. Partendo un soggetto, per situarsi in altra Casa, non soffriva vederlo bisognoso, e non provveduto del necessario. Non sono poche le riprenzioni, ma troppo amare, che per questo si viddero fatte a Rettori.

"La Carità, replicava, mantiene la Vita Comune, e la Vita Comune sostiene la Povertà; mancata la Carità, tutto è rovesciato. Molto più risentivasi, se vedeva qualche Rettore indulgente con se, e ritenuto con gli altri. "O quanti Superiori, esclamava, vedremo dannati nel giorno del giudizio, se per loro colpa la Povertà si è veduta offesa, e la Vita Comune danneggiata, e distrutta.

 

Benchè Povertà, e Vita Comune si dassero la mano, com'ei dicea, e si garantissero l'un l'altra, in seguito riflettè, che patir poteva detrimento la Vita Comune, e non restar offesa apparentemente la Povertà.

"Qualche indulgenza ai vecchi, e certe licenze estorte più dalla debolezza, che dalla volontà de' Superiori, ancorchè sembrano, ei diceva, non offender la povertà, avendosi il permesso, sono però abusi, che col tempo addivengono leggi, con grave danno della povertà, e maggiormente della vita comune.
Volendo precludere la strada, ed evitare qualunque rilasciamento, così per l'una, che per l'altra, stabilì per i Rettori un particolar giuramento, con cui si obbligassero, non eccettuandosi il Rettore Maggiore, non accordare a verun soggetto, per qualunque motivo, l'aver denaro come proprio presso di se, e disporne a talento; e che di quello si dava dalla casa, uscendosi fuori, non potersene fare altro uso, che per quello che venga somministrato.

 

Similmente considerando, che alterar si potrebbe la povertà, e vita comune coi permessi di cose comestibili da tenersi a lungo tempo nelle stanze, specialmente a soggetti infermicci, stabilì col medesimo giuramento, che i Rettori locali non potessero dar licenza a chiunque di tener in camera per proprio uso, dolci, siruppate, rosolj, ciccolata, tabacco, o altro; e che bisognando somministrar si dovesse volta per volta ad ognuno da chi ne fosse destinato.

Così volendo andar incontro a qualche abuso, che i medesimi Rettori introdur potessero per se stessi, obbligò anche questi non poter tenere in camera per proprio uso le cose suddette, cioè danaro, e comestibili, e che realmente incorporar


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dovesse ognuno nella Comunità qualunque cosa, che diretta venisse, così ad essi, che ad ogn'altro soggetto.

Questo giuramento a volle si fosse preso da ogni Rettore, entrando nell'impiego avanti la Comunità, e presente il Capitolo, entrando nell'impiego il medesimo Rettore Maggiore. Tanto eseguì egli stesso nell'Ottobre del 1755, e con questo se ne passò poi, come si spera, all'eternità beata.

 

Questa pensata non fu sua, ma dell'Eminentissimo Spinelli. Non approvando questi, formando il voto da mandarsi al Papa per l'approvazione della Regola, la deposizione del Rettore Maggiore, innovando cosa contro la povertà, perchè litigiosa, e causa di partiti, propose un tal giuramento, come antemurale per la povertà, e per la vita comune: utilius videtur sanciri, così egli, ut Rectores omnes, atque adeo Rector Major, in suscipiendo munere, jurare debeant, coram universa familia, se numquam permissuros, qualibet de causa, Congregationis Alumnis, ut possint arbitrio suo, vel minimum pecuniae erogare, nec rei cujuscumque privatum usum habere, eam veluti propriam possidendo.

Non convenne col Cardinale l'Uditore dell'Eminentissimo Bisozzi. Alfonso vedendo, che con questo giuramento si andava incontro, e che non venivasi al rimedio succeduto il male, stimò abbracciarlo, e proporlo ai suoi, come provvidenza più sicura, e più pronta per prevenirsi in Congregazione qualunque rilasciamento.

 

Riflettendo sempre più a qualunque cosa, che offender potesse, o la vita comune, o la santa povertà, e temendo come dissi, che qualche abuso si potesse anche fare dai Confessori di quello incerto, che da penitenti devesi restituire, disponendone essi a talento, non lasciò prevenirne l'abuso, e darci del riparo.
Avendo consigliato questo punto non meno coi suoi anziani, che con altri savj in Napoli, col parere di questi,


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e coll'autorità de'  Dottori, comandò, che l'incerto restituito, non si disponesse a proprio arbitrio ma posto in mano de' Superiori, si fosse fatto da questi quell'uso, che meglio si stimasse in beneficio del prossimo.

Proibì ancora il riceversi danaro da penitenti, per distribuirsi in limosina a chi meglio da essi si stimasse, come cosa anche contraria al voto della povertà: "non convenendo, ei diceva, a chi è ligato con questo voto, qualunque proprietà, nè l'uso indipendente dalla volontà de' Superiori.

Questo è quello, che facevali scrupolo, com'egli accenna nella Circolare del 1757, e che stimava necessario un tal divieto, anche per ovviare ad altri, ma molti inconvenienti. Monsig. Borgia specialmente riflettendoci anch'egli, se sentirgli, che se in questo non si dava riparo, i soggetti un giorno da Congregati del Redentore non si troverebbero di verun'istituto.

 

Non minor premura ebbe ancora per la virtù dell'ubbedienza. Stabilì, che i soggetti niente avessero di propria volontà, ma che tutta risposta la tenessero nelle mani de' respettivi Superiori. Il voglio, e non voglio avevali per termini esecrandi.
"A che siamo venuti in Congregazione, diceva Alfonso, se non per dar gusto a Dio, e per fare la di lui Santissima Volontà? Ma come si può cercare il gusto, e la volontà di Dio, se faremo renitenti in soggettarci alla volontà de' Superiori, che sono quì in terra i Luogotenenti del medesimo Iddio? Non voleva nè repliche, nè scuse.

"Non si replica all'ubbidienza, così in una sua circolare, nè si faccino interpretazioni. Il mancare in minima cosa all'ubbidienza è difetto grave da castigarsi con gastighi severi. Usino co' loro Superiori ogni rispetto, così si spiega nella Regola: con essi non si scusino, nè si difendino, e ne ricevano con umiltà le loro ammonizioni".

 Ammetteva, anzi voleva, avendosi cosa in contrario, che si esponesse, ma con sommissione, la difficoltà: ma che fatto l'esposto, senz'altra replica, ognuno soggettato si fosse a quanto le venisse comandato.

 

 

Posizione Originale Nota - Libro II, Cap. LVII, pag. 343




a Forma del giuramento = Io N. N. Rettore della Casa N. N. prometto con giuramento, e mi obbligo sub gravi a S. D. M. non permettere a Soggetti, stando in Casa, per ogni qualunque motivo, tenere per uso proprio, ed arbitrario, qualsivoglia somma di danaro. Similmente non permettere ad alcuno tenere in Camera cose commestibili, come frutta, paste dolci, siruppate, cioccolata, rosorj, tabacco e simile, dovendo in caso di necessità far ciò somministrare dall'Infermiere o da altro a ciò destinato. Mi obbligo ancora con questo giuramento non tenere per proprio mio uso le cose sudette, cioè danaro e cose comestibili; e realmente incorporare nella Comunità qualsivoglia cosa, che da fuori venisse diretta a me, o ad altro soggetto, accettata che sia. Questo giuramento però non mi obbliga nel tempo in cui i Soggetti stanno fuori di Casa, in Missioni, Novene, Esercizi Spirituali, e simili, restando a Soggetti in tal tempo l'obbligo di vivere secondo la Regola, e la Povertà professata; ed a Superiori pro tempore, che loro presiedono, l'obbligo di farle osservare. Nel caso poi che i Soggetti dovessero uscire fuori di Casa per altro bisogno, mi obbligo non dar licenza se non se di far spese che per lo vitto, e per ogni altra cosa, che per loro in quel tempo onestamente bisognasse, e non per altro. Così Dio mi aiuti, e i suoi santi Evangelj.






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