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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 4
    • Cap. 19 Tenta Alfonso aver approvato dal Re la sua Regola, e di nuovo ritrovasi in altri gravi imbarazzi.
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Cap. 19

Tenta Alfonso aver approvato dal Re la sua Regola, e di nuovo ritrovasi in altri gravi imbarazzi.

 


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Non era Alfonso, tra le mani di Dio, una statua, che si formasse a getto, ma perfezionar dovevasi a colpi di martello. Contava egli gli anni ottantatré. Giustificati essendosi avanti al Re i capi criminali, respirò, e goder credeva in pace il resto de' suoi giorni; ma altro temporale stavagli apparecchiato, che profondar dovevalo nel più alto mare. Non avendo potuto il demonio espugnar la piazza, attaccandola al di fuori, adoprossi che tradita di dentro, resa si vedesse, e soggiogata.

 

Pietra di scandalo per i comuni avversarj, come dissi, era la nostra Regola confirmata dal Papa, e non approvata dal Sovrano. Essendosi ottenuto dal Re l'approvazione per varj capi col Dispaccio de' 21. Agosto 1779., si pensò ottenerla in tutto il di più, affinchè comprovandola il Sovrano, i contrarj non avessero più potuto cavillare.

Questo progetto non dispiacque ad Alfonso. Volle bensì che sessionato si fosse in Napoli, e cercato il parere da' più Savj. Similmente essendosene fatta parola a Monsignor Testa, Cappellano Maggiore, non esitò favorirlo, purché manoscritta si fosse la regola, e tolto di mezzo ciò, che ostava ai Regali Dispacci; cioè gli acquisti, e la rendita delle Case.

Sistemato il tutto, fu affidato l'affare al P. D. Angiolo Majone, uno de' Consultori, che con comune soddisfazione assistito aveva, e tuttavia assisteva ne' Tribunali, e presso la Corte per le attuali emergenze. Geloso Alfonso, ripetette, e protestossi più volte, che tolti gli acquisti già dal Re proibiti, la regola non si fosse in altro alterata.

 

Scabroso stimavasi il tentativo. Avendosi i nemici a fronte, intraprendente che fosse il Padre Majone, anch'esso ne temeva. Se si oppongono, disse, ricevuta la negativa dal Re, resteremo per sempre pregiudicati; e se non restringesi il segreto nella sola Consulta, l'incautela de' nostri potrebbe ruinarci. Volle, ed ottenne da' Consultori, ed anche da Alfonso un giurato segreto. Tutto sembrava ragionevole. Godeva, e sospirava il nostro vecchio veder stabilita la sua Regola coll'autorità del Sovrano, ed avere colla benedizione del Papa, anche il compiacimento del proprio Principe.

 

Non fu fedele il Padre Majone, come si credeva. Mal soddisfatto il buon Padre della saviezza di Alfonso, e punto non curando gli oracoli del Vaticano, invasato dallo spirito di novità, unito con un altro della Consulta, che stava di fianco a Monsignore, tutti e due nuovo


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contorno diedero alla Regola, e nuova forma. Ove smozzicossi una cosa, ed ove vi si aggiunse un altra, e tante altre rotondamente si tolsero di mezzo.

 

Cautelato che fosse il Padre Majone, rimpastando la Regola, cosa in confuso penetrossi; ed entrar fece in maggior sospetto la medesima cautela, con cui operava. I fuochi delle Comunità sono anch'essi, come quei de' folti boschi. Una scintilla che scappa, tutto accende, e consuma. Vociferato, che in Napoli travagliavasi sulla Regola, e temevasi di novità, più non vi volle per vedersi sossopra tutte le Case. Proteste vi furono con Alfonso, che dubitavasi, e non volevasi alterata la Regola. Il povero vecchio non avendo motivo per dubitarne, accertava ognuno non esservi cosa in contrario.

"P. D. Antonio mio, così mi scrisse in Iliceto, non solamente da voi, ma ancora dagli altri mi è stato riferito che vogliasi mutare la Regola. Questo non è vero: si fanno le cose, ma senza danno della Regola: quietatevi, e fate quietare anche gli altri, e soggiunge: questo è bugia, bugia, bugia".

 Così in una de' 4. Settembre 1779. al P. Corrado nella Casa de' Ciorani. "D. Bartolomeo mio, ho inteso dubitarsi da taluni, che io voglia far Regole nuove, diverse dalle antiche. Come mai ha potuto quest'uno sospettare di ciò, mentre io sono stato sempre gelosissimo di questa Regola; secondo questa ho sempre governata la Congregazione; e fino all'ultimo fiato procurerò con tutte le mie forze, che la Regola non resti mutata in menoma parte".

Non altrimenti si spiega col medesimo Padre con altra de' 15. Dicembre. "Ho ricevuto, e considerato parola per parola la vostra lettera. Non credo, vogliate sospettare che io v'inganni, o che voglia asserire una bugia, o che sia tanto scimunito che voglia permettere, che si muti cosa alcuna nella Regola. Non dico altro. Se poi non posso essere creduto, che voglio dire! me lo prendo per li peccati miei. Il sentire queste cose mi danno gran pena, vedendo chiaramente, che sono cose del Demonio, cioè inventate dal Demonio, per mantenerci inquieti. Ripeto: assicuratevi in mia coscienza, che non vi è cosa contro la Regola, o contro l'osservanza della Comunità. Se poi non mi vogliate credere, pazienza".

Questo istesso accertò in altre Case, non dubitando della fedeltà del P. Majone, e dell'altro Consultore, che assistevalo, sicuro ch'eseguivasi, quanto eravisi convenuto.

 

Ci furono taluni, e ci fui anch'io, che non mancarono risentirsi col medesimo Padre Majone. Non ebbe ritegno negar tutto, e rescrivere con franchezza, che tutt'altro trattavasi in Napoli, che la Regola, e Costituzioni.

Temendo di se, vedendosi in contrario le Case, avvanzò lettera ad  Alfonso in data de' 22. Agosto. "La poca cautela, ei dice,


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che si è usata per questo affare, oltre aver posto l'esito in pericolo, mi ha mossa la persecuzione di tutta la Congregazione, che si è insospettita a segno delle mie operazioni, che taluni sono anche giunti a scrivermi lettere improprie, e piene di minacce. Ho dovuto fingere, ma conservo le lettere per riconvenire a suo tempo questi tali. Sicché la cautela, e la segretezza sono assolutamente necessarie".

Tra l'altro, essendosi penetrato che novità vi erano circa la Povertà e Vita Comune, non si lasciò strepitare presso il medesimo Padre, ed avvanzarne i sospetti presso Monsignore. Persistendo il povero vecchio nella buona fede, accertava tutti, che non vi era di che temere. "Io vi assicuro, disse un giorno, prendendo nelle mani la crocetta, che aveva in petto, che niente vi è contro la Regola. Mancano gli acquisti, perché il Re non li vuole, e noi dobbiamo ubbidire".

 

Tanti riclami però qualche senso fecero in Alfonso. Per maggior accerto non mancò farne inteso il P. Majone, con cercare di esserne sincerato. "Si è compiaciuto avvisarmi, così egli ad Alfonso, che cotesti Padri gli riempiano la testa di mille sospetti, de' quali mi ordina rischiarargli la mente, ma non dice intorno a che l'hanno insospettito. Se intende dell'affare che si è proposto al Re, dico che le cose sono nello stesso piede, che gli confidai a voce: se poi intende di altro affare, non so che dirvi".

Troppo chiaro erasi spiegato Monsignore, che sospettavasi di novità circa la Povertà, e Vita Comune; ed egli rescrive non avergli scritto intorno a che si raggiravano i sospetti. Incostante, e dimentico delle sue assertive, soggiunge: circa quello mi accenni della Vita Comune, tanto è dire voler dismettere la Vita Comune, quanto voler distruggere la Congregazione... "Fido nella Divina Provvidenza (così investendosi di zelo) che distruggerà piuttosto cotesti seminatori di zizzanie, con espellerli da noi, che distruggere la Congregazione".
Scaltro il buon Padre rescriveva in modo, e così sono tutte le sue risposte, che non lasciava luogo a dubitarsene.

 

Quì non finirono le sue trame. In Settembre essendosi portato in Nocera, con presenza di spirito, esibisce ad Alfonso il fatto borrone, accertandolo, che tolto ciò, che appartenevasi ai Reali Dispacci, il dippiù tutto era in conformità della Regola.
Diffidandosi di leggerlo il povero vecchio, perché con cassature, e chiamate, anche con carattere minuto, e scabroso, a maggior cautela diedelo a leggere al P. Villani. Vedendo questo tolti i Voti, ed alterata la Povertà, restò sorpreso.
Non vuole Voti il Re, disse il Majone, perché ci costituiscono Semiregolari. Altre cose le sostenne, che non erasi nel caso di dar la legge, ma di riceverla da Monsignor Cappellano: che se variavano certe minuzie, avendosi in sostanza confirmata la Regola, queste non facevano al caso.

Era il Majone irruente di natura ed imponeva. Non avendo avuto spirito il


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Padre Villani di opporsegli, anche così capacitato dall'altro Collega, che col Majone andava di concerto, portandosi da Monsignore, e non volendo, nello stato che era, metterlo in agitazione, disse, che tutto andava bene. Monsignore così persuaso contava i momenti per aver la grazia tra le mani; e giulivo poter intonare anch'esso il Cantico di Simeone. Credette con questo il Padre Majone essersi posto al coperto contro il riclamo delle Case, e molto più dal disgusto, che già prevedeva in Alfonso.

 

Tutto essendosi sistemato con Monsignor Cappellano, il Majone a' 2. di Gennajo 1780., con petto apostolico rescrisse ad Alfonso: "Se viene alcuno a scorgerla, o a dire che altro non vuole osservare fuori di quello è nell'antica Regola, francamente può rispondere, che quando si proponga ad osservare altro, fuori di quello è prescritto nei Reali Dispacci, e nella Regola, che non l'osservi".
Volendosi giustificare intorno all'oscurità delle sue lettere, per cui Alfonso erasene lagnato, soggiunge: "come VS. Illustrissima non può leggere, dubito non siano lette le mie, e perciò uso qualche cautela nello scrivere". Chiese il secreto per operare con sicurezza, e sotto il medesimo secreto covrivasi, se nelle risposte non spiegavasi come dovea.

 

Così persuaso Alfonso, e molto più dal Padre Villani, viveva sicuro esser tutta opera del Demonio le diffidenze dei Soggetti.

Affliggevasi bensì non per quello si temeva, ma per la libertà, che nel Dispaccio de' 21. Agosto 1779. di certo rilevavasi a favore dei Soggetti; cioè di poter ognuno a suo arbitrio abbandonar, se voleva, la Congregazione, e ritornarsene in propria casa. Questa ferita pungevagli il cuore; anzi gli tolse il sonno per più notti, perché, diceva, distruttiva della Congregazione.

Sollecito scrisse intanto al P. Majone voler rappresentare in suo nome a Monsignor Cappellano esser troppo ingiusto il contratto tra la Congregazione ed il Soggetto. "Se si obbliga la Congregazione, ei disse, sostentar il Soggetto, istruirlo, e provvederlo, non è dovere che sia nella libertà il Soggetto di non servirla, e defraudarla delle sue fatighe. Che l'equità restava offesa. Siccome senza giusta causa la Congregazione non può licenziare un Soggetto, così, senza ragionevol causa, ne anche il Soggetto può lasciare la Congregazione;" e soggiunse: "che una tal libertà era contro l'intento del Re, il quale volendo persistente e nel suo fervore l'Opera delle Missioni, non potrebbe ottenerlo, potendosi la Congregazione lasciare ad arbitrio".

 

Questa incombenza, benché data più volte non piacque al P. Majone, avendo altro in testa. Volendosene sbrigare, se ne uscì che più non erasi in tempo. "L'affare, rescrisse nella medesima lettera, mi lusingo, che sia in limine expeditionis. Sicchè non abbiamo più che farvi,


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né possiamo ancorché vogliamo".
Così Monsignor Liguori viveva ingannato, e tra di tanto il P. Majone tra le tenebre e l'oscurità del secreto operava a man salva, e disponeva le cose come voleva.

 

Tra queste tante sollecitudini afflitto vedevasi Alfonso per l'estrema povertà, in cui vedevansi le due Case dello Stato Pontificio, massime quella di Frosinone: "Mi ritrovo così stretto, scrisse al medesimo P. Majone, dalle miserie, che sto in qualche pericolo di perdere il cervello. Da Frosinone mi scrive quel Rettore, che sta col pensiere di venirsene, perché non sa come rimediare per dar da mangiare ad otto, o nove compagni. Io questa mattina ho mandato a vendere le quattro posate che aveva, ma queste per quanto tempo possono rimediare a' bisogni, che premono intorno al vitto che manca. Ho pensato levarmi la spesa della cioccolata, e levarmi anche la carrozza, ma se non esco a prendere un respiro di aria, come finora ho fatto, ed ho mantenuta la vita, temo che presto la mia vita vada a finire, e non so che fare".

 

Tutto l'appoggio di Monsignore era la pensione, e quello che riscuoteva in Napoli dal Collegio dei Dottori; ma della pensione non speravane che ad Ottobre col maturo della raccolta.

"Se Vostra Riverenza, così sussiegue nella medesima lettera,  potesse trovar persona che mi prestasse un semestre della pensione, così potrei rimediare. Io non so a chi pensare. Veda Vostra Riverenza se mai potesse trovar persona, giacché le rendite del Collegio poco possono rimediare; e Vostra Riverenza giacché sta applettata per gli regali che ha da fare, e per la spesa della stampa del Dispaccio. Tutti questi pensieri mi confondono e sto come uno stolido, perché non so che risolvere. Lascio di scrivere per non finire di perdere la mente.
Prego mandarmi il denaro delle posate in una fede per mandarla a Frosinone, perché temo vedermi giunti qui il Rettore con tutti li compagni, con vedere dissipata la Fondazione di Frosinone. La benedico, e resto, perché non posso più".
Così Alfonso vedevasi interessato per le Case dello Stato. Ma facciamo ritorno alle Case del Regno.

Nel primo di Gennaro 1780. fu proposto l'affare in Consiglio di Stato. Non fu difficile al P. Majone ottenere quanto voleva. Il favore del Sovrano, e il venerato nome di Alfonso, che portava in faccia, gli fece strada da per tutto.
Non conoscendosi l'inganno, ci concorsero con piacere, credendosi far cosa grata al nostro vecchio, non solo Monsignor Testa, Cappellano Maggiore, ed il Marchese de Marco, ma anche l'intiero Consiglio di Stato.
Solo il Marchese Tanucci, quando si lesse, non ingerirsi i Missionarj in trattati di Matrimonio, ed altri contratti, saviamente volle vi si aggiungesse: e ne' Testamenti. Ma si fe vedere dal P. Majone, che anche a questo pensato aveva


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Monsignor Liguori, e che erasi omessa dal Copista la parola Testamento.

 

Si compiacque il Re della grazia, ma soddisfatto non restò il Marchese della risposta del Padre Majone. Dispacciando il Marchese de Marco a' 22. dello stesso mese a Monsignor Cappellano, disse, che essendosi proposta al Re la sua consulta sulli capi formati da Monsignor Liguori per l'interiore Regolamentodelle Case di sua Congregazione, "S. Maestà è rimasta informata, che tali capi punto non eccedono i precedenti reali ordini, che con somma moderazione conceputi, altro non riguardano, se non il modo che i Missionarj tener debbono nell'esercizio del loro ministero".

Soggiunse, e disse: "Si è degnato S. Maestà approvare tai capi, con doversi aggiungere di non prendere parte alcuna i Missionarj ne' testamenti, ai quali essi assistono, o predicano nelle loro Missioni".

A' 19. Febrajo riscontrato il Re da Monsignor Cappellano di essersi inserita tal particola, se gli rescrisse: "E' rimasto inteso il Re di contenersi tra i capi del Regolamento formato da Monsignor Liguori per le Case de' Missionarj di sua Congregazione l'articolo voluto da S. Maestà, di non dovere i Missionarj prendere veruna parte ne' testamenti".

Attento il Padre Majone in veder fermo il suo operato, volle, ed ottenne che di real ordine due copie del Regolamento suddetto trasmesse si fossero nella Real Segreteria, e rimandarsi una al Delegato della Real Giurisdizione, e l'altra nella Real Camera. Così senza veruna opposizione ottenne il buon Padre quanto voleva, non per vantaggio, ma per ruina della Congregazione.




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