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P. Antonio Maria Tannoia Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori... IntraText CT - Lettura del testo |
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Cap.37 Altre nuove calunnie avanzate contro le dette Case d'Iliceto, e Ciorani, e contro l'intera Congregazione.
Ha questo di proprio la calunnia, che convinta non si confonde, anzi si fa forte con altre iniquità. Volendo i contradittori trovarsi veridici per gli afferiti acquisti, e non provati, persona spediscono, osservando per le Provincie, ove più i nostri traficavano, tutti i Protocolli de' Notari, per ritrovar, se potevano, legati, e donazioni a noi fatte. Avendo asserito magnificenza nelle Case, e spese eccessive, si spediscono ancora de' più miseri muratori, che, come tanti architetti, valutassero i nostri edificj; e da fuori, con uno sguardo, estimate furono le case, quale settanta, e quale ottanta mila ducati. Così quella, che in qualche podere era casuppola, per comodo de' Vignajuoli, estimata fu come un casino di Portici, ed in somme rilevanti. Tanto da questi, con attestati giurati si espose al Re, conculcandosi il vero, e dandosi luogo alla menzogna.
Arbitravansi i nostri, per la miseria in cui si stava, far questuare dai Fratelli laici, in tempo di raccolta, qualche sussidio in grano. Volendo toglierci il vitto, esposero al Re, che noi, senza permesso reale, andavamo limosinando. Volendosi verificare l'esposto, girar fecero per le Provincie un Subalterno, documentando questi gravi delitti; ed animando i Conventi de' Mendicanti a voler ricorrere anch'essi contro i Missionarj. Pochi, così istigati, lo fecero; ma tanti e tanti l'ebbero in orrore.
A grave delitto, tra l'altro, ci si ascrisse anche la Casa fondata nello Stato Beneventano. Si rappresentò al Re, che erasi questa attentata contro lo stabilimento del Re Cattolico, che permesso ci aveva, ma era falso, quattro Case e non più; e che l'oro, e l'argento del Regno, ammassato, diciam così, in tante verghe, riponevasi da' Missionarj in quella Casa, così eludendosi per gli acquisti, gli Ordini Reali. Anche per questo si fecero girare per ogni dove, ma inutilmente, degli emissarj, per appurare, se legati vi erano, o donazioni da quei di Regno in favore della medesima Casa.
Anche questo è poco. Tentativo vi fu, ma bastante a poterci dell'intutto rovinare. Vedendosi dai nostri dilapidato dall'economo quel poco, che si aveva in Iliceto, si ottenne potersi affittare, i pochi terreni, che si avevano, ad un nostro divoto. Ferì questo maggiormente il Maffei. Essendosi arato un pezzo di terreno, confinante colla Regal caccia, egli rappresentò al Re, come custode che n'era, che non prezzandosi da Missionarj l'autorità sua, eransi tolti alla Regal caccia temerariamente i termini, e quella sboscata, ed in parte ridotta a cultura. Subito, per sovrano comando, fu catturato il colono; ed essendoci venuto da Foggia il Presidente D. Angelo Granito, per osservar di persona l'attentato, benché giustizia facesse al vero, la calunnia non fu chiarita avanti al Re, che a capo di un anno.
Non cessa qui la catastrofe delle cose. Essendo per venire il Sovrano a divertirsi nella caccia di Tremoleto, che godeva in quella medesima terra, il Maffei prevennelo in Caserta, che i nostri alterata avendo contro di Lui la fantasia del Popolo, questo era per uscirgli tumultuariamente incontro, e con grave pericolo di sua persona. Nera impostura. Avendo egli il popolo nemico, e dubitando proclamo contro di se, volendolo evitare, come di fatti l'evitò, non mancò far rei i nostri, per così intorbidata l'acqua, dar in dietro il popolo, e metter in salvo se stesso. Due dispacci di fuoco calarono in Foggia; e giunto il Re in Torre Guevara, si spedì il terzo, affinché il Presidente avesse riparato, e riferito. Già parlavasi di nostra suppressione e di galea a tanti poveri oppressi. Prendendosi l'informo, restò confusa la calunnia. Non solo non vi fu persona, che deposto avesse a nostro danno, ma riclamossi contro l'oppressore.
Non altrimenti, che in Iliceto, fabbricavasi a danno de' Missionarj anche ne' Ciorani. Tutto era offesa del Sovrano, reità di Stato, scandalo de' popoli, ed oppressione. Ognuno de' nostri, divulgandosi sì fatte cose, specialmente in Napoli, addivenuto lo era la favola de' spiriti forti. Tutto era lutto per le Case, vedendoci tutto giorno accerchiati da birri, e subalterni. Anche l'opera delle Missioni, per accorrersi ne' Tribunali, se non si dismise, attrassata si vide, con amarezza nostra, e de' buoni.
Tra i tanti attentati, e calunnie, un tasto non fu toccato in questa dolente musica, e fu l'onestà de' Soggetti. Toccollo bensì in Iliceto il Guardiano de' Padri Osservanti, che stanziava in quel Convento. Girando questi le Case, e volendo denigrar noi presso il pubblico, e farsi maggior merito col Maffei, ventilava da per tutto, che i nostri, in quel bosco, anche in questo non mancavano abusarsi. Offeso Iddio di tanta temerità, non fu tardi a punirlo. In quello che accusava gli altri, ritrovossi incolpato se stesso. Più riclami contro di lui in questo medesimo tempo vi furono nella Curia Vescovile, per più sollecitazioni da esso fatte nel confessionale, e fuori. Processato, li fu tolta da Monsignore Pacelli la facoltà ad ascoltar le confessioni; e da' Superiori dell'Ordine, per altri suoi delitti, essendo capitato in Foggia, catturar li fece, e con doppio suo scorno, in pubblica piazza. Così umiliò Iddio, chi cercato aveva umiliare gli altri, e denigrarli.
Travaglio così grave, qualunque fosse la costanza di Alfonso, non poteva non affliggerlo. Volendo meritarci le Divine Misericordie, animavaci di continuo alla penitenza, e macerava se stesso. Ricorse ancora in Napoli alle Orazioni di varj Monasterj di Vergini, e ad altre anime sante. Quantità di cera mandò negli Erami de' Padri Camaldolesi, e che esposto il Venerabile, interessati si fossero per noi presso Dio. Spesso spesso anche mandò in Napoli delle grosse limosine per novene, ed altro a quelle Religiose, che diconsi le Cappuccinelle.
In queste circostanze, venendo applettato dai nostri a volersi portar in Napoli, per essersi rimesse dal Re tutte le carte nella Camera di S. Chiara, e che temevasi soprattutto per l'accusa fatta alla Casa di Benevento, egli ritrovandosi travagliato dalla terzana, a' sette di Luglio 1767. Così rescrisse al P. Villani: "Non sono partito, ma ho scritto di un modo molto efficace al Presidente Cito. Se con quella lettera non mi favorisce, non mi favorirebbe con cento mie andate in Napoli. Sto col sospetto della terzana, che mi assalta ogni momento, ed i medici mi dicono, che ad ogni poco di fresco, o con altro moto straordinario, può ritornarmi, e se recidivo di està, non me la toglierò per tutto l'inverno". Questa nostra costernazione era per lui l'unica afflizione. "E' di bene, così a 18. del medesimo mese allo stesso P. Villani, che stiamo tutti rassegnati nelle mani di Dio; ma io non arrivo ad apprendere questo gran timore, che voi avete, perché nel Regno le Case ci stanno con dispacci di sua Maestà Cattolica. Le accuse di Maffei si conoscono, che son freddure. Tanto più, che ora Benevento sta in mano del Re, ed è finita la gelosia". Tutto era fiducia, e sicurezza in Alfonso. Ancorché vedevasi il mare in così gran tempesta, e la Congregazione qual piccola nave sbattuta, ed in pericolo di naufragarsi, egli dormiva, e non riposavasi, che sulla confidenza di Dio, nell'innocenza de' suoi, e sulla Clemenza del Sovrano.
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