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P. Celestino Berruti
Lo spirito di S. A.M. de' Liguori

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  • Cap. 4 ALTRO VOTO DI ELEGGERE SEMPRE NELLE SUE AZIONI CIO' CHE AVREBBE CONOSCIUTO PIU' PERFETTO E PIACEVOLE AL SIGNORE.
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Cap. 4

ALTRO VOTO DI ELEGGERE SEMPRE NELLE SUE AZIONI CIO' CHE AVREBBE CONOSCIUTO PIU' PERFETTO E PIACEVOLE AL SIGNORE.

 

Al voto fatto di non perder mai tempo aggiunse anche il nostro santo l'altro voto di operare sempre il più perfetto. Su di che io rapporterò da prima quel che leggesi nel processo di sua beatificazione in riguardo a tale voto: Votum efficiendi semper quidquid perfectius est, tot continet vota, quot sunt virtutes, humanaeque actiones, ac si singulae speciatim essent explicataea Ognuno sa l'obbligo grave, che si contrae da chiunque professa volontariamente la vita religiosa, di tendere continuamente alla perfezione. Ma di ciò non fu pago il fervore di Alfonso: non contentossi di dare ogni giorno un nuovo passo verso Dio, e crescere così in santità secondo il detto del savio, il quale paragona la via segnata dal giusto alla carriera percorsa dal pianeta diurno dal suo nascere sull'orizzonte fino al meriggio: volle di più imitare il raro esempio di un Andrea d'Avellino, di una s. Teresa, di una Giovanna


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Francesca di Chantal, e di altri pochi eroi della Chiesa, i quali fecero il voto non solo d'inoltrarsi ogni nelle vie del Signore, ma di eseguire sempre, quanto avrebbero conosciuto ridondare alla maggior gloria e gusto di Dio.

Or questo voto, secondo quel che di sopra ho riferito trovarsi registrato nei processi della beatificazione di Alfonso, rinchiude in sé quanto di bene può praticarsi nell'esercizio non di alcuna virtù solamente, ma di tutte le virtù, che formano il complesso della santità più luminosa.

Poiché se gli altri voti comprendono ciò che è più perfetto relativamente ad una virtù, questo si estende al più perfetto relativamente a tutte le virtù senza eccezione di alcuna; se gli altri voti riguardano un qualche bene singolare ed individuale, questo abbraccia ogni bene possibile. Dal che risulta chiaramente, qual sia stato lo spirito di questo santo, uno spirito cioè, che si slanciò verso Dio con una espansione senza riserva, senza limiti, e direi quasi senza freno, come un amante appassionato, ad altro non pensando che a compiacere la persona amata, non rinviene ostacolo o sacrificio, che lo ritenga nell'impeto del suo fervore: Omnem habens virtutem, omnia prospiciensb.

Ora la sublimità di questo spirito non potrebbe ravvisarsi senza una particolare riflessione su tutte e singole azioni del nostro santo. Allorché leggesi la vita di un santo, l'animo nostro resta bensì compreso dallo splendore delle sue virtù, e risvegliasi in noi l'ammirazione alla vista delle sue gesta stupende, delle sue azioni eroiche.

Ma non mai si giunge a penetrare lo spirito di quel santo, se non colla meditazione attenta sull'eroismo degli atti suoi virtuosi, procedente non meno dall'ardore di sua carità, che dalla perfezione con cui corona le sue opere, sia riguardo alla scelta delle medesime, sia riguardo al fine, che si propone nell'operare. Alfonso col voto di fare sempre il più perfetto si presenta al nostro sguardo, come un'ape industriosa, la quale non è paga di volare su tutt'i


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fiori, ma da tutti i fiori succhia il liquore più dolce per formare il suo mele: e per tal modo nella scelta da lui fatta delle proprie azioni si appalesa quale un santo animato dalla più sopraffine carità, che accender possa un viatore mortale, perché nell'operare continuamente alla gloria del suo Dio elesse altresì ciò, che potea fargli incontrare vieppiù il gusto del suo Dio, ed operò per il maggior gusto di Dio. La maggior perfezione adunque in quanto alle sue azioni, ed in quanto al modo di eseguirle, ecco ciò che rende ammirabile il nostro santo nel voto fatto di operare sempre il più perfetto.

Essendosi dedicato per seguire la divina vocazione al ministero apostolico, si propose di ricopiare in sé medesimo le virtù, di cui fu norma ai suoi discepoli il Salvatore del mondo. Un distacco, che lo alienò per sempre dalla sua casa paterna, dai parenti, dai beni di questo secolo, mettendo in non cale ogni cosa terrena per guadagnarsi l'amore di Gesù Cristo nel guadagnare anime allo amore di lui: omnia arbitratus sum ut stercora, ut Christum lucrifaciam.  

Quindi dacché vestì le divise clericali, rinunziò ad ogni distinzione cavalleresca, e comparve nella città di Napoli, ove poco prima risuonava la fama dei suoi talenti e rare prerogative, nel portamento il più dimesso: ed appena fu da Dio chiamato a fondare il novello Istituto, abbandonò ogni cosa, né mai si fece più vedere nella casa paterna, se non allorquando dovette assistere la propria genitrice inferma gravemente, ed in pericolo della vita.

Non accettò mai la carrozza, che gli veniva offerta dal suo fratello D. Ercole, allorché doveva trattenersi in Napoli, ma camminava a piedi ansante ed affannoso, anche dopo lunga predicazione, di modo che un giorno nel salire le scale della casa disse al fratello serviente: Io mi contenterei di tornare a fare una predica piuttosto che salire queste scale: tanto sentivasi sfinito di forze e quasi esinanito sotto il peso delle fatiche ed austerità. E benché la famiglia di lui assegnato avesse un piccolo appartamento nell'ultimo piano del palazzo per uso dei congregati, Alfonso passando e ripassando sempre avanti


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la porta di sua casa paterna, non mai vi entrò. Leggendosi un giorno nella vita di un santo, che il medesimo generosamente avea lasciato i suoi genitori per girsene a servire Dio nel chiostro, esclamò: Questo distacco è il vero effetto della grazia della vocazione: ecco che sa fare la grazia della vocazione.

Che se talora si prese qualche sollecitudine, da missionario o da vescovo, dei propri parenti, ciò fu a solo riguardo del loro vantaggio spirituale, avendo sommamente a cuore la salvezza e la santificazione dei suoi per osservare l'ordine della fraterna carità: ordinavit in me charitatem. Difatti carteggiavasi sovente con la propria genitrice, perché la medesima volle essere regolata nello spirito dal proprio figlio, di cui conosceva la sublime santità.

Una carità, che gli fece preferire nella sua carriera apostolica la istruzione delle genti più rozze ed idiote: e benché la vita di lui fosse dedicata alla salvezza di tutte le anime, nondimeno nel concorso delle sue fatiche dava preferenza ai poveri ed ignoranti, comeché generalmente abbandonati, e privi di spirituale soccorso, per imitare l'esempio del divino Maestro, e per incontrare il suo maggior gusto: Spiritus Domini super me, evangelizare pauperibus misit me.

Un'annegazion di sé stesso, che lo spropriava del suo giudizio, della sua autorità, dei suoi talenti per ubbidire non solo agli eguali, ma agl'inferiori ed al suo serviente medesimo. Una umiltà si profonda, che lo rendeva tanto piccolo agli occhi suoi da reputarsi nou solo il più indegno nella casa di Dio, ma il più meritevole ancora dei divini castighi. Un amore al patirestraordinario, che lo faceva ripetere con quella serafina di amore S. Teresa da lui grandemente venerata ed imitata: Pati et non mori.

In una parola avendo il nostro santo promesso al Signore con voto di scegliere ed eseguire quanto avesse conosciuto essergli maggiormente gradito, esercitò le virtù; ed i consigli evangelici non solo nel modo più perfetto, ma tra queste elesse altresì le più perfette, siccome egli stesso riprotesto in uno di quei suoi rapimenti di amore verso Gesù Cristo: «Mio Dio, io


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risolutamente vi prometto di non lasciar mai cosa, che intenda da oggi avanti essere di maggior vostro gusto, ancorché avessi da perdere ogni cosa parenti, amici, stima, sanità, anche la vita. Felice perdita, quando si perda, e si sacrifichi tutto per contentare il vostro cuore, o Dio dell'anima mia»c

Ecco un uomo interamente spogliato di sé medesimo, della sua volontà, dei suoi giudizi, delle sue comodità, per cercare unicamente il beneplacito di Dio: ecco il vivo ritratto di uno spirito, che quantunque racchiuso nel frale del corpo spinge nondimeno tanto alto i suoi voli da menare qui in terra una vita tutta celeste, dimentico di quanto avviene quaggiù, ed avente in mira la sola gloria e volontà di Dio in sé stesso e negli altri. Ma per conoscere vie meglio in Alfonso la perfezione dell'osservanza di un voto così sublime, è d'uopo registrare qui taluni fatti, che dalla vita di lui si raccolgono.

Fra gli articoli riguardanti la mortificazione evvi nella nostra regola ancor questo, che in tavola niuna cosa possa domandarsi, ma che ogni individuo debba soffrire qualunque privazione, qualora il compagno vicino, o chi serve alla mensa non se ne avvegga. Ora accadde una volta, che per ben tre giorni il refettoriere si dimenticò di mettere il pane ad Alfonso; e così permettendolo Iddio, niuno si accorse di questa dimenticanza. Il santo benché Superiore generale, sì per l'osservanza di quel punto di regola, sì per buon esempio altrui, tacque per tutt'i tre giorni restando quasi affatto digiuno. Ma sentendosi debilitato nelle sue forze, consigliossi col suo direttore, se maggiormente piacesse a Dio, che ci seguitasse a tacere, ovvero ne desse avviso al p. ministro: ne ebbe in risposta, che quanto il Signore gradito aveva la sua mortificazione, altrettanto era cosa più perfetta il darsene avviso, affinché la sua sanità non ricevesse detrimento per la negligenza altrui, e si evitassero le ulteriori disattenzioni di chi ministrava alla mensa. Il che inteso, ed avendo conosciuto essere più conforme alla perfezione


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il consiglio del suo direttore, ubbidì prontamente, e con umiltà fece la debita ammonizione.

V'ha nella vita del Tannoia lib. 3. cap. 62. un altro notevole tratto, che riguarda l'osservanza di questo voto, e che non sarà discaro al lettore, che io lo replichi.

Essendo stati condannati a morte da un consiglio di guerra tre soldati Albanesi, catturati in una cappella rurale della sua diocesi, e solo potendo scansare la morte, se la detta cappella goduto avesse il privilegio dell'asilo, fu scritto in officio al santo vescovo, perché avesse riferito, se la medesima godeva o no un tal privilegio. A salvare per tanto la vita a quei meschini gli vien suggerito, che rispondesse di goderlo mentre in verità nol godeva. Inorridisce Alfonso a tal consiglio di dire una menzogna, benché fosse per salvar la vita a tre sciagurati, e riprende acremente chi gliel'aveva dato.

Or chi non ammira il sommo orrore di lui alla colpa, mentre né anche per salvare tre vite s'indusse a dire una leggiera bugia? Ma questo è ancor poco. Alfonso non solo inorridisce a qualunque minimo peccato, ma vuole sempre il maggior piacimento di Dio coll'eleggere il più perfetto. Ritirasi a fare orazione, dopo la quale prende la penna, e scrive sinceramente al Sovrano, che la detta cappella non godeva il dritto dell'asilo, ma supplicava come vescovo la maestà del re per amore di Gesù e di Maria di commutare la pena di morte in altro castigo, soggiungendogli, che qualora non l'avesse esaudito, sarebbesi recato benché storpio ai suoi piedi per implorare la grazia. Ma avendo riportato più ancora di quello che aveva chiesto, per l'alto conto che della santità di lui faceva il monarca, ed essendo assoluti quei tre condannati interamente a suo riguardo col mandarli in piena libertà; fu tale e tanta la gioia del suo cuore, che gli accolse con somma carità, li fece stare a sue spese per vari giorni in un pubblico albergo acciò con la vita del corpo ricuperassero anche quella dell'anima col confessarsi e comunicarsi.

Un padre di sua Congregazione dominato dall'umor bilioso


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alterossi un giorno al cospetto del santo contro un suo compagno: questi conoscendone il temperamento non dimostrò alcun risentimento, e tutto sopportò pazientemente. Alfonso benché presente si tacque, ammirando la virtù dell'offeso. Ma di poi si fece chiamare quello, il quale aveva mancato alla carità fraterna, ed oltre il rimprovero gl'impose una conveniente penitenza pel fallo commesso. Saputosi ciò dall'altro compagno, se ne andò tosto da lui ad implorare perdono, adducendo per motivo, che egli punto non si reputava offeso. Ma Alfonso gli disse: Così dovevate voi comportarvi, ed io ho ammirato la vostra virtù; ma io sono superiore, e debbo correggere e punire i difetti, benché voi non siate rimasto offeso per la discarità del compagno.

Un fratello serviente nella casa di Deliceto dopo varie cure fu dichiarato tisico ed ostrutto dai medici, e quindi inabile a servire la Congregazione. La comunità decise pertanto di rimandarlo alla sua casa. Ma il santo vi si oppose dicendo: «Gl'infermi non sono di peso alla comunità, ma di aiuto, perché con la loro pazienza nel sopportare la malattia, col loro buon esempio, e con le loro preghiere sono ai sani di stimolo a servire Dio, agli esterni di edificazione per la carità che loro si presta, di aiuto finalmente per le grazie che c'impetrano da Dio».

Un vescovo si fece lecito di censurare la condotta di Alfonso, perché sosteneva nei tribunali gl'interessi temporali di sua Congregazione afflitta da continue liti, e perché permetteva la questua al sostentamento delle case del suo Istituto. Il santo con tutta umiltà e rassegnazione gli rispose, che in quanto a se erasi spogliato di tutto per seguire la divina vocazione, e per occuparsi nell'amore di Dio e del prossimo; ma in quanto alla sua Congregazione credeva opera giusta innanzi a Dio, e meritevole il difenderne i dritti con tutti i mezzi assegnati dalla giustizia, e procurarne la sussistenza.

Trattenendosi una volta in Napoli, ed abitando, come si è detto di sopra, nel piccolo ed incomodo appartamento ceduto


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dal fratello di lui ad uso della Congregazione, accadde, che si appiccò il fuoco ad una bottega sottoposta. Tutti gli abitanti di quel palazzo nei rispettivi appartamenti, all'imminente pericolo si diedero a cacciar fuori le loro robe. Ma Alfonso senza alcuna sollecitudine e con tutta la pacatezza dell'animo suo se ne andò a prendere la sua regola ed il breve pontificio di approvazione della medesima, e quasi che con questa soltanto avesse messo in salvo tutta la roba, che vi era, sen calò tranquillamente per la scala.

Gli scrisse una volta da Caposele il p. Leo, che si degnasse esonerarlo dall'ufficio di lettore di filosofia, perché soffriva dolor di testa. Il santo gli rispose, che ben pativa egli dolor di testa più degli altri; ma intanto non tralasciava le sue applicazioni per fare la volontà di Dio.

Trovandosi in Foggia in casa del sig. Ricciardi, il compagno di lui osservò in una delle stanze un bellissimo bambino, e conoscendo la singolare divozione di Alfonso per Gesù bambino, corse tosto a dargliene parte, encomiandone la bellezza, e lo invitò di andar seco a vederlo. Ma il santo per mortificare in sé stesso il naturale movimento della curiosità, benché si trattasse di cosa tanto santa, mostrò gradirne l'avviso, ma si astenne di andarlo a vedere.

Cadde infermo una volta, mentre si tratteneva in Napoli, ed essendo andato il fratello di lui D. Ercole a visitarlo, il trovò sopra un misero pagliericcio con una vecchia coperta e tutta sdrucita. Si stupì nel vederlo in tale stato così povero, ed avendo a rossore che comparisse in tal guisa alla vista di tanti, che andavano a visitarlo, cominciò a scongiurarlo, acciò si fosse degnato di calare nel suo appartamento, dicendogli: Alfonso mio, io non ho coraggio di comparire al cospetto del mondo: e che si dirà di me, che vi faccio stare dentro un lettomal concio, ed inferiore a quello del più meschino? Ma il santo sbrigossi da ogni premura del fratello germano con un sorriso, volle accettare la offerta di lui.

Essendo rettore della nostra casa di Deliceto il p. Piccone


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aveva bisogno di soccorso per coprire la fabbrica di detta casa, che sarebbe restata scoperta in un tempo d'inverno con pericolo della salute degl'individui. Quindi si raccomandò per lettera al nostro santo, il quale era vescovo in s. Agata, pregandolo di qualche limosina per compiere la fabbrica. Ma in risposta n'ebbe un forte rimprovero, ordinandogli, che mai più nell'avvenire gli avesse domandato limosina per la detta fabbrica, giacché le rendite del vescovado erano dei poveri della sua diocesi, e non poteva erogarle per la Congregazione.

In un mese di ottobre stando in Arienzo ordinò, che si fossero venduti i cavalli, perché la sua infermità, sopravvenendo l'inverno, non gli permetteva di uscire in carrozza, siccome ordinato avevano i medici. Altronde aveva scrupolo di mantenere i cavalli inutilmente. Or per quante ragioni in contrario gli adducesse il vicario, egli sempre rispondeva, che toglievasi ai poveri quel che mangiavano i cavalli. In fine cedé, perché il vicario si ostinò a non farli vendere.

Un fratello serviente ricevuto in Congregazione per commendatizia ed impegno spiegato a favore di lui da monsignor Nicolai arcivescovo di Conza, insigne benefattore della Congregazione, vedendo che per le sue mancanze era in procinto di esserne licenziato, da medesimo si diede alla fuga. ma armato di mal talento produsse una denunzia presso il regio appaltatore dei tabacchi, che nelle nostre case di Pagani, di Ciorani, e di Caposele conservavansi molte cantaia di tabacco in contrabbando. L'appaltatore destinò una squadra di soldati, che nel medesimo tempo ed all'impensata avessero visitate le dette tre case. Un amico però ne diè tosto avviso ai rispettivi rettori, credendo che il detto contrabbando fosse vero. Ma non eranvi che poche piante nel giardino della casa di Pagani. A questo avviso il p. ministro ordinò, che si fossero subito svelte le dette piante, e gittate nel luogo immondo. Saputosi ciò da Alfonso, proibì che si eseguisse il comando del p. ministro, e volle che si lasciassero le piante, siccome trovavansi, dicendo: Il denunziante ha asserito la verità


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almeno in una piccola parte; non si può in coscienza farlo ritrovare del tutto bugiardo, e metterlo al pericolo di essere punito come calunniatore. Difatti venuti i soldati, e vedendosi burlati, perché trovarono poche piante, si diedero a perseguitare il denunziante, e volevano carcerarlo, e fargli rimborsare la spesa sofferta. Ciò saputosi dal nostro santo, s'interpose con tutto lo zelo presso l'appaltatore per non farlo imprigionare, ed inoltre ottenne, che fosse contento di una piccola soddisfazione della spesa, scusando al meglio che potette il fratello denunziante.

Essendosi portato nella nostra casa di Pagani il P. Melazzi gesuita per accompagnare un suo nipote, il quale bramava essere ammesso nella nostra Congregazione, ed essendo a tavola con la nostra comunità, Alfonso, il quale in alcuni giorni della settimana era solito mangiare sdraiato in terra per mortificazione, praticò la stessa penitenza giusta il solito, benché vi fosse quel padre gesuita presente. Con che oltre l'edificazione grandissima, che diede a quel religioso, mostrò, che niun rispetto umano poteva trattenerlo dall'esercizio delle sue virtù.

Ma sarebbero innumerevoli i fatti, che comprovano in Alfonso l'esatta ed eroica osservanza del voto da lui fatto di eleggere sempre il meglio in tutte le sue risoluzioni ed azioni, secondo quel che attestò di lui il P. maestro Caputo, come leggesi nella vita del Tannoia lib. 3, cap. 33:

Questo far il meglio si è sempre da me osservato in varie occasioni, non sapendo che avevane il voto. Dal che rilevasi chiaramente, che l'amor di Dio essendo ardentissimo nel cuor del nostro santo, e questo amore stimolando l'animo ad operare continuamente per la gloria di Dio, egli percorse non solo costantemente la strada della perfezione; ma si propose di eleggere in tutte le sue opere quelle, che avrebbe conosciuto essere più perfette, e più conformi al gusto di Dio; per lo che emulando sempre carismi migliori pervenne ad un grado di santità non comune nella storia degli altri eroi della religione.

 

 

Posizione Originale Nota - Libro V, cap. 4, pagg. 31, 32, 35




a Process. Vol. 2, An const. de Virtut



b Sap. 7



c Visit. 31






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