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Cap.12
SINGOLARE RISPETTO ED AFFEZIONE
DI ALFONSO AL SUPREMO GERARCA DELLA CHIESA.
Per
quell'intima unione e relazione, che debbono avere le membra col loro capo, uno
de' doveri precipui dei ministri del santuario, e particolarmente de' vescovi,
si è di venerare in preferenza il Capo visibile della Chiesa, di tenersi
strettamente congiunti alla suprema cattedra di s. Pietro, difenderne a tutto
costo i diritti inviolabili e sacrosanti, e promulgarne con tutto lo zelo le
inattaccabili prerogative. Così scriveva l'immortale Benedetto XIV: Ob eam coniunctionem et necessitudinem, quam
membra cum suo capite habere oportet, maxime decet, ut episcopi primae Sedis
praerogativas sedulo defendant, et pro viribus promoveant.a
Alfonso,
il quale era animato da una fede così eroica, non poteva non essere
singolarmente devoto ed affezionato alla santa Sede romana ed al supremo
Gerarca. Ravvisando nel sommo pontefice l'immediato ed assoluto vicario di Gesù
Cristo, lo venerava come la persona del Salvatore medesimo, il quale stabilì un
capo visibile a far le sue veci qui in terra dopo essersi reso invisibile
coll'ascendere al cielo. Riconosceva in questo vicario di Dio una
soprannaturale e divina potestà; potestà piena ed illimitata non solo di
ministero, ma eziandio di magistero e di giurisdizione, per pascere con la vera
dottrina tutt'i fedeli, per reggere e governare la Chiesa universale, e per
decidere senza alcun appello le controversie relative alla fede ed al costume.
Spinto
da questi veraci ed inconcussi principii, non è a ridire qual rispetto
prestasse Alfonso al solo nome del romano pontefice; con quale e quanto zelo ne
abbia difeso le prerogative, e ne abbia promosso il rispetto ed ubbidienza in
tutt'i tempi - 107 -
ed in
tutti gli stati di sua vita. Ma poiché l'autorità pontificia fu oggetto di
bersaglio pei nemici della fede in ogni età, e specialmente nel secolo scorso,
così il nostro santo, a compiere scrupolosamente la sua missione, la difese
coraggiosamente sia coi discorsi, sia con la penna.
In
quanto ai suoi discorsi, ripeteva sovente: Poveri
noi, se non avessimo il pontefice ! salvato questo, tutte le altre cose si raddirizzanob. Discorrendo poi sulla potestà del papa sopra i
concili diceva: Ora io per questa verità
darei la vita. Tolta questa potestà al papa, è perduto tutto. Quindi
stabilì, che nella sua Congregazione fossero riputati quali articoli, che ogni
individuo doveva sostenere in quanto alla dottrina sull'infallibilità del
romano pontefice:
1°
Che il sommo pontefice sia infallibile
nel definire anche fuori concilio le cose appartenenti alla fede ed alla
morale;
2° Che il papa come capo
assoluto della Chiesa abbia un'autorità superiore ad ogni concilio. Che se taluno alla sua presenza
avesse sostenuto il contrario sentimento, si accendeva nel volto, vedevasi
tutto agitato nel suo spirito, e senza alcun riguardo umano tosto lo
correggeva, apportando le ragioni che stabiliscono la supremazia del papa per
la superiorità di lui al concilio.
Molte
volte ebbe egli quistione col rinomato Selvaggi sull'autorità del papa sopra il
concilio, e difendendo quegli il sentimento opposto a quello di Alfonso,
vedevasi allora tra questi due contendenti una gara dottrinale, in cui il
nostro santo riusciva sempre vincitore. Dimodoché qualunque novità si opponesse
all'autorità della Chiesa e del romano pontefice, era per Alfonso un motivo di
sommo disgusto, ed il suo zelo metteva in opera tutt'i mezzi, sia per far
ricredere chi avesse pensato o parlato in contrario ai suoi sentimenti, sia per
sostenere con valide ragioni la sana dottrina.
Aveva
in orrore le quattro proposizioni del clero gallicano. Nella missione di S.
Anastasia udendo un giorno, che si altercavano due suoi padri su questo punto,
e che uno di essi - l08 -
entrato da poco in Congregazione sosteneva le dette proposizioni, acceso di
zelo Alfonso a lui si rivolse, dicendogli: Mi
pento di averti ricevuto in Congregazione: se ciò avessi saputo, non ti avrei
giammai accettato.
Quale
interesse prendesse Alfonso eziandio della persona stessa del papa, può
ricavarsi da quel tanto, che avvenne una volta, che trovavasi gravemente
infermo e quasi sfinito. Essendosi recato a visitarlo da Napoli il nostro padre
Caione, benché fosse talmente abbattuto che da principio neppure il riconobbe,
pure dimenticando tutt'i suoi mali, rivolse subito il discorso al detto padre
sul viaggio di Pio VI nella Germania. Lo interrogò minutamente su tutte le
circostanze, e cagioni di detto viaggio, e spesso esclamava rivolto al Signore,
scongiurandolo che avesse aiutato il suo vicario qui in terra: palesava
un'ansia tale pel capo della Chiesa, mettendo in oblio la sua infermità, quasi
che non avesse avuto altro pensiero, ed altro interesse.
In
conformità di questo rispetto, amore, ed ubbidienza prestata dal santo al capo
visibile della Chiesa, è incredibile con quanta diligenza essendo egli vescovo
ne abbia rispettati i diritti. Se mai proponevasi ad Alfonso qualche cosa, che
anche da lungi avesse dato sospetto di potersi ledere i diritti del papa,
gridava fortemente: Come posso farlo, se
ho giurato al papa di difendere i diritti suoi, e della Chiesa ? Mi stimerei
dannato, se facessi il contrario.
In
comprova di che esiste una sua dichiarazione, allorquando provvide un beneficio
in persona di un ecclesiastico per isbaglio, anzi perché era stato assicurato,
che dipendeva dalla sua autorità vescovile il conferirlo. " Avendo io
saputo, che il beneficio suddetto spettava al sommo pontefice di provvederlo sì
per essere beneficio concistoriale, ed anche per essere vacato nella curia
romana; e che già dal papa era stato conferito ad altra persona prima della mia
provvista, sicché la mia collazione per più ragioni è stata invalida e nulla;
pertanto al presente casso le mie bolle, e le dichiaro irrite e nulle,
coll'atto del possesso, e tutti gli altri atti formati - 109 -
dalla mia curia, attesoché se io per ombra avessi
saputo, che il beneficio era riservato alla santa Seda, par qualunque motivo
non lo avrei mai conferito."
Quello
però, in cui si distinse il nostro santo per la venerazione e devozione al
romano pontefice, furono gli scritti molteplici, con cui presso tutto il mondo
cattolico difese l'autorità del Papa. Sollecito di stabilirla qual regola del
vero credere e del giusto operare, inserì da prima nella sua Teologia morale
una dissertazione riguardante la potestà del romano pontefice, provandone la
infallibilità nelle controversie concernenti la fede ed i costumi, e la
superiorità ai concili.
Ripetette
questa medesima dottrina inserendo nell'opera della Verità della fede un
trattato consimile: e nell'opera dogmatica contro gli eretici un altro trattato
vi aggiunse sulla ubbidienza dovuta alle definizioni della Chiesa, le quali
formano la regola costante della vera fede. E poiché la maggiore opposizione,
che facevasi al suo tempo circa l'infallibilità del papa, rilevasi specialmente
dalla dichiarazione fatta nell'assemblea di Parigi l'anno 1682, si pose a
confutarla di proposito con un opuscolo intitolato: Riflessioni spettanti alla dichiarazione dell'assemblea di Francia
circa l'infallibilità del papa.
Si
serve dell'autorità dei padri e dei concili ecumenici: dimostra non doversi
tener conto della medesima, perché l'assemblea non fu generale, ma di soli
pochi vescovi radunati per comando di Luigi XIV, essendo disgustato col papa
per avergli negate le rendite dei vescovadi vacanti, comandando inoltre a
tutt'i dottori della Sorbona di attenersi alla dichiarazione suddetta nel loro
insegnamento, ed imponendo ai vescovi assenti di promulgare la medesima
dottrina nelle loro diocesi. Dimostra eziandio l'erroneità di questa
dichiarazione col sentimento di tanti dotti francesi anteriori e posteriori, i
quali concordemente hanno sostenuta la infallibilità del papa; che anzi gli
stessi vescovi adunati protestaronsi di non condannare la sentenza opposta. Era
massima del nostro santo, che tolto questo giudice supremo - 110 -
per la decisione delle controversie, la fede è
perduta. Questo giudice, diceva, manca agli eretici, e questo forma la
confusione, ed il disparere tra loro, perché ognuno si fa giudice da sé stesso.
Sostenne
altresì l'autorità pontificia con un'altra dissertazione, la quale pur si
rinviene nella sua Teologia morale, sopra la giusta proibizione dei libri, i
quali contengono qualche errore intorno alla fede, ovvero trattano di cose
oscene. Abbiamo già veduto di sopra con quanto zelo siasi impegnato il nostro
santo presso tutte le autorità ecclesiastiche e civili, perché impedissero
l'introduzione dei libri pestiferi, i quali corrompono la religione ed il
costume, massimamente leggendosi dai giovani inesperti e dalle persone men
caute.
Ora
volendo egli far intendere a tutto il mondo cattolico il dritto e
l'obbligazione, che ha il sommo pastore di allontanare il gregge cristiano da
ogni pascolo velenoso, compose questa dissertazione, in cui dimostra la
necessità di proibirsi i libri cattivi, e la sollecitudine che ebbe sempre la
santa Chiesa di proibirli ed abolirli. Difatti si spargono tutto giorno
opinioni ed errori sul dogma, sulla morale, sul dritto canonico e civile,
sull'istoria ecclesiastica, sulla filosofia, sulla politica, e sulla medicina.
L'autorità pontificia è la sola, che corre a riparar questi errori, come può
vedersi nell'indice stesso dei libri proibiti, in cui si trovano annoverate
molte opere teologiche, polemiche, istoriche, filosofiche, come pregiudizievoli
alla religione, al trono, alla società, ed alla salute eterna dei fedeli
cristiani.
Perciò
tutt'i liberi pensatori hanno sempre avuto in mira di far la guerra
all'autorità ecclesiastica, la quale dal sommo romano pontefice emana, e si
dirama in tutt'i pastori della Chiesa. Concedono essi in generale alla Chiesa
la potestà legislativa, ma in sostanza altri vogliono che sia un governo
democratico, altri lo vogliono aristocratico, altri sostengono che il papa
abbia solo il primato di onore, ma non di giurisdizione, altri il primato di
giurisdizione senza forza coattiva, ed altri finalmente che sia una
giurisdizione soltanto provvisoria, e che i decreti allora acquistino la loro
sanzione, quando sono approvati da - 111 -
tutta la Chiesa. Or poiché con questa specie di errori s'indebolisce, e si
confonde il potere ecclesiastico, sciogliendosi la subordinazione dovuta al
Capo della Chiesa; giustamente sono stati riprovati e condannati dall'autorità
pontificia tutti i libri che li contengono, e gli autori che tali erronee
dottrine hanno insegnato.
Fra
gli altri meritano particolare menzione un Richerio, un Marcantonio de Dominis,
un Febronio, autori tutti condannati dalla Chiesa. Ma Alfonso prese a
confutarli, allorché diede alla luce la sua opera intitolata: Vindiciae pro suprema romani pontificis
potestate contra Justinum Febronium.
Non
poteva certamente il nostro santo tacere alla vista del gravissimo danno, che
avrebbe cagionato alla Chiesa l'erronea dottrina di questo autore, mentre alzò
la sua voce a condannarlo il sommo pontefice Pio VI, e fu riprovato da tutt' i
vescovi della Germania, come ripieno di scandalo e di pericolo, e come un succo
della più raffinata eresia. Quivi il nostro santo dà a divedere non solo la sua
venerazione profonda verso l'autorità del romano pontefice, ma si sforza ad
insinuare nel cuor di tutti la sommissione ed ubbidienza dovuta al Capo
visibile della Chiesa.
Finalmente
a conoscere l'eroismo della fede di Alfonso, poiché fra i segni, che ne addita
l'immortale Benedetto XIV, si annovera
particolarmente la devozione alla santa sede ed al romano pontefice, è d'uopo
osservare, con quanta gelosia ei sostenesse e difendesse l'immunità della
Chiesa. Su questo argomento ripeteva sovente il nostro santo: Si tratta della immunità, e per difenderla è
d'uopo combattere a tutta possa; ed
io, diceva, mi venderei fin anche la
mitra per sostenerla.
Molti
esempi vengono registrati dal Tannoia nella vita di lui, dai quali apparisce,
che Alfonso nel solo pericolo di violarsi l'immunità ecclesiastica pose in
opera tutto l'ardore del suo zelo: ed avendo inteso, che un tale sosteneva, che
l'immunità ecclesiastica non sia di dritto divino, ma soltanto umano, e che la
Chiesa abbia ottenuto dai principi la giurisdizione temporale sugli
ecclesiastici, sel chiamò all'istante, e lo convinse del suo errore con - 112 -
ogni sforzo e con tutte
le ragioni, né si tranquillò, finché nol vide interamente persuaso. Stava
Alfonso gravemente infermo nella nostra casa dei Ciorani, e andati a visitarlo
i suoi congregati, si posero a discorrere in una delle volte sulla
infallibilità e sulle prerogative del romano pontefice. Ad un tale parlare si
riscosse il santo dalla estenuazione, in cui giacea, ed esclamò con grande
vivacità: Quanto mi sento consolare,
allorché si fanno questi discorsi!
Dal che ognuno
apprender deve, che la vera regola per conoscere, se un'anima sia infervorata
di Dio, si è appunto questa fede vivissima rapporto alla supremazia ed autorità
del Capo visibile della Chiesa. Tutti i santi sonosi distinti per questa
venerazione verso il vicario di Gesù Cristo, perché sono stati informati da una
fede eroica e da un amore ardentissimo verso Dio. Ora Alfonso fra tutti si è
reso in questa virtù singolare, mentre avendo ricevuto dalla sua divina
vocazione un impulso straordinario a promuovere la gloria del Signore e la
salvezza delle anime, studiossi altresì a diffondere nella mente e nel cuor di ognuno
quei sentimenti, che in sé stesso provava.
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