- 170 -
Cap. 19
CARITA' E LIBERALITA' DI ALFONSO
VERSO IL SUO PROSSIMO.
Chi
vuol conoscere, qual debba essere la carità verso il prossimo, come diceva il
Crisostomo nel fare il panegirico al grande Apostolo delle genti, si faccia a
contemplare la vita di Paolo, ed in lui troverà il discepolo ed il maestro di
tanto sublime virtù. In simil guisa io posso proporre Alfonso Maria de Liguori
qual modello insigne di carità. Questa virtù ha per oggetto i beni del prossimo
spirituali e temporali, giusta l'insegnamento dell'angelico s. Tommaso.
Riserbandomi
a parlare della carità di Alfonso nel procurare il bene spirituale del suo
prossimo, allorché tratterò del suo zelo, mi limito in questo capitolo alla
carità di lui riguardo ai beni temporali. Questo santo avrebbe potuto dire e
gloriarsi col santo Giobbe di aver portata fin dall'infanzia la compassione
verso i miseri: Ab infantia crevit mecum
miseratio: ovvero coll'Apostolo, che non eravi miseria del prossimo, che ei
non considerasse come sua propria: Quis
infirmatur, et ego non infirmor? Questa carità adunque nel sollevare e
soccorrere il prossimo si estende a tutte le opere della misericordia, ed in
questi atti di pietà rinviene il suo pascolo, il suo incremento, la sua forza.
E
primieramente ricordiamo quella sua tenerezza verso degli infermi. Questa si accese
in lui, da che cominciò giovanetto a frequentare gli ospedali di questa
Metropoli. Vi si recava non una ma più volte la settimana; e quivi occupavasi a
rassettare i letti, a cambiare la biancheria, ad apprestare i medicamenti, a
fasciar le piaghe, ad assistere agl'infermi in tutti i loro bisogni, senza
farsi vincere dalle nausee, dalla ripugnanza, o dai fastidi degl'infermi
medesimi. E ciò adempiva con tanta ilarità di spirito e con tanto rispetto, da
far conoscere, che ei serviva, ed onorava Gesù Cristo nella persona di
quegl'infelici. Questo esercizio di eccellente carità fu da - 172 -
lui continuato per tutti
gli anni, che visse nel secolo, e fu portato a maggior perfezione per tutto
quel tempo, che da ecclesiastico si trattenne nella città di Napoli.
Questo
medesimo esercizio di carità verso gl'infermi praticò specialmente essendo
vescovo. Aveva ordinato al sagrestano della cattedrale in sant'Agata, e della
collegiata in Arienzo, che senza meno avvisato lo avessero quotidianamente di
coloro, i quali comunicavansi la mattina per viatico, ed andava di persona a
visitarli il dopo pranzo senza eccezione di persone, ecclesiastiche, nobili o
plebee, povere o ricche: ed in queste visite oltre i buoni sentimenti e
conforti spirituali largiva altresì, se eran poveri, dei sussidi caritativi:
quindi mandava continuamente da essi il suo servitore per sapere, come la
passavano in salute, e che cosa loro bisognasse.
Né
men sollecito si fu Alfonso nell'esercizio dell'altra opera di misericordia,
che ha per iscopo l'aiuto del prossimo nella sussistenza di lui. La liberalità
di questo santo è stata sì grande, da farlo paragonare ai più rinomati eroi
della religione, e nei tempi a noi più vicini ad un Tommaso da Villanova, ad un
Carlo Borromeo, ad un Francesco di Sales.
Ognuno
sa, che avendo egli rinunziato la sua primogenitura per darsi alla vita povera
ed evangelica, altri mezzi non aveva da soccorrere il suo prossimo, che il suo
vitalizio e qualche provento, che ritraeva dal collegio dei dottori, o quando
si scriveva qualche cavaliere al sedile di Portanova. Nondimeno tutto ciò egli
profondeva a beneficio delle case povere di sua Congregazione, per sollevare i
parenti poveri di qualche congregato, o distribuendolo per mezzo dei rettori
agli indigenti.
Per
tacere varie altre limosine da lui assegnate, ricorderò solo quella largita ad
una zitella di Vietri la quale per la morte del suo fratello negoziante cadde
in bassa fortuna. Alfonso le assegnò un mensile proporzionato alla sua
condizione e glielo fece pagare puntualmente per molti anni fino alla morte di
lei. Ma appena il Signore lo chiamò all'episcopato, considerò subito le rendite
della mensa vescovile come roba appartenente - 173 -
alla chiesa ed ai poveri; dimodoché eccettuato quel
vitto frugalissimo per sostentamento di sé medesimo e della sua famiglia, tutto
il rimanente lo distribuiva ai poveri di Gesù Cristo sia per sé medesimo, sia
per mezzo de' parrochi, o di altri sacerdoti destinati da lui a fargli
conoscere l'indigenza dei suoi diocesani.
Era
solito dire al fratello laico, che lo assisteva: A me basta un pezzo di pane bagnato: vi sono tanti poverelli: del
denaro che amministrate del mio, fatene limosine, ed in specialità a qualche
persona, che sapete trovarsi in pericolo di offendere Dio. Altre volte
diceva: Io mi contento di un tozzo di
pane bruno, e voglio essere trattato come ogni poverello.
Stando
a tavola con monsignore Albertini vescovo di Caserta, che lo aveva onorato di
sua visita, nel mangiare la sua minestra sentiva i poveri, i quali facevano
strepito per aver la limosina secondo il solito. Alfonso lascia all'improvviso
di mangiare, ed esclama: Com'è possibile
mangiare, mentre quelli cercano la carità ? Fratello, o portate loro qualche
cosa, o date loro questa minestra. Stando in Pagani dopo la rinunzia del
vescovado, mentre mangiava una mattina, disse tutto ansioso: Come? io mangio, ed i poveri? Il
servitore lo assicurò che si era fatta la solita limosina alla porteria. Egli
tacque, ma dopo qualche tempo cominciò a ripetere lo stesso: segno, che i
poveri erano l'oggetto dei suoi pensieri per la sua somma carità.
Tralascio
qui di descrivere fin dove giungesse questa sua carità nel tempo della
lagrimevole carestia del 1764, perché ne ha parlato diffusamente il padre
Tannoia nella Vita. Dirò soltanto, che quantunque avesse fissato un giorno
della settimana per dispensarsi la limosina a tutt'i poveri della sua diocesi,
pure quotidianamente ed in tutte le ore la porta del suo palazzo era aperta ai
poveri di Gesù Cristo, i quali potevano entrare da lui senza imbasciata e senza
pericolo di esserne mandati via. L'unico dispiacere di Alfonso, che
manifestavasi in lui fino alle lagrime, si era allorquando sprovveduto
anch'egli di tutto non aveva di che soccorrere i suoi - 174 -
poverelli; sebbene non tralasciava in questi casi di
contrarre dei debiti per sovvenirli. E poiché gli si rappresentava essere al di
là di ogni obbligazione, che un vescovo contragga dei debiti per sollevare i
suoi diocesani; egli fidando nella divina provvidenza non aveva cuore di
licenziare qualunque povero senza provvederlo; quindi ricorreva per soccorso
ora ad uno, ora ad un altro di quelli, ch'ei sapeva potergli imprestare qualche
somma di denaro, o provvederlo di grano e legumi.
Anzi
una volta non potendo il santo apprestare dei sussidi caritativi alle religiose
del santissimo Salvatore in Foggia, le quali erano aggravate di molti debiti,
spedì uno dei suoi congregati nella detta città, affinché questuato avesse
presso i signori foggiani per sovvenire quelle religiose, insinuando loro di
confidare nella provvidenza del Signore. Partì il medesimo per ubbidirgli sulla
parola di lui, e riuscì felicemente nel suo intento con grande compiacenza del
cuore di Alfonso.
La
sua liberalità era adunque sì grande e diffusa che uscendo dai confini della
sua diocesi distendevasi, dovunque sapesse annidare l'indigenza. In quella
generale penuria menzionata pocanzi fe' giungere i suoi soccorsi fino in Capua;
ed anche dopo d'aver rinunciato al vescovado, sulla pensione assegnatagli dal
sommo pontefice seguito a soccorrere due nobili gentildonne della stessa città
di Capua fino alla sua morte. Questa pensione era da lui versata intieramente
nelle mani del rettore, affinché toltone il suo misero e scarso vitto tutto il
rimanente si dispensasse ai poveri di Gesù Cristo.
Tanta
era in somma e sì continua la carità di Alfonso, che da missionario e da
vescovo fu sempre intento a sovvenire il suo prossimo. Da missionario qual
superiore ordinò, che in tutte le case del suo Istituto benché poverissime si
facesse la più abbondante limosina senza mandar via alcuno sconsolato, dicendo
ai rettori: Quanto vi è, tutto è dei
poveri. Da vescovo oltre di largire quanto aveva, siccome abbiam detto,
investigava ogni occasione per esercitare questa sua diletta virtù. Ai chierici
bisognosi non solo rilasciava i diritti soliti a pagarsi - 175 -
in curia per l'ordinazione, ma giungeva perfino a
somministrar loro il denaro per i santi esercizi, previ all'ordinazione
medesima. Li alloggiava nel suo palazzo con tutta l'amorevolezza; ed una volta,
che un chierico povero si vergognava per timore di dargli incomodo o abusarsi
di sua carità, egli lo rincorò dicendogli: Non
sapete che la casa del vescovo è la locanda?
A
tutt'i poveri volle, che il suo vicario avesse rilasciato qualunque dritto per
testimoniali o altre carte. Alle zitelle povere passando a marito non solo
rimetteva i soliti dritti di curia, ma eziandio le soccorreva con denaro. Dai
parrochi esigeva una nota distinta dei poveri delle loro parrocchie ed ai
medesimi or distribuiva denaro, ed or ne pagava i debiti.
Ai
sacerdoti poveri ed impotenti a celebrare assegnava un soccorso mensuale: agli
altri preti anche poveri rilasciava i dritti del Pastor bonus. Agli amministratori ed affittatori della mensa
vescovile giunse a condonare anche grosse somme, perché impotenti a
corrispondere la rendita esatta, o a pagare l'affitto convenuto. E' incredibile
poi, con quale veemenza di zelo inculcasse nelle sue prediche a tutt'i ricchi,
secolari o ecclesiastici, l'obbligazione, che ha ogni cristiano, di largire ai
poveri quel che di superfluo han ricevuto dalla divina provvidenza.
Or
questa sua carità e liberalità si estendeva fino ai suoi nemici ed offensori.
Una signora appartenente alla famiglia di uno di quelli che avevano
maggiormente tribolato e perseguitato il santo e la sua Congregazione con lite
ingiusta e con tale accanimento fino a tentare di farla sopprimere,
disgustatasi col marito, e dal medesimo separatasi, si ridusse a tale una
miseria, che aveva bisogno delle cose più indispensabili al suo sostentamento.
Fidando
nella carità de' missionari mandava a cercare al padre ministro della nostra
casa tutto ciò, che le bisognava, e dal medesimo era sempre soccorsa. La
comunità soffriva di mala voglia la liberalità del detto padre e ne faceva
lagnanze. Ma saputosi ciò da Alfonso, mentre stava in diocesi, disse ad un
altro padre, che stava - 176 -
presso di lui, di scrivere al suddetto padre ministro in suo nome, e di
congratularsi con lui per la sua carità, insinuandogli di seguitare a sovvenire
la detta signora largamente in tutti i bisogni di lei: e ciò tanto
maggiormente, perché in altro tempo la medesima aveva beneficato la nostra
comunità.
Che
dirò poi di quell'atto eroico di carità usato dal santo verso i pupilli
superstiti del signor Maffei, il quale in tutta la sua vita fece sempre una
guerra ostinata ad Alfonso ed alla nostra casa di Deliceto? Quante liti non gli
fe' il medesimo sostenere ? Con quante menzogne e calunniose imputazioni non cercò
discreditare i congregati presso il Sovrano ? Con quanti raggiri e cabale non
pretese di giungere al suo intento di vedere distrutta quella casa e tutta la
Congregazione ? Eppure essendo egli venuto a morte, die' l'incarico Alfonso al
p. Tannoia di prendere cura dei suoi figli e della loro educazione, finché
pervenissero all'età di poter disbrigare da sé medesimi i loro affari.
Non
meno caritatevole si dimostrò il nostro santo riguardo all'ospitalità. Nella
sua congregazione ordinò, che si ricevessero degnamente tutti quelli, che
trovandosi di passaggio per alcuna delle nostre case, non avessero ove
alloggiarsi, e ciò specialmente si praticasse con gli ecclesiastici e coi
regolari. E poiché l'ospitalità esser deve una delle principali prerogative del
vescovo, il medesimo ordine diede ai suoi familiari, appena pose il piede nella
sua diocesi: dimodoché la casa del vescovo di sant'Agata era aperta a tutti
quelli, che non avevano dove trovare altro alloggio.
Fra
le opere della misericordia appartenenti al sovvenimento dei miseri evvi anche
quella di visitare, di consolare chi trovasi in carcere, e liberarlo
dall'esservi tradotto. In questo atto di squisita carità si distinse altresì il
nostro santo. Imperciocché in tutti i paesi e città, ove portavasi con la
missione, era egli sempre il primo fra i suoi compagni a recarsi nelle carceri.
Quivi istruiva caritatevolmente quei miseri intorno ai doveri del cristiano,
insegnava loro con ammirabile pazienza - 177 -
i rudimenti della fede, li confortava con sante espressioni a tollerare
pazientemente il castigo temporale ricevuto dalla umana giustizia per iscansare
il castigo eterno dovuto ai lor peccati, e dopo averli sollevati con salutari
avvertimenti e con i conforti della religione, non mancava di procurare ad essi
anche gli aiuti corporali, ricorrendo alla carità altrui per soccorrere
quegl'infelici. Ed era bello spettacolo vedere Alfonso in mezzo ad essi, qual
madre intorno ai figli, a dispensare loro quel tanto, che aveva potuto adunare
di cibo o di denaro.
Che
se tanto fu caritatevole Alfonso verso questi miseri da semplice missionario,
molto più fe' spiccare la sua carità con loro essendo vescovo. Considerandoli
come suoi figli benché traviati, niuna industria ometteva sia per emendarli,
sia per soccorrerli.
Andava
personalmente in ogni settimana a visitarli, ed oltre a ciò stabiliva de'
sacerdoti più zelanti, i quali avessero adempito quest'atto di carità. Sovente
scriveva con efficacia alle autorità, per farli liberare, e le sue
raccomandazioni non riuscivano quasi mai vane: tanta era l'energia del suo
scrivere, e tal riputazione si aveva della santità di lui.
Che
se Alfonso era sì caritatevole verso quelli, che languivano già nelle prigioni,
non permise mai, che alcuno per sua cagione vi fosse tradotto, benché
meritevole di un tal castigo perdonando subito, ed obbliando qualunque offesa
venivagli fatta o nella persona o nella roba, siccome diffusamente lo dimostra
il p. Tannoia.
Che
dirò poi della sua ammirabile carità verso i suoi familiari, benché tante volte
meritevoli di castigo, o almeno di esserne licenziati? Tollerava con eroica
longanimità le loro mancanze, li riguardava con tenerezza di padre prendendone
tutta la cura sia per lo spirito, sia pel corpo.
Amava
singolarmente quel servo per nome Alessio Pollio, il quale fra tutti gIi era
stato sempre affezionato, ed aveva corrisposto all'amore di Alfonso con la
morigeratezza di sua condotta. Ma il santo riconoscente e caritatevole verso il
medesimo, gli collocò nel monastero di sant'Agata una figliuola, la quale in
qualità di - 178 -
conversa
visse colà santamente consacrata allo sposo celeste. E temendo poi che dopo la
sua morte il detto servo rimanesse per la sua età senza servizio e privo di
sussistenza, lo raccomando al p. vicario generale D. Andrea Villani. Difatti
essendo restato vedovo gran tempo prima, appena Alfonso fu da Dio chiamato alla
gloria dei santi, il medesimo fu vestito dell'abito del nostro Istituto in
qualità di fratello serviente, e morì di poi nella Congregazione in buon odore
di virtù.
Approfittandosi
un suo cocchiere della biada addetta pe' cavalli, e benché corretto più volte
non se n'emendasse, pure la carità di Alfonso non soffrì in tante occasioni che
si licenziasse. Ma perché costante nella sua colpa, stimossi finalmente dai
padri di sua Congregazione mandarlo via, rappresentandogli esservi dello
scrupolo a non licenziarlo. Condiscese finalmente ma con suo dispiacere, e nel
congedarlo gli si consegnò una somma di denaro, gli si diedero gratuitamente le
sue vestimenta, e gli si menò buona ancora tutta la biada, che si aveva rubato.
La medesima carità praticò verso di un cuoco, il quale mancava assiduamente al
proprio dovere: non s'indusse giammai a licenziarlo dal proprio servizio,
finché non ebbe più bisogno dell'opera sua per la rinunzia del vescovado.
Per
tutte queste opere di carità era comunemente chiamato Alfonso il padre de'
poveri, e rispettato come tale non solo dalla plebe, ma da ogni classe di
persone. Questa virtù diffondendosi dal suo cuore a guisa di un fiume reale
nella sua sorgente, spandeva i suoi rivi ad innaffiare la miseria e la
necessità, ovunque si ritrovasse.
Zitelle
pericolanti, vedove afflitte, orfani senza appoggio, artigiani, e contadini, i
quali o per l'età, o per l'infermità non potessero procacciarsi il vitto,
bisognosi occulti, perché la lor condizione non permetteva loro di
manifestarsi: tutti formavano la cura di Alfonso, ed a tutti si estendeva
l'inesauribile carità di lui. A chi pagava i medicamenti, a chi mandava delle
confetture, se infermi, per sollevarli; ad altri distribuiva denaro
segretamente; a quegli procurava la fatica, o comperava gli strumenti per
faticare; a - 179 -
quell'altro faceva giungere le sue largizioni in altro modo, e fu veduto
avvalersi eziandio di un atto confidenziale per nascondere la ragione di
elemosina con un gentiluomo, che essendosi rotto il braccio per una caduta, e
non avendo per la sua povertà il mezzo di chiamarsi un chirurgo, il santo
vescovo si portò a visitarlo, e di soppiatto gli mise sotto il capezzale dodici
ducati.
Simile in somma la sua carità all'albero veduto da Nabucco nel suo sogno
misterioso, che non solo ricoverava gli uccelli, ma ogni sorta di animali anche
più fieri, dando a tutti alimento senza eccezione; così Alfonso tutti accoglieva,
ed abbracciava, cortesi ed inurbani, buoni e malvagi, amici e nemici, amando il
suo prossimo solo in Dio con amore operante e generoso.
|