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P. Celestino Berruti Lo spirito di S. A.M. de' Liguori IntraText CT - Lettura del testo |
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Cap.5 SUA POVERTA' STRAORDINARIA E PERFETTA
Vivere in questo mondo, ove tanta è la cupidigia dei beni temporali, senza collocare in essi la propria felicità, anzi dispregiandoli costantemente, fu sempre riputato un atto di eroismo dai savi estimatori delle cose. Ma qualora un tal dispregio non abbia altro principio, se non che il convincimento della loro caducità, e dell'agitazione che cagiona allo spirito il loro attacco e sollecitudine, non oltrepasserà giammai i limiti di una virtù filosofica, niente conducente al conseguimento della vera felicità, riposta nel possedimento pacifico dei beni celesti ed immarcescibili. Era d'uopo perciò, che l'incarnata Sapienza elevasse col suo insegnamento ed esempio ad un essere tutto divino questo distacco, e questo rifiuto dei beni transitori e fugaci, mentre questo distacco oltre di rendere lo spirito più spedito verso Dio, rende l'uomo capace di aiutare il suo prossimo costantemente e con abbondanza, sia col profondere le proprie dovizie a sollievo de' miseri, sia perché sciolto da ogni legame si può attendere alla coltura spirituale delle anime. E tale si fu l'ammaestramento dato dal Redentore ai suoi discepoli: Si quis ex vobis non renuntiat omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus: e tale fu eziandio l'esempio, con cui li confortò alla pratica di questa sublime virtù, facendosi modello della più austera povertà: Egenus factus est, cum esset dives. A queste massime pure e celesti, a questo divino esempio il mondo si scosse, ed apprese ad ammirare nei seguaci perfetti del nazareno Signore, non più degli uomini semplicemente disingannati dall'esperienza, ovvero dediti all'acquisto di una sapienza vana, come i Diogeni ed i Socrati; ma riconobbe in essi altrettante copie di quel divino originale, il quale venne sulla terra ad insegnare la vera e solida sapienza produttrice di tesori sostanziali e non perituri. Alfonso pertanto, il quale rinunzia una pingue primogenitura per vestire le divise clericali e farsi seguace prediletto del divin Salvatore; Alfonso, il quale preferisce agli onori del secolo le umili divise di Gesù Cristo, allo splendore della nobiltà gli obbrobri della croce, ai guadagni del foro ed avanzamenti negl'impieghi mondani il vivere povero e nascosto con Gesù Cristo, merita al pari d'innumerevoli altri eroi della religione un posto distinto fra lo stuolo degli eletti discepoli del divin Redentore. La voce celeste risuonò potente ed efficace nell'interno di lui; e da quell'istante mettendo in non cale tutt'i beni di sua nobile e doviziosa famiglia, e tutte le mondane speranze, senza frapporre indugio si diede a seguire il suo divino Maestro povero e crocifisso. Non le amare e replicate rampogne di un genitore verso lui affettuosissimo, non le lagrime copiose della tenera e pia sua genitrice, non il vedersi escluso dalle case dei parenti e degli amici, non le derisioni e le dicerie dei vani amatori di questo secolo poterono rattenerlo dalla presa risoluzione: ma fisso nel suo proposito, immobile, e costante quale una quercia annosa al soffio dei furibondi aquiloni, partesi dalla terra natia, qual altro Abramo, e sopra un vile asinello si reca nella città di Scala, per gittare le fondamenta del novello Istituto, il quale a suo esempio professar deve una povertà volontaria e sincera, imitatrice della povertà del Redentore. Ne scrive la regola; la propone ai suoi primi compagni; ne ottiene la sanzione dal romano Pontefice; e dopo aver implorato il superno consiglio dello Spirito paracleto, dopo avere esortati i suoi colleghi con fervido parlare ad uno spogliamento totale in quanto all'uso de' propri beni, dandone egli il luminoso esempio, si assoggettano tutti per imitazione di lui a vivere poveramente ed in comune, facendosi emulatori dei primi apostoli, i quali nel cenacolo di Gerusalemme gettarono le fondamenta della Chiesa. Or quanto sia stato Alfonso perfetto osservatore di questo suo voto, e quale sia stato lo spirito della sua evangelica povertà, rilevasi chiaramente da tutto il complesso della sua vita. Tuttavolta vieppiù risplenderà in lui l'eroismo di una virtù tanto diletta al Salvatore del mondo, indagando la somma povertà di lui nel vestire, nel vitto quotidiano, nell'uso che faceva del vitalizio assegnatogli dalla sua famiglia, e con qual perfezione finalmente esigesse dal suo Istituto l'osservanza di questo voto. Il suo vestire era così logoro e vile, quale si converrebbe ad un mendico piuttosto che ad un sacerdote. Imperciocchè andava sempre rattoppato, né mai dismettevasi di qualche veste, se non che o allorquando si lacerava interamente, oppure venivagli imposto dalla ubbidienza, perché il sarto non poteva più risarcirla. Oltre che gli abiti, che indossava da missionario, compravansi già usati, e quasi consunti a tenuissimo prezzo dallo spoglio, che faceva il sarto de' gesuiti nella sua comunità. Nè solamente in casa vestiva di tal modo, ma in Napoli, ed in tutte le città e paesi, ove sen giva con le missioni; non riputandosi disonorato col comparire così vestito innanzi ai cospicui personaggi, e prìncipi, e vescovi. Di modo che vedendolo tanto cencioso monsignor Caracciolo vescovo di Nola disse un giorno al p. Villani: Il vostro abito è alquanto sopportabile, ma quello del P. Alfonso è un mucchio di cenci. Fè comprare un mantello dai padri francescani posto in vendita per uso de' poveri, e dopo averlo fatto tingere, lo usò per molti anni, finché di soppiatto gli fu cambiato in Amalfi dalla divozione dei fedeli, dividendolo fra loro qual preziosa reliquia. Altra volta la sua zimarra era tanto lacera e rattoppata, che un devoto gliene fece una nuova per pigliarsi la vecchia: ma il santo non s'indusse ad usarla, e dopo averlo ringraziato la cedette ad altri. Dimorando il santo nella casa di Deliceto, ed avendolo osservato il P. Cafaro rettore con la veste così lacera, che ributtava al solo mirarla, gli propose più volte d'indossarne una nuova; ma egli non mai vi consentì, finché con inganno gliela fè togliere in tempo di notte, e sostituirne un'altra. Ma Alfonso avvedutosene la mattina ricusò di vestirsene, finché il suddetto P. rettore non gli dié precetto di obbedienza. Avvenne altra fiata, che il santo avendo consegnato la sua veste al fratello sartore, acciò la ripulisse, quegli nel vederla così lacera la diede ad un sarto estraneo. Ma questi finì di lacerarla, e ne portò un'altra già consunta bensì, ma in migliore stato. Allora Alfonso interrogò il fratello: E quella che vi ho data, dov'è? Ed avendogli risposto, che il sarto l'aveva sdrucita intieramente: Già vi ho inteso, ripigliò il santo, e tacque. Tale fu il suo vestire per tutti gli anni, che visse in Congregazione, dimodoché fu riputato non rade volte quale un accattone nell'anticamera dei grandi personaggi e dei vescovi, laddove riscuoteva per l'opposto grandissima stima presso i popoli, i quali si compungevano nel mirarlo così povero. E l'arcivescovo di Salerno nel fargli una visita, ammirando la somma povertà del suo vestire, attonito esclamò: Oh beato voi, D. Alfonso, che l'avete indovinata, ed io temo di perdermi ! Anzi a tal minutezza giunse quest'osservanza della povertà in lui riguardo al vestire, che avvedutosi un giorno, che il fratello gli aveva cucito un bottone di seta nel calzone, immantinente lo strappò colle sue mani, rimproverandolo: Questo bottone è di seta: e non sapete, che a noi è proibito? Grande povertà spirava altresì la sua cella, ed i mobili onde era fornita. In qualunque casa dell'Istituto ei dimorasse, sceglieva sempre per sé la stanza più angusta e disagiata. In questa poi, siccome egli ordinato aveva nella regola, benché fosse il superiore, non si vedeva che un misero letticciuolo con saccone di paglia senza materasso e con coperta di lana ordinaria, un tavolino semplice con pochi libri, un calamaio di osso, tre sedie, e poche immagini di carta attaccate al muro. Stando infermo una volta nella casa di Ciorani, aggravato da un fiero catarro, che gli cagionava un'asma penosa, ed avendo il medico ordinato un cortinaggio al suo letto per difenderlo dall'aria fredda, si fece inchiodare al di sopra del medesimo una vecchia coperta di lana, la quale serviva piuttosto a soffocarlo, che a recargli giovamento. Terminata la fabbrica della casa di Ciorani, Alfonso si elesse per sua stanza un luogo, che non sarebbe convenuto al più misero facchino, vale a dire sotto la scala di legno fatta provvisoriamente per salire agli appartamenti, lasciando tutte le stanze per uso dei suoi compagni e forestieri, che sarebbero venuti a fare gli esercizi. Or si figuri ognuno, quanto dovesse penare in tale sito. Oltre la strettezza e la mancanza dell'aria, soffrir dovea il rumore di tutti quelli, che salivano e scendevano; e nondimeno quivi abitò per lungo tempo, e quivi trovava il suo paradiso. Ma se povero fu Alfonso da missionario, ancor più povero volle esserlo da vescovo, come può vedersi nel capitolo della povertà scritto dal p. Tannoia, essendo solito dire, che la povertà è il vero carattere del vescovo. Essendo ritornato di poi a vivere nella casa di s. Michele in Pagani per la rinunzia del vescovado, voleva assolutamente dimorare nell'antica sua celletta, adducendo per motivo secondo il suo costume, che soffrendo continui catarri aveva bisogno di star caldo; ma avendogli il superiore rappresentato, che avrebbe ciò recato disonore alla comunità per riguardo delle persone, le quali sarebbero venute a visitarlo: Oh io son povero, disse, e come povero mi debbo accomodare, e si sa da ognuno, che io ho fatto voto di povertà. Nondimeno cedendo all'impero dell'ubbidienza s'indusse ad abitare in una stanza più grande, la quale era seguita da un'altra, in cui si eresse un altare per uso di oratorio. Quali fossero i mobili e gli ornamenti di queste due stanze lo sanno tutti coloro, che per soddisfare alla propria divozione le hanno visitate, poichè si conservano intatti i mobili suddetti, e tutte le cose di suo uso, vale a dire il medesimo letto col suo materasso, le medesime sedie, le stesse immagini in carta ed altri quadri e fino la sedia a bracciuoli, che essendo prima vestita di damasco, la fece per amor della povertà ricoprire di pelle. Che se Alfonso fu così amante della povertà e da missionario e da vescovo riguardo al suo vestire, e a tutte le cose di sua pertinenza ed uso, non meno perfettamente volle osservare questa virtù in quanto al vitto sia per sé, sia per la Congregazione da lui fondata, sia per il trattamento, che faceva ai suoi ospiti essendo vescovo. Avendo ordinato, che nel suo Istituto non si oltrepassino i due piatti in tavola, non solo osservò ei medesimo questa regolare determinazione (sebbene la sua vita fu una perpetua astinenza), ma vigilò attentamente, che giammai violato si fosse questo statuto tanto in casa, quanto nelle missioni e spirituali esercizi. Anzi questo medesimo vitto già tanto parco volle che sempre dato si fosse con parsimonia; al che aggiungendosi la somma penuria delle case in quei primordi della Congregazione, ognuno si avvede, quanto poveramente si vivesse dai congregati sotto il regime di questo santo fondatore. In Deliceto diede ordine, che si numerassero tredici grani di caffè per ogni tazza, e così lo beveva egli stesso. Alla mensa rade volte poteva darsi un po' di carne ai soggetti oltre la minestra; le frutta erano sovente immature e di cattiva qualità; ed Alfonso in mezzo ai suoi congregati, i quali imitando l'esempio di lui godevano di assomigliarsi a Gesù Cristo povero, e privo di ogni bene ed agio terreno, sentivasi riempire il cuore di una gioia inesprimibile, dimodochè un giorno per dinotare il suo contento così si espresse: Tutte le case della Congregazione sono povere, tutt'i rettori sono poveri, tutt'i padri miei sono poveri, tutt'i fratelli sono poveri; dunque io sono il capo pezzente: e così rallegravasi di esser povero simile a Gesù Cristo. Un giorno ricevé contemporaneamente due lettere da due rettori, i quali gli esponevano le miserie delIe loro comunità. Dopo averle lette, si volse ad un padre ivi presente, e sorridendo disse: Sapete che vuol dire rettore maggiore? Vuol dire capo dei pezzenti. Dopo, essendo vescovo, se gli fu d'uopo temperare questo rigore in riguardo alla sua famiglia, fu però tenace nel suo proposito in quanto a sé medesimo: e considerando, che le rendite della mensa vescovile sono patrimonio de' poveri e della chiesa, comandò, che per i suoi commensali s'imbandissero soli tre piatti, e questi eziandio ordinari e di poco prezzo. Venuto da Girgenti il cantore di quella cattedrale a visitarlo, disse Alfonso al suo economo : Pel trattamento di questo mi raccomando a voi; ma vi ricordo, che le rendite della chiesa sono patrimonio dei poveri: vorrei, che si complimentasse il cantore, ma non si pregiudicassero i poveri. D. Ercole suo fratello ogni qual volta andava a ritrovarlo, veniva accolto e trattato in tavola senza alcuna distinzione dagli altri commensali. Così del pari ordinava la tavola ricevendo presso di sè altri vescovi, o personaggi distinti; e solo permetteva, che si fosse preparato un altro piatto, allorché doveva tenere alla sua tavola gli esaminatori sinodali in tempo dei concorsi. Per tal modo il nostro santo, gelosissimo del voto della povertà, amministrava con somma parsimonia le rendite della mensa episcopale. Abbiamo detto di sopra che ad Alfonso nel rinunziare la sua primogenitura fu riservato dalla sua famiglia un annuo vitalizio; ed oltre a ciò appartenendo egli al sedile di Porta Nuova, ogni qual volta ascrivevasi un nuovo cavaliere a quel sedile, gli spettava una tangente per suo diritto. Or tutto quanto gli potesse appartenere, rilasciavalo a beneficio della sua Congregazione, rimettendolo in mano al rettore, affinché ne avesse disposto per gli occorrenti bisogni, e per le limosine. Inoltre poiché Alfonso scrisse tante opere, che date alle stampe avrebbero potuto rendergli un lucro quanto onesto, altrettanto grande per la loro moltiplicità, e per la loro ricerca, e reiterate edizioni, che se ne fecero durante sua vita, tutto questo guadagno egli rilasciò sempre a beneficio dei tipografi, ai quali nulla mai chiese per suo compenso, o per altro titolo, contentandosi di alcune poche copie, che i medesimi gli mandavano in dono, e che egli poi distribuiva sia alle case della nostra Congregazione, sia ad altre persone con il permesso del superiore. Ed era così geloso nel chiedere al superiore locale il permesso per qualunque cosa bisognar gli potesse, o di cui volesse disporre, che essendo andata a visitarlo negli ultimi anni di sua vita la nipote di lui D.a Teresa pria di vestir l'abito religioso nel monastero di s. Marcellino, ed avendo mostrato desiderio di avere per sua memoria un quadro della Vergine santissima del buon Consiglio, che vide appeso al muro nella stanza di lui, fu d'uopo che il p. Villani, vicario generale della Congregazione, glielo donasse egli stesso, perché Alfonso protestossi, che avendo fatto voto di povertà non poteva disporre di cosa alcuna. Ma se il nostro santo fu così rigido osservatore della povertà riguardo a sé medesimo, pel voto che ne avea fatto nel fondare la sua Congregazione, non può abbastanza esprimersi, con quale zelo e sollecitudine ne richiedesse la osservanza dal suo Istituto e come fondatore, e come perpetuo superiore generale. Siccome stimava la povertà quale gioia del proprio cuore; così non finiva mai di esaltarne i pregi, e d'inculcarla ai suoi congregati. Questo è quello, soleva dire nei suoi discorsi, che ci mantiene: un poco di povertà, ed un poco di ubbidienza. Quindi non solo dirigevasi frequentemente con lettere ai rettori per chieder conto del modo, con cui osservavasi la povertà e la vita comune: ma inviava sovente i visitatori, qualora non poteva ei medesimo andarvi, acciò avessero scrutinato, se intatta serbavasi la povertà da lui voluta; e nel loro ritorno informavasi esattamente sopra ogni articolo registrato nella regola, e sopra la condotta particolare di ogni soggetto. Che se taluno si discostava alquanto dal prescritto della regola, dopo averlo seriamente ammonito, lo licenziava dalla Congregazione, qualora congedato non si fosse da sè medesimo; e se in generale penetrava il minimo rilasciamento intorno all'esercizio di questa virtù, con lettere encicliche veementi e nel tempo stesso patetiche non tralasciava di correggere i difetti, ed infervorar tutti all'osservanza della povertà evangelica professata. Era poi accorto a sbandire le piccole novità, che a lungo andare conducono alle riforme e al rilassamento. Tutto in somma doveva spirare semplicità e povertà, per appagare il desiderio del nostro santo, il quale, come abbiam detto, riputava la povertà quale una perla preziosa ed inestimabile. Sebbene oltre il vitto, ed il vestire, volle Alfonso, che questa povertà risplendesse generalmente in tutte le case appartenenti al suo Istituto: eccettuate sole le chiese e gli arredi sacri, in tutto osservar si dovea la semplicità e povertà, nei mobili, nelle stanze, e nelle fabbriche. Le stanze furono da lui fabbricate assai anguste; e benchè in progresso di tempo scrivesse al p. Landi rettore di Scifelli, che nell'edificar la nuova casa fosse attento a far le stanze comode, soggiungendogli di non prender esempio da lui, che nel principio della Congregazione dové farle troppo anguste sì per la mancanza di mezzi, sì per poter ricevere maggior numero di esercizianti; nondimeno dispose, che in esse niun ornamento vi si facesse di stucco, ma che fossero solamente dipinte in bianco con la calce. I mobili della stanza esser dovevano quei medesimi di cui egli sempre servissi, cioè un letto con pagliericcio, un tavolino semplice, tre sedie, e quattro immagini in carta. Il fabbricato di ogni casa doveva poi corrispondere anche a questa medesima semplicità, sia nei corridoi, sia nelle scale, sia nell'esteriore apparenza. Trovandosi in Deliceto, gli fu riferito, che il p. Sportelli rettore in Pagani aveva fatto lavorare le bussole nelle stanze. Sentissi Alfonso grandemente amareggiato per tale nuova, e risolse di farle toglier via per impedire qualunque rilassamento nella povertà dell'Istituto. Ma essendosi recato colà, si avvide, che altro non erasi aggiunto, che una semplice fascia di legno all'intorno per maggiore consistenza della porta medesima, e così calmossi il suo spirito. Tuttavolta ordinò, che le altre si fossero costruite di semplici tavole tra loro connesse. Voleva in somma, che la povertà del suo Istituto fosse palese, e risplendesse in tutte le cose. Benché pregato istantemente, non volle permettere per molti anni, che le finestre fossero tinte con olio di lino di alcun colore verde o giallo, per custodirle dall'ingiurie dell'aria e dell'acqua, stimando ciò una vanità; e solo vi condiscese negli ultimi suoi anni, quando ne vide la necessità, e molto più perché così stimarono i consultori di lui. Inoltre avendo il p. Corsano fatto lavorare una cornice di legno dorata attorno la soffitta della cappella domestica, nel mirarla Alfonso esclamò: Bravo, siamo fatti signori. Eccoci fatti anche noi cavalieri. Ma essendosi persuaso, che un oratorio destinato al culto di Dio poteva ammettere qualche maggior ornamento delle altre stanze, prudentemente si sottomise all'altrui parere. Terminata la missione in Melfi si recò a vedere la casa di Caposele, che tuttora si edificava; ma vedendo le imposte delle finestre alquanto ornate, ed il portone contornato di pietra intagliata, dopo essere stato alquanto in silenzio proruppe in queste parole: Che polizie sono queste? Noi siamo poveri, e vogliamo le cose povere. E sebbene gli si rappresentò, che tali le aveva designate l'architetto Cimafonte da lui destinato, nondimeno pel dispiacere si chiuse nella sua stanza: ma il p. Cafaro avendogli allora presentato il disegno dell'architetto con la lettera del medesimo, in cui dichiarava non averle potuto designare più semplici, si calmò, e non ne fe' più parola. Così avendo sentito, che il rettore in Ciorani per rendere più larghe le stanze avea principiato a restringerne il numero, immantinente gli scrisse, che avesse desistito dall'intrapresa. Tanto è vero, che questa virtù era professata da Alfonso non solo personalmente, ma su di essa come base del vivere religioso pretendeva, che fosse stabilita la sua Congregazione. E benché i soggetti in virtù del voto semplice di povertà non vengano a spogliarsi del dominio delle robe, che possedono, o loro possono appartenere nelle proprie famiglie, sia per eredità ricevuta dai parenti, sia per il dritto alla legittima spettante ad essi nella eredità dei genitori, sia pel patrimonio sacro, che debbono costituirsi quali preti secolari; nondimeno dispose il santo fondatore, che niente possano percepire dei detti beni per il proprio uso; ma che debbano nell'Istituto vivere in comune delle rendite, che possiede ogni casa, e contentarsi di ogni privazione nello spirito dell'evangelica povertà, amando questa virtù come la più diletta al cuore del Figliuolo di Dio. Ed è incredibile, quanto gelosamente la custodisse, e con quali espressioni la inculcasse nelle sue lettere e nelle sue esortazioni, facendosi vedere di lei grandemente innamorato, ed impegnandosi ad incastrarla quale gemma nel cuore di tutt'i suoi congregati. « Il Signore, disse in una conferenza ai suoi congregati, ci vuole santi, e santi umili, abietti, e disprezzati, come Gesù Cristo; ci vuole ancora poveri: e se noi avessimo delle ricchezze, ci allargheremmo, ed andrebbe a terra l'osservanza. Stringiamoci con Gesù Cristo, ed il Signore sarà fedele, e non ci farà mancare cosa alcuna.» Altra volta accendendosi di sommo zelo per l'osservanza della povertà così si espresse: «Stiamo attenti a non aprire la porta contro la povertà, perché sortirà a noi, come è sortito ad alcune religioni, che prima erano tanto osservanti, e poi sono decadute; così sortirà alla Congregazione, se non si è esatto nell'osservanza della povertà, ed a questo devono stare molto attenti i superiori.» Indi seguitando ad incalzare il suo argomento, e venendo alla pratica di questa virtù soggiunse: «Ognuno di noi si vanta di essere seguace di Gesù Cristo nostro redentore e maestro, nulladimeno non ne vuole esercitare i suoi santi insegnamenti, e porre in pratica ciò ch'egli per nostro bene ed esempio ha praticato. Com'è possibile, che osservi la virtù della povertà, e che sia povero di spirito, come lo fu Gesù Cristo, chi si fa uscire dalla bocca tanti lamenti, qualora le cose che gli dà la comunità circa il vitto e vestito, non sono secondo il proprio genio? Gesù Cristo padrone del cielo e della terra non aveva dove poggiare il suo capo: Filius hominis nom habet ubi caput reclinet.» Ed in altra esortazione raccomandando vieppiù lo spirito della povertà ai suoi congregati: la povertà, disse, non consiste solo nel contentarsi di ciò che ci dà la comunità, ma ancora nel ben conservare le cose della comunità, ed è di fatto contro la povertà lo strapazzarle. Così questo amore della povertà, questa eroica osservanza del voto, che ne aveva fatto, lo fe' paragonare nei processi della sua canonizzazione a s. Paolino vescovo di Nola, di cui scrive s. Agostino, ch'essendosi reso poverissimo per volontà, da ricchissimo qual egli era, fu perciò santo copiosissimamente: Ex opulento divite voluntate pauperrimus, et copiosissime sanctus: anzi fu assomigliato al patriarca di Assisi, di cui lasciò scritto s. Bonaventura: Nemo tam auri, quam ipse cupidus paupertatis, nec thesauri custodiendi sollicitior ullus, quam iste huius evangelicae margaritae.
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