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P. Celestino Berruti
Lo spirito di S. A.M. de' Liguori

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  • Cap. 29 STRAORDINARIA PENITENZA ED AUSTERITA' DI ALFONSO
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Cap. 29

STRAORDINARIA PENITENZA ED AUSTERITA' DI ALFONSO

 

La virtù della penitenza trae la sua origine dalla divina carità; di modo che si aumenta, o pur diminuisce nella sua intensità in ragione dell'incremento o della diminuzione dell'amore verso Dio. Essa consiste nell'odio di sé medesimo o per vendicare nella propria carne i torti fatti alla divina maestà con la colpa, ovvero per resistere agli assalti delle passioni, e reprimere i moti della concupiscenza, onde mantenere illesa la battesimale innocenza, allorché questa a somma grazia non siasi peranco perduta.

Ora questa virtù, la quale ha indotto i santi a praticare ogni sorta di penalità, per martoriare il loro corpo, e contro di cui tanto si è declamato in ogni tempo dai nemici del vangelo come contraria al dovere naturale di conservare il proprio individuo, lungi di opporsi


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al ben essere corporeo dell'uomo conduce mirabilmente alla conservazione della sanità, ed alla longevità della vita, siccome l'esperienza lo ha comprovato in tanti anacoreti, ed in tutt'i santi, che si resero celebri per l'austerità del loro vivere.

L'incarnata Sapienza nella idea di rinnovare l'uomo antico, e per opporre un salutare rimedio ai danni cagionati dalla disubbidienza intimò a tutti i fedeli suoi seguaci, ed in particolar modo a tutti coloro, i quali vengono dalla divina bontà chiamati a seguire i consigli evangelici, quest'odio di medesimi Qui non odit patrem, et matrem, frates, et sorores, adhuc autem et animam suam, non potest meus esse discipulus.

Or tanto fu per Alfonso dedicarsi alla sequela del Redentore, quanto applicare a sé medesimo questo divino ammaestramento, ed eseguirlo nel modo più perfetto e straordinario.

E' ben vero, che la mortificazione più aspra e più dura non è già quella del corpo, la quale essendo esterna e visibile suole da noi più ammirarsi; sì bene è quella dello spirito interna ed occulta: ma se Alfonso, come si è veduto nel precedente capitolo, imprese ad odiar sé medesimo col contraddire sempre le sue voglie, col frenare le sue passioni, col negare la propria volontà; accoppiando a quest'annegazione di sé stesso le più inaudite austerità, fece cosa assai più perfetta, perché animato dal più singolare spirito della penitenza, martirizzo la sua carne sia per tenerla soggetta all'impero della ragione, affinché i suoi sensi così mortificati non ricalcitrassero contro lo spirito, sia per punire in sé medesimo ogni ombra di colpa leggierissima, e purificare così l'anima sua da ogni macchia, sia per placare la divina giustizia irritata dalle tante offese, che riceve dai peccatori, sia finalmente per configgere sé stesso alla croce di Gesù Cristo, e rassomigliarsi ad un Dio penante, per poter dire coll'Apostolo Christo confixus sum cruci.

Può sembrare affatto inutile il parlare delle penitenze esteriori di Alfonso, dopoché il padre Tannoia nel decorso della vita di lui non ha tralasciato di registrare in ogni circostanza le straordinarie austerità di questo santo, il quale in mille


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guise e con mille ordegni afflisse e martoriò il suo corpo. Tutta volta vi sono ancora ben molte particolarità, che accompagnando o accrescendo il rigore della sua penitenza, e l'amore di Alfonso nel crocifiggere sé stesso, fanno vieppiù risaltare l'eroismo nella sua mortificazione. E primieramente è d'uopo conoscere, che la santa Chiesa ha consacrato nelle lezioni del suo uffizio ad onor di Alfonso quell'elogio, che già diede al Gonzaga dicendo: Miram vitae innocentiam pari cum poenitentia socians, corpus suum inedia, ferreis catenis, ciliciis, cruentaque flagellatione castigabat.

Che Alfonso cioè accoppiando un'ammirabile innocenza di vita con una straordinaria penitenza castigò il suo corpo coll'inedia privandolo del cibo, con catene di ferro percuotendolo in modo da fare stupire i più severi penitenti, e con cilizi acutissimi tormentando la sua carne, affine di tenerla in servitù, giusta l'espressione dell'Apostolo: Castigo corpus meum, et in servitutem redigo. Sebbene per Alfonso vi è ancor di più, mentre troviam segnato nei processi di sua canonizzazione, dopo essersi esaminate le esimie, singolari, e continue sue penitenze, a sua gloria sempiterna quest'altro encomio, che lo esalta, e lo pareggia ai più rigidi penitenti, che mai siano stati nella Chiesa di Dio: Carnis macerandae studio celebriores sactos antecelluit, vel saltem aequavit . a

Di fatti fin da che Alfonso conviveva nella Congregazione dei Cinesi, un vescovo, il quale ammirò le sue penitenze, giunse a dire, che Alfonso con lo studio della penitenza superò lo stesso s. Pietro d'Alcantara ;b ed il nostro padre Villani, il quale fu suo confessore per tanti anni, e poi suo vicario generale, asserì più volte, che Alfonso, se non fosse stato frenato dall'ubbidienza nel rigore delle sue austerità, avrebbe superato il medesimo beato Errico Susone.

Ora per conoscere, quanto a ragione siansi ad Alfonso attribuiti


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i succennati elogi, è d'uopo registrare qui in succinto tutt'i generi di penitenza da lui praticati nel corso di sua vita. Incominciò dal castigare il suo corpo colla privazione del mangiare e del bere, la quale, giusta l'insegnamento del grande Agostino, e il primo passo nella virtù della temperanza e della mortificazione: A cibo potuque pro sola corporis castigatione cessationem  c .  Intorno a ciò sì rigidamente diportossi il nostro santo, fino ad emulare gli antichi anacoreti. Si mortificò nel vitto tanto rapporto alla qualità, che alla quantità. Il suo cibo consisteva sempre in una sola minestra con poche frutta, e qualora dalla convenienza, o dall'ordine dei medici, o dall'ubbidienza del direttore veniva astretto a cibarsi di altra vivanda, e specialmente della carne, faceva le viste di mangiarla, ma con disinvoltura o appena ne gustava qualche boccone, ovvero sott'altro pretesto se ne privava. Si sa, che perpetuamente si astenne dal vino, adducendo per iscusa il proprio temperamento sanguigno; ed obbligato nella sua provetta età dai medici a farne uso per conforto dello stomaco, e per sostenere le forze, appena ne assaggiava un poco, ma mescolato con abbondantissima acqua. Questo vitto già di per sé così tenue veniva da lui tralasciato nei giorni di sabato, in cui sempre digiunava in pane ed acqua, oltre le vigilie della beata Vergine e delle feste principali di Gesù Cristo, o di altri santi suoi protettori. Ma avanzandosi negli anni, ed osservandosi che tal digiuno lo abbatteva interamente di forze, gli si ordinò di mangiare in detti giorni almeno un piatto, ed egli per ubbidire contentossi di una scodella di legumi con semplice acqua.

Nel corso della giornata negava un po' di acqua alla sua sete in onor di Gesù Cristo sitibondo sulla croce, praticando tale austera mortificazione anche nei più forti calori dell'estate.

E pure quest'austerità già tanto straordinaria e continua riguardo alla quantità del cibo, fu portata da Alfonso ad un grado di eroismo quasi incredibile rapporto alla qualità.


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Imperocché oltre il rifiutare mai sempre ogni vivanda squisita, quella stessa minestra, di cui si nutriva, veniva da lui attossicata collo spargervi sopra erbe amarissime. Teneva perciò in serbo una grande provvisione delle medesime, le portava sempre seco dovunque egli andasse, né si diede mai il caso, che obliasse di servirsene. Consistevano queste in aloe, genziana, ruta, ed assenzio; ed intanto ne variava la specie, affinché il suo palato non acquistasse l'assuefazione ad una sola sorta di erbe amare.

Il padre Villani facendo la solita esortazione alla comunità di Ciorani nel giorno di sabato, e volendo infervorare ognuno allo spirito della mortificazione sull'esempio del fondatore, asserì, che Alfonso da lungo tempo non mangiava che una scodella di fave o fagiuoli in ogni mattina; che la sera la passava senza cena con un semplice bicchiere d'acqua; che non sapeva di quale erba più avvalersi per amareggiare il suo palato; e che tanta era la quantità, di cui aspergeva quella misera vivanda, che cagionava nausea in tavola anche a chi gli era vicino per il fetore che tramandava.

Abbiam detto di sopra, che il nostro santo oltre la minestra cibavasi di frutta fresche a cagione di sua salute, ed i medici inculcavano sempre di fargliene mangiare. Or bene per mortificarsi anche sopra una cosa, che tanto gli era necessaria, intingeva nel sale queste frutta per amareggiare il suo palato, adducendo per ragione, che in tal modo le digeriva più facilmente.

L'astinenza e la mortificazione nel cibo era per Alfonso il vero contrassegno, che un'anima tende alla perfezione. Noi ci crediamo, così diceva, di essere mortificati col lasciare le frutta? o praticare altra piccola astinenza: ma questo è un nulla a fronte di quello, che hanno fatto i santi.

Perciò egli investigava tutte le occasioni di mortificarsi in quanto al vitto, e niuna se ne faceva sfuggire. Non si lamentava giammai, se fossero o no ben preparate, o di buona qualità le vivande, che gli si apprestavano; anzi egli stesso si studiava di renderle disgustose ora col gettarvi sopra dell'acqua fresca per renderle insipide, come avvenne nella missione di Agerola per attestato del parroco,


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il quale osservò minutamente questa artificiosa industria di Alfonso nel mortificarsi; ora cibandosi di cose ch'eransi già quasi corrotte per la lunghezza del tempo.

Difatti dopo essergli stato ordinato dai medici di prendere la mattina un po' di cioccolata avvenne, ch'essendosi celebrata una festa nel monastero di santa Chiara, ed essendo avanzata una quantità di cioccolata già cotta, quelle religiose mandarono a complimentarla alla nostra casa di s. Michele. Il padre ministro la fece conservare per il santo senza badare che sarebbesi tosto inacidita: ed Alfonso se la prese per più giorni senza dir nulla, ed avrebbe seguitato a fare quest'atto di mortificazione, se il ministro stesso non se ne fosse avveduto con suo rammarico.

Ricusava poi qualunque cibo delicato nelle missioni, e lo stesso ordinò per tutt'i suoi missionari, proibendo di riceversi anche in dono ogni sorta di polli, o di uccelli, ogni specie di piatti dolci, ed ogni qualità di pesci squisiti, volendo che i missionari facciano uso di quei cibi ordinari, che trovansi nei paesi della missione. Ed era tanto rigoroso nell'osservanza di questa sua disposizione che senza alcun riguardo puniva severamente i superiori delle missioni, se anche nel poco l'avessero trasgredita.

Egli poi l'osservò minutissimamente in tutt'i luoghi, ove portossi sia colle missioni, sia cogli esercizi spirituali. Anche ritrovandosi una volta a dare gli esercizi spirituali al monastero di santa Chiara, ed avendogli preparato una mattina quelle religiose un piatto dolce, egli per non disgustarle disse al compagno di prenderne un piccolo pezzettino sulla punta del coltello, e poi lo rimandò indietro.

Divenne pertanto così familiare ad Alfonso questa sua astinenza, che oltre l'averla praticata in tutti gli anni, nei quali visse in Congregazione, la serbò inviolata e l'accrebbe per tutto il tempo in cui fu vescovo. Anzi negli ultimi anni di sua vita, allorquando per la debolezza delle sue forze volevano i medici, che gli si dessero cibi più adatti allo stomaco di lui, egli tampoco si arrese, se non che in qualche cosa per la sola ubbidienza. Io debbo mangiare pane duro, così diceva al suo direttore, e non già vivande delicate.


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Ed altra volta nel tempo, in cui il Signore lo assoggettò a grandi tentazioni, così si espresse: In queste circostanze, in cui mi trovo, è d'uopo di mortificarsi, il mangiare è soverchio.

In questo tempo accadde, che essendo stato con febbre per vari giorni, allorché si convenne dai medici di dargli a mangiare qualche cosa, si dimenticarono di ordinargli il cibo. Ma essendo andato l'indomani uno di essi, l'interrogò, come gli fosse piaciuto il cibo. Sto digiuno ancora, rispose il santo vecchio: ora conosco, soggiunse, che la vera mortificazione è il non mangiare, quando si ha appetito.

A questa sua singolare astinenza nella quantità e qualità del cibo aggiunse altro genere di mortificazione in quanto al modo di prendere il suo scarso vitto, e ciò in molti giorni dell'anno, specialmente nei venerdì e sabati, nella settimana maggiore, e nelle vigilie della beata Vergine.

Soleva in detti giorni mettersi a terra in mezzo al refettorio, e quivi circondato dai gatti, che intorno a lui accorrevano, faceva la sua misera refezione. In tutte le novene dell'anno, le quali erano ben molte, ed in tutt'i mercoledì, venerdì, e sabati, benché stesse al suo posto, mangiava nondimeno ginocchioni.

Ed in alcune circostanze si metteva al collo una pietra di cinque rotola, ossia quindici libbre, che gli stringeva col suo peso il collo stesso; e poi mangiava lentamente per prolungare il suo martirio. In tali giorni per mortificazione era solito eziandio di lavare i piatti dopo la tavola; nel quale uffizio non rade volte si scottava le mani fino a venirne via la pelle. E tutti questi atti di mortificazione furon da lui praticati per tutti gli anni dalla fondazione del suo Istituto, finché fu assunto al vescovado.

Ma per far passaggio a quel genere di penitenze, che lo hanno reso tanto celebre fra i santi più rinomati per le loro austerità, è d'uopo parlare di tutte quelle carneficine, con cui martoriò il suo corpo, dal giorno in cui dedicossi al divino servizio vestendo le divise clericali, fino al tempo, che gli furono totalmente proibite dai suoi direttori per essere divenuto il suo corpo a guisa di un tronco a motivo dell'artritide


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generale, che lo assalì. Incominciò col fare delle catenelle di ferro, con le quali cingeva le sue braccia, le cosce, e la vita; ed in ogni giorno si disciplinava con funicelle ritorte. Ma accrescendosi il fervore del suo spirito andò cotanto aumentando nel decorrere del tempo il rigore di queste sue austerità, che ben può appellarsi un martire di penitenza.

Disciplinarsi a sangue le due e tre volte la settimana, vestire un giaco di crini intrecciato di punte, adattarsi alle spalle o al petto delle croci parimente armate di acutissimi chiodi, furono queste per lui penitenze usuali; dappoiché giusta le circostanze in cui trovavasi pei bisogni di sua Congregazione, per impetrar qualche grazia, o per placare la divina giustizia esacerbata per i peccati degli uomini, soleva aggiungere tali martirii al suo corpo, che fanno inorridire al solo leggerli, come vengon descritti negli atti di sua canonizzazione. Al che se si aggiunge ancora quel suo dormire sulla nuda terra, ovvero sopra una quantità di pietre, che egli collocava nel suo misero pagliericcio, si avrà di Alfonso il vero ritratto della penitenza, siccome di lui attestò un insigne personaggio.

In comprova di quanto abbiam detto in termini generali, rapporteremo qui alcuni fatti, pei quali risulta questo rigore di austerità in Alfonso. Poiché andava sempre cinto di catenelle di ferro con le punte acuminate, ne avveniva, che talvolta appena poteva reggersi in piedi.

Ora in un giorno discendendo per la scala sdrucciolò per terra, né poteva più alzarsi per la strettezza, con cui era cinto, e per la compressione delle catenelle stesse. Essendo solo, dovette stare lungo tempo in quello stato, finché trovandosi a passare un padre, chiamò due fratelli servienti, i quali l'aiutarono a rizzarsi, e ritornare alla sua stanza.

Stando nella Barra a far la missione per comando del cardinale Spinelli, concertò col clero e con i gentiluomini di girare nel giovedì santo varie chiese di quei contorni per visitare i sepolcri. Ma poiché vi si portò al suo solito tutto cinto di cilizi, appena dati pochi passi si vide impotente a camminare. Allora chiese il permesso di ritornare


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in casa, quasi che avesse obliato qualche cosa: si tolse una porzione dei suoi cilizi, e così potette riprendere il suo cammino.

Si osservò molte volte, che vestendo il suo giaco di peli nel celebrare la messa, e ritenendolo fino all'ora di pranzo, per tutto quel tempo quasi s'impiccioliva in tutto il corpo, tanto doveva essere il tormento, che gli cagionava quest'istrumento di penitenza. Difatti un padre della Congregazione avendo avuto tra le mani questo giaco senza saputa di lui, volle indossarlo per provare qual tormento producesse, ed attesto, che era tale lo spasimo, che gli sembrava stare nell'inferno. Era questo composto di cordoncini di crini con punte di ferro ritorte.

Fu veduto un altro giaco, di cui faceva uso per martirizzarsi, ed era composto di canavaccio tutto foderato di punte di ferro acuminate, e tali erano eziandio i cosciali ed i braccialetti. Or benché fosse il santo molto accorto nel nascondere questi ordegni di penitenza, che soleva tenere in un cassettino sotto del suo letto, e quantunque avesse proibito a chicchessia di rifargli il letto, o di spazzargli la stanza, nondimeno la curiosità e la vigilanza degl'individui di sua Congregazione giungeva ben sovente a scorgere, quali fossero gl'istrumenti di penitenza, con cui si martoriava.

Oltre di che permise talvolta il Signore, che per dimenticanza di lui o per altro incidente venissero a scoprirsi queste sue austerità. Andato a far la visita in Durazzano paese della sua diocesi, ed avendo dimenticata la sua disciplina a sangue, si confidò col fratello Francesco Antonio, che lo serviva, e così lo rimandò in sant'Agata a prenderla nel luogo, ove la teneva nascosta: ed attestò il detto fratello, ch'era formata di stellette di ferro acuminate taglienti ed incastrate in vari cilindri di piombo.

Altra volta fu ritrovato un istrumento totalmente nuovo, di cui faceva uso per battersi, e stracciarsi le carni. Consisteva questo in un pezzo di canna lungo circa un palmo, ed attaccato ad una cordicella. In esso aveva introdotto delle spille per tanti piccoli buchi, ed aveva fatto colare nel vuoto della canna del piombo liquefatto, per mantenere ben ferme le spille medesime, che,


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uscivano al di fuori dei buchi, e per dargli peso nel battersi.

Trovandosi nella missione di Caposele, ed entrando un giorno nella chiesa si vedeva pendere da un lato nel camminare. D. Nicola Santorelli suo confidente e medico della nostra casa avendolo osservato ritrovò, che nella spalla sinistra aveva una piaga cagionatagli da quella croce di penitenza, che soleva portare, la quale per non essere stata da lui curata mandava della marcia fino a sporcare i lenzuoli del letto. In una vigilia della festività di Maria santissima si disciplinò talmente a sangue, che caduto in uno sfinimento di forze appena poteva trascinarsi. Ora entrando nella stanza della ricreazione dopo tavola, affine di ricoprire la sua mortificazione disse: Questa mattina non ne posso per niente, vado più zoppo del solito. Uno studente gli rispose: Padre, voi ne portate il segno alle scarpe. Attonito Alfonso va a rimirarsi, e vede che per dimenticanza teneva attaccato al tallone un pezzo di carta tutto intriso di sangue, con cui si era ripulito dopo la disciplina. A questa vista tutto arrossì, e mutò il suo discorso.

Così non ostante tutte le diligenze di Alfonso per occultare agli sguardi ed alla cognizione altrui le sue austerità, permise il Signore, che talvolta si discoprissero; finché pervenuto ad una età molto provetta, e reso inabile a far qualunque esterna mortificazione per la sua artritide, gli fu proibita dal direttore ogni penitenza.

Ed allora con un atto rarissimo di umiltà ordinò al fratello serviente di prendere la cassettina, ove teneva riposti tutti i suoi ordegni di penitenza, e di andarla a gettare nei luoghi immondi. Non si poté non eseguire il precetto di ubbidienza dato dal santo, il quale era superiore generale. Quindi niuno di questi stromenti è rimasto ai posteri per rendere testimonianza dello strazio, che faceva del suo corpo.

Ma ben lo hanno palesato i suoi direttori dopo essere passato agli eterni riposi, deponendo con giuramento tutti i generi di penitenza da lui usati; e ben ne è restata la memoria nella nostra Congregazione, tramandandosi dall'uno all'altro ciò che ciascuno aveva scorto coi propri occhi, o aveva inteso da persone


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degne di fede. E chi attestò di avere veduto le sue biancherie sempre intrise di vivissimo sangue, quantunque il santo le portasse con le sue mani nella stanza, ove soglionsi radunare i panni da mandarsi al bucato, affine di confonderle con quelle degli altri; chi asseriva di averlo inteso nel corso di ogni notte, ovvero la mattina appena alzato, percuotersi orribilmente con la disciplina; chi accertava di averlo veduto più volte prendere della calce per imbiancare il muro della sua cella intriso di sangue; chi testificava le flagellazioni nella grotta di Scala, ed in quella del beato Felice in Deliceto; e specialmente si rammemora, che dimorando in sant'Agata andava a disciplinarsi fino al sangue in un sotterraneo del palazzo vescovile, ove si ritrovarono le tracce abbondanti del sangue, che spargeva dal suo corpo, e furono tolte via dal suo successore.

La vita adunque di Alfonso fu un continuo martirio, sia per le privazioni, con cui ripugnava sempre ad ogni minimo desiderio anche il più lecito, sia per i tormenti, che diede sempre al suo corpo con le penitenze incessanti e dolorose.

Le sole sue fatiche sostenute per tanti anni sarebbero state sufficienti a renderlo esemplare della più eroica mortificazione, giacché confessò un giorno egli stesso ad un nostro congregato: Io fo queste fatiche per affliggere questo corpo.

Ma non pago delle sole fatiche, né delle penitenze imposte dalla regola, e né anche di quelle altre straordinarie da noi riferite, avido sempre di cruciare sé medesimo adoperava tutti i mezzi per affliggere la sua carne. Il non accostarsi mai al fuoco in tempo d'inverno anche rigidissimo; il non refrigerarsi neppure il volto con acqua fresca nei massimi calori dell'estate; il camminar sempre con la testa scoperta sia al freddo, sia alle piogge, sia al sole, dicendo di esser caldo di testa; il mettersi nelle scarpe delle piccole pietre per soffrire ad ogni passo uno spasimo indicibile, e molte altre industrie per affliggere sempre ed in ogni modo stesso, tutto ciò dimostra il suo grandissimo studio per esercitare la virtù della mortificazione, e lo


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caratterizza quasi eroe di straordinaria penitenza ed austerità.

E non pertanto Alfonso pervenne al decimottavo lustro di sua età. Quindi l'esempio di lui mentre confonde la delicatezza dei seguaci del mondo, i quali temono di nuocere alla propria sanità coll'osservanza della mortificazione imposta dal vangelo, e ne sono perciò tanto ritrosi, e cercano con mille pretesti di esentarsene, chiude eziandio la bocca agli empi novatori, i quali hanno osato di tacciare le austerità praticate dai santi di fanatismo, e superstizione.

Essendosi opposto alla santità di Alfonso dal promotor della fede nelle sue osservazioni, che questo servo di Dio sembrava aver peccato per l'eccesso delle sue austerità ora facendosi la sua orrida disciplina a sangue fino ad offendersi gravemente un nervo del femore, ora percuotendosifortemente, che si rendeva inabile a camminare, per lo che si rese anche zoppo per tutto il rimanente della sua vita, nella s. Congregazione si discusse tale obiezione con la sentenza dell'immortale Benedetto XIV, il quale sulla dottrina di tutti i sacri teologi stabilisce di potersi lecitamente e con merito abbracciare un genere di vita anche asprissimo, e che per ispeciale provvidenza del Signore i penitenti più rigidi ed austeri sono vissuti più lungamente degli altri uomini, siccome è avvenuto in Alfonso Maria de Liguori, il quale oltrepassò i novanta anni di sua vita.

 

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Posizione Originale Nota - Libro V, Cap. 29, pagg. 280, 281




a Summ. num. 29



b Alphonsus poenitentiae studio ipsum, s. Petrum de Alcantara antecelluit, Summ. n. 29



c De fide ad Petr.






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