Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762)

28 - “LE MISSIONI... NOI LE FACCIAMO DIFFERENTI”

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28 - “LE MISSIONI... NOI LE FACCIAMO DIFFERENTI

 

“Non mi par tempo di permettere che si pensi alla fondazione di nuove religioni e congregazioni, atteso che a parer di quanti vi ha di uomini più dotti e santi nella Chiesa, ve ne sia un sì gran numero che converrebbe abolirne almeno due terzi, come affatto inutili, per impiegarne le rendite sì in case di carità da riunire per badare all’educazione de’ poveri fanciulli nel timor di Dio e nelle arti utili allo Stato, come ancora in ospedali per gl’infermi e per li poveri invalidi a procacciarsi il vitto colle proprie fatiche, e in altre simili opere di carità di pubblico beneficio”.

Queste proposte non erano di un qualsiasi anticlericale, ma di Mons. Celestino Galiani (1681-1753), ex-generale dei Celestini e dal 1732 Cappellano Maggiore e arcivescovo di Tessalonica, che si esprimeva così in una lettera a re Carlo di Borbone del 6 luglio 1740.

A chi pensava? Gli avvenimenti di Scala avevano troppo colpito l’opinione pubblica napoletana per passare inosservati ai suoi occhi; da otto anni li seguiva con critica attenzione e il 16 aprile 1736 aveva messo in guardia Tanucci contro le monache di una certa Crostarosavisionaria o pur anche impostrice” e contro “alcuni preti semplici e malinconicispinti da lei a fondare una congregazione: “I medesimi si applicano principalmente a far le missioni, come se in questo Regno non vi fossero religioni tutte applicate ad un tal santo esercizio1.

Il buon Galiani s’era anche lui fermato a Eboli! Non aveva visto gli abbandonati degli angoli più remoti del Regno e ignorava anche che v’era missione e missione: “...le missioni, scriveva il fondatore, se ne sono fatte molte, e sono riuscite di mirabile frutto, poiché noi le facciamo differente dalle altre Congregazioni”.

Alfonso aveva quarantacinque anni d’età e quindici di prassi e di riflessione missionaria. Se aveva fondato i padri del SS. Salvatore, lo aveva fatto per raggiungere un altro uditorio, tragicamente abbandonato, e quindi anche su certi punti per fare diversamente.

Con la fondazione dell’Istituto nel 1732 si era in qualche modo

 

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messo per conto suo”, libero nelle scelte e negli orientamenti; ben presto, dopo la prima missioneredentorista” a Tramonti, aveva schizzato un proprio Regolamento per le missioni, a proposito del quale nell’agosto 1733 Falcoia gli aveva scritto: “ Non mi dispiac’il sentire il vostro Regolamento nelle Missioni ”. Questo primo testo purtroppo è andato perduto, però abbiamo quelli del 1744, 1747 1749, 1764 e cinque opuscoli, nei quali il santo riprende e insiste sulle stesse idee fondamentali, sua convinzione e sua vita fin dai primi anni di Scala, di Villa, di Ciorani 2 .

Nel grande trittico missionario italiano del Settecento - san Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751), san Paolo della Croce (1694-1775), sant’Alfonso de Liguori (1696-1787) - quest’ultimo è il più giovane, il più grande, il più personale, L’unico creativamente innovatore quanto al metodo missionario.

Non innovò però solo per il gusto di innovare. Pur ricusando i viaggi in carrozza per quelli a piedi o tutt’al più a dorso d’asino, del suo lungo apprendistato alle Apostoliche Missioni conservò sostanzialmente lo svolgersi della giornata missionaria (dalla meditazione del mattino fino alla disciplina per gli uomini in certe sere) e gli esercizi particolari da tenersi alle diverse categorie del popolo di Dio (clero, monache, gentiluomini, artigiani e operai, prigionieri...). Era il patrimonio comune degli Ordini e delle società missionarie di Napoli, messo a punto dall’esperienza di eminenti uomini apostolici.

Contrariamente alla drammaticità barocca del Segneri e della sua scuola 3, gli Illustrissimi erano molto sobri nelle messinscene penitenziali e Alfonso, benché si rivolgesse ad ambienti molto più popolari, anche su questo punto resterà nella linea dei suoi maestri. Occorre ignorare tutto di lui e della sua tradizione missionaria per scrivere come M. Carlo Ginzburg:

“E proprio i Redentoristi, seguaci del Liguori, continuarono in nuove terre di missione - la Maremma toscana, la Sicilia - l’opera iniziata dai Gesuiti, divulgando una pietà facile e esteriore, in cui il fasto delle processioni e le commozioni suscitate dalle prediche avevano una parte essenziale 4 .

Prima di tutto i Redentoristi non evangelizzarono la Maremma toscana, poi nella missione alfonsiana non v’erano processioni per gli adulti. Riguardo alla “pietà facile e esteriore”, vedremo cosa essa fu in realtà e, quanto alle “commozioni suscitate dalle prediche”, Alfonso non se ne fidava, preferendo ancorare la sua pastorale su un fondo più solido e dissuadendo con premura i suoi missionari dal considerarle degne di affidamento.

Questa diffidenza fu la prima caratteristica del suo metodo missionario.

 

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Diversamente dal Segneri e dai Gesuiti, che passavano come un uragano suscitando un’emozione penitenziale rapida e veemente, egli optò per una missione calma, riflessiva, prevalentemente catechetica, nel più genuino spirito di san Vincenzo de’ Paoli. Nel 1744 (Metodo) come nel 1747 (Regolamento) scrisse e mantenne questa sorprendente regola:

“Il giorno poi si farà la dottrina cristiana (agli adulti)... E s’abbia questo in conto di un esercizio il più pregiabile ed importante della santa missione5 .

Nel 1760 ritoccherà il suo giudizio in favore della predica grande (“è l’esercizio più importante della missione”), senza però detronizzare l’istruzione: “Il catechismo grande o sia l’istruzione al popolo è uno degli esercizj più importanti della missione6.

Di fronte all’indifferenza, al peccato, forse all’ostinazione, la missione non era un assedio, ma un assalto, che però Alfonso voleva Condotto non di sorpresa per la porta secondaria della paura: sarebbe stata una violazione della persona, per di più non intelligente, perché L’importante non era tanto entrare nella fortezza quanto restarvi. Figlio del secolo dei Lumi, profondamente rispettoso delle libertà, il nostro missionario prendeva di petto l’uomo intero: spirito e cuore, ponendosi questo duplice, complementare obiettivo: “persuadere l’intelletto e guadagnar la volontà7.

“Questo appunto, scrisse nella sua Lettera ad un Vescovo novello, è il fine delle missioni, la conversione de’ peccatori; poiché nelle missioni essi dalle istruzioni e dalle prediche vengono illuminati a conoscere la malizia del peccato, L’importanza della loro salute, e la bontà di Dio, e così mutansi i loro cuori, si spezzano le funi dei mali abiti, e cominciano a vivere da cristiani8.

Quindi, l’intelligenza prima di tutto: “illuminare”, “farsi intendere anche dalla povera gente”, perfino dalle “menti di legno9; poi scuotere la volontà, non sollevando un uragano emotivo, che si sarebbe esaurito in lagrime e in confessioni generali, ma provocando un cambiamento definitivo:

“Il profitto degli uditori non tanto consiste nel persuadersi delle verità cristiane, quanto nel risolversi a mutar vita e a darsi a Dio. E perciò il predicatore di missioni non dee fare come fanno alcuni che, terminata la predica, mettonsi subito a gridare al popolo: Cercate perdono a Dio, gridate misericordia: e pigliando il crocifisso, funi, torce di pece, si contentano di quello schiamazzo del popolo; il quale riuscirà bensì strepitoso, ma di poco frutto. Chi vuol frutto bisogna che si studi a vedere come meglio può muovere gli affetti degli ascoltanti e procurare una vera e non già apparente compunzione de’ cuori... Oh che ci vuole a muovere un appassionato! vi bisogna la mano divina.

 

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Onde il predicatore bisogna che predichi più colle ginocchia che colle parole10 .

Bene, ma dopo la preghiera occorrerà mettere in moto la “grossa artiglieria” di qualche commovente scenario? No, i sentimenti nuovi dovranno nascere dalla luce:

“E debolezza comune tra i predicatori, testimonierà Tannoia, di non restar soddisfatti, se eccitandosi il Popolo al pentimento, non vedesi dare in ischiamazzi. In quella confusione, diceva Alfonso, né il Popolo capisce il predicatore, né sa il predicatore perché piange il Popolo. Egli vedendo il Popolo commosso, e dare in grida, e singhiozzi, astenevasi dal porgere altri motivi; ma, toccando il campanello, imponeva l’acchetarsi; né ripigliava i motivi, se non vedendolo quietato. Voleva che capito si fosse ciò che detestar si doveva, e per qual motivo11.

Quando si studia Alfonso pastore d’anime, non è consentito dimenticare che egli fu prima avvocato (come del resto Sarnelli e Sportelli) dalla deontologia rigorosa. L’ex-avvocato sarebbe forse diventato meno coscienzioso, perché sacerdote? Si rileggano le norme scrupolose che s’era tracciato, le abitudini oratorie che aveva contratto: “È necessario lo studio dei Processi per dedurne gli argomenti validi alla difesa della Causa... Nel difendere le Cause bisogna essere veridico... e ragionato”. Allievo poi degli Illustrissimi, predicatori solo delle città, cui intellettualismo e dignità impedivano di abbassarsi a mezzi popolari, la sua prima e ultima parola riguardo a questi mezzi sarà una messa in guardia:

“Circa le funzioni, si proibiscono il fulminar maledizioni, il pigliar la catena o altro istromento a sangue, il bruciarsi colla torcia e simili ” (1744, 1747). “ Si sfuggano le dimostrazioni rancide e ridicole, anzi generalmente parlando, sia più che parco in questo, per non dir che se ne astenga affatto, e ciò specialmente ne’ luoghi culti e grandi. Soprattutto si proibisce espressamente il fulminare maledizioni, buttar la cotta e stola, pigliar la catena o altro istromento a sangue, arder la stoppa, buttar la cenere, e simili” (1764).

Però Alfonso, uomo del suo tempo, non indifferente alla vitalità espressiva del barocco, si indirizzava al popolo semplice, analfabeta per il quale gli insegnamenti delle cose tenevano il posto della lettura. Non esiterà quindi a consigliare ciò di cui egli stesso si era servito fin dall’inizio: qualche evocazione visiva e qualche insegnamento drammatizzato, come mostrare ai ragazzi l’immagine di un dannato la vigilia della loro confessione generale (che estenderà in seguito a tutto il popolo dopo la predica sull’inferno); sul finire della predica sulla morte prendere un cranio in mano, non per un “ giudizio fittizio” ma per delle constatazioni molto realistiche (“Eri ricco, fiero, giovane, bella? e ora?... Dove sono i valori che durano?”); flagellarsiseriamente

 

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per gli ostinati due o tre sere dopo la predica con una fune (faceva male, senza che fosse necessario agitarsi molto), non già con “catenelle” (facevano molto rumore e poco danno); infine, solo per gli uomini una sera lo “ strascino ” della lingua sul pavimento. Ma è cosa da far rivoltare lo stomaco! Meno rivoltante, però, delle bestemmie che si sentivano dappertutto, al dire del Sarnelli, e per un nonnulla: “ nelle piazze si bestemmia Dio, nei mercati si bestemmia Dio, nei ridotti si bestemmia Dio, nelle osterie e nelle case da gioco, oh quanto, oh quanto si bestemmia Dio, nelle Corti si bestemmia Dio, nelle famiglie si bestemmia Dio, nelle combriccole si bestemmia Dio, nelle campagne si bestemmia Dio, nel mare si bestemmia Dio... non si trova mare in calma, o non viene burrasca nel mare, che non si maledica Dio...”12. Gli uomini facevano penitenza per le loro bestemmie e per quelle dell’intero paese. Era necessario finirla con questa mania della bestemmia, assestandole un colpo umiliante con una punizione ripugnante, indimenticabile, ma era necessario finirla anche con gli odi tenaci: i nemici scandalosi venivano portati ai piedi del Crocifisso, perché si abbracciassero pubblicamente. Niente terrorismo spettacolare insomma alla maniera di Paolo Segneri senior, grande attore e agitatore di folle: pochi gesti che parlavano al popolo semplice sì, messinscena per emozioni violente no 13

 

Alfonso non fu più contento delle “prediche forti”.

Prima di tutto egli ricusava il pulpito in alto nella navata: troppo lontano, nell’Olimpo, invitava a una cantilena lenta e monocorde ( il terzo tono), agghiacciante come la voce di un fantasma. Preferiva una cattedra bassa, all’altezza delle teste e vicina alla gente, per parlare familiarmente con la sua vocesonora e chiara ” alla portata di tutte le orecchie e di tutti gli spiriti:

Chiari erano gli argomenti, e capibili da tutti, anzi brevi e succinti, senza lungheria di periodo. Anche qualunque villano, rozzo che fosse, o semplice donnicciuola, non perdevane una parola14.

E cosa diceva loro?

Verso il 1768 Mons. de Liguori darà alle stampe un foglietto di ventotto pagine, in cui evidenzierà i cinque punti a suo parere più importanti da inculcare al popolo nel corso delle missioni: L’amore di Gesù Crocifisso, la devozione alla divina Madre, la necessità della preghiera, la fuga dalle occasioni cattive, la rovina delle anime che si confessano male 15.

Notiamo di passaggio che questi cinque punti non avevano nulla a che fare con “una pietà facile e esteriore”, ancor meno con il “devozionalismonapoletano, caratterizzato, come dice Romeo De Maio,

 

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da “paura dei castighi di Dio, speranza nei santi e credula attenzione ai fatti straordinari16 .

L’opuscolo inizia con una protesta contro la maniera corrente di scegliere i temi delle prediche:

“Nelle missioni ordinariamente non si parla d’altro che de’ quattro novissimi e d’altre materie di spavento, e da taluni poco si tratta, se non di passaggio, dell’amore che Iddio ci porta e dell’obbligo che abbiamo noi d’amarlo. Chi nega che le prediche di terrore giovano, anzi son necessarie per isvegliare quei peccatori che dormono nel peccato: ma bisogna persuadersi che le conversioni fatte per lo solo timore de’ castighi divini son di poca durata; durano solamente per quanto dura la forza di quel timore conceputo: ma allorché il timore manca all’anima rimasta debole per li peccati commessi, ad ogni nuovo urto di tentazione facilmente ritornerà a cadere. Se non entra nel cuore il santo amore di Dio, difficilmente persevererà... Quindi l’impegno principale del predicatore nella missione ha da esser questo, di lasciare in ogni predica che fa i suoi uditori infiammati del santo amore”.

Quali prediche allora? Le costituzioni del 1764 al n. 67 ne fisseranno, per la missione di quindici giorni, un elenco essenziale, messo a punto dal fondatore dopo lungo tempo. Si tratta di una progressione in tre momenti: 1 ) il peccatore prenda coscienza della posta in gioco e del suo peccato: per questo si comincerà con il predicargli la chiamata di Dio, la necessità della salvezza, la procrastinazione della conversione, il peccato mortale, 2) guardi in faccia le “ verità eterne ”: la morte, il giudizio, l’inferno, l’eternità; 3 ) si confermi infine nella nuova scelta di vita con prediche sulla preghiera, il patrocinio di Maria, la passione del Cristo (durante le tre o quattro sere della “vita divota”) e la perseveranza.

Nella Selva Alfonso domanda inoltre, prima della serie sulle verità eterne, una predica sulla confessione e indica altri argomenti per le missioni più lunghe: la misericordia di Dio, i danni spirituali e temporali del peccato, la vanità dei beni e dei mali temporali, il numero dei peccati o, in altre parole, l’abbandono di Dio, l’impenitenza finale, lo scandalo 17.

Sorpresa per gli scrupolosi: in tutti questi elenchi non una predica sull’impudicizia, né sui doveri del letto coniugale. E’ una prima differenza con il Segneri; la seconda, più rilevante, riguarda l’intera settimana data alla perseveranza nell’amore, attraverso la preghiera, il filiale ricorso a Maria e, soprattutto, la meditazione di Gesù Crocifisso, approfondita nella vita divota.

 

La vita divota? Il termine ci scopre una realtà storica e pastorale alla quale siamo deliziosamente introdotti da una pagina di Don Giuseppe De Luca (1898-1962), che attinge ai ricordi della sua infanzia:

 

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“S’andava, a mattina alta, quando ancora l’alba non era che un presentimento dei galli, s’andava su in silenzio alla chiesa di S. Maria, con nonna; e l’arciprete, innanzi alla Messa, leggeva al poco lume di una candela le meditazioni di sant’Alfonso. Le donne, dentro un loro panno nero, inginocchiate per terra nel mezzo della chiesa; gli uomini, ai lati del presbiterio, e noi bambini ora presso gli uni ora presso l’altre, svegli ma come s’è svegli la notte; e tutti s’ascoltava quelle parole, né faceva nulla ai più vecchi che già le sapessero a mente. Non mi ricordo distrazioni, in quel tempo. Le mie distrazioni son nate nella scuola.

Un’altra volta, poi, nel pomeriggio, ma già presso l’Avemaria, la campana della medesima chiesa tornava ad alternare sull’umile paese que’ suoi rintocchi, ch’io ricordo, e quando ci ritorno, riconosco da lontano con una immensa tenerezza; e daccapo si formava, su, verso la chiesa, il rado corteo di buone mamme, di nonne, di bambini, di vecchi. Gli uomini no, che restavano in campagna sino all’ultima luce, nel lavoro. Era, immancabilmente, tutti i giorni dell’anno, la visita al SS. Sacramento: e anche allora, si pregava con parole di sant’Alfonso, si cantavano sue canzoncine18.

La vita divota era questa vita insieme di orazione in chiesa, che raccoglieva, mattino e sera, la comunità cristiana tutti i giorni dati dal buon Dio e doveva essere essa uno dei frutti permanenti di tutta la missioneredentorista”. Alfonso la stabilì in tutte le sue chiese, dopo averla subito iniziata a Scala, come si deduce da alcuni passi delle lettere indirizzategli dal Falcoia 19 .

Alfonso fu il primo a introdurre la vita divota quale tempo forte nella missione. I padri di Propaganda e i Gesuiti non la conoscevano; solo la Congregazione della Purità, eretta a Napoli dal Pio Operaio Antonio Torres, ne praticava un abbozzo: al termine della missione, i padri restavano sul posto ancora due o tre giorni a riposare, attendere i ritardatari e dare le assoluzioni differite; inoltre per non lasciar cadere la tensione spirituale della popolazione, facevano ogni sera una meditazione sulla passione 20. Alfonso invece introdusse la vita divota nel cuore stesso della missione, come l’elemento più rilevante per la perseveranza, consacrandole tre o quattro sere di meditazione, con tutto il popolo, sulla passione di Gesù Cristo e sui dolori della Madre sua. Il suo primo e più intimo discepolo, Sarnelli, ne descriveva il metodo già nel suo Mondo santificato, apparso nel 1738 21. Tannoia annotava:

Terminate le prediche delle Massime, eravi per tre o quattro giorni un pio esercizio meditativo, ch’egli chiamava Vita Divota. Consisteva questo per prima in istruire il Popolo sulla maniera di mentalmente orare; spiegavasene la necessità, e mettevasi in veduta l’utilità di sì pio esercizio. Indi per un’altra mezz’ora facevasi praticamente

 

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meditare la dolorosa passione di Gesù Cristo. Erano così teneri in bocca sua questi sensi della Passione, che vedevansi in Chiesa fiumi di lagrime; ed ove prima si piangeva per dolore, in questa meditazione facevasi per amore. Volendo commuovere sensibilmente il Popolo dava a vedere nell’ultima di queste meditazioni una gran tela, overa dipinto Gesù morto in Croce, delineata da esso medesimo, ma tutto sangue, e lacero nelle membra ”: il Cristo del suo incontro interiore a ventitré anni.

Con questa maggiore preoccupazione per l’approfondimento e per la perseveranza, Alfonso, al contrario ancora di Segneri, rifiutava la missionecolpo di spugna”, la missione breve: la sua durava almeno quindici giorni (a voler essere rigorosi, dieci o dodici) nelle piccole località, da venti a trenta nelle grandi.

Altrettanto risolutamente - tanto peggio sempre per Segneri - fu contro la “missione centrale”. Si spiega in venti passi, ma in nessuno così chiaramente come nelle Riflessioni utili ai Vescovi (1745):

“Se le missioni sono utilissime anche per le città, bisogna poi persuadersi che nelle terre piccole non solo sono utili, ma necessarie, per cagione che in questi luoghi piccoli, dove assistono pochi preti e paesani, facilmente in molte anime si trovano i sacrilegj di male confessioni per la ripugnanza di confessarsi a quelli che la conoscono e vi praticano continuamente. Onde avviene che se queste anime così cadute non hanno il comodo della missione per poter manifestarsi a’ sacerdoti forestieri, è moralmente certo che seguitano a non lasciare i peccati, e certamente si dannano...

E’ bene dunque che il vescovo faccia far la missione per ciascun luogo benché piccolo della sua diocesi ogni tre anni, dico ciò perché sogliono praticare alle volte alcuni missionari, in certe parti dove si trovano più paesi piccoli dispersi d’intorno, per isbrigarsene con una sola missione, farla in un luogo di mezzo. Io venero il loro buon zelo in voler santificare tutte quelle anime in una volta, ma non approvo la loro condotta; e pregherei i vescovi, per quanto amano la gloria di Gesù Cristo, a non contentarsi di tali missioni affasciate, ma a procurare che in ogni paese, per piccolo che sia, si faccia la sua missione a parte, almeno di otto giorni; perché sappiamo che in queste missioni di mezzo vi concorrono i meno bisognosi, ma quelli che sono più aggravati di peccati, e per conseguenza meno curanti della loro salute, quando la missione non si fa nel proprio paese (dove sono costretti allora ad assistervi almeno per rispetto umano di non esser tenuti per presciti ) a quel luogo di mezzo non si accostano, o rare volte, sotto il pretesto ch’è lontano, o che la predica finisce a notte, o ch’è mal tempo ecc.; e così se ne restano nel paese e nel loro medesimo stato di vita. Io

 

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parlo per esperienza. Oh in quanti paesi si diceva esservi stata la missione, e poi, o perché si è fatta la missione così in qualche luogo di mezzo, o perché la missione si è fatta in troppo breve tempo, gli abbiamo trovati bisognosi, come non vi fosse stata mai missione!

E perciò la nostra minima congregazione pratica nelle diocesi di far missione paese per paese, per piccolo che sia, almeno per dieci giorni; e dove vi vuole più tempo per sentire le confessioni di tutti si prolunga la missione sino a 20 e 30 giorni. Credasi che il frutto maggior delle missioni non consiste nel sentir le prediche, ma nel confessarsi tutti del paese a’ missionarj. Se ciascuno nella missione non aggiusta i conti della vita passata e non mette sistema alla vita futura colla confessione, poco gli gioveranno le prediche intese22 .

Dio regola sempre la sua condotta sulla pecorella smarrita ” ha scritto da qualche parte Charles Peguy; Alfonso regolava la sua congregazione sulla povera gente e i piccoli paesi abbandonati. Se voleva le sue case “fuori dei centri abitati”, dove pullulavano i confessori e le devote, era perché tutto il tempo dei suoi padri venisse dato agli abbandonati e perché i poveri contadini dovessero fare solo qualche chilometro per confessarsi ad orecchie diverse di quelle dello “ziprete”.

 

“Non voleva Alfonso, che fossero state, le sue Missioni, come si suol dire, un fuoco di pagliadice Tannoia, perciò nei luoghi più popolosi organizzava confraternite di sacerdoti (per la loro vita spirituale e la loro formazione permanente), di gentiluomini, di artigiani e operai, di giovani donne. Anche se altri missionari facevano lo stesso, Alfonso le caratterizzava - e questo gli avrebbe guadagnato per due secoli l’intera Italia - con la vita divota quotidiana: meditazione al mattino sulla Passione, visita al Santissimo Sacramento e alla Madonna la sera. “ Se Gesù Cristo, diceva, è il fonte di tutte le grazie, Maria Santissima n’è il canale23.

Tuttavia “ tra tutti i mezzi, che Alfonso aveva a cuore, affinché le Anime mantenute si fossero in grazia, il mezzo de’ mezzi era, che si capisse il gran bene, che produr suole la frequenza de’ Sacramenti, e che ognuno se n’invogliasse. Confessione e Comunione sono, ei diceva, e ripetevalo sempre, la sorgente di tutt’i beni, questi abbattono le passioni, e ci fortificano contro le tentazioni, senza di questi si cade, e si va in precipizio. Inculcava perciò che in ogni otto giorni ricevuti si fossero questi due Sacramenti...

Si sa, disse un giorno, che altro impegno non hanno i moderni regolatori delle anime, che allontanare i fedeli dall’uso de’ Sacramenti, come se altra strada non ci fosse per andare a Dio, che allontanarli da Dio. Vorrei, disse altra volta, quasi piangendo, che quella disposizione,

 

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che taluni Confessori esigono ne’ penitenti, essi l’avessero per metà per celebrare degnamente. Inculcava, che si andasse incontro a quest’empietà, così egli la chiamava...”24.

Così teneva tanto perché le quattro comunioni generali della missione (ragazzi, ragazze, donne e uomini) avessero un carattere festoso indimenticabile.

Festa grande doveva essere anche l’accoglienza e l’intronizzazione dell’immagine della Madonna, che, entrando per la porta centrale, portata a spalla dai sacerdoti, veniva condotta trionfalmente sul suo trono: “una funzione che muove a tenerezza anche le murascriveva Alfonso 25 .

Giorno di paradiso infine la benedizione conclusiva dei fedeli e del paese con il Santissimo, fuori della chiesa, tracciando il segno della salvezza sulle campagne, levandolo ben in alto verso i tre angoli delL’orizzonte, mentre tutte le campane squillavano al vento. Per i cuori cristiani la grazia e la festa sono inscindibilmente legate per sempre.

La chiusura della missione non era il suo termine, perché, sempre in vista della perseveranza, Alfonso inventò la “rinnovazione di spirito” o “ritorno”. Dopo un po’ di tempo, quattro o cinque mesi tutt’al più, un gruppo più ristretto di missionari ritornava per alcuni giorni e “ infervorava i buoni ad odiar il peccato, rialzava qualche anima ricaduta, e raccoglieva alle volte qualche spica, che in tempo della messe, o era immatura, o scappata si vide a’ metitori Evangelici26. Perciò volle che le case del suo istituto fossero collocate in punti accessibili a più diocesi, nel cuore delle campagne popolate, non lontane di conseguenza dalle località su cui esse dovevano irradiarsi. In questa prospettiva di prossimità agli abbandonati, Scala era stata un insuccesso, Villa invece una meraviglia e le rinnovazioni di spirito (a Caiazzo Dragone, ecc.) cominciarono già negl’ianni 1735-1736, Ciorani consolò per la perdita di Villa, situata com’era a meno di 20 chilometri dal golfo di Salerno e dai centri agricoli di Giffoni, Serino, Solofra, Nocera dei Pagani, dove abbiamo visto i padricioranisti” (così venivano allora chiamati ) passare e ripassare . Per Spinelli, per Benedetto XIV e durante almeno due secoli, per il mondo cristiano, le rinnovazioni di spirito saranno uno dei tratti più tipici e apprezzati dell’apostolato dei Redentoristi. Per questi, come per il fondatore, la grazia delle grazie non è la conversione, ma la perseveranza.

 

In questo capitolo abbiamo messo in risalto quanto Alfonso ha creato nella pastorale missionaria, secondo le sue parole a Mezzacapo: “le missioni... noi le facciamo differente dalle altre Congregazioni”, senza fermarci sugli elementi del tronco comune agli altri missionari, appresi alle Apostoliche Missioni: gratuità delle missioni, alloggio auto-

 

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nomo, comunità di preghiera e di vita, austerità penitenziale nel nutrimento, esortazioni notturne per le strade e le piazze, organizzazione della giornata per tutto il popolo e per le categorie particolari, culto eucaristico, devozione mariana (ogni giorno litanie della Vergine e rosario spiegato e recitato). All’impronta mariana diede un suo tocco aggiungendo la presenza dell’immagine della Madonna accanto alla cattedra, L’obbligo di predicare la sua potente misericordia, l’intronizzazione definitiva della sua immagine per le “visitequotidiane della vita divota  permanente.

Le prediche che “convertivano” si ricollegavano a quelle di Segneri e degli altri, con in meno il terrore e in più l’obbligo di parlare di Maria e di terminare sempre con la misericordia e l’amore del Cristo, perché “Iddio, diceva Alfonso, vuole tutti salvi, e l’eternità dannata non è riserbata, che ai soli ostinati27.

Fu del tutto originale quanto alla determinazione degli argomenti delle prediche, introducendo quella sulla preghiera - se non si poteva conservare che un solo tema da predicare, questo doveva essere la preghiera - e, più in generale, nell’ultima settimana interamente dedicala alla perseveranza e all’amore, che sono un tutt’uno.

Resta che la sua predicazione, come ogni altro annunzio missionario del Vangelo, è tipica, datata, localizzata nel Settecento: la parola, di Alfonso risuonava nell’Italia meridionale del XVIII secolo, per un popolo cristiano, cioè cattolico, per il quale Dio, la fede e la pratica religiosa andavano da sé. Oggi invece tutto questo ci lascia indifferenti a meno che non annoi, non sconcerti o non faccia stralunare.

Alfonso inoltre lanciava le sue missioni quando era in piena ascesa il mondo moderno, inaugurato dal Rinascimento, caratterizzato dalla “scoperta del soggetto” dell’uomo, del suo valore individuale, della sua responsabilità. Jean Delumeau fa giustamente notare che l’arte pittorica del ritratto nacque verso la metà del secolo XV, se scompare verso la fine del secolo XX con l’impressionismo, è perché si affermano nella vita civile i socialismi e la socializzazione e nella teologia il Corpo di Cristo, il Popolo di Dio, la salvezza come realtà storica, globale, pasquale. La visione missionaria del Liguori e del suo tempo manca di queste dimensioni paoline 28.

Come un proiettore teatrale, la teologia di un’epoca illumina solo una parte della rivelazione e non sempre la stessa. Sarà allora una cosa tanto cattiva decidere come san Paolo “di non sapere altro tra voi che Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso?” (1 Cor. 2, 2). L’essenziale in ogni epoca non sarà forse far passare nel mondo, come Alfonso, questa parola dell’apostolo: “Morendo, Cristo morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù?” (Rom. 6, 10-11)

 


 





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1 Le due citazioni sono riportate da Gabriele De Rosa in Società, Chiesa e vita religiosa nell’Ancien Régime, a cura di C Russo, pp. 156-457, n. 16.



p. 419
2 Metodo per le missioni (1744), in S Alfonso, Lettere, III pp. 535-545; Regolamento (1747), In “Analecta”, 1 (1922), pp. 171-178; 206-212, 255-263 e 8 (1929), pp. 242-249; Regola (1749), In SH 16 (1968), pp, 414-416; Costituzioni ( 1764), in Codex Regularum Et Constitutionum C.Ss.R., pp. 36-88. I cinque opuscoli di ampiezza molto diversa sono: esercizi di missione (1760) che è la III parte della selva, lettera ad un religioso amico (1761), Foglietto... di cinque punti (1768), Lettera ad un vescovo novello (1771) e Avvertimenti ai predicatori (1778); nelle edizioni delle opere alfonsiane sono uniti alla selva (Marietti, III ), per cui nelle citazioni rinviamo solo alle pagine di questo tomo. Cf anche Tannoia, I, pp. 304-328 e l’eccellente tesi di P. A. Mazzoni, le missioni popolari nel pensiero di S. Alfonso M. de Liguori



3 Cf. SH 22 (1974), pp. 324-346



4 In C. RUSSO, op cit., p. 442.



p. 420
5 S ALFONSO, Lettere, III, p. 539; “ Analecta ”, 1 (I922), p. 210 ( 16 ).



6 Opere, Marietti, III, pp. 227 e 219.



7 Ibid., p. 237



8 Ibidp. 326



9 Ibid., pp. 300 e 236.



p. 421
10 Ibid., p. 236.



11 TANNOIA, I, p. 306.



p. 422
12 SARNELLI, Opere, XII. p. 64



13 S. ALFONSO, Lettere, III, pp. 540-541; “Analecta”, 1 (1922), pp. 211 18, 255 20; Opere, Marietti, III, pp. 260-262.



14 TANNOIA, I, p. 305; cf. p. 306.



15 Opere, Marietti. III, pp. 288 ss.



p. 423
16 DE MAIO, op. cit., p. 117,



17 Opere, Ibid., p. 253



p. 424
18 G. DE LUCA, Sant’Alfonso il mio maestro di vita cristiana, pp. 59-60.



19 FALCOIA, Lettere, pp. 121 e 175.



20 Cf. F DE MURA, Il missionario istruito, Ii, Pp. 275-285Revue d’ascétique et de mystique”, 25 (1949), pp. 457-464.



21 SARNELLI, Opere, I, pp. 60-69.



p. 426
22 Opere, Marietti, III pp. 874-875



23 Cf. TANNOIA, I, pp. 308-315, passim.



p. 427
24 Ibid., pp. 315 e 332.



25 S. ALFONSO, Lettere, II, p. 336



26 TANNOIA, I, p. 317; cf. Codex Regularum, nn. 147-148, p. 88; DE MEULEMEESTER, op. cit., I, p. 141; SH15 (1967) pp. 126-133.



p. 428
27 Citato da Tannoia, I, p 306.



28 Cf. P. HITZ, L’annonce missionnaire de l’Evangile, pp. 137-170.



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