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P. Celestino Berruti
Lo spirito di S. A.M. de' Liguori

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  • Cap. 26 SUA PROFONDA UMILTA'
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Cap. 26

SUA PROFONDA UMILTA'

 

La gloria e l'ignominia, le umiliazioni e gli esaltamenti, l'onore e l'obbrobrio furono le vicendevoli manifestazioni di quel mistero nascosto a tutt'i secoli, che formò il sacramento dell'umana rigenerazione, e risvegliò negli uomini perduti la speranza della futura gloria. Il divin Verbo fattosi carne per amor dell'uomo volle rendersene modello ed esemplare, umiliando sé stesso fino alla morte di croce; e qual maestro di verità pura ed essenziale invitò l'uomo ad apprendere da lui questa sublime lezione d'umiltà affinché raffrenando in tal guisa i trasporti della sua superbia potesse camminare direttamente la via della salute.

Questo divino esemplare cercarono ricopiare in sé


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stessi tutti gli eroi della religione; imperciocché, giusta la riflessione del grande s. Gregorio, ammaestrati dallo Spirito santo, quanto più il loro cuore fu irradiato dalla luce della grazia e della virtù, tanto ancora in un grado più eccellente dell'umiltà andarono forniti. Spiritus sanctus, quo maiori luce virtutum electorum corda irradiat, eo et abundantiori dono humiliatis ditat.

Per tale principio io giustamente deduco, che l'umiltà di Alfonso Maria de Liguori fu oltre ogni credere perfetta ed esimia, traendone l'argomento dall'abbondantissima prevenzione di grazia, di cui colmò il Signore questo suo diletto servo, e dalla corrispondenza del medesimo ai doni ricevuti da Dio.

L'umiltà di Alfonso spicca mirabilmente nel basso sentimento, che di stesso aveva, nel dispregio degli onori e distinzioni, cui vanno dietro ambiziosamente gli amatori del secolo, nella gioia insomma, che provava, allorché per amore di Gesù Cristo riceveva disprezzi ed umiliazioni.

Qual basso concetto nutrisse Alfonso di sé medesimo, in che consiste specialmente la virtù dell'umiltà, rilevasi dal suo portamento e dalle sue espressioni. Attribuiva a sé medesimo in tutte le occasioni il nome di peccatore miserabile, difettoso, povero, ed ignorante. Nel fine della dedica al suo libro intitolato Gran mezzo della preghiera, si legge così: Alfonso peccatore quest'opera consacra. In fine della lettera intorno al modo di predicare diretta ad un religioso suo amico trovansi queste parole: Giacché la gran virtù di vostra Riverenza la fa umiliare sino a chiedere a me povero ignorante qualche documento circa il modo di predicare con frutto.

Ad un altro religioso, il quale gli scrisse lodando la sua condotta esemplare e santa, così rispose: Padre mio, io giudico, e vedo tutto l'opposto; vedo che la mia vita non è né buona, né esemplare, ma tutta piena di difetti: meglio avrebbe detto, che sto ingannando il mondo. Ed in seguito: Padre mio carissimo, confesso che io non sono santo, ma un povero peccatore, che veramente tremo del gran conto, che ho da rendere a Dio per la mala corrispondenza usata a tante sue misericordie. Nei suoi libri e prediche sovente si


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raccomandava ai lettori, ed uditori, che pregassero Iddio e la Vergine santissima, affinché avessero pietà di lui. A chiunque lo visitava non altro raccomandava nel congedarlo, che questo: Pregate Gesù Cristo, che mi faccia fare una buona morte. In Napoli avendo dato gli esercizi ai cherici, nell'ultimo giorno fra gli altri ricordi raccomandò loro di rimembrarsi sempre dei medesimi col dire: nel 1756 intesi gli esercizi da quello sciocco.

La pittrice D.a Vittoria De Matteis prese furtivamente il suo ritratto, mentre Alfonso stando nella casa di lei per una novena di Maria santissima col p. Villani era una mattina a tavola. Dopo averlo compito, con la scusa di fargli vedere molti belli quadri da lei fatti della Vergine santa, gli fu presentato altresì il ritratto suo, dicendogli: E questo lo conoscete? Restò talmente confuso, che ammutolì, e calando la testa andò a rinchiudersi nella sua stanza.

Stando in Napoli già vescovo, e venuto un sacerdote ad invitarlo per parte delle giovanette educate nel ritiro di s. Vincenzo, dicendogli, che quelle lo desideravano ansiosamente per confortarsi nello spirito coi suoi salutari discorsi, egli rispose: Come? Le figliuole mi desiderano? piuttosto mi desidera la fossa. Richiesto altra volta da una religiosa del monastero del Rosario in Napoli per consigliarsi con lui, il santo rispose: Queste che vogliono da me? Io sono peccatore. La sua solita giaculatoria era la seguente: Signore, non mi mandate all'inferno.

Domandato una volta quanti anni avesse, ed avendo risposto, che ne aveva ottantanove, gli fu augurata ancor lunga vita; ma egli rispose: Mi rincresce, perché quanto più vivo, più materia aduno, e quanto meno vivo, più leggiera materia porto.

Per questo sentimento vilissimo, che di sé stesso aveva il nostro santo, abborriva da ogni titolo di onorificenza, che a lui volesse compartirsi, benché la nobiltà de' suoi natali e la dignità vescovile giusta il costume lo richiedesse. Inoltre andando in carrozza col suo segretario, o altro sacerdote suo suddito, non permetteva giammai, che si sedesse davanti, ma lo faceva sedere al suo fianco. Nel comandare si avvaleva di


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termini umilissimi, né mai si poté scorgere in lui alcun senso di autorità, o superiorità, mentre si esprimeva nel comandare coi vocaboli di chi prega, e non già di chi comanda. E poiché la sua vitavirtuosa lo faceva riputare da tutti qual santo, essendosi avveduto, che alcuno serbava, o prendeva qualche reliquia di ciò che gli apparteneva, fu attentissimo ad impedire una tale dimostrazione di rispetto per la sua persona.

Avendo dovuto cavarsi un dente, il fratello, che lo assisteva, sel prese di soppiatto, ma sospettando ciò il nostro santo, col pretesto di volerlo vedere, lo prese in mano, e lo buttò dalla finestra in luogo, dove non poteva più rinvenirsi. Allorché si doveva cavar sangue, per sospetto che taluno lo serbasse, ordinava subito al fratello serviente di gettarlo nei luoghi immondi. Avendo saputo, che i giovani studenti si avevano fatti dare i suoi capelli dal fratello Francescantonio per conservarli quale reliquia, fece al medesimo un forte rimprovero, e gli ordinò, che se li facesse restituire, e li buttasse via.

Un principe addolorato per la morte di un suo figlio giovane scrisse ad un sacerdote della nostra Congregazione, che interrogasse il santo per sapere, se suo figlio era salvo, o dannato. Ma egli rispose: Questi vogliono, che io faccia da profeta ? Scrivetegli che il Signore se l'ha preso per la gloria sua.

Dovendosi eleggere l'abbadessa nel monastero di s. Giovanni Battista in Cava, una religiosa pregò il p. Corsano, affinché interrogasse destramente D. Alfonso, se l'elezione sarebbe caduta sulla propria sorella. Egli ben si avvide, che da lui volevasi conoscere il futuro, e perciò disse: Non sono profeta, facendo in pari tempo una forte riprensione al detto padre, ed ordinandogli, che mai più ardisse di assumere tali commissioni.

Vari giovani novizi andavano a prendere tabacco nella sua scatola, ed egli loro lo porgeva con piacere: ma sospettando qualche cosa per la frequenza, ed ansietà, che ne dimostravano, domandò loro un giorno, perché volevano il tabacco da lui ? Quelli risposero sinceramente, che ciò facevano per divozione alla sua persona. Allora egli disse: Non voglio queste divozioni,


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e loro proibì di più cercargli tabacco. Stando infermo gli disse un sacerdote di sua congregazione: Noi preghiamo il Signore, che vi conservi in vita un altro poco, perché la vostra persona è necessaria per il bene dell'Istituto. Ma il santo volgendosi a lui con volto sereno gli disse: E come? Io non dovrò mai morire? E che forse sono io necessario alla Congregazione ? Ringraziate Iddio, che domani dovete celebrare la prima messa (era questi un sacerdote novello), altrimenti vi proibirei di celebrarla.

Altra volta visitandolo un padre dei pii operari, mentre stava il santo convalescente per una infermità sofferta: D. Alfonso, gli disse, io mi rallegro della vostra guarigione, io vi ho fatto raccomandare a Dio dai miei penitenti, anzi ho pregato il Signore, che abbreviasse gli anni di vita a me per accrescerli a vostra paternità come utile alla sua Congregazione. Al che Alfonso rispose: Se hai detto questo, hai detto uno sproposito, e si tacque tutto confuso.

Altra volta dicendogli vari suoi congregati, che la città di Nocera era ansiosa per la sua sanità, e che, tutti domandavano conto di lui, il santo rispose: Che mi giova, che tanti pregano per la mia salute corporale? Vorrei che pregassero Iddio pel mio buon passaggio. Ed avendogli detto altra fiata, che in Nocera si desiderava, che dovendo pur morire, il Signore avesse disposto di farlo morire nella nostra casa di s. Michele per avere l'onore di conservare le spoglie del fondatore: oh che bella cosa avranno disse Alfonso, se mi avranno qui morto!

Per lo che vedendosi il santo ben assistito dal fratello serviente, e dagli altri, diceva loro con umiltà: Figli miei, quel che fate a me offritelo a Dio, e fatelo per lui: se lo fate a me, tutto è perduto. Era insomma sì basso il concetto, che di stesso aveva il nostro santo, che rinunziando perfino ai propri lumi e giudizi, mentre era cotanto versato nelle scienze, non aveva ritegno di assoggettarsi al giudizio altrui nelle materie canoniche e morali, allorché volle dare alla luce l'egregia sua opera di morale teologia. Dirigevasi a diversi teologi in Napoli ed altrove, per conoscere il loro sentimento nelle quistioni più intrigate.


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Abbassavasi a prender consiglio anche dai suoi congregati riputandosi inferiore a tutti nelle cognizioni e riguardando solo la gloria di Dio nelle sue sentenze. Soprattutto diede Alfonso esempio al mondo di eroica umiltà, allorquando richiamato a migliore esame varie sue sentenze già pubblicate nella sua Morale, non arrossì di ritrattarle, perché le posteriori sembrarono a lui, ed erano veramente più conformi alla sana dottrina ed al buon regolamento delle coscienze. Egli poi non si aggravava punto, anzi godeva, se taluno gli avesse scritto per illuminarlo su qualche quistione o sentenza da lui proferita, accettando non solo di buon garbo questo avviso, ma rimostrandogli ogni obbligazione.

Predicando nella missione di Benevento gli fu riferito, che alcuni avevano criticato le sue prediche. Il santo si chiamò immantinente il p. Spera, gli consegnò il suo manoscritto, e volle che lo avesse letto, per osservare se alcuna cosa meritava correzione. Né tampoco si doleva, quando alcuno lo avesse criticato nel suo governo episcopale.

Una volta rispose così ad un personaggio, il quale aveva preso le sue difese: Io la ringrazio, ma ho a caro di sapere quel che dicesi sul mio conto per stare più attento in avvenire, ed emendarmi dei miei difetti.

Non è dunque a stupire, che Alfonso per la sua profondissima umiltà proveniente dalla vilissima stima di stesso, dispregiasse cotanto gli onori del mondo, e gli avesse in non cale. Essendo stato eletto vescovo di sant'Agata, ed avendone ricevuto le congratulazioni dal vescovo di Cassano, gli rispose: Io voglio rinunziare, perché son quasi cieco, e di età avanzata; ed ognuno sa, con quanta sua pena, e quanto gli costasse l'ubbidire al romano pontefice nell'accettazione del vescovado.

Confidò il santo medesimo al nostro p. Corsano che due grandi sforzi gli erano stati i più penosi in sua vita: il primo allorché Iddio lo chiamò a lasciare il mondo, e dovette vincere le terribili opposizioni del suo genitore, il secondo, allorché fu eletto vescovo, perché conoscendo sé stesso tremava all'idea del gran peso, che gli si voleva addossare. Ma se egli accettò


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il vescovado riconoscendo nella voce del vicario di Cristo la volontà del Signore, niente cambiò in stesso di quell'umile portamento, che fino allora aveva osservato, e fu sempre alieno da tutte quelle distinzioni, che sogliono giustamente tributarsi a chi è insignito della dignità episcopale. Non solo elesse nel suo episcopio la stanza più umile e disagiata, ma il suo vestire ed il suo mobile era così negletto, che da per tutto spirava umiltà e povertà, essendo che queste due virtù van sempre di concerto in un'anima.

Allorché recavasi in chiesa privatamente, genufletteva sulla nuda terra, voleva che si mettessero cuscini sull'inginocchiatoio, e ricusava ogni altro riguardo: solo nei pontificali ammetteva le distinzioni volute dal cerimoniale dei vescovi.

In simil guisa trovandosi in Napoli per qualche grave affare del suo Istituto, rifiutava ogni distinzione, allorquando andava a celebrare nelle chiese, come avvenne in s. Marcellino, nella chiesa di Donna Romita, ove eranvi religiose sue parenti, nella chiesa della Redenzione dei cattivi, ed in altre; mai sempre ricusava sedie e cuscini convenienti al suo carattere, mettendosi nei banchi comuni, od in un angolo della chiesa ad orare.

Entrato una volta nell'anticamera del Sovrano per avere udienza, e non essendovi altro che un piccolo scabello, su di cui stavano seduti due cavalieri di corte, il canonico tesoriere della collegiata di Arienzo, che lo accompagnava, riflettendo che il santo vecchio non avrebbe potuto star lungo tempo in piedi, facendosi coraggio si fe' avanti a quei cavalieri, e loro disse, che quel povero vecchio era il vescovo di sant'Agata de' Goti monsignor de Liguori, e che li pregava di farlo sedere per un poco. Al nome di monsignore Liguori si alzano immantinente, e sforzano il santo a prendere il loro posto. Ripugnava la sua umiltà, ma finalmente dové cedere: però nell'uscire dall'anticamera dopo l'udienza riprese dolcemente il detto canonico dicendogli, che poteva astenersi d'incomodare quei due cavalieri manifestando la sua persona.

In tal modo calpestava Alfonso gli onori di questo secolo riponendo solo in Dio la sua gloria, e sforzandosi coll'esercizio


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della più profonda umiltà di sempre più tornar gradito agli occhi del suo Signore. Però il giustissimo Iddio lo colmò a dismisura delle sue grazie, e de suoi doni gratis dati.

Ma qui spiccò più mirabilmente l'umiltà sua, mentre quanto più veniva dagli uomini stimato e riverito, tanto maggiormente ancora egli si umiliava ed annientava allo sguardo di tutti. Prima ancora di essere vescovo era tale il rispetto, che riscuoteva dai più eminenti personaggi per la sua santità e dottrina, che ognuno si inginocchiava ai suoi piedi, voleva la sua benedizione, e gli dava ogni attestato di stima, come ad un santo. Molte fiate avvenne, che non essendo conosciuto, veniva disprezzato per l'umile ed abietto suo portamento: ma questi dispregi convertivansi poi in altrettanti onori, appena sentivasi il suo nome.

Avvenne che passando per Volturara, disse la messa in una chiesa campestre. Avendo saputo monsignor Sanseverino, il quale stava colà per la santa visita, l'arrivo di D. Alfonso Liguori, corse subito per vederlo. Alfonso eziandio avendo saputo, che il vescovo era colà, corse del pari per visitarlo. Incontratisi per istrada vi fu tra essi una bella gara di umiltà. Monsignore voleva laciar la mano ad Alfonso, ed Alfonso voleva baciar la mano al vescovo. Ma nel licenziarsi monsignore volle tenere la staffa al santo per farlo salire a cavallo. Alfonso non voleva ciò permettergli, e cercava un poggio per montare sul suo giumento. Vinse però l'autorità del vescovo con grande ammirazione di tutto il popolo concorso: perché il vescovo così ordinandogli non solo gli tenne la staffa, ma porse il suo ginocchio, e su di esso dovette Alfonso salire a cavallo.

Era ben noto, quanto fossero efficaci le preghiere di lui al cospetto di Dio; ed i prodigi operati da Alfonso, benché da lui tenuti nascosti a tutto suo potere, pure si divulgavano, ed ognuno a lui ricorreva sia per raccomandarsi alle sue orazioni, sia per implorare qualche grazia. Allora l'umiltà di Alfonso soffriva una grande violenza, ed era bello il sentirlo lamentarsi di questa stima, che si aveva per lui, mentre se


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ne conosceva immeritevole.

Quindi avendolo rimproverato un giorno il suo direttore padre Villani, che non faceva bene di rimandare sconsolati quelli, che a lui ricorrevano per essere benedetti, se il nostro santo ubbidì all'impero di chi faceva sopra di lui le veci di Dio, non lasciò per altro di lamentarsi, dicendo: Questi vogliono miracoli da me, mentre io non posso guarirmi i mali, che mi affliggono.

Così pure ritornato in Pagani, ed uscendo in carrozza per ordine dei medici, allorché ritornava dal passeggio, trovava una quantità di donne coi loro fanciulli nelle braccia storpi o infermi, che gli chiedevano la sua benedizione per quelle innocenti creature. Egli si confondeva per la sua umiltà: Questi vogliono miracoli, diceva; se potessi fare miracoli, ne farei uno per me. Ma frattanto ubbidendo al suo direttore li benediceva, e tutti ne riportavano la guarigione.

Caduto infermo gravemente nella sua diocesi, il padre maestro Caputi suo amico, che sovente lo visitava, gl'insinuò, che si fossero ordinate delle pubbliche preghiere per la sanità di lui: ma il santo si oppose dicendo, che tali preghiere si fanno per le persone pubbliche. Al che ripigliato avendo il detto padre, che egli come vescovo era persona pubblica; Alfonso allora tutto confuso replicò, che non era nel numero di quelle persone, le quali meritano tali preghiere.

Sembrava pertanto, che tutto lo studio di Alfonso si raggirasse sempre nell'esercitare atti di umiltà e nel ricercare umiliazioni e disprezzi. Benché superiore di una Congregazione da lui fondata, non volle giammai alcun riguardo, o particolarità in qualunque siasi cosa: anzi cedeva sempre agli altri il meglio, e per sé ambiva le cose peggiori.

In tavola dovevansi portargli le medesime vivande, che erano preparate per la comunità e sulla tavoletta comune alla rinfusa con gli altri: le biancherie sia di tavola sia di letto dovevano essere quelle stesse, che servivano per gli altri: nella stanza non ammetteva alcuna particolare comodità, anzi era il più abietto di tutti; in sagrestia veniva trattato coi medesimi paramenti comuni senza distinzione; sottoscrivendosi nelle lettere ai suoi


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congregati si firmava sempre: fratello Alfonso del santissimo Redentore; nel coro non vi era luogo distinto per lui, ma si metteva sempre inginocchione in un angolo remoto; e poiché nella regola proposta ai suoi alunni aveva ordinato, che tutti da medesimi adempito avessero quegli uffizi riguardanti la pulizia della propria stanza, finché le forze loro il permettessero, Alfonso pel buono esempio, e per esercizio di umiltà da sé medesimo scopava la stanza, rassettava il letto, accomodavasi il candeliere, ed altro. Anzi avendo pure disposto per la pratica dell'umiltà, che tutt'i suoi congregati, anche sacerdoti, ed eziandio superiori, si abbassino a servire a tavola, ed a lavare i piatti, Alfonso praticò il primo questi atti di umiliazione.

Ed era veramente oggetto di ammirazione e di somma edificazione il vederlo prendere in tale uffizio vilissimo la parte per sé più faticosa; perloché non curando l'acqua bollente tante volte, si scottava le mani. Lavando insieme con un novizio una delle volte i piatti di cucina, e volendo questi per rispetto levargli di mano i vasi più sozzi e lordi, il santo resistette, né gliel permise, dicendogli: Che forse sono io migliore di te?

Aggiungasi a tutto ciò, che quantunque la regola gli permettesse come superiore generale di tenere al suo servizio un fratello laico, pure di questo non servivasi per altro, se non che per farsi aiutare a scrivere le sue molteplici opere: e ciò per tutto il tempo, che visse in Congregazione prima di esser vescovo.

Vescovo poi non ebbe verun cameriere, che lo aiutasse nei suoi bisogni: mentre faceva tutto da sé a pari di qualunque persona ordinaria, e teneva il medesimo fratello laico, il quale aveva l'amministrazione del suo episcopio. Inoltre stando in Congregazione, se chiamava talvolta col campanello, e qualche sacerdote accorreva per udire ciò che volesse, non ardiva affatto di comandargli, ma solo lo pregava di chiamare il fratello serviente. Era solito, come si disse, di celebrare la messa nell'ora ben tarda; quindi da sé medesimo vedevasi andare ricercando qualche fratello, che gliela avesse


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servita; e fu veduto più volte discendere a tal uopo fino nelle officine inferiori della casa.

Nel Capitolo generale tenuto il 1764, essendosi dimenticato il calamaio una mattina, non ardì di mandare alcuno dei padri capitolari a prenderlo; ma si alzò egli stesso, e fu veduto ritornare poco dopo col calamaio.

Quest'uomo pertanto così singolare nella umiltà non è maraviglia, che amasse i disprezzi a somiglianza del suo Redentore crocifisso, desiderando di essere maltrattato e tenuto da nulla. Parlando delle sue opere, che riscuotevangli tanta lode da per ogni dove, così si espresse un giorno: Non per gloria mia, ma per la gloria di Dio ho dato alla luce le mie opere, che anzi prego i miei compagni a buttarmi dopo la mia morte sopra un letamaio, così meritandomi.

Servendosi di alcune notizie raccolte dal dottissimo nostro padre D. Alessandro de Meo nello stampare la sua dissertazione sulla proibizione dei libri infetti di errore, si servì unicamente di quelle ragioni, che abbisognavano per provare fortemente la verità del punto proposto; e domandato perché tralasciato avesse le molte erudizioni, che il de Meo aveva raccolto, rispose: Mi volete far comparire per uomo dotto al mondo?

Una volta lodando un nostro soggetto le sue opere alla presenza di lui, Alfonso si strinse nelle spalle e disse: Che opere, che opere! Queste non raccolgono niente: io mi glorio solo di Gesù Cristo; e poi esclamò: Alfonso poverello! Palesando un giorno la sua contentezza per essersi sgravato del peso del vescovado, vi fu chi disse alla sua presenza, che se egli era contento, la diocesi però ne avrebbe sofferto detrimento per la sua rinunzia. Al che subito rispose: Che ci ho fatto io? Come l'ho ritrovata, così l'ho lasciata: che se pure si è fatta qualche cosa, è stato Dio, è stato Dio. Nelle conferenze dei casi morali faceva ancor più risplendere la sua umiltà, mentre tante volte vedevasi impugnato da alcuni giovani saccentuzzi nelle sue giuste sentenze: e pure egli li animava a parlare con libertà protestandosi di abbracciare la loro opinione, quando l'avesse conosciuta più soda, senza dimostrarsi menomamente offeso. Anzi allorché era consultato


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sopra qualche dubbio da persona presente, per dimostrarsi ignorante faceva prendere qualche autore, onde riscontrare il caso, che voleva risolversi. Nemico di qualunque lode aborriva da ogni vanto de' suoi natali, della sua scienza, e delle altre sue qualità; e riportandosi nelle sue opere gli elogi, che attribuivansi dai revisori alle sue virtù al suo grado, ed alla sua dottrina, ne palesava tanto rincrescimento, che soleva dire: Io avrei voluto, che approvassero soltanto la qualità della materia, e non già la persona, e la nascita, che niente giova.

A tale oggetto con molta industria procurava in ogni occasione di farsi stimare sciocco, imperito, e scimunito, come un fanciullo di pochi anni. Per questo dispregio di sé medesimo godeva altresì, e compiacevasi sommamente, allorché riceveva qualche affronto eziandio dai suoi inferiori.

Ma non la finirei mai, se tutti casi qui volessi registrare, in cui Alfonso diede al mondo singolarissimo esempio di umiltà e dispregio di sé medesimo. Questa virtù era per lui la più cara, e la più raccomandata ai suoi congregati. Il carattere degli operai evangelici, dir soleva ai suoi alunni, è appunto l'umiltà.

Allorché i suoi partivano per le missioni, diceva ad essi: Salutate tutti, portate rispetto a tutti, anche ai villani e femminucce se volete rendervi amabili ai popoli per ritrarre le anime dal peccato, ed innamorarle nel divino servizio. Altre volte diceva: Ci fa più danno un granellino di superbia che non ci farebbero danno tutt'i demoni dell'inferno.

A tal uopo era vigilantissimo, che i suoi congregati nutrissero sempre basso sentimento di sé medesimi, sfuggissero tutti gli onori e distinzioni non solo nella Congregazione, ma specialmente al di fuori: e sopportassero umilmente gli obbrobri e le derisioni, che sono indivisibili dall'esercizio del ministero apostolico. Che se qualche individuo di sua Congregazione ambito avesse qualche uffizio più decoroso nella predicazione, accendevasi allora di santo zelo per l'amore all'umiltà, ed abbatteva ogni ambizione e superbia.

Un fratello serviente avendo usato poca umiltà col padre ministro della casa, fece Alfonso passare tre giorni per non irritarlo maggiormente. Ma dopo i tre giorni sel chiamò, lo corresse


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fortemente, e gli proibì di comunicarsi per altri tre giorni,ordinandogli ancora l'astinenza dai frutti.

Parlando quindi ai suoi congregati nelle sue esortazioni si esprimeva con tanta veemenza di spirito contro la propria stima, che ben dava a divedere il basso concetto, che di aveva, e che ogni missionario deve avere pel suo avanzamento nella perfezione, e pel profittevole adempimento del proprio ministero. Stima propria ? diceva Alfonso, questa maledetta parola ha rovinato, e rovina tanti secolari, tanti preti, tante case religiose, e ne manda tanti in purgatorio, ed anche all'inferno. Alcuni adducono quel testo: Honorem meum alteri non dabo. Questo s'intende dell'onore dovuto a Dio: e se  s'intende dell'onore proprio, l'onore di Gesù Cristo, di cui siamo seguaci, stato di essere disprezzato ed umiliato.

Altra volta diceva: " Se s'introducesse in Congregazione questo spirito di stima a propria, meglio sarebbe, che si distruggesse la Congregazione. La stima nostra deve essere di farci cenere, di essere posti sotto i piedi di tutti, essere svergognati per amore di Gesù Cristo. Questo è l'esempio, che egli ha lasciato: Cum malediceretur non maledicebat. Beati estis, cum maledixerint, et exprobraverint vos. Se un soggetto mi affacciasse qualche pretensione, mi sembrerebbe di vedere un dannato; e bisogna, che io preghi Dio, affinché non mi faccia fare atti di odio contro alcuno di questi. Io per me non so, come questi tali possono fare orazione, come possono trovar pace, perché vanno all'orazione, e Dio li ributta, vanno alla comunione, e Dio li ributta: Deus superbis resistit. Molti, che se ne sono usciti dalla Congregazione, forse lo è stato per qualche attacco alla propria stima; ed ognuno, che non sia umile, pure se ne anderà, perché non potrà mai stare quieto in Congregazione, né potrà avere pace".

Così questo santo, il quale si distinse in tutte le virtù, specialmente nella pratica eroica dell'umiltà, meritò il premio promesso da Gesù Cristo ai suoi veri ed umili seguaci, esaltandolo in vita, colmandolo di tutti gli onori, che son dovuti alla vera santità ed elevandolo nella gloria de' santi in proporzione del suo abbassamento su questa terra.




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