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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 3
    • Cap. 44 Tenor di Vita da che Alfonso restò storpio fino a che risedette nella sua Chiesa.
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Cap. 44

Tenor di Vita da che Alfonso restò storpio fino a che risedette nella sua Chiesa.


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Se finora, ne' suoi travagli, la vita di Monsignore era stata di ammirazione a tutti, ripigliato nelle forze il suo sistema confondeva, e predicavansi le meraviglie. Dimentico di esser così storpio, e carico di pene qual'era, non operava, che come sano e robusto. Se prima non eravi per esso momento di respiro, nel presente stato tutto era strazio e propria crocefissione. Il sonno al solito non era, che circa ore cinque.

Benché usasse la lana, questa non consisteva, che in un misero trapuntino, che, benché avesse il nome di materasso, non era doppio, che poche dita; e perché non permetteva, che si dibattesse, divario non riconoscevasi tra quello, ed un legno. Inchiodato su questo letto di dolore, anziché vederli il volto, non se li vedeva, da chi portavasi da lui, che il solo cranio. Su questo letto era pronto per ognuno, interessavasi per la Diocesi, e dava a tutti soddisfazione.

Terminata di mattina la solita mezz'ora della meditazione, ed essendosi preparato per la santa comunione, che mai lasciava, assisteva alla messa, che celebravasi dal proprio Segretario. Fatto il rendimento di grazie, che era ben lungo, anche recitava, ma con suo gran stento le ore Canoniche.

In seguito, sodisfaceva nel decorso della giornata, e nelle stabilite ore a tutti gli altri esercizj del proprio spirito. "Ritornato io, dopo il decennio di mia dimora in Sicilia, così contesta il Sacerdote D. Gaetano Mancusi, allora nostro congregato, ed ora Rettore nel Seminario di Potenza, non ritrovai Monsignore diverso da quello di prima, ma simile a se, e colla medesima divozione. Tre volte il giorno la meditazione; mezz'ora di riposo, e non più il dopo pranzo; così la solita lettura cotidiana sopra le vite de' Santi, e prender cibo una volta il giorno. Ancorché stroppio anche esercitarsi nelle solite opere di misericordia; e starsene occupato senza perdere un minuzzolo di tempo dalla mattina alla sera. Tutto questo è noto a me, ed è noto a tutti".

Se, tra il forte de' travagli, non perdette di mira i bisogni della Chiesa, e delle Anime, applicarsi in dettare, o perfezionare le varie opere, che aveva per le mani, in seguito si applicava da sano, e con impegno maggiore. Vedevasi sopra il suo letticciuolo circondato,


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ed affollato da libri; e non impiegavasi, che dalla mattina a mezza notte; e tante volte un qualche ristoro, o di latte che se li dava, o di semplice acqua, non prendevalo che coll'oriuolo alla mano.

Egli medesimo scrivendo in Venezia a 21. di Agosto 1769. al Sig. Giuseppe Remondini "Procuro, disse, non perder tempo, e sto aspettando la morte da giorno in giorno. Ho preso quattro volte il Viatico, e due volte l'Estrema Unzione. Non lascerò pregare per V. S. Illustrissima, così per la buona sanità, come per la prosperità de' suo' negozj, e specialmente del gran negozio della salute eterna". Questo suo zelo, e questa sua così costante applicazione, faceva dello stupore. Noi possiamo uguagliarlo ai primi dotti, e zelanti Vescovi, così l'Arcidiacono Rainone, tanto era impegnato in questo, stato per lo bene delle anime, e della Chiesa.

Anch'esso il P. Maestro Caputo mi scrisse: "Monsignor Liguori era il vero esemplare de' primi Vescovi del Cristianesimo, i quali non solo, nel tempo istesso, avevano in mira le anime loro addette, ma interessavansi, coi loro scritti, per tutta la Chiesa. Questo suo fare stupir faceva ognuno. Che se di S. Girolamo si legge, non altrimenti spiegavasi un degno Sacerdote Napoletano, che perpetua lectione, ac scriptione superabat i suoi morbi; e se fa meraviglia quanto scrisse S. Gregorio, anche infirma, et aegra valetudine, maggior meraviglia far deve Monsignor Liguori, se tanto si affaticava in uno stato, in cui non fu mai né S. Girolamo, né S. Gregorio.

Disgustando questa sua applicazione i più interessati per esso, credendo si abbreviasse la vita, fecero capo al P. Villani, che come Direttore volesse moderarcela. Avvertito Alfonso, dolcemente si giustifica. "Io non mi fido star così a guardare il Cielo. Così egli in una sua. Potrei impiegarmi a leggere senza dettare, ma la testa non mi ajuta. Quando ho letto un terzo d'ora, o al più mezz'ora, non posso più. Del resto io non lascio le mie divozioni. L'orazione la fo mattina, e sera, oltre la visita al Sacramento. Un'ora in circa dura il ringraziamento, e per mezz'ora fo la lezione spirituale; ma vi sono più giornate, che se ne vanno sane sane, per gli affari della Diocesi; ed in tempo della visita della Diocesi, che ora ho già cominciata, gli scritti stanno a dormire. Ho voluto scriver tutto distintamente, acciò V. R. mi dia la benedizione".

Anche in seguito insistendo il P. Villani a volersi risparmiare "non dubitate, li rescrisse nel mese di Luglio 1774. che per la nuova opera, non mi do fretta. Si scrivono pochi versi ogni mille anni; esco mattina, e sera, e faccio il solito cammino. L'ho preso a puro divertimento, come V. R. mi scrive; ma un certo divertimento, che col tempo può servire, per le molte belle notizie che ho raccolte, e faranno nove mesi, che ci penso. Per grazia di Dio mi sento bene; ma l'età di settantotto anni


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è una brutta infermità". Vale a dire, che di tutto si fa carico, fuorché del gran travaglio, che l'assisteva.

Tirava, ma senza respiro d'intervallo, udienza ed applicazione fino all'ora tarda, e non interrompevala, che portandoseli da mangiare. Se il cibo per ognuno è un ristoro, per Alfonso era pena e travaglio. Stando così stortigliato colla testa, faticar doveva per intromettersi i bocconi, e specialmente, non era nello stato a poter bere. Essendoseli progettato una cannuccia d'argento, l'ebbe in orrore. Sulle prime servivasi di una cannuccia di legno, ma col far uso del caffè, o di altra bevanda calda, se ne spaccò più d'una. Avendone fatta altra di ferro stagnato un nostro Fratello Laico, questa volentieri empivasi di ruggine. Dispiaceva al fratello Francescantonio, ma non a Monsignore. Capitato in Arienzo l'orefice D. Domenico Porpora, fecela d'argento, ma s'ebbe a dire, esser di metallo forestiere.

Un'ora non passava tra il cibarsi, e confabolare coi suoi, e non prendevasi, vestito qual'era, che mezz'ora di riposo. Fatta la solita lezione spirituale, o da se, o per mezzo di taluno; e fatta la visita al Sacramento, ed a Maria Santissima, soddisfatto il Vespero, e Compieta, dava udienza, ripigliava lo studio, e tirava fino all'imbrunir della sera.

Affliggevasi ne' primi tempi non potendo visitare, come per l'innanzi, i cari infermi, e sollevarli. Tuttavolta, se non di persona, sopplivalo per mezzo de' Parrochi, e di varj Ecclesiastici. Informato della povertà di taluni, non lasciava, per mezzo del Fratello Francescantonio, o del servidore Alessio, provvederli del bisognevole. Ogni giorno voleva sapere come passavano i più aggravati, e cosa loro necessitava di vitto, e medicamenti. Essendo accaduta una disgrazia a Suor Maria Caterina, Monaca di casa, e poveretta, vedevasi confinata sopra una sedia. Benché potette cucire, e far calzette, Monsignore anche in sussidio assegnolle carlini cinque ogni mese.

Anche Iddio concorreva colla sua carità, e tanti infermi sollevati vedevansi per mezzo delle di lui orazioni.

Ritrovandosi in Arienzo il P. D. Giuseppe Morgillo Pio Operario, e calando un giorno da sopra un monte, ove, per onesta ricreazione da parenti, era stato condotto, sdrucciolando, si ruppe una gamba. Riposto l'osso nel suo luogo, e non essendo bene accomodata, erano dieci giorni, che spasimava, e non trovava riposo. Alfonso avendo mandato a visitarlo, in sentirne lo stato, rimandò il servidore con una figurina di Maria Santissima: Che vi abbia fede, disse, che riceverà la grazia. Non tanto il Padre applicossi la figurina, dicendo: Madonna mia, per li meriti di Monsignor Liguori, liberatemi da questo travaglio, che sano ritrovossi. Conservò sempre, finché visse, tal figurina il P. Morgillo come reliquia di Monsignore.

Avendo venduta, come dissi, la carrozza in tempo della carestia, 


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non ci aveva più pensato, né voglia aveva di rimetterla. Vedendosi dai Medici così storpio, ed applicato, gli ordinarono, per mantenerli qualche residuo di vita, uscire ogni giorno, e respirare in carrozza un poco di aria. Quantunque ubbidientissimo in ogni loro cenno, in questo, perché di suo sollievo, vedevasi indifferente. Premurato da Medici, e da familiari "A che questa uscita, rispose: mi contento così, che non ci patisco. Quello, che debbo spendere per la carrozza, e mantenimento de' cavalli, debbo levarlo ai poveri".

Conoscendo preciso il bisogno il Fratello Francesco Antonio, ed altri, risolvettero comprarne una alla peggio. Tutta la spesa tra la carrozza, finimenti, e cavalli, fu ducati cento, e tredici. Da principio se li disse avercela regalata il Fratello D. Ercole; ma saputone il netto, se ne lagnò in Napoli, come di un prezzo troppo alterato, col fratello Tartaglione. "Potevasi risparmiare, gli scrisse, prendendosi di altra qualità e cavalli, e carrozza. I cavalli bensì voleva si trattassero secondo la propria condizione, più colla paglia che colla biada.

Uscendo eravi in Arienzo del gran divertimento tra quei Gentiluomini: Monsignor vecchio, dicevasi, vecchio il cocchiere, vecchia la carrozza, e vecchi i cavalli.

Queste uscite, che per Monsignore si volevano di sollievo, per lo più riuscivano di gran pena per esso, ed al popolo di un continuato spettacolo. Se la carrozza scuotevasi, per qualche pietra, o fosso, che incontrato avesse, era per Alfonso un martirio. Ogni pietra, che s'incontra, disse ei medesimo, io mi sento tal pena, come se la testa si scastrasse dal collo.

Una sera, portandosi per la strada, che dicono i Crisci, si spalmò talmente una ruota, che non restovvi un raggio; e cadendo di lato la carrozza, se non si ruinò, fu miracolo. Portandosi a braccio, ma con gran stento dal servidore, e dal fratello Francescantonio, non potendo, dovette più volte sedersi a terra, e nel prendersi l'abitato, le donnicciuole, facendoli compassione, li prestarono da sedere.

Altre volte, essendosi rotto ora un cignone, ed ora altro guarnimento, vedevasi Monsignore restare a mezza strada. Uno de' cavalli aveva tal male, che storcendo la testa, buttavasi di botto a terra, e per un pezzo, volendolo rialzare, stirar se li dovevano le orecchie. Tante volte, o fermar dovevasi sulla strada, o strascinarsi a piedi, sostenuto da altri. Favorivalo di vantaggio, perché inesperto, anche il cocchiere. O non vedendo il mal passo, o non sapendolo evitare, erano più li butti di corda, che soffriva, che non erano i passi che dava. Tutto era pena per gli altri, non già per Monsignore; né si persuase a voler cambiare o cavalli, o carrozza, o cocchiere.

Usciva sulle prime, perché obbligato da Medici, mattina e sera. "Io sto meglio, scrisse a 9. di Dicembre 1769. al suo Fratello D. Ercole: stasera ho predicato (era giorno di Sabbato): ogni mattina cammino un poco colla carrozza, e mi giova assai; e credendo averli regalata la 


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carrozza, vi ringrazio, soggiunse, della carità, che mi avete fatta". In seguito non facevalo, che di sera, verso le ventitré; ma per la campagna, e non mai per l'abitato.

Non volendo perdere quell'ora di tempo, recitava sulle prime, mettendolo in carrozza, un'Ave alla Vergine, tre Gloria Patri ai Santi Protettori, e per le Anime purganti un Deprofundis. Portando seco o il Segretario, o altra persona, facevasi leggere per strada qualche vita di Santo, o altre materie ecclesiastiche, che aveva per le mani; ma perché sordastro, dovevasi fare a voce alta.

Tirava per ordinario in S. Maria a Vico, ivi visitava il Sacramento, ed infervorava il Popolo coi suoi santi sentimenti. Così storpio visitava ancora di persona, come altrove dirò, i suoi cari infermi, e carcerati. Aprivasi il libro uscendosi di casa, e non chiudevasi, che rientrandosi nel cortile. Questo, e non altro era il solito divertimento di Monsignor Liguori.

Così quasi per anni due seguitò ad uscire. In seguito, benché vedesse, che li giovasse, facendosi scrupolo la spesa, che si portava per cavalli, e cocchiere, risolvette, e cercò con premura, che si vendessero i cavalli, e dispensarsene il prezzo a poveri. Fatto l'avrebbe, se il Vicario Generale, Medici, e familiari rappresentato non gli avessero la precisa necessità, che aveva di uscire; e molto più se anche il P. Villani proibito non ce l'avesse.

Sonate le ventiquattro, e sodisfatta con i suoi un'altra mezz'ora di meditazione, recitava Matutino colle Laudi, accompagnato col Secretario e ripigliava lo studio. Posso dire, che forse era più occupato Monsignore, essendo storpio, che sano. La sera per lo più il suo ristoro non era, che o un caffè, o poche oncie di latte, o una bevanda di acqua. Essendo le tre, radunando la famiglia, recitava il Rosario, e fattosi l'esame colle Litanie della Vergine, ed altre preci, il Vicario cogli altri andava a cena, e Monsignore, specialmente di està; coll'orologio a vista tirava a studiare in faccia alla mezza notte.

"Ammirai in Monsignore questo stato, così il nostro Padre Buonopane, una somma modestia veramente cristiana. Avendo bisogno di scaricare l'urina, non facevasi apprestar il vaso, ma strascinavasi nel camerino, che aveva di fianco alla stanza di letto, tenendosi al muro, ed alle sedie. Poteva, ma nol fece mai, vicino a letto; coricandosi la sera, levavasi da se i calzoni, con somma cautela per di sotto alla sottana, e postosi con gran stento a letto, facevasi tirare le calzette da sotto la coperta, senza che se li vedesse nuda  parte alcuna del corpo".

Solo la Messa faceva mancanza nella vita di Monsignor Liguori. Dio vuole, che io non dica Messa, ed io non voglio dir Messa, disse un giorno al Sacerdote D. Salvatore Tramontana. Ma se a tutt'altro soddisfaceva come sano, ancorché con grave penalità, anche in questo volle


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Iddio consolarlo. Eran già due anni, che ogni mattina, non potendo celebrare, assisteva alla Messa, e comunicavasi.

Essendo stato da lui, il Sabbato precedente all'ultima Domenica di Agosto del 1770., il P. Maestro Marcorio, già Priore del Convento di S. Agostino, invitollo a predicare nella propria Chiesa, per la Domenica susseguente, perché festa della Cintura. Si compromise Alfonso; e discorrendo li espresse la pena, che soffriva, perché inabile a poter celebrare. Vedendolo afflitto il Padre Maestro disse, che per le Rubriche meno essenziali scusavalo la necessità, e che adattar potevasi sopra una sedia, per sumersi il Calice. Sentendo ciò, diede Alfonso in un estro di gioja. Avendo, per la seconda, e terza volta, fattane l'esperienza, la Domenica celebrò con sua sensibile consolazione. Il dopo Vespero, essendo andato a predicare in S. Agostino, non finiva ringraziare il P. Maestro, per un lume così segnalato.

Tutto lieto, nel medesimo giorno, ne diede parte ai suoi. "Oggi ventisette del corrente, così al P. Villani, ho cominciato a dir Messa, e spero seguitare a dirla. Tutta la difficoltà era la funzione del sangue, ma si è pensato un certo modo, e già stammattina l'ho posto in esecuzione. Gloria Patri; ed oggi vado a fare una predica ad una Chiesa di gran concorso": volle dire la Chiesa de' PP. Agostiniani. Scrivendo, a nove di Dicembre, al P. Nicolò Sapio in Palermo. "Dico Messa ogni mattina, li scrisse, e cammino in carrozza, quand'è buon tempo; né lascio le mie applicazioni dopo il tempo, che mi resta dalle cure del Vescovado". Giorno non vi fu da questo tempo in poi, che non avesse celebrato. Ottenne bensì da Roma poter dire giornalmente la Messa della Madonna.

Esatto Monsignore nelle Rubriche, non è che dispensato si fosse dalle meno essenziali. Le più penose per lui erano le genuflessioni, ed in questo era il più attento. Calava col ginocchio fino al piano della predella; ma calando, e non reggendoli le forze, gravitava, come un tocco di piombo, e non raddrizzavasi, che ajutato, e con somma pena.

Rescrivendo al P. Villani nel primo di Settembre. "Per grazia di Dio, disse, io seguito a dir Messa, ma con grande stento, e dopo la Messa mi ritrovo sfinito, e tutto sudato".

Attesta il Primicerio D. Giacomo Morgillo, che assistendo alla sua Messa, non vedeva un Uomo, ma un Angiolo sull'altare, e che adattandosi per sumere il Calice, vedevasi Monsignore cambiato di volto, accendersi estremamente, e quasi uscito fuori di se. Seduto ascoltava al solito, per rendimento di grazie, la Messa del Cappellano, o di altri. Essendoci il Credo; ed essendosi prossimo all'Incarnatus est, Monsignore agonizzando buttavasi a terra, restando per un pezzo profondamente inchinato. Non altrimenti alla


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Consegrazione; ma volevansi delle vette ogni volta, per rialzarlo, e rimetterlo a sedere.

Non è che, fra questi due anni, che non disse Messa, e stiede così travagliato, Monsignore dimenticato si fosse per il suo popolo. Non potendo celebrare per quello, supplir faceva tutte le Messe dal nostro p. D. Carmine Fiocchi, Rettore nella Casa de' Ciorani; così per altre, che non potette celebrare, mandò la limosina ai nostri Padri in S. Angelo a Cupolo.

Tale è la vita di Monsignore, in uno stato così penoso, e tale fu in tutto il tempo, che persistette Vescovo nella Diocesi. Tutto signoreggiava in esso. "Ammiravasi in lui, così il Canonico Rubbino suo Vicario, somma uniformità e pazienza; zelo, e vigilanza per la Diocesi, e per la gloria di Dio; indifferenza per li suoi travagli, ed amore alla Croce. Quello che maggiormente sorprendeva, era l'invariabile costanza nel sodisfare nelle ore, che determinate si aveva i suoi divoti esercizj, e le sue letterarie applicazioni".

"Ritrovandosi con Monsignore in Arienzo il nostro P. D. Fabio Buonopane, nel Giugno, e Luglio del 1773. dandomi contezza delle di lui giornaliere applicazioni, e costanza nell'eseguirle, mi scrisse: "Tal genere di vita, e così esatto, tuttocché io non sono che di anni trentatré, mi stanca, ma Monsignore vedesi fresco, e tirarlo avanti, senza suo menomo rincrescimento".




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