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P. Celestino Berruti
Lo spirito di S. A.M. de' Liguori

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  • Cap.28 ANNEGAZIONE PERFETTA DI SE' MEDESIMO
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Cap.28

ANNEGAZIONE PERFETTA DI SE' MEDESIMO

 

L'annegazione di sé medesimo altro non è, secondo l'insegnamento dei maestri di spirito, che la virtù della mortificazione, la quale consiste nell'ordinare e moderare le passioni dell'animo, le cattive inclinazioni, e l'amor proprio disordinato. Così spiega s. Girolamo quelle parole di Gesù Cristo nostro Redentore: Qui vult venire post me, abneget semetipsum, tollat cruce suam, et sequatur me  a.

Colui, dice il santo dottore, veramente nega sé stesso, e porta la sua croce, il quale prima non era onesto, e poi diventa onesto e casto: prima non era temperato, e diventa molto astinente; prima era timido e debole e diventa forte e costante.

La mortificazione adunque spiana la strada a seguire Cristo, poiché se non si nega la propria volontà, e non si mortificano le male inclinazioni ed appetiti si troveranno molti impedimenti a seguirlo. Dal che consegue, che la mortificazione, giusta la sentenza del grande s. Basilio, non è solo fondamento alla perfezione, ma a tutta la vita cristiana, essendo questa la croce, che deve portar sulle sue spalle chi vuol seguitare le orme del divin Redentore: Semper mortificationem Jesu in corpore nostro circumferentes  b .

Ora poiché chiunque professa lo stato ecclesiastico e religioso, si propone, e promette di rinunziare al mondo ed a tutti i diletti sensibili in un modo perfetto, dedicandosi al divino servizio


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ed amore esclusivamente; perciò agli ecclesiastici e religiosi viene imposto in modo particolare l'esercizio di questa annegazione, senza di cui non potranno giammai avanzarsi nella perfezione, e dopo avere intrapresa la sequela di Cristo si renderebbero senza la medesima refrattari dei suoi insegnamenti e consigli.

Il nostro santo qual professore esimio di ogni virtù interessandosi grandemente del profitto spirituale dei suoi congregati, non tralasciava occasione alcuna per ammaestrarli di questa importantissima verità. « Dio ci vuole santi, e per farci santi dobbiamo farci forza, dobbiamo mortificarci, mentre così han praticato tutti i santi: dobbiamo mortificare la propria volontà ».

 « Ognuno della Congregazione, - disse altra volta in una esortazione - deve essere indifferente circa lo stare in una casa o in un'altra. Noi siamo pellegrini, noi abbiamo lasciato tutto nel mondo, e poi ci vorremo attaccare in Congregazione a qualche cosa? Il martire, che sta carcerato per la fede di Gesù Cristo, forse dopo di aver dispregiato per amor di Gesù Cristo tutti i beni della terra, si attaccherà al carcere? Se ciò accadesse, sarebbe una follia. Noi siamo venuti alla Congregazione, per martirizzare noi stessi, per domare le nostre passioni: dunque non ci dobbiamo attaccare al carcere, dobbiamo essere indifferenti a tutto: in tal modo si godrà la pace dello spirito; e se manca la consolazione esterna, si proverà l'interna consolazione nel cuore ».

E facendo altra esortazione sulla medesima virtù: " Spiego ancor meglio la necessità di negar sé medesimo per essere vero seguace del Redentore. L'annegazione consiste nel mortificare e rompere la propria volontà. Chi non ha posto piede in questa virtù, non ha posto piede nella sequela di Gesù Cristo. Attendiamo a spezzare quelle volontà e desideri, che nascono dal cuore. Quanto più uno si avanza nel rompere la propria volontà, tanto più si avanza nella sequela di Gesù Cristo ".

Quale maestro eccellente di spirito non finiva mai d'inculcare l'esercizio di questa virtù, la quale costituisce il vero carattere dei religiosi. «Non siamo venuti


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alla Congregazione, egli diceva, per fare i maestri e dottori, ma per farci santi: ora per farsi santo questa è la via, mettersi il proprio giudizio sotto i piedi: se i superiori ci dessero una bastonata in capo, noi la dovremmo abbracciare, e stringerci con essa, e baciarla, perché questa ci farà santi». - Venendo al particolare dell'esercizio di questa virtù, soggiungeva: «E' una gran cosa lo spezzare la propria volontà e la propria inclinazione anche nelle cose piccole: per esempio mi viene volontà di dire quella parola, di guardare un oggetto, o altro: mi trattengo, mi mortifico: oh quanto gusto si dà a Dio! Tanto ci avanzeremo nella perfezione, quanto ci faremo forza» .

E poiché il tempo dell'infermità è quello, in cui maggiormente spiccar deve la virtù di un'anima amante di Dio, anche ammaestrava Alfonso i suoi congregati sulla condotta da tenere, quando erano infermi. «Il tempo delle infermità - diceva - è tempo di fare gran guadagno. Virtus in infirmitate perficitur. Se uno si fa la disciplina a sangue, se fa una gran predica, se si affatica con sommo zelo nelle sante missioni, vi può trovare qualche pascolo e soddisfazione l'amor proprio, la propria stima, il desiderio di comparire, il vedersi da tutti acclamato e tenuto per servo di Dio: ma receperunt mercedem suam. Io dico, che se un operario non sta sempre sulla sua, non è vigilante sopra le sue azioni, sopra i suoi desideri, sopra i movimenti del suo cuore, difficilmente riporta dalle sue fatiche il merito condegno. Ma quando uno si trova infermo, abbandonato dalle forze, e con lo spirito indebolito, se allora sopporta con pazienza l'infermità, l'amor proprio non vi trova alcuna soddisfazione» .

In un'altra esortazione ribattendo il medesimo argomento, giacché eragli tanto a cuore l'annegazione nei suoi congregati: «Un solo male, -disse- sta nel mondo, ch'è il peccato. L'infermità non è male, i disprezzi, la povertà, le calunnie nemmeno: tutte queste cose sono beni, quando si pigliano per Dio. Nell'anima nostra possono vivere due amori: l'amor di Dio e l'amor di noi stessi. Se però in noi vive

l'uno, bisogna che non vi sia l'altro. Vediamo


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quale amore viva in noi: pare che non viva altro che l'amor proprio, se ci lamentiamo delle cose contrarie che ci accadono, se l'ubbidienza è andata in disuso e si sfugge per ogni piccolo pretesto, se si cercano sollievi e ricreazioni. Io mi confondo nel leggere quelle poche parole della regola: niente abbiano di propria volontà, mi confondo, perché vedo che non l'osservo» .

In conformità di questi suoi documenti era altresì la condotta, che teneva verso di ognuno per l'esercizio della perfetta annegazione.

Aveva destinato per superiore di una missione un padre, il quale non era secondo il genio dei missionari; ma non so per qual ragione il medesimo non potette andarvi, e dovette assegnarne un altro. Nel ritorno dalla detta missione scherzandosi su questo incidente nella ricreazione dopo tavola, si parlava dell'allegrezza provata pel cambiamento avvenuto del superiore nella missione. Il santo mettendosi tosto in contegno: Io, disse, se mando anche una mazza, a questa deve ubbidirsi: non ci vuole che si faccia festa, quando s'incontri il proprio genio, nè ci vuole amarezza, quando non s'incontra la propria inclinazione. Restarono mutoli a questo avvertimento, e maggiormente appresero il dovere di annegare la propria volontà in tutte le cose.

Difatti se Alfonso compativa le mancanze nella pratica delle altre virtù, rapporto all'annegazione era con i suoi sommamente rigoroso; mentre questa virtù forma propriamente il carattere delle persone religiose, ed infonde lo spirito a tutte le altre le quali costituiscono l'essenza della vita religiosa.

Essendo diretta a frenare non solo la propria volontà, ma eziandio i disordinati appetiti, ne viene, che senza l'annegazione di sé stesso non può sussistere né povertà evangelica, né ubbidienza, né distacco, né umiltà. Bisogna adunque appellarla il cemento, che congiunge fra loro le suddette virtù necessarie a guisa di pietre per costruire l'edifizio della religiosa perfezione. Non faccia dunque maraviglia, che il nostro santo esigesse l'annegazione riguardo all'adempimento degli ordini dei superiori e della regola, riguardo alla rinunzia


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della propria stima per l'esercizio dell'umiltà, riguardo finalmente alla separazione di affetto da ogni cosa mondana e specialmente dai propri parenti. E questo spropriamento della volontà l'ordinava eziandio a tutti quelli, i quali per divina permissione erano agitati dagli scrupoli; giacché era solito dire, esser d'uopo acquietarsi a ciò, che consiglia ed ordina il direttore spirituale; perché quantunque, soggiungeva, non vegga il direttore ciò che passa nel nostro interno, suole Iddio illuminarlo a conoscere quel che bisogna per il nostro profitto: ed inoltre si fa sempre opera perfetta coll'umiliare la propria volontà alla direzione di lui.

E siccome questo santo nell'esercizio del suo ministero ebbe occasione di guidare, sia colla voce, sia colle lettere, innumerevoli anime per la via della perfezione; così si osserva, che ad ognuna inculcava specialmente l'annegazione di sé stessa e della propria volontà.

Scrivendo ad una religiosa, la quale l'interrogava in nome eziandio di due compagne, qual cosa dovessero praticare per amare Iddio senza alcuna particolarità, il santo rispondeva in brevi termini: «Per amare Iddio con tutto il cuore bisogna far due cose, prima evacuarlo, e poi riempirlo: il cuore si evacua col distacco da tutte le soddisfazioni sensibili, dalle robe, dai parenti e dalla propria volontà """""» c

Parimente ad un'altra religiosa così scriveva: «Su via diamo il nostro cuore a chi tocca, cacciandone tutto quello che non è di Dio, e per darglielo intieramente procuriamo di uscirne ancora noi, acciocché Dio non trovi cosa, che gl'impedisca di pigliarne l'intiero possesso  d .

Scrivendo poi alla sua nipote, la quale si fece monaca in s. Marcellino, le diede questo importante avvertimento per tenore della sua vita spirituale: «E' d'uopo che tutti gli esercizi di divozione ed anche di mortificazione li facciate sempre colla benedizione del vostro padre spirituale, e che vi adattiate


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alla comunità in tutte le cose, senza attendere alcuna particolarità, eccetto il caso di qualche malattia » e .

Rispondendo poi ad altra religiosa, la quale era stata eletta superiora, così le dice: «Voi siete stata fatta priora non per vostra volontà, onde non voglio che abbiate mai a rinunziare a qualunque uffizio. Io so che l'essere superiore è un martirio continuo; ma bisogna rinunziare al proprio comodo ed alla propria inclinazione per adempire la volontà di Dio » f .

Questi documenti preziosissimi fanno da per sé stessi rilevare la perfetta annegazione in Alfonso. Ciò che insegnava agli altri, ciò ch'esigeva dai suoi congregati, non era se non quello ch'esercitava egli stesso; anzi in persona propria con maggior perfezione praticava ciò, che insegnava agli altri.

Avendo eletto per sua porzione la via regia della santa croce, dal momento, in cui dedicossi il nostro santo alla sequela di Gesù Cristo fino al termine di sua lunga carriera, non vi fu per lui soddisfazione alcuna né riguardo ai desideri del proprio cuore, né riguardo alle comodità della propria vita, né attacco alcuno a qualunque siasi bene di questo mondo.

Propostosi per esemplare il suo Dio crocifisso, volle ricopiarne in sé medesimo perfettamente tutte le virtù, ma in modo speciale l'annegazione, di sé stesso. Leggeva in questo libro divino la gran massima di rinunziare a tutte le cose, ed anche a sé medesimo per essere ascritto nel numero dei seguaci del Redentore: mirava in questo divino esemplare quel totale annientamento, per cui assoggettossi volenteroso agli obbrobri ed alle pene della croce per adempire il volere del suo divin Padre: proposito sibi gaudio, sustinuit crucem.

Quindi senza mai rallentarsi nel fervoroso esercizio della mortificazione andò sempre contro tutt'i suoi appetiti e la sua volontà. Mortificò i suoi sensi, negando ad essi non solo le cose illecite, ma eziandio ciò che sembra


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il più onesto e ragionevole: ai suoi occhi non concesse mai libertà di spaziarsi a rimirare per divagamento gli oggetti più indifferenti.

Trovandosi a far la missione nella città di Benevento era cosa naturale che, terminata questa, andasse a visitare ed osservare la nuova casa di sant'Angelo a Cupolo, e ne fu pregato ripetute volte da quel rettore; ma egli per mortificare la sua curiosità se ne astenne con edificazione comune. Lo stesso si dica di ogni altra circostanza, mentre Alfonso si fe' una legge di negare ai suoi sguardi qualunque minima curiosità. Frenò mai sempre la lingua esercitandosi nella pratica del silenzio, e non parlando giammai se non che per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime.

Abborrendo ogni discorso ozioso, costantemente conversava con tutti senza alcun riguardo umano intrecciando parole di edificazione. Raffrenò specialmente in sè medesimo i movimenti dell'ira, combattendo così efficacemente ogni perturbazione, che insorgesse nell'animo suo, che non solo li sedò, ma li soggiogò intieramente.

Dotato dalla natura di un temperamento igneo ed irritabile, esposto ad innumerevoli occasioni di perturbarsi ed adirarsi, poiché gli eventi erano continui nel grado da lui occupato di superiore e di vescovo, fu nondimeno così vigile sopra i movimenti del suo cuore, che non mai si fe' dominare né tampoco sorprendere dai subitanei ed inopinati assalti, con cui cercava d'insidiarlo il comune nemico delle anime. Non operava giammai per impulso di umor naturale o per capriccio; andava sempre contro l'amor proprio, la propria volontà, ed i rispetti umani. Morto al mondo ed a sé stesso, non curava se il mondo diceva di lui male o bene: mihi mundus crucifixus est, ripeteva sovente colle parole dell'Apostolo, et ego mundo.

Da ciò ne nasceva quella sua franchezza nell'annunziare il vangelo, e nel predicare le massime di Gesù Cristo senza temere le dicerie degli stolti mondani: da ciò nasceva altresì quel suo comparire al cospetto del mondo nell'atteggiamento più abietto, bramando ad imitazione del medesimo Apostolo di addivenire il peripsema di ognuno, e di essere


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reputato stolto per Gesù Cristo: Facti sumus omnium peripsema: nos stulti propter Christum: insomma ogni minimo attacco sembrava ad Alfonso una specie di sacrilegio, e ripugnava fortemente, e troncava immantinente ogni occasione, in cui gli sembrasse di dare soddisfazione al proprio cuore ed alla propria volontà.

Facendosi trasportare, allorché era decrepito, avanti la porta della nostra casa in Pagani affine di respirare un po' d'aria, avvenne, che un cane principiò a fargli molte carezze giusta l'istinto di questi animali. Alfonso ammirando in quella creatura di Dio, benché irragionevole, tanta fedeltà ed affezione gli faceva dar da mangiare, e lo accarezzava. Ma che? Entrato tosto nello scrupolo, che in tal guisa dava soddisfazione a sé medesimo, immantinente proibì al suo servitore, che più glielo facesse venir davanti.

Quindi se, giusta la gran massima ricavata dalla sentenza evangelica, il profitto e l'avanzamento nella santità deve argomentarsi dal maggiore o minor contrasto, che si frapponga alle passioni ed inclinazioni dell'animo, avendo Alfonso resistito mai sempre con singolare eroismo a tutti i movimenti del suo cuore, avendo sempre negato sé medesimo e la sua propria volontà: è ben chiaro, ch'egli si pose in quello stato di annientamento, che più rassomiglia i discepoli del Redentore al loro divino maestro ed esemplare.

Coglieva pertanto ogni occasione per andar contro sé stesso, e mortificarsi. Si è veduto anche in tempo della stagione più calda starsene nella sua piccola cella a studiare con la porta e finestra chiusa, in guisa che sentivasi soffocare dal calore; e se taluno rifletteva sopra questa sua mortificazione, aveva in pronto la scusa, che l'aria gli nuoceva.

Cercava in tutt'i modi ogni privazione a qualunque sollievo, ed il sabato privavasi eziandio di quel poco di ricreazione, che suole farsi in Congregazione dopo tavola. Non usò giammai il cuscino sulla sedia, dove stava inchiodato le ore continue per istudiare e scrivere: solo nella decrepitezza e per ubbidienza si servì di una sedia imbottita di crini.

Non si vide giammai senza la veste indosso, per quanto eccessivo


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ne fosse il calore, ed anche infermo se ne stava quasi seduto nel letto con la sua veste.

Insomma la vita di Alfonso fu sempre crocifissa sia nell'interno, sia nell'esterno: nell'interno coll'annegazione della propria volontà, dell'amor proprio, e di tutte le inclinazioni naturali; nell'esterno colla mortificazione assidua dei suoi sensi. Né mai rimise alcun che di questa sua annegazione, per quanto provetto egli fosse nella palestra del divino servizio. «E' falsa la massima, diceva, che chi è arrivato ad un sommo grado di perfezione, non abbia più bisogno di mortificazione. Io dico, che quanto più uno sarà perfetto, tanto più deve praticarla. Noi abbiamo dei grandi nemici, i quali non lasciano di bersagliarci fino alla morte: onde sino alla morte la mortificazione deve essere la nostra compagna inseparabile, e dobbiamo star sempre colla spada in mano. L'arte nostra continua deve essere di mortificarci sempre. Non bisogna darcene una per vinta a questo nostro nemico, perché altrimenti si fa subito gigante. La nostra Congregazione è una scuola di mortificazione».

 

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Posizione Originale Nota - Libro V, Cap. 28, pagg. 270, 274, 275,




a Luc 9, 23.



b 2. ad Cor. 4



c Lett. ined.



d Lett. ined.



e Lett. ined.



f Lett. ined.






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