Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
Lettura del testo

PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762)

27 - A CIORANI, LA CASA MADRE... (1736-1741)

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

- 394 -

27 - A CIORANI, LA CASA MADRE...

(1736-1741)

 

“...quella piccola piantolina in quel povero terreno rende frutti meravigliosi: par che ne sia la ragione che ivi l’ha piantata la destra dell’Eccelso Padre di Famiglia...”.

Così nel febbraio 1741 Mons. Falcoia, riferendosi all’Istituto del SS. Salvatore, scriveva al cardinale Spinelli, che volendone una casa a Napoli, si era rivolto al vescovo di Castellammare come al suo superiore, ricevendo questa risposta:

“Io poi non ho tutta l’efficacia, che m’ascrive, per trapiantarlo, e per sostenerlo; atteso sono un povero legnetto fracido, e cadente: e solo la grande umiltà di questi servi di Dio vuole appoggiarsi a me”.

In realtà la “direzione” del Falcoia non poteva essere che un regime provvisorio, ma il paradosso di Balzac: “Il provvisorio è eterno ” non vale solo per la Francia.

“Il maggiore inconveniente, scrive M. De Meulemeester, del regime provvisorio fu la sua lunga durata.

Quando nel 1732 Alfonso e i suoi compagni scelsero Falcoia come Direttore della loro nuova società, il prelato aveva settant’anni. Non si pensava allora che quel vegliardo minato da gravi malattie sarebbe diventato ottuagenario e non ci si preoccupò di fissare un termine per questo regime provvisorio. Pur costatando più tardi che le forze del prelato si indebolivano sempre più e che l’età e le infermità ne intralciavano l’attività, non ebbero mai, crediamo, il pensiero di sollecitarlo a lasciare la sua carica: la loro pietà filiale verso il "Padre", la loro delicatezza di gentiluomini, la loro riconoscenza per gli incontestabili servizi resi alla congregazione glielo impedivano. Ma lo stesso Falcoia avrebbe dovuto comprendere che il suo compito di "precursore", di cui del resto aveva coscienza, era terminato e che era venuta l’ora di rimettere in mano ad Alfonso quell’autorità alla quale il santo aveva rinunziato con una abnegazione tanto ammirevole. Però tra coloro che sono rivestiti di autorità, anche se uomini di Chiesa e uomini di Dio, è cosa ben rara il rendersi conto che arriva anche il tempo di abdi-

 

- 395 -


care. Falcoia, che sembra aver avuto in buona dose il gusto del comando, non pensò mai di ritirarsi e il provvisorio divenne definitivo.

Era una situazione anormale, un governo con poteri male definiti. In numerosi casi si poneva il problema delle competenze proprie del Padre e di quelle proprie dei padri da lui posti a capo delle comunità. Il volontario nascondimento di Alfonso, la sua felicità nello sfuggire a responsabilità, non ben viste dal suo animo apprensivo, spiegano e scusano l’atteggiamento di Falcoia, che però non fu per questo meno pregiudizievole. Non era neppure esente da un serio pericolo per il giovane Istituto: L’abitudine a ricorrere continuamente a lui per ogni questione di qualche importanza avrebbe potuto, insensibilmente, sminuire la stima, la docilità, L’attaccamento, di cui Alfonso doveva poter disporre in futuro per adempiere integralmente i suoi grandi compiti1 .

Con una personalità meno trascendente e meno umile di quella di Alfonso, ci sarebbe stata subito rottura e, forse, anche catastrofe. Occorre però distinguere bene i piani.

Alfonso eraapprensivo” solo per la sua coscienza e dal 1734, in pieno accordo con Falcoia, ne confidava i problemi al rettore del seminario di Caiazzo, Don Silvestro Sangiorgi, che per qualche tempo visse anche con lui prima a Villa poi a Ciorani 2 .

Riguardo alle missioni, aveva dieci anni di esperienza, uniti alla creatività della giovinezza, perciò non chiese mai consiglio al Direttore sui metodi apostolici: orientamenti per le prediche, durata delle missioni e altri problemi di strategia pastorale, sentendosi in questo esperto e sapendo bene dove voleva arrivare.

Si sentiva invece in materia di vita religiosa e comunitaria, “poco pratico e senza esperienza”, come egli stesso aveva scritto a Maria Celeste, essendo stato soltanto semplice pensionante al Collegio dei Cinesi, e per questo si rivolgeva al Pio Operaio con cento domande. Questa corrispondenza di iniziazione si esaurì nel corso di tre anni: delle 86 lettere che il Direttore in undici anni scrisse al “ suo caro figlio ”, 68 sono del periodo agosto 1732 - agosto 1735 e costituiscono quasi la base degli annali del nascente Istituto. Il vescovo infatti interveniva non solo su tutti i punti del regolamento interno, ma anche sulL’ammissione dei soggetti, sulle trattative delle fondazioni sull’accettazione dei lavori apostolici e perfino, sfortunatamente, sulla spiritualità della congregazione, attingendo a piene mani dall’esperienza accumulata durante i tre anni in cui era stato superiore generale dei Pii Operai 3. La frequenza della corrispondenza però diminuì rapidamente nelL’estate 1735: non più di due lettere dal 15 agosto all’inizio del nuovo anno; solo sette lungo tutto il 1736; non più di nove, di cui due brevi biglietti, dal 1737 al 1743; né in questo tempo i due uomini si incontrarono più spesso di prima.

 

- 396 -


Disaccordo? freddezza? No, perché le rare lettere degli ultimi sette anni hanno lo stesso tono affettuoso delle precedenti. Allora riposo della penna del prelato dovuto al peso degli anni? Il contrario, perché la corrispondenza 1732-1735, sottratta quella con Alfonso, appare tanto inferiore a quella avuta dopo il 1735 con gli altri, specialmente con i redentoristi Marocco, Mazzini e, soprattutto, Sportelli, il prediletto del suo cuore e del suo pensiero. Si serviva di questi per dirigere gli affari dell’Istituto? Sì e no. In realtà nella maggior parte di queste lettere lasciava da parte i problemi della congregazione e delle case, per fermarsi su quelli della sua salute, per i quali ebbe sempre una toccante attenzione; ma passava anche volentieri al di sopra della testa di Alfonso e dei responsabili locali, decidendo e comandando come superiore immediato di ciascuno, soprattutto durante l’estate 1739 e in qualche altro periodo, quando ebbe con sé Sportelli come segretario. Tuttavia i diversi canali, di cui allora si serviva, non spiegano l’inaridirsi brusco dal 1735 della sua corrispondenza con il Liguori, anzi ne ripropongono il problema.

In realtà tra queste due personalità, ambedue forti e tanto diverse la collaborazione non fu sempre facile e senza contrasti interiori. Alfonso incassò solo, ma non senza virtù, come testimonia questa risoluzione che figura al secondo posto in un elenco stabilito proprio alla morte del Padre: “Dir sempre bene delle cose di Mons. Falcoia, e non lagnarmene4 . Diventato ben presto anche lui esperto nella vita religiosa, dopo tre anni mise quasi la parola fine a una corrispondenza ormai più pesante che utile, pur mantenendo gratitudine, venerazione amicizia e anche accettazione di un’autorità episcopale della quale l’Istituto aveva ancora bisogno e per la quale non provava alcuna invidia per metterla in discussione. Egli del resto non aveva la passione del comando, ma quella delle anime, delle missioni, e si dava con cuore pieno di gioia a portare il Vangelo ai poveri, ai sacerdoti, mobilitando ausiliari per “missionare” con lui nelle campagne abbandonate: “ seguitare Gesù Cristo...”.

 

Chi aspettava tutto quel popolo, accorso dalle vallate e sceso dalle montagne, preti e nobili in testa, la sera di domenica 4 marzo 1736 sulla lunga spianata di Ciorani? Si direbbe Gerusalemme in attesa di Gesù il giorno delle palme...

E infatti arrivò un nobile corteo: a dorso d’asino, Liguori, Rossi e Rendina, con qualche povero bagaglio su una quarta bestia, accolti tra salve di moschetti e campane spiegate, dal grido, ripetuto più volte: “Il santo! ecco il santo!”. Un popolo che non si era sbagliato ritrovava, per tenerselo questa volta, il suo apostolo del gennaio 1734; Alfonso dentro di sé li pensò pazzi e si mise, spiritualmente, più in basso del suo somaro...

 

- 397 -


Dietro il parroco, Don Michele Amabile, i preti e i missionari, la folla si riversò nella vasta chiesa parrocchiale di S. Nicola, dal cui pulpito Liguori, predicando per più di un’ora, ringraziò e annunziò la grande missione che sarebbe iniziata l’indomani. Al termine il barone Sarnelli invitò i padri al castello, ma Alfonso andò nelle povere case a benedire e consolare coloro che non avevano potuto essere presenti, rientrando solamente a tarda notte per un po’ di nutrimento e di riposo nell’angusto alloggio provvisorio, preparato per i missionari in una dipendenza del castello. La casa redentorista di Ciorani cominciava la sua secolare vita.

Le sue radici affondavano nella santa amicizia che legava Alfonso e Gennaro Sarnelli fin dal tempo dei Tribunali, degli Incurabili, delle Cappelle serotine, dei Cinesi; poi nello zelo, dinamico e generoso, del fratello di Gennaro, il giovane sacerdote Andrea, che aveva messo sottosopra cielo e terra a Salerno, a Napoli e a Castellammare, per far stabilire in casa sua i nuovi missionari. In viaggio per Villa nel gennaio 1734, Alfonso e Gennaro Sarnelli erano venuti quasi a tracciarne il primo solco e lo stesso vecchio Direttore era montato a cavallo per prendere visione del luogo (21 marzo 1735) e poi per un incontro con l’arcivescovo di Salerno, Mons. Fabrizio di Capua (11 aprile)5 . Il 12 settembre 1735 la curia vescovile salernitana aveva autorizzato la casa la chiesa e per il suo servizio due missionari, il cui numero non avrebbe potuto essere aumentato senza autorizzazione scritta dell’arcivescovo... Si contavano già troppi conventi, troppe chiese, troppi preti e i vescovi migliori avvertivano il bisogno di mettervi un limite, ma questa restrizione aveva destato inquietudine in Alfonso, perché significava soffocare già sul nascere la comunità e la missione. C’era stato bisogno di tutto il peso di Falcoia per farlo andare avanti 6: si capisce così chiaramente perché il fondatore avesse bisogno di un vescovo di fronte ai vescovi nelle cui diocesi andava a stabilirsi.

Due contratti assicuravano ai missionari le necessarie risorse materiali: Don Andrea Sarnelli dava loro una rendita perpetua di duecento ducati annui sul patrimonio già di sua proprietà (un terreno alberato in località chiamata Vigna, con un vicino castagneto); suo padre, il vecchio barone Don Angelo, donava “un bel sito con fabbriche e giardino per farci casa e chiesa; ci ha dato calce, legnami ed anche denari per cominciare a fabbricare7.

All’inizio della quaresima 1736, d’accordo con Mons. Falcoia, Alfonso aveva perciò distribuito “il suo mondo ” in tre comunità a Scala restavano i padri P. Romano, G. Marocco e il fratello Vito Curzio; a Villa il padre G. Mazzini, C. Sportelli e il fratello Andrea insieme ai novizi; infine Alfonso stesso, Rossi e il fratello G. Rendina si portavano

 

- 398 -


a Ciorani. Erano gruppi scheletrici, che, per assicurare contemporaneamente l’animazione permanente sul luogo e le missioni nei dintorni, dovevano ricorrere nuovamente ad ausiliari.

 

Nessuno di questi gruppi comprendeva Gennaro Sarnelli: dove era finito? Di debole salute e di ardente zelo, non aveva resistito alle fatiche delle missioni e al clima di Scala, anche perché era tormentato dalL’ansia di condurre a termine la Sua grande impresa: risanare Napoli dalle circa 30-40.000 prostitute, cancro visibile della sua miseria economica e morale, e salvare tutte quelle ragazze e tutte quelle donne più di chiunque altro povere e abbandonatePortare la Buona Novella ai poveriera il suo ritornello, la sua vita 8: Alfonso da otto anni aveva un’anima sola con lui, Falcoia invece, disturbato da questo inclassificabile non-conformista come precedentemente da Ripa, il 3 aprile 1735 scriveva:

Figlio mio per D. Gennaro ho capito l’Indole, ed i sentimenti suoi: ma ora conviene tollerare molte cose, e fidare totalmente in Dio benedetto. Il suo fondo è assai buono; ma non è usato a regolarsi con gl’altrui sentimenti ed obbedienza di Giudizio; e conviene compatirlo ed a poco, a poco andarlo regolando”. Il 9 maggio: “Allo stesso D. Gennaro, temo, non dia volta il cervello; perché la confusione della sua specie è troppa”. Ma ben presto (29 giugno): “Don Gennaro si ritrova ruinato di salute”. Infine (15 agosto): “D. Gennaro sta di molta perduta salute. L’ho fatto stare alli Ciurani; perché ivi si ricuperasse, ma un accidente di un terremoto, ch’ivi s’intese, lo scompaginò molto più; poiché l’ha posto il sangue molto sossopra; e li sono venuti i palpiti di cuore, oltre quel danno gli fece, il buttarsi per una finestra. Per questi mali vuol pigliare il parere de’ Medici di Napoli... Conviene vedere, come la passa; per poi far disegni su della sua persona. Lui si port’assai bene con l’obbedienza ma non manca il suo ardore di salvar anime”.

I suoi progetti missionari andavano al di dei sentieri già battuti e questo non piaceva al Falcoia, che però cedette e Sarnelli poté riguadagnare Napoli, con il pieno accordo di Alfonso.

Insieme, agli Incurabili, i due avvocati avevano scoperto la rovina delle malattie veneree; insieme, nei quartieri bassi delle Cappelle, avevano incontrato il mondo della prostituzione e della stregoneria, delle ragazze traviate e dei bambini venduti Ora, un cuor solo con il “fratello”, Liguori mobilitava per lui gli appoggi del cielo e della terra, mettendo in allarme il 17 maggio 1736 le Carmelitane di Pocara: “Mi viene raccomandato da Napoli un affare che ivi si tratta di gran gloria di Dio per evitare molti peccati; vi prego raccomandare assai assai a Gesù e Maria9. Rimetteva anche in moto il 16 luglio suo padre,

 

- 399 -


Don Giuseppe: “Vi raccomando ancora l’affare di D. Gennaro Sarnelli circa la separazione delle meretrici; la cosa veramente è di gran gloria di Dio10 .

Falcoia finirà per lasciarsi convincere e due anni più tardi, con la circolare del 19 aprile 1738, esorterà tutti i membri dell’Istituto a “secondare il zelo e i sudori” del loro confratello.

Infatti nel 1736 il P. Sarnelli pubblicava un’opera, preparata già prima dell’ingresso in congregazione, sull’ampiezza, le forme, le cause, I danni e i rimedi della prostituzione. Le sue Ragioni... contro l’insolentito meretricio sono considerate ancora oggi come lo studio socioculturale più completo del secolo dei Lumi; ma fu anche il più efficace, perché i suoi suggerimenti, realistici e precisi, furono subito ripresi da un re di buona volontà, promulgati come legge e fatti applicare. Le incallite, costrette a lasciare la città a volte anche manu militari, furono confinate a est, fuori delle mura, nei quartieri Loreto e S. Antonio; per le altre furono aperti centri di accoglienza e di reinserimento in una vita di dignità umana e cristiana; i protettori dovettero scegliere tra cinque anni di galera o un altro mestiere. Sarnelli non cesserà di dare questuare, predicare, scrivere per il loro pane, la loro dignità, il loro onore e la loro salvezza, né per questo era perso per Ciorani, per le missioni, per l’Istituto, che “vorrei vederlo sollevato alle Stelle, scriveva all’amico, e dilatato per tutto il mondo, e promuoverlo a costo del mio sangue11 .

Nel momento in cui fondava a Ciorani, quindi, L’Istituto aveva quasi un quarto insediamento a Napoli, per il quale Alfonso impegnava il suo peso di fondatore, il suo cuore, la sua preghiera, i suoi amici, dal momento che era sempre in gioco la salvezza degli abbandonati.

Fraterno e misterioso scambio: nella quaresima 1736 Sarnelli partiva per combattere il peccato nella Napoli di Alfonso e questi andava a prendere in consegna la baronia di Gennaro e tutta la sua contrada.

 

Ancora senza chiesa e senza convento, Liguori e i suoi due compagni, pagando dieci ducati l’anno, alloggiarono poveramente in casa del barone Sarnelli: un sotterraneo per la cucina-refettorio, due camere e una sala subito adattata a oratorio. Non era certo vita di castello, in un padiglione pieno di rumori e di spifferi, ma il Cristo era con loro, nella sua Eucaristia e nella sua povertà: quale migliore paradiso per i giorni e le notti?

Il 5 marzo 1736 iniziava quindi la missione, alla quale si scese da Bracigliano e si salì da Siano e da S. Severino, riempiendo fino all’impossibile la grande chiesa parrocchiale, che poi divenne sede della missione permanente, come a Scala, come a Villa.

 

- 400 -


Un primo intoppo venne dal vecchio parroco, Don Michele Amabile, che non poteva essere sottratto ogni mattina al suo sonno di giusto dal baccano del suo popolo esuberante, raccolto per l’orazione con i padri. Gli esercizi della vita devota quotidiana allora da S. Nicola si spostarono in S. Sofia, la cappella attigua al castello, in attesa che i padri costruissero una loro chiesa.

“ Non passò gran tempo, scrive Tannoia, che... Ciorani non ravvisavasi più quello che era. Sembravano a tutti quei naturali un`avventurata porzione de’ primi fedeli. che tanto edificavano la Chiesa. Non si sentivano più risse e rancori: bandite si videro le parolacce ne’ giovanetti, e le canzoni profane nelle zitelle; e risuonar si sentivano nelle case, e per quelle colline le sacre canzoni di Alfonso. L’ordinario saluto, incontrandosi con un Cioranese, era: Sia lodato Gesù, e Maria: quest’istesso mettevasi in bocca dalle Madri ai loro figliuoli; e come i nostri incontrovansi con quelli, salutati si vedevano con questi sacratissimi Nomi. Non s’intese più in quella Terra un’imprecazione: depopolate si videro le taverne: non vi furono più giuochi illeciti, con offesa di Dio: la Parrocchia era frequentata in ogni tempo; e stabilita si vide in tutti, con comune edificazione, la frequenza de’ Sacramenti, la Visita al Venerabile, ed una tenera divozione per Maria Santissima12.

Dalla metà di marzo 1736 L’ondata missionaria guadagnò, nell’arco di tre mesi, la parte più alta dei dintorni: Bracigliano, che domina a due chilometri, e un po’ più lontano Turiello, Serino e Solofra con i loro villaggi. La vicinanza a Ciorani permetteva alle popolazioni di frequentare la casa dei padri ravvivando il fervore e Alfonso aveva il dono di scegliere e animare i migliori sacerdoti perché lo aiutassero e ne continuassero l’opera.

Passava come un sisma di Grazia, con Rossi e forse Rendina, scuotendo le popolazioni e dando contemporaneamente gli esercizi al clero e alle monache: attività prodigiosa, Veramente incredibile, se non si pensa all’età di quest’uomo nel suo pieno vigore fisico e alla forza della sua irradiante santità: “Al vedersi Alfonso così povero e male in arnese, così umile e dimesso, e così pieno dello Spirito di Dio, ognuno ostinato che fosse, entrava in sé e compungevasi da se medesimo. Le conversioni furono senza numeroannotava Tannoia, aggiungendo iperbolicamente: “Egli solo contava per cento”13 .

Alla campagna missionaria seguirono i quattro mesi estivi (giugno-settembre), durante i quali il missionario itinerante si trasformava in certosino in casa per la piena vita comunitaria di preghiera, di silenzio, di studio e di fraternità.

Fu anche l’inizio della nuova costruzione: architetto, Liguori; imprenditore, Rossi; manovali, trasportatori, muratori, costruttori di tegole, come a Villa, una cinquantina o un centinaio di entusiasti, a comin-

 

- 401 -


ciare da Don Andrea, preti, dame e signori dalle mani delicate, con i padri evidentemente e il vecchio parroco una volta sveglio.

Alfonso però non ebbe il tempo di fermarsi davanti al tavolo di disegno o in cantiere, perché assegnava alle sue case una triplice missione locale: L’esempio evangelico di una comunità di santi riuniti in Gesù Cristo; L’animazione della “ vita divota ” per i fedeli dei dintorni, L’accoglienza e la predicazione per ritiri di ordinandi, sacerdoti e laici.

Perciò, appena rientrato dalla prima campagna missionaria (fine maggio 1736), cominciò la predicazione degli esercizi spirituali, richiesti fin dalla missione del mese di marzo da un gran numero di sacerdoti e di “persone di qualità”, come si diceva allora. A questo fine aveva chiesto al barone Don Angelo, in quel tempo nel suo palazzo napoletano il salone del castello e alcune camere14. Veramente l’inaugurazione di Ciorani fu come una grande promessa di Dio, che sarà mantenuta.

 

La gioia di Alfonso sarebbe stata al colmo, se non gli fossero giunte cattive notizie da Villa, dove, durante la quaresima, il noviziato s’era quasi svuotato. “Sappi che stiamo tribolati, aveva scritto il 18 aprile a suor Maria Giovanna della Croce, fra poco tempo abbiamo perduti quattro soggetti e forse cinque: vedi se abbiamo bisogno d’orazione, appletta Gesù che ci mandi soggetti”.

Ora, nel bel mezzo dei ritiri estivi, lo fece trasalire una strana minaccia, che veniva dal padre... Benché in disgrazia presso i Borboni, il vecchio colonnello aveva conservato tutta la sua influenza nelle alte sfere napoletane e, bruciato personalmente al termine della carriera, aveva spostato le sue ambizioni sul figlio: era l’ora di farlo vescovo... Non ci mancava che questo!

“ Per l’altra cosa del vescovado, signore mio, non me lo nominate più, gli rispose vivacemente Alfonso il 5 agosto, se non volete darmi proprio disgusto: mentre poi, ancorché riuscisse, io son pronto a rinunciare anche l’arcivescovado di Napoli, per attendere a questa grand’opera alla quale mi ha chiamato Gesù Cristo; la quale, se la lasciassi, io mi stimerei quasi per dannato, perché lascerei la chiamata che Iddio mi ha fatta conoscere con tanta evidenza. Onde vi prego a non parlarne più, né con me, né con altri; tanto più, che nel nostro Istituto abbiamo per regola di dover rinunciare i vescovadi e tutte le dignità.

Io non lascio di raccomandarvi a Gesù Cristo, e V. S. beneditemi sempre, acciocché sia fedele a quel Dio a cui devo tutto...”.

E tornò al confessionale per un gruppo di contadini, a impastare la calcina o a predicare ai ritiranti.

In ottobre ripresero le campagne itineranti. L’autunno 1736 e l’inverno 1737 lo videro prima “ravvivare” le parrocchie evangelizzate nella precedente ondata, poi con una mezza dozzina di ausiliari intra-

 

- 402 -


prendere un periplo attraverso le diocesi di Cava, Amalfi e Salerno, terminando, negli ultimi giorni del febbraio 1737, a S. Lucia di Cava.

Felice missione di S. Lucia! Ne ritornò con due reclute: Don Carlo Maiorino, eloquente e zelante, che aveva fatto con lui l’intera campagna e si era sradicato dal dolce nido familiare per seguirlo, e Don Andrea Villani (1706-1792) dei marchesi di Polla, un altro ausiliare conquistato. Quest’ultimo il 5 aprile 1788, otto mesi dopo la morte del santo, testimonierà al processo diocesano di Nocera dei Pagani in questi termini:

“Nell’anno 1737, essendo io già Sacerdote e Confessore e Predicatore... e dovendo detto Servo di Dio D. Alfonso andare in un’altra Missione nella Chiesa di S. Lucia della Città della Cava, egli mi scrisse un’altro biglietto invitandomi a detta Missione, ed io ci andai. Con detta occasione presi confidenza col medesimo, ed incominciai ad osservare le sante virtù, ch’egli, e Compagni suoi esercitavano, specialmente del suo straordinario zelo della gloria di Dio, e salute delle Anime... Quindi avendo presa la Fondazione de’ Ciorani, e stando egli unito con detto D. Saverio (Rossi), e con D. Gennaro Sarnelli - (che da Napoli doveva venire spesso a Ciorani) - ed altri ora tutti defunti, e col P. D. Giovanni Mazzini oggi vivente con fama di santità, mi unii ancora io con costoro, ed ancora con D. Carlo Maiorino in una picciola Casetta a fronte del Palazzo Baronale, dove vi si eresse un piccolo Altare per gli Esercizj divoti. In questa Casetta si viveva da noi unitamente in Comunità con Regole non scritte, ma bensì con osservanza come una Casa de’ Religiosi de’ più austeri15.

Villani e Maiorino entrarono a Ciorani in quaresima tempo forte della Parola e della penitenza, trascorsa in casa dal piccolo gruppo missionario, per lasciar liberi gli ausiliari e per animare sul posto quella missione permanente - predicazione e soprattutto confessioni - , il cui eco arrivava fino a trenta chilometri intorno e alla quale i nostri due “nuovidiedero senz’altro una valida mano. Poi nella primavera pasquale del 1737 furono a Villa, per sé per rimpiazzarvi sotto la guida di Mazzini i novizi che avevano disertato, ma in realtà per una breve e triste avventura.

 

I prodomi della crisi risalivano al 1735. Gli economi amministratori dell’Annunziata si rifiutavano da un anno di pagare i sei ducati dovuti ai padri per il maestro della scuola e Alfonso si era appellato a Mons. Vigilante. Ma i vescovi (non l’abbiamo certo dimenticato) contro i patroni laici delle chiese potevano maneggiare solo i fulmini spirituali Vigilante non fulminò nessuno e Falcoia decise che si sarebbe continuata la scuola: erano due uomini evangelici 16. Niente però è più pesante di un beneficio e ormai la discordia covava.

 

- 403 -


Detonatore tu un sacerdote influente della baronia di Formicola “ un prepotente Sacerdote ”, dice Tannoia, la cui complice era stata condotta a penitenza dal P. Rossi. Lo scandaloso aveva aizzato altri malcontenti, disturbati anch’essi nelle loro “buoneabitudini. A quel tempo, L’abbiamo detto, uno dei metodi naturali, ritenuto morale, per la regolazione delle nascite era costituito dall’entrataeconomica ” nel clero o nei monasteri, che però non portava automaticamente con sé il carisma del celibato...

- Questi forestieri, cominciarono a insinuare i nostri libertini, vengono a togliere il pane di bocca ai poveri preti del nostro paese Raddrizzatori di cose storte, fanno della santità un mestiere per infinocchiarci sui loro disordini!

I più furiosi giunsero a prezzolare una sgualdrina, perché spargesse in giro la voce che essa faceva le notti brave con i reverendi padri, a cominciare da Alfonso. “ Mentite, mentite, scriveva in questo stesso periodo Voltaire, resterà sempre qualcosa ”.

Senza turbarsi, il P. de Liguori aveva raccomandato ai suoi fratelli la massima prudenza, la preghiera e la penitenza, poi, sapendo bene che le opere di Dio han contro di sé tutto l’inferno, era partito per la fondazione a Ciorani insieme a Rossi e Rendina. L’audacia dei miserabili fu accresciuta dalla sua partenza? Una borsa di cento ducati fu fatta passare tra le mani del principe di Columbrano, al fine di indurlo a liberare i suoi territori dall’ombra sinistra dei “liguorini”. Avvertito dell’imminente scoppio dell’uragano, Alfonso tentò un passo presso lo stesso Francesco Carafa, che lo accolse Con questa garbata espressione rivolta ai suoi: “Oh che puzza di Romiti!” e, dopo un colloquio sprezzante, lo mise grossolanamente alla porta.

Dl contraccolpo i congiurati non conobbero più limiti e certi delL’appoggio del principe tentarono di portare le loro accuse ai tribunali della capitale, dove però Alfonso era fin troppo conosciuto, perché si credesse anche una sola parola. Del resto il P. Fiorillo si era affrettato a intervenire al vertice, presso i suoi amici la marchesa e il marchese di Montealegre .

Con la complicità del barone, i nostri furiosi passarono allora alle vie di fatto. La mattina del 2 giugno 1737, il fratello sagrestano (non sappiamo se Andrea o il giovane Francesco Tartaglione, conquistato un anno prima da una predica di Alfonso), appena suonato l’Angelus, venne assalito da un commando di energumeni agli ordini di uno degli economi dell’Annunziata. Strappategli le chiavi, imbrattarono la chiesa, intimandogli con forti ingiurie di togliere al più presto le tende di lui e i suoi confratelli; poi, armi in pugno, occuparono il campanile la chiesa e il convento, impedendo al buon popolo di avvicinarsi

I padri non si sentirono più sicuri e Mazzini, rifugiata la comunità

 

- 404 -


fuori della baronia, nell’eremo di S. Maria del Vignanello, mise subito al corrente per lettera Falcoia e Alfonso, dando appuntamento a quest’ultimo a Castellammare.

Il Direttore non li aspettò per scrivere, la mattina del 7 giugno, a Mons. Vigilante che “considerando lo stato delle cose, non ho saputo far meglio, ch’il fare partire i Padri dalla Villa”. Quando in giornata arrivarono Liguori e Mazzini, accolti da Cesare Sportelli, segretario interino e finalmente dal 5 maggio sacerdote, Falcoia non ritornò sulla sua decisione: la stessa sera, con lettera di Sportelli, incaricò Marocco e Andrea di regolare gli arari materiali e giuridici con l’aiuto di Don Silvestro Sangiorgi e convocò immediatamente presso di sé i novizi Villani, Maiorino e Tartaglione. Mazzini li avrebbe attesi per condurli a Ciorani, dove fu presa in affitto qualche camera dal barone.

Nella notte del 10 giugno i padri abbandonarono Villa, lasciando in lagrime l’intero paese, dall’episcopio alle povere catapecchie. La pena di Alfonso fu profonda, ma non senza sollievo, come scriveva a Falcoia il 12 luglio:

“Vi dico ancora come alla Cava e Vietri ci offerirono tre fondazioni, ma io non ci diedi allora troppo udienza, perché sapeva che V. S. Ill.ma desiderava più presto di vederci più uniti che più dispersi in altre fondazioni. Ma se volete, Padre mio, quando debbo tornare a questi luoghi, se creda, per qualche fondazione di queste la migliore, farò l’obbedienza.

Ma, Padre mio, circa ciò permettetemi di dirvi due miei sentimenti.

Per prima, Padre, bisogna da oggi avanti pensarci bene ad accettare queste sorte di fondazioni così miserevoli, perché poi è vero che possiamo lasciarle, quando ci piace. ma è grande poi il danno e discredito del povero Istituto, dicendosi poi, come si dice ora di Caiazzo, che ne siamo stati cacciati.

Per secondo, Padre mio, vi prego ora che siamo pochi a pensare di farci stare uniti, e così mi consolo in pensare alla Villa, che Gesù Cristo a questo fine l’ha fatto, di farci stare uniti, facendoci lasciare quella fondazione senza rimorso di averla abbandonata noi da per noi; perché, Padre mio, dove i soggetti sono troppo pochi (V. S. Ill.ma già lo sa, ma io L’ho veduto ora coll’esperienza) languisce l’osservanza, il fervore, e si mette in pericolo anche la perseveranza: in somma languisce tutto, poiché se manca uno al coro per qualche affare che sempre occorre, specialmente dove sono pochi, o di predicare, o confessare, o altro, ecco che non vi è più coro, e questo succede spesso; oltre poi che quando il coro è composto da tanto pochi, non si sa che viene a dire, poiché l’istesso fa l’eddomadario, L’istesso dice l’antifone, l’istesso intona i Salmi. Onde non ci impariamo mai così a dire l’Officio, come si deve. I ritiri e gli esercizi spirituali poco si possono

 

- 405 -


osservare. Io, per me, da che sono così solo, non mi ricordo di avere potuto fare una volta perfettamente ritirato gli esercizi, poiché eravamo così pochi, e bisognava intricarmi a qualche cosa. Per li sermoncini domestici ancora, che tanto giovano fra noi, ti senti cadere le braccia, e non sai che dire quando parli a tanto pochi, oltrecché poco può moralizzarsi, per non disturbare quelli pochi che sentono. Le colpe, parlando di quelle che si accusano a refettorio, poco e quasi mai si praticano per essere tanto pochi, e così ancora si lascia, i venerdì, di avvertire dal zelatore i difetti osservati? L’istesse ricreazioni poi fra tanto pochi, specialmente se uno di questi sia un poco di male umore, riescono spesse volte più di tedio che di sollievo. E da tutto ciò ne nasce poi la poca osservanza ed il raffreddamento dei soggetti, e noi, Padre mio, ne abbiamo esperienza, che sappiamo già, dalla divisione che si fece per li Ciorani, la dispersione e ruina che ne venne dei soggetti; e D. Saverio (Rossi), D. Giulio (Marocco), Padre mio, diciamo la verità, non sono più quelli che erano, ed io sarò il primo divenuto peggio e più freddo degli altri. E ciò vale a dire non solo per noi, ma ancora per gli altri, che difficilmente si risolvono ad unirsi con noi, sentendo che siamo così pochi ”.

Il problema della riapertura di Villa ritornerà di tanto in tanto particolarmente nel 1759, quando il 25 maggio il fondatore avrà questa risposta:

“...che noi ritornassimo alla Villa... Ia cosa è molto difficile perché primieramente alla Villa mancano le rendite sufficienti per mantenere un collegio di dodici sacerdoti, perché noi non accettiamo conventini. Al principio, è vero, che si pigliò quella casa; ma ora la Congregazione sta in altro stato, poiché tiene già cinque case17.

 

Il giugno 1737 vide quindi l’Istituto ridotto nuovamente a due comunità, anche se più rimpolpate. Sportelli e Maiorino furono inviati a Scala per dare man forte a Romano e a fratel Vito Curzio raggiunti poi in autunno da fratello Andrea. Mazzini, Villani e fratello Francesco Tartaglione vennero a Ciorani, dove erano attesi, al termine della loro “ missione ” di liquidazione di Villa, anche Marocco e il “ novizioSilvestro Sangiorgi, e incontrarono un fratello di diciotto anni, entrato da una settimana come un raggio di sole, Gioacchino Gaudiello, nipote del parroco Don Michele Amabile.

I Gaudiello erano di Bracigliano e Gioacchino aveva un fratello diacono, Don Andrea, già quasi vicario dello zio, al quale succederà nell’estate 1738 come parroco di Ciorani. I due fratelli potevano quindi scoprire, giorno dopo giorno, il fondatore, come più tardi ricorderà Don Andrea:

“ Quando venne in Ciorani il R.do P. D. Alfonso de’ Liguori, io

 

- 406 -


era diacono, ed essendo giunto in detta Terra con due Padri suoi compagni, cominciò a spargere i raggi della sua perfezione e santità con predicare a’ popoli, con confessare sino dopo mezzogiorno, visitare infermi, consolare gli afflitti, di cuore dolcissimo, affabile con tutti, e semplice come un fanciullo, e fra l’altre virtù l’indicibile divozione verso Maria SS.ma, che mai avrebbe cessato notte e giorno predicare le sue doti, infiammando i popoli alla di lei divozione, con canzoncine spirituali, e fatto stampare figure bellissime in onore di detta Vergine e stampar libri e novene18 .

Dal 1732 infatti Alfonso stampava e diffondeva piccole raccolte delle sue Canzoncine spirituali. Per limitarci alla Madonna, datano di questi anni alcuni canti che ancora oggi risuonano in tutta l’Italia: O bella mia speranza, La più bella verginella e il delizioso canto natalizio Fermarono i cieli:

 

Fermarono i cieli

La loro armonia

Cantando Maria

La nanna a Gesù ”.

 

Di questo periodo sono anche le famose Orazioni alla Divina Madre per ciascun giorno della settimana e alcune Coronelle in onore dei dolori di Maria, di Gesù Bambino e dell’Immacolata. Sono gli opuscoli che, con le Massime eterne, Don Andrea Gaudiello vedeva distribuire da Alfonso a quelli che sapevano leggere, mentre agli analfabeti dava disegni della Madonna, che suscitavano tanta fiducia, preghiera e santità 19.

“E sempre che io andava in sua stanza; lo ritrovava o leggendo, o scrivendo, con l’immagine di Maria avanti...

Nulla dico del grande zelo verso il SS. Sacramento dell’altare, che... volle non solo il giorno fosse assistito dalla gente, ma anche la notte; prima egli e poi li suoi compagni...

Fatto io sacerdote e confessore, mi portai con esso lui nelle missioni, e la prima fu nella Terra di Forino - (nel gennaio 1738) - dove per ministra mangiava esso e noi rape e castagne. Non si poneva a tavola, se prima non attossicava la sua bocca con erbe amarissime, carico sempre di cilici e catenelle, che andava quasi curvo e storto. Le sue prediche erano così famigliari e attrattive, che tirava i popoli a timor di Dio ed alla perfezione, innamorato sempre di confessare i più poveri ed abbandonati; in somma, in quanto posso asserire con verità, mi è sembrato un modello di tutte le virtù e carità, specialmente verso i poveri ”.

 

Così un’irresistibile ondata di fiducia finì con il sommergere le

 

- 407 -


iniziali reticenze dell’arcivescovo di Salerno, Mons. di Capua, che alle opposizioni di una parte del clero secolare e regolare (43 monasteri maschili su 60.000 abitanti), che vedeva minacciato il suo territorio di questua e di caccia, rispose:

- Alfonso de Liguori non ha certo lasciato il mondo per necessità, ma per elezione.

Gli diede le più ampie facoltà di predicare e di assolvere insieme al permesso di lavorare alla costruzione della casa anche le domeniche e gli altri giorni festivi, quando i muratori affluivano da due leghe intorno. La chiesa provvisoria (tutto l’attuale pianoterra della casa) un primo piano con oratorio, alcune cellette e salone per gli esercizianti e un secondo tutto con camerette arrivarono al tetto verso la fine del 1737. L’improvvisa morte del giovane arcivescovo ne ritardò la solenne inaugurazione fino al giugno 1738, anche se vi si trasferirono subito la missione permanente, i ritiri e la comunità. Il vicario capitolare nominò Alfonso penitenziere maggiore della diocesi e il nuovo arcivescovo, Mons. Casimiro Rossi, ratificò volentieri tutte queste facoltà, aggiungendo ampia possibilità di delega ai suoi ausiliari 20, tanto che Mons. Falcoia cominciò a temere che la diocesi di Salerno finisse per assorbire completamente il suo “ caro figlio ”.

 

Timore infondato, perché al termine dei quattro mesi di “solitudine comunitaria”, all’inizio dell’ottobre 1737, Alfonso evangelizzò le monache di Scala e di Pocara, passando poi a Castellammare per incontrare il Padre. Dal 26 ottobre al 6 novembre a Napoli partecipò, Insieme a sessantafratelli ” di Propaganda, alla missione annuale allo Spirito Santo, sostenendone anzi il peso maggiore, la “predica grande” della sera: quale onore per il proscritto di ieri!

- Ma Liguori non aveva rinunziato a Napoli?...

Certo e non ritornò sulla sua decisione, ma le Apostoliche Missioni l’avevano messo di fronte a un dilemma: o partecipare a qualche loro missione o rinunziare alla cappellania. Anche un santo non può disprezzare una rendita dei ricchi, quando al pari di Dio deve pensare a case per i poveri. Alfonso poi doveva troppo al suo maestro Torni, che restava per lui un consigliere prezioso, troppo allo zio Gizzio, che gli aveva fatto amare Teresa d’Avila e Francesco di Sales, per romperla con loro.

Fortunata missione napoletana! Il suo successo fu tale che si dovette - cosa inaudita - prolungarla di tre giorni: “Ci vorrebbe un volume a parte, annotava Tannoia, se registrar si volessero le tante conversioni, che in questo tempo si videro in Napoli operate da Dio per mezzo di Alfonso”. Il cambiamento degli Illustrissimi in suo favore fu a questo punto totale, tanto che lo si volle impegnare per il ritiro agli ecclesiastici dell’ottobre 1739 e, al suo rifiuto discreto, il nuovo

 

- 408 -


Superiore, il canonico Francesco Rosa, ricorse all’autorità di Falcoia: “Tutta la Congregazione, anzi tutto il nostro clero desidera di sentirlo, perché predica con fervore di spirito ed efficacia, essendo avvalorata la divina parola dall’esemplarità della sua santa vita21 .

In seguito, fino all’inizio della quaresima 1738, Alfonso portò la missione nelle diocesi di Cava, Amalfi, Castellammare e Salerno, soprattutto nei dintorni di Ciorani. Gli esercizi al clero e alle monache si aggiungevano alla predicazione al popolo, con conversioni meravigliose tra gli uni e gli altri: le canzoncine prendevano il posto delle bestemmie e delle scurrilità; i nemici mortali si cercavano per... abbracciarsi; i ladri correvano a... restituire; le prostitute cambiavano mestiere; le fidanzate si tagliavano i capelli; le bettole chiudevano mentre si riempivano le chiese. Un ritornello di Tannoia sottolinea quanto premesse ad Alfonso che le missioni non fossero un fuoco di paglia: “ Stabilì al solito in questi luoghi la divozione al Calvario, la Meditazione in comune nella Parrocchia di mattina, e la frequenza de’ Sagramenti, la divozione a Maria Santissima, e di sera la Visita a Gesù Sagramentato22.

 

Di tanto in tanto un fatto insolito interrompeva questa monotonia meravigliosa.

Un parroco, che temeva la missione come il ragno la donna delle pulizie, si fece incontro ai missionari, dicendo senza neppure lascia loro mettere il piede a terra:

- Non ora, tornate tra tanti mesi.

- Signor parroco, fece Alfonso dopo un istante di silenzio, Come volete. Ma allora non sarete più in condizioni di accoglierci.

Poco dopo, benché ancora in verde età, il pastore morì improvvisamente .

A Casiri una profezia più piacevole:

- Padre, voglio bene a questo giovane contadino. Devo sposarlo? domandò Angiola Catalano.

- Non pensarci, figlia mia, tu ti sposerai a Napoli e il tuo primo figliuolo sarà un maschio e entrerà tra i Carmelitani.

Era mia madretestimonierà il P. Giuseppe Imparato, 57 anni, nel 1797 23.

 

A Maiori una madre infelice, alla quale avevano ammazzato il figlio, non voleva sentir parlare di perdono, anzi ne conservava i vestiti insanguinati per alimentare ogni giorno la sua volontà di vendetta. A una predica di Alfonso si arrese e, attraversata tutta la chiesa, depose pubblicamente ai piedi del Crocifisso il suo odio e gli abiti del povero figlio 24 .

A Priati di Cava un uomo, balzato sul pulpito, strappò dalle

 

- 409 -


mani del predicatore le funi con le quali si martoriava e si flagellò rudemente.

Ogni chiesa avrebbe una sua storia da raccontare, ma la più bella è quella accaduta alle porte di Ciorani, nel piccolo borgo di Aiello nel febbraio 1738. Il P. de Liguori aveva posto come al solito accanto al suo pulpito un’immagine della Madonna, quasi per predicare insieme. Mentre parlava, forse delle grandezze e delle misericordie di Maria rivolgendole uno sguardo pieno di ardore, subito quasi in estasi, fu sollevato di qualche palmo dal pulpito e illuminato da un raggio, che partiva dal volto della Vergine. Tannoia annotava: “Quello che in Scala succedeva di nascosto, qui si fe palese... a vista del popolo”.

 

Scala... la “grotticellaera certo lassù, ma la Vergine era dappertutto. Giunse anche l’ora di staccarsi da Scala.

Situata su una striscia scoscesa, tra il mare e la montagna, la piccola città - al contrario di Villa e di Ciorani - si era rivelata poco accessibile e lontana dalle campagne popolate; L’Ospizio del SS. Salvatore restava sempre una residenza provvisoria senza chiesa e le trattative per passare a Pontone non finivano mai; le forti richieste dei patroni laici, unite alla gelosia di qualche prete che temeva per i suoi onorari, non davano ai missionari il desiderio di radicarsi su una terra, dove l’ostilità di qualche notabile cominciava a farsi manifesta; Falcoia, che non si trovava personalmente a suo agio con Mons. Santoro, era deluso delle monache, sempre lontane dalla pace interna e dalla tanto desiderata sottomissione, e per di più in disaccordo con Pietro Romano, che alla fine di aprile 1738 ruppe addirittura i ponti con l’Istituto.

L’aver mantenuto in carica per cinque anni un superiore tanto poco integrato (si pensi che non lasciò mai l’abitazione familiare) aveva permesso al Falcoia di giocare al rettore locale, manovrando direttamente sia Marocco che Sportelli, ma era risultato gravemente dannoso per la comunità: “Questo singolare superiorato - scrive M. De Meulemeester - con la sua poca regolarità contribuì a rendere più precaria la situazione della casa di Scala e a crearvi un permanente disagio25.

Dopo la partenza di Romano, fu inviato il 16 maggio come superiore all’Ospizio G. Mazzini: Scala morirà così in buona salute.

Nuove esorbitanti pretese riguardo a Pontone mostravano chiaro che il tempo lavorava contro la fondazione, convincendo Falcoia e Liguori dell’opportunità di andar via: “Stimo sia piacere di Dio benedetto, ch’effettivamente vi partite da Scala assieme con i compagni, e vi ritiriate ai Cioraniscriveva il Direttore il 25 agosto a Mazzini. Mercoledì 27 questi, insieme a Villani, Marocco e i fratelli Curzio e Gaudiello, si congedò cortesemente dalle autorità, allontanandosi discretamente da Scala; fratello Andrea era stato licenziato tre settimane prima, mentre Sportelli da un mese era a Castellammare come segretario

 

- 410 -


di monsignore e quasi “vicario generaleufficioso per l’Istituto del SS. Salvatore.

Il popolo semplice di Scala indignato piangerà, ma renderà ai suoi padri l’unico omaggio, al quale essi erano sensibili: la fedeltà al Signore e alla Madonna. Due anni più tardi il P. Sabbatini, Pio Operaio, concluderà la missione con questa “canonizzazione”: “Non occorreva, che noi fossimo venuti a Scala: qui non abbiamo trovato un peccato veniale volontario26 .

Nella vita di Alfonso si chiudeva il capitolo che dal 1730 lo aveva visto tracciare l’asse della sua vocazione e del suo Istituto: S. Maria dei Monti e i suoi poveri in abbandono, la “grotticella” dei colloqui con la Madonna... “Mi diceva tante belle cose... ”.

 

La congregazione tornò a ridursi a una sola casa, come nei primi giorni. Come l’oro e l’argento attraverso il fuoco (1 Cor. 3, 12-15), con Liguori si erano salvati in quell’originale incendio che aveva distrutto la paglia e il legno, solo sette padri (Mazzini, Sportelli, Sarnelli, Rossi, Marocco, Villani e Maiorino) e quattro fratelli (Curzio, Rendina, Tartaglione e Gaudiello) e la purificazione non era ancora terminata.

Alfonso, insieme con tutti i suoi, era felice nel vedere che la nebulosa, benché ancora tanto umile, finalmente prendeva forma e consistenza, anche perché si era nei giorni dell’estate, quando, interrotte da giugno a settembre tutte le missioni, ci si dava ai ritiri in casa e si gustavano insieme quattro mesi di deserto contemplativo, studioso e fraterno .

Poi fu il volo d’ottobre: due soli padri restarono in casa per attendere all’animazione della missione permanente e delle confraternite; gli altri, con Alfonso e gli ausiliari, portarono la Parola e il Perdono a Nocera dei Pagani, Castellammare, Conca dei Marini, Alfani. Nei due mesi dopo Natale ebbe luogo la missione generale della baronia di Giffoni, con i padri Villani, Mazzini, Sportelli e Maiorino responsabili di missioni settoriali che, con l’aiuto di sacerdoti ausiliari, evangelizzavano ognuna una serie di piccoli villaggi.

La missione generale fu interrotta dalla quaresima 1739 che, come ogni altro anno, riportò tutti in casa a ritemprarsi nel corpo, nell’anima e nello spirito, rassodare la fraternità nella condivisione e nella preghiera, animare i ritiri, specialmente agli ordinandi (venivano da Salerno, Nocera, Sarno, Avellino, Nusco, Lettere, Montemarano 27 e infine essere a disposizione di tutta la contrada per le confessioni pasquali. Molti intraprendevano un pellegrinaggio penitenziale anche di due o tre giorni, felici di aprire la loro coscienza al cuore del santo.

E Alfonso, che già “levava gli occhi e guardava i campi biondeggianti per la mietitura” (Gv. 1, 35) della campagna 1739-1740, dopo

 

- 411 -


il ritiro al clero napoletano, scriveva lettere su lettere per mobilitale ausiliari in favore dei piccoli commercianti e dei vaccari del territorio salernitano e degli zappatori delle povere terre verso Eboli e oltre.

 

All’inizio dell’estate 1740 Mons. Rossi venne a Ciorani a vedere la famosa casa di ritiri dove tanti suoi sacerdoti erano cambiati. La trovò straripante di gente, laici e clero, in cerca di santità, ma troppo piccola, troppo piccola: un’ala sola con due piani...

- Costruite, Padre, disse al fondatore.

Volontà di Dio, pensò Alfonso e in comunità venne deciso di costruire un’ala parallela con un piano in più.

- Costruire? - obiettò Rossi - , famoso per la generosità, le collere e gli sbocchi di sangue. Costruire? Ma la cassa è vuota: non abbiamo più di una dozzina di grani! . . .

Occorrevano ben venti di queste monetine di nata di operaio.

- Dodici grani vanno bene, disse Alfonso, Dio sarà la nostra garanzia. Noi, Padre mio, non dobbiamo fabbricare, come costumano i secolari, che prima uniscono il denaro, e poi mettonsi a fabbricare: dobbiamo regolarci tutto l’opposto: prima si deve intraprendere la fabbrica, e dopo aspettar dobbiamo dalla Divina Provvidenza quanto bisogna 28.

 

Saverio ci metterà fede e fatica; L’arcivescovo denari e una circolare al clero che aprirà ampiamente i cuori e le borse per un’opera da nessuno ormai contestata; 3 certe scadenze troppo pesanti passeranno angeli con le mani piene: una signora di Solofra, un giovanepostulante” che nessuno rivedrà più, altri e altri ancora.

E poi, aiutati che il ciel ti aiuta... La mattina dell’11 febbraio 1741, avvertito da un messaggio, Alfonso lasciò in fretta Ciorani (tutta la campagna invernale 1740-1741 si svolse nei dintorni della casa) per Napoli, dove al Seggio di Portanova v’era la febbre delle grandi giornate: Don Francesco Grimaldi, marchese delle Pietre chiedeva un posto tra i cavalieri. Occorreva il voto unanime dei titolari, che arrivavano pomposi nel cortile, carrozza dopo carrozza, e congratulandosi entravano solenni nel consiglio. Al portone si presentò a dorso d’asino anche un pezzente di prete dalla barba irsuta. Indietro! gli urlò la guardia, puntando l’alabarda. Alfonso si fermò e sorrise: da otto anni non lo si era più visto in quel luogo. Un fantasma! Ma Don Grimaldi, che lo aveva scorto, lo riconobbe e si precipitò, baciandogli la mano e... facendo scivolare una borsa ben gonfia, che sarebbe servita a completare la costruzione di Ciorani. Alfonso, che in seguito, sorridendo, dirà che a quel prezzo avrebbe votato anche per un carbonaio ritornerà ancora a far sentire la sua voce ai duchi, marchesi e conti il

 

- 412 -


25 marzo 1741 e il 18 agosto 1742 (le guardie non l’avranno certo dimenticato!), poi non li vedrà più al Seggio di Portanova. La grande casa per i ritiri fu al tetto nell’estate 1741: tre piani di camerette, sopra la cucina e un grande refettorio, che, oltre altri gruppi, ospiteranno quattro o cinque volte l’anno quasi un centinaio di sacerdoti guidati a volte dai propri vescovi 29.

 

Ma ahimè! nello stesso tempo che salivano queste muraapostoliche ” due pietre vive si staccavano dalla congregazione.

Verso la metà di giugno, il P. Carlo Maiorino, in una crisi di nostalgia familiare, fuggì una sera all’insaputa di tutti per la sua natia Saragnano, da dove inviò una lettera scritta con le lagrime: “Felici voi! piango, e farò piangere la mia disgrazia30. Aveva tre anni d’Istituto, tre anni di fervore e di zelo.

Giulio Marocco ne contava sei, ma si andava staccando in maniera visibile e da un anno, con il pretesto della salute, aveva ottenuto da Falcoia il permesso di vivere con il padre e la madre nel palazzo di Caiazzo. Alfonso gli aveva rivolto fraterni appelli, L’ultimo dei quali, del 2 agosto 1740, fu come la campana dell’agonia:

Don Giulio mio, temo che le mie lettere presentamente ti sieno noiose. Ma che s’ha da fare? L’affetto verso uno de’ primi e più antichi compagni di questa picciola Congregazione mi spinge a scrivere...

Il Vescovo approvò la vostra vocazione, e non vi alcuna remora per il ritorno.

La vostra vocazione poi vi è stata approvata dal P. Fiorillo... Voi eravate così spassionato de’ parenti, ed ora perché volete farvi vincere al demonio, e alla carne?... Qui troverete più che fratelli, più che madre. Qui tutti vi stiamo sospirando, ancorché voi ci abbiate quasi scartato per compagni...

Vi prego a tornar presto, subito in ricevere questa, per amore della Madonna... Già lo sappiamo che voi venite come inutile, ma qui troverete tutta la carità. E noi, come inutile, vi riceviamo e vi desideriamo, non perché siete inutile, ma perché siete nostro compagno, e non vogliamo che vi spartite da noi...”.

Don Giulio non ritornò.

Incostanza umana! Due querce spezzate come rami di rose da quelL’attaccamento alla famiglia, i cui eccessi nel Settecento napoletano erano spesso mortali anche per le migliori vocazioni. La caduta brusca di Maiorino e lo scivolare inarrestabile di Marocco esigevano corde più forti per il gruppo, che non aveva ancora alcun voto, perciò alcun legame in coscienza, tanto meno di consacrazione totale e definitiva a Dio e agli abbandonati. Questo non-impegno non poteva attirare le vocazioni generose, né assicurare i deboli: i confratelli del SS. Salvatore,

 

- 413 -


come del resto i Pii Operai, restavano “senza professione”, nel senso religioso del termine.

Allora impegnarsi con i voti pubblici di castità povertà e ubbidienza? Assolutamente no! Nella primavera del 1740; regalisti avevano sollevato un’ondata di ostilità contro le istituzioni religiose e un decreto regio del 9 aprile, ribadito il 23 luglio da un editto del marchese Brancone, segretario di Stato per gli affari ecclesiastici, intimava segretamente ai governatori e ai sindaci di tutte le province di proibire ogni fondazione di chiese o di istituzioni religiose, senza il previo assenso del re. Se Alfonso e i suoi compagni cessavano di esseresecolaririschiavano la distruzione dell’Opera, ma bisognava pure, come diceva da figlio di marinaio, far “star salda la nave in porto”.

Personalmente da circa otto anni aveva fatto voto di perseveranza: “Oggi li 28 Novembre, ò fatto voto di non lasciar l’Istituto”. Invitò allora i suoi fratelli a un simile impegno.

“Un frutto regalato, soleva dire, è gradito; ma se col frutto vien donata la pianta, molto più si aggrada... La vita Apostolica, di già abbracciata, se vogliamo dirlo, propriamente consiste nel dare un addio solenne alla propria casa, senza più rivederepatria, né parenti e che ove domina la carne ed il sangue, non ci può essereamore verso Dio, né zelo per le Anime. Dobbiamo darci a Dio, ma con una volontà risoluta di mai più lasciare di seguitarlo. Non si può dire atto pel Regno di Dio, chi avendo posto mano all’aratro, si arbitra in cuor suo riguardar indietro, e voltar dispoticamente le spalle a Dio, ed alla Congregazione”.

Il progetto di Alfonso di legarsi col voto di perseveranza incontrò l’accordo unanime dei confratelli presenti (Sarnelli era trattenuto a Napoli dal cardinale Spinelli e da gravi impegni; Marocco finiva di legarsi a Caiazzo) e, com’era sua abitudine, “ oltre l’essersi raccomandato a Dio, non lasciò chiederne consiglio a persone savie, specialmente al suo Direttore Monsignor Falcoja - , dice Tannoia (e noi pensiamo anche a Pagano e Torni; Fiorillo invece era morto il 20 dicembre 1737 durante una missione a Avellino) - . Tutti furono di accordo con esso ”.

La realizzazione fu fissata per la festa di S. Maria Maddalena preceduta da tre giorni di ardente silenzio, nei quali ognuno si sentì come investito dall’amore. Nel piccolo oratorio della comunità “ il ventuno luglio, come si legge nell’atto ufficiale subito firmato, dopo aver detto vespro (i primi vespri) di S. Maria Maddalena Protettrice (della congregazione) ” i cinque padri e i quattro fratelli presenti pronunziarono una lunga formula, ispirata sembra da Mons. Falcoia 31 e scritta di proprio pugno dallo Sportelli. Eccone il passo centrale:

“Mi obbligo e faccio voto, in mano di Monsignor Tomaso Falcoja Vescovo di Castellammare e Direttore di essa mia Congregazione, di

 

- 414 -


 perseverare con la divina grazia, mediante il Sangue di Giesù Cristo fin’alla morte in questa santa Congregazione del SS.mo Salvadore. F questo voto intendo farlo con patto e condizione espressa che possa solamente dispensarsi dal Superiore Maggiore pro tempore, o dal solo Sommo Pontefice, e non da altri”.

Ognuno appose la propria firma e “m’obbligo ut supra” sul documento, che, inviato a Falcoia il 24 luglio, ritornò con questa postilla:

Accetto e confermo l’offerta fatta al Signore della vostra libertà col voto di perseveranza nella Congregazione del SS.mo Salvatore. E così dee farsi da ogn’uno, che vuole essere ammesso in questa santa Congregazione dopo la pruova di due anni in perpetuo. Dato da Castellammare 24 luglio 1740. Tomaso Falcoja, Vescovo di Castellammare e Direttore della Congregazione del SS.mo Salvatore”.

Falcoia non era venuto a presiedere l’oblazione, perché, non essendo Ciorani nella sua diocesi e non avendo ancora l’Istituto alcun superiore canonico, avrebbe potuto farlo solo in forza di una delega dell’arcivescovo di Salerno, ma allora sarebbe stata una professione religiosa pubblica, cioè un delitto agli occhi del potere civile. Questo voto restava perciò un affare interno della congregazione e lo si poneva filialmente tra le mani del Direttore, anche se una clausola ben studiata lo sottraeva a qualsiasi dispensa da parte di vescovi o di confessori; all’interno però dell’Istituto il vincolo era pubblico e firmato di proprio pugno e, nella coscienza, legava tanto fortemente quanto un voto solenne emesso tra le mani del papa.

In quella sera del 21 luglio 1710 l’Opera del Signore prendeva perciò la consistenza reale di un Istituto religioso: uscirne diventava un passo drammatico; entrarvi era un imbarcarsi per tutta la vita dopo aver rotto ogni ormeggio. Una di quelle avventure umane e spirituali tali da allontanare i versatili e da tentare i giovani e i santi.

 

Perché fu necessario che la gioia fosse tanto presto bagnata dalle lagrime?.. Benché amare furono però lagrime di gioia.

Il beniamino dei neo-professi, Gioacchino Gaudiello, entrato a diciotto anni a Ciorani con un solo pensiero: “ Voglio farmi santo, e seguitar voglio a dispetto del mondo Cristo vilipeso e disprezzato ”, Suscitava l’ammirazione dei più anziani per la sua intensa vita di pietà, per le sue dure penitenze e per la sua gioiosa disponibilità ai lavori più pesanti.

- Gioacchino ce la fa, diceva meravigliato Alfonso.

Ahimè! poco dopo l’emissione del voto di perseveranza, con il cadere autunnale delle foglie, cominciò a deperire anche il giovane fratello: febbre e emottisi, prodromi della classica morte nei conventi

 

- 415 -


poveri e ferventi, dove si mangiava poco si lavorava molto e si battevano i denti d’inverno. Gioacchino comprese subito che sarebbe Stato il primo dei “Redentoristi” a entrare in cielo:

- Io porto lo stendardo, diceva pieno di gioia.

Più della febbre lo bruciava l’amore per il Signore e la Madonna:

- Prendete un coltello, disse un giorno al P. Mazzini, apritemi il petto, e portate a conservare nella custodia questo mio cuore col SS. Sacramento .

Il rosario non abbandonava mai la sua mano:

- Il demonio non mi lascia, ma ci perde il tempo. Tutto posso, e tutto spero da Mamma Maria, e sotto il suo manto spero morire.

Morì infatti a ventidue anni il 18 aprile 1741. Tutto il paese sfilò davanti al suo feretro, per venerare il “santo”, baciargli i piedi, avvicinargli oggetti di pietà, portare via qualche “ reliquia ” o strappargli qualche miracolo, che non mancò.

Rientrando dalle missioni nei villaggi intorno a Serino e Solofra Alfonso redasse questo epitaffio per il “portastendardo” dei suoi figli:

Fratello Gioacchino Gaudiello, ricchissimo di ogni virtù, anelante ad assimilarsi a Cristo, si conformò in tutto al suo esemplare.

Con la sua insigne pazienza nelle infermità, la sua mansuetudine nelle avversità, la sua ubbidienza, si manifestò sempre a tutti come una sola cosa con la vita di Cristo Gesù.

Non sul legno della croce, ma con il desiderio della croce e l’abbraccio del Crocifisso, fu il primo a raggiungere la corona della gloria celeste32 .

 

 

 

 

 





p. 395
1 DE MEULEMEESTER, op. cit., ii pp. 26-27; attribuisce a Falcoia sessantotto ; anni nel novembre 1732 mentre in realtà, essendo nato il 13 marzo 1663, gli mancavano solo 4 mesi per i settanta.



2 AGR, Cose di coscienza, p. 41; TELLERIA, I, p. 327.



3 Cf. B. PELLEGRINO, in “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”, 30 ( 1976), pp. ,451-488; DE MEULEMEESTER op cit , I, pp. 68-82, le cui affermazioni però esigono sfumature.



p. 396
4 SH 6 (1958), P. 349.



p. 397
5 Cf. FALCOIA, Lettere, pp. 260, 266, 270. Per l’insieme di questo capitolo, cf. TANNOIA, I, pp. 103-124 e TELLERIA, I, pp. 260-295. Tannoia però anticipa erroneamente di 10 mesi l’arrivo dei padri a Ciorani, cosa questa che falsa la sua cronologia delle missioni degli anni seguenti, cf. C. DILGSKRON, Leben des h. Alfonsus de Liguori, I, pp. 157-162.



6 Cf.Analecta” 19 (1940), p. 69; FALCOIA, op. cit., p. 291.



7 S ALFONSO, Lettere, i, p. 55; questa seconda donazione verrà registrata solo il 23 ottobre 1737, cf SH, 21 (1973), pp. 301-310; per la prima, cf. D, MEULEMEESTER, op. cit., I, pp. 102-105 ,: 284-290



p. 398
8 L’affermazione è di Alfonso nella sua biografia, cf. SARNELLI, Opere, I, p. 24.



9 SH 10 (1962), p. 207.



p. 399
10 S. ALFONSO, Lettere, I, p. 54; per il resto del capitolo, tutte le lettere di Alfonso sono prese da questo volume, alla data che indichiamo.



11 Citato da GIOVINE, op. cit., p. 249. su Sarnelli e la prostituzione, cf. Dizionario delle Leggi, III “Meretrici”, pp. 55-57; GIOVINE, pp. 225-235; A de Spirito, in “Ricerche di storia sociale e religiosa”, nuova serie, 13 ,1978), i, pp. 31-70.



p. 400
12 TANNOIA, I, pp. 105-106.



13 Ibid., pp. 104 e 108.



p. 401
14 Il palazzo, trasformato nel 1922 in monastero della Visitazione dalle ultime due discendenti Sarnelli, è crollato con la chiesa di s. Sofia durante il terremoto del 23 novembre 1980, seppellendo tre religiose.



p. 402
15 Summarium, pp 34-35



16 S. ALFONSO, Lettere, I , p. 46; FALCOIA, Lettere, p. 291.



p. 405
17 Sulla soppressione di Villa, oltre Tannoia e Telleria, cf Falcoia, Lettere, pp. 333-337; Sportelli, Epistolae, pp. 24-26; De Meulemeester, op. cit., I, p. 112-117, 292-293.



p. 406
18S ALFONSO”, 6 (1935), p. 305



19 Cf. DE MEULEMEESTER, op. cit., I, pp. 173-174 e Bibliographie, I, pp. 50-53; GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano, pp. 18-20.



p. 407
20 Cf. SPORTELLI, op. cit., pp. 27-28; AGR, Cose di coscienza, pp. 81-82.



p. 408
21 Cf. SH 8 (1960), pp. 440-444; FALCOIA, op. cit., p. 351.



22 TANNOIA, I, p. 121; cf. pp. 112, 116, 122, 126, 127, ecc.



23 Summarium, pp. 7 e 677.



24 Non cercate in Tannoia (Ii, p. 113) il dettaglio del vestito; lo sappiamo dallo stesso Alfonso, cf. DE MEULEMEESTER, Origines, I, p. 296. per l’episodio che segue, il riferimento è lo stesso.



p. 409
25 Origines, I, p. 119.



p. 410
26 Tannoia, i, p. 119; cf. S. Alfonso, lettere, i , p. 85; Falcoia, op. cit., pp. 320, 325, 384, 386; Sportelli op. cit., pp. 28-30; DE MEULEMEESTER, op. cit., I, pp. 117-121, 293-294.



27 SH 21 (1973), p. 306.



p. 411
28 TANNOIA, I, pp. 145-146; questi fatti però sono del 1740, non già del 1743.



p. 412
29 TANNOIA, I, pp. 145-147; Contributi, p. 47; SH 21 (1973), p. 306.



30 TANNOIA, I, p. 134; per la fine del capitolo, cf. pp. 133-136; TELLERIA, I, pp. 291-294; DE MEULEMEESTER, op. cit., I, pp. 251-264.



p. 413
31 La formulaimitare la vita, e le virtù di Gesù Cristo ch’è... il principale intento di questo santo istituto” è del più genuino Falcoia e non corrisponde alla visione centrale del fondatore. vi ritorneremo.



p. 415
32 Tannoia, Vite dei Padri A. DI MEO ed A. LATESSA e dei Fratelli G. GAUDIELLO e F. TARTAGLIONE, pp. 86-102.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License