IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762) 29 - IN “ ESILIO ” ALLE PORTE DI NAPOLI (maggio 1741 - agosto 1742) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
29 - IN “ ESILIO ” ALLE PORTE DI NAPOLI
- Se volete un santo, votate Gotti; se volete un politico, votate Aldovrandi; se volete un brav’uomo, votate per me.
Si dice che nell’agosto 1740 il cardinale Prospero Lambertini (1675-1758), arcivescovo di Bologna, lanciò un bel giorno questa battuta per ridare il sorriso ai suoi colleghi, sfiniti dalla canicola e da un conclave che non terminava più. Però quell’espressione detta per gioco aiutò a chiarificare le idee e a decantare le passioni, tanto che il 17 agosto il 255° scrutinio diede 50 voti al “brav’uomo”, che con il nome di Benedetto XIV succedette a Clemente XII. La tiara era caduta sulla testa migliore del Sacro Collegio e Benedetto XIV sarà il più grande papa del Settecento, l’unico veramente grande.
L’11 novembre 1740 indisse un giubileo universale straordinario e il 3 dicembre indirizzò a tutti i vescovi la sua prima enciclica, Ubi Primum, sui loro tre grandi doveri: scelta e formazione dei sacerdoti, attiva residenza nelle proprie diocesi, frequente e vigile visita pastorale: “Vi ammoniamo, esortiamo e anche ingiungiamo a visitare personalmente le vostre chiese e diocesi e a conoscere le vostre pecore e il volto del vostro gregge... Il vescovo ignorerà molte cose, molte gli saranno tenute nascoste o almeno le apprenderà troppo tardi, se non si recherà in tutte le parti della sua diocesi e da se stesso guarderà ovunque, ascolterà ovunque, cercherà di porre rimedio ovunque...”1.
Fu come uno squillo di tromba che risvegliò alle sue responsabilità pastorali l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Giuseppe Spinelli, che, colto e intraprendente, zelante e infaticabile, coscienzioso fino al rigore, ambizioso per la sua chiesa e forse anche per se stesso 2, da quattro anni era stato sottratto all’azione pastorale dalle interminabili trattative tra Roma e Napoli per il concordato, che sarà firmato il 2 giugno 1741. Nella grazia del giubileo e nella linea della Ubi Primum, lanciò su tutti i fronti un’azione pastorale di lunga durata (6 anni) e di penetrante efficacia. All’inizio del febbraio 1741, annunziò la “ visita generale della diocesi ”, mobilitando apostoli per una campagna missionaria, che la
- 431 -
preparasse parrocchia per parrocchia, e intimò ai predicatori della quaresima e ai missionari di stabilire l’orazione in comune in tutte le chiese.
Nel cuore di questa gigantesca impresa, come ispiratori prima e animatori dopo, volle due uomini, L’uno e l’altro incardinati alla sua diocesi e membri attivi di quella Congregazione di Propaganda, della quale egli stesso era primo superiore: Alfonso de Liguori e Gennaro Sarnelli .
Spinelli aveva già incontrato Alfonso? Non lo sappiamo. Ma “a senso comune era Alfonso tenuto per il primo Missionario in questo Regno. Siccome nel confessare, così nel predicare aveva un dono di Dio tutto particolare. Non altrimenti la sentivano, non che i Vescovi, ed Arcivescovi, anche i medesimi uomini Apostolici così in Napoli, che nelle Province”3. Spinelli sapeva quindi su chi mettere le mani.
E se non l’avesse saputo, v’era Sarnelli ad informarlo: Sarnelli, sempre malato e sempre sul punto di sollevare il mondo, il primogenito del cuore e dello spirito del Liguori, da cinque anni nella capitale a bandire la prostituzione e la bestemmia, predicare missioni, sia con Alfonso e i “cioranisti”, sia con le Apostoliche Missioni, e scrivere, scrivere... Nel 1738 aveva pubblicato Il mondo santificato, in cui si era proposto di “istruire i popoli per mezzo dei loro sacerdoti nella meditazione e nella preghiera, ed agevolarne l’esercizio in comune ed in particolare... introdurre nelle chiese, comunità e famiglie l’esercizio della orazione mentale e della preghiera... per ogni stato e ceto di gente, per religiosi, per ecclesiastici e per secolari”. L’opera, eco vigoroso del pensiero e del metodo apostolico di Alfonso, era dedicata “agli Illustrissimi e Reverendissimi Signori Vescovi e Prelati della Chiesa” e seguita da un indirizzo particolare per il cardinale Spinelli:
“Né questa incontrar può sorte migliore, che comparisce sotto l’aura del suo potentissimo e grazioso patrocinio: sicura, che così sarà autorevolmente protetta, ed ampiamente promossa... mercé il fioritissimo clero che gode questa sua diocesi, abbondantissima di fervorosi Parrochi e missionari, i quali zelantissimi della gloria divina e della salute delle anime, a braccia aperte, a ginocchia piegate accettano le sue sante e salutari ordinazioni... Ed in verità sarà questa diocesi un Santuario; perché casa di orazione. E dall’esempio di questa inclita metropoli si accenderanno vieppiù di zelo e fervore i sacri Prelati di s. Chiesa: e con tal mezzo resteranno purgate da vizi le loro diocesi, e si vedranno anche ivi rifiorire le virtù e la santità: ed ecco il mondo santificato”4.
L’apparizione de Il mondo santificato e il suo impatto sull’arcivescovo furono, per Napoli e per l’intera Italia, un evento pastorale di portata storica.
- 432 -
L’opera si apriva con venti pagine sull’importanza delle missioni parrocchiali, non di quelle terrorizzanti e rapide, capaci solo di strappare una “ buona ” confessione senza domani, ma alla Liguori con prediche sulla Vergine e sulla preghiera, con iniziazione alla “vita divota” e rinnovazioni di spirito. Poi Sarnelli, efficace discepolo e maestro trascinante, tracciata la storia della meditazione in comune (il mattino in chiesa, la sera in famiglia), ne dava un manuale pratico.
Purtroppo le intuizioni originali di Liguori e di Sarnelli verso la fine del secolo XIX, sono state progressivamente trasformate in impoverente recita di preghiere infantili. La “ vita divota ”, non meno delle Cappelle serotine, originariamente non era un susseguirsi di preghiere vocali, tanto da non includere nel programma il rosario alla Vergine malgrado che Alfonso, tutto ardore per Maria, lo pregasse ogni giorno 5. Dopo la missione infatti, non potendo trattenere in chiesa la gente per lungo tempo il mattino e la sera, occorreva limitarsi all’essenziale, per Alfonso l’orazione mentale non già la preghiera vocale. Quindi la “vita divota” alfonsiana era quotidiano richiamo e meditazione delle verità eterne, della storia della salvezza e della tenerezza di Dio in Gesù Cristo preghiera personale e unione con Dio, che interiorizzavano ogni giorno la fede, ravvivavano il cuore e stimolavano la volontà, i cui cambiamenti sono lenti, pazienti e bisognosi di essere sostenuti incessantemente: era il colpo d’ali regolare, senza del quale la stessa aquila precipiterebbe a terra.
Coloro che identificano la pietà italiana con recite chiassose e pratiche superstiziose, ci dicano per favore dove sono finite le 57 edizioni avute in un secolo da Il mondo santificato, vero trattato dell’orazione mentale 6, per riferirci solo a quest’opera del Sarnelli! I turisti alla De Brosse, Goethe o Du Paty, fino a tardi nei loro letti circondati da cortine, non hanno certo potuto vedere il popolo semplice, analfabeta dei villaggi o dei quartieri raccolto in chiesa, prima dell’aurora, ad ascoltare dal parroco il punto della meditazione letto in Sarnelli o Liguori! Quest’ultimo infatti scriverà una dozzina di raccolte di meditazioni, che raggiungeranno almeno le 1.231 edizioni italiane.
L’arcivescovo Spinelli, che amava e venerava Sarnelli, ne adottò con entusiasmo Il mondo santificato, dandolo come programma e manuale al clero delle parrocchie e ai missionari. Venuta alla luce nel 1738 ristampata nel 1739, nel 1740..., L’opera, troppo grande per essere alla portata di tutte le borse, fu “ sbriciolata ” in fascicoli venduti o distribuiti durante la quaresima e le missioni. Don Gennaro la completò pubblicando Il mondo riformato (1739), Il Cristiano santificato (1739) L’Anima illuminata (1740) e ben presto L’Ecclesiastico santificata (1742) Torni e i missionari della cattedrale diventarono, a Napoli e
- 433 -
fuori Napoli, i promotori dell’orazione in comune. Di tutta questa azione Gennaro stenderà un eloquente bilancio nella lettera ad Alfonso del 18 febbraio 17417.
Nel nuovo clima venuto così a stabilirsi nella parte più dinamica del clero, si poté lanciare la grande missione generale, ispirata da Sarnelli e voluta “alla Liguori” dal cardinale, che decise con autorità: a capo Alfonso, spalleggiato da Don Gennaro e da qualche altro sacerdote del SS. Salvatore.
“Volle il cardinale, scrive Tannoia, che Alfonso oltre degli Alunni di sua Congregazione, prescelto si avesse in suo ajuto ogni altro Soggetto, che avesse voluto da tutte le Congregazioni di Napoli, non eccettuandone quella dell’Arcivescovado; e che, come Capo regolato avesse ogni funzione, e preseduto a tutti, come Superiore e direttore di quest’Opera. Ebbe di mira il zelante Cardinale, come si spiegò, non solo di voler dare a’ suoi diocesani una Missione di maggior frutto, ma che i Missionarj della sua Diocesi appreso avessero sotto Alfonso anche il modo di tenersi, e fare le Missioni con maggior profitto”8 .
A tre chilometri a sud-est di Napoli, a Barra vicino a Portici Mons. Spinelli aveva anche previsto per Liguori e i suoi confratelli una casa, dalla quale dirigere tutte le operazioni: Sant’Aniello
“Scusossi Alfonso con dire, che la Diocesi di Napoli, a differenza delle altre, era ben coltivata, e bisognando, potevasi avvalere l’Eminenza Sua di tanti, e così valenti Missionarj, che già aveva in tante fiorentissime Congregazioni: laddove il Regno penuriava estremamente di questi, e vedevansi centinaja di Villaggi, ed anche delle non picciole Terre totalmente abbandonate ”.
Spinelli prese male il rifiuto e lo zelo di Sarnelli fu costretto a intromettersi sia presso Alfonso perché attenuasse le resistenze, sia presso il cardinale perché riducesse le pretese: il suo grande progetto doveva venire alla luce, ma senza dolore. Il 18 febbraio scrisse quindi a Alfonso:
“Stimatissimo Padre, è tempo da santificar questa diocesi, e quindi altre molte province... Io questa mattina, sabato, ne ho parlato a lungo con S. Eminenza, il quale si è dolcemente lagnato che non vi aveva ancora veduto. Ho detto tutto: la dipendenza da Mgr Falcoia la maniera da tenersi, la lettera che deve scrivere a Mgr. Falcoia e che la faccia con mia intelligenza. Ha detto a tutto che volentieri, e già sta persuaso e risoluto... Benedetto sia Dio!... Prevenite, se vi pare Monsignore per la risposta che non si disgusti il Cardinal di Napoli che può aiutare le sante pretenzioni vostre. Si contenta S. Eminenza per V. Riverenza e un altro... Non cercate patti; venite ed avrete più di quello desiderate, dico: venite coll’ubbidienza a Falcoia
Rimane a far molta orazione, acciò S. D. Maestà benedica ogni
- 434 -
cosa. State di buon cuore: veggo un largo campo aperto per dilatare i vostri desideri e l’Istituto”9 .
La lettera del cardinale a Falcoia, preparata dallo stesso Sarnelli insieme al canonico Giacomo Fontana, uomo di fiducia di Spinelli, datata 24 febbraio, riuscì a far vibrare le corde buone: L’arcivescovo, desolato per lo stato di abbandono spirituale della vasta zona rurale della sua diocesi e del clero che la serviva, aveva appreso con immensa speranza che Don Alfonso de Liguori e i suoi compagni si erano specializzati nelle missioni alle popolazioni prive di soccorsi e al loro clero, “ e benché lo sappia che sono pochi i compagni del Sig. Don Alfonso; tuttavia resterò soddisfatto se venga egli con un altro solo... Prego adunque V. S. Ill.ma che dirige detta santa Adunanza a secundare detta mia intenzione coll’incaricar loro il ben pronto consentimento alla mia risoluzione, che è cotanto conforme allo spirito di quella vocazione che detto Sign. D. Alfonso ed i suoi hanno santamente seguito... E la prego non solo del suo consentimento, ma del suo impegno ed ardenza nel promuovere la venuta de’ suddetti precettandolo loro per ubbidienza...”10 .
Purtroppo questo appello di Sarnelli e del cardinale per gli abbandonati della periferia napoletana non era una bugia a buon fine, perché le campagne spiritualmente in abbandono cominciavano già alle porte della capitale. La città intra muros traboccava di luoghi di culto, serviti da un clero urbano di valore, ma con l’abbattimento delle fortificazioni, intrapreso nel 1740, i sobborghi si gonfiavano di una popolazione “ abbandonata ”. La pastorale, tradizionale per sua natura, cominciava a trovarsi superata dall’esplodere delle periferie 11.
Malgrado ciò la risposta di Falcoia all’eminentissimo, da Vico dove stava riposando con Sportelli, fu un rifiuto, garbato ma deciso: i padri sono poco numerosi, tanto carichi di lavoro e di salute precaria! Volete far morire la gracile pianticella, che ha appena messo le radici o strapparla dal suo terreno delle anime povere e dei vescovi poveri? A Napoli avete migliaia di zelanti operai con i quali “ santificare cento mondi ” (è una frecciata scoccata a Il mondo santificato di Sarnelli o un fiore?). Del resto come posso dare io quest’ordine a dei servi di Dio, la cui sola umiltà mi conferisce una qualche autorità? Prostrato faccia a terra, vi supplico umilmente di lasciare in pace queste buone creature 12.
Ma il vescovo di Castellammare non faceva peso di fronte al cardinale arcivescovo di Napoli; Spinelli non volle sentire scuse e Falcoia non digerì il fatto di non aver contato proprio niente. L’arcivescovo convocò Liguori o questi giudicò opportuno presentarsi? Di fatto, Alfonso, terminate le missioni nei dintorni di Giffoni e Serino e i “ritorni” a Solofra e zone vicine. forse lunedì di Passione 20
- 435 -
marzo 1741, prese la strada della capitale, dove trovò ospitalità presso L’amico e penitente Giovanni Olivieri, ex-primatista del peccato al quale “ mancava il ciuffo per esser turco ”, la cui casa d’ora in poi sarà quella di Alfonso a Napoli, finché i Redentoristi non avranno un piccolo pied-à-terre nel palazzo del fratello Ercole 13.
Il P. de Liguori puntò subito all’arcivescovato... e si imbatté in un muro:
- Son vostro Superiore, gli disse il cardinale, voglio essere ubbidito.
Le obiezioni di Alfonso furono frantumate:
- Anche la mia Diocesi è popolata da cento ventimila e più anime e queste anche disperse in tante Terre, e Casali. E poi ho su di voi diritto più di qualunque altro vescovo, perché siete mio suddito e mio diocesano .
Il padre tentò una scappatoia:
- Eminenza, così umiliereste gli Illustrissimi: la loro congregazione ha il primo posto su tutte le altre. Non lascerete ad essa la designazione del direttore della missione?
- Io sono l’Arcivescovo, replicò Spinelli, e sono ancora Superiore delle Missioni, come lo sono di tutti in tutta la mia Diocesi: se le Missioni sono mie, spettano a me, e non ad altri queste provvidenze. Voi dovete ubbidirmi e non voglio più sentire una parola in contrario.
La congregazione della cattedrale aveva più che perdonato Liguori; Giulio Torni, rieletto superiore nel luglio 1740, e lo zio Pietro Marco Gizzio, che anche se molto malato (morirà il 26 agosto 1741) vi contava ancora molto, furono felici e onorati della scelta del cardinale: se vi fu qualche suscettibilità tra i “ fratelli ” fu senz’altro rara e discreta 14.
Alfonso, avvisato Falcoia, lo incontrò a Vico Equense nei giorni seguenti 15. Intanto con il cardinale sceglieva nelle congregazioni missionarie diocesane di Napoli una dozzina di collaboratori qualificati: Il primo, Don Matteo Gennaro Testa, diventerà arcivescovo di Reggio e poi Cappellano Maggiore; Coppola e Savastano saranno vescovi; Michele de Alteriis, Bartolomeo Capozzi avevano fatto parte del suo fervoroso gruppo sacerdotale degli anni 1725-1730; dal SS. Salvatore verranno Andrea Villani e, evidentemente, Gennaro Sarnelli. Prese queste disposizioni, Alfonso raggiunse i suoi missionari nei dintorni di Ciorani, fino all’inizio di maggio.
Domenica 14 maggio 1741, Liguori in testa e tutto il gruppo intorno a lui, s’aprì nelle tre parrocchie di Afragola (circa 11.000 ab. 16 ) a nord-est di Napoli, la prima missione della lunga serie che sarebbe durata cinque anni. Oltre la direzione generale, agli inizi pesante, Alfonso assicurò gli esercizi ai sacerdoti di tutta la cittadina e la predica grande
- 436 -
nella parrocchia principale, S. Maria d’Ayello (5.650 ab.), mentre Sarnelli vi faceva la catechesi al popolo e Testa la predica del mattino 17. Il 28 maggio quasi tutto il gruppo passò al vicino villaggio di Casalnuovo (1.500 ab.) per altri quindici giorni, arrivando così all’11 giugno e alla sosta per l’estate. Alfonso si ritirò nella piccola residenza di Sant’Aniello a Barra insieme a Sarnelli e Villani; furono raggiunti dal fratello Francesco Tartaglione per le compere, la cucina, L’accoglienza, il servizio delle messe e della cappella, mai vuota per le confessioni e le prediche.
Conosciamo il ritmo di vita praticato fin dall’inizio da una formula celebre riportata da Tannoia: “Se fuori di casa voleva Alfonso i suoi Missionarj altrettanti Apostoli, in casa li voleva tanti romiti ” 18. Si restava insieme in casa durante la quaresima e i quattro mesi estivi: “Prescrisse che in Quaresima i soggetti, per rinfrancare le forze del corpo, e quelle dello spirito, si ritrovassero tutti in casa. Si usciva in Missione circa la metà di Ottobre, e fatto Pasqua dovevasi tirare per tutto Maggio; ma ne climi più freddi anche parte di Giugno”19 .
La pausa estiva fu trascorsa quindi non solo nel silenzio certosino, nella preghiera comunitaria (ufficio, tre meditazioni al giorno: mattino, pomeriggio e sera), nei casi di morale, di missione, di dommatica e di sacra Scrittura, nel lavoro e nella preghiera personale, ma anche nel delineare insieme al cardinale le linee conduttrici, che l’esperienza delle due prime missioni permetteva di fissare. Furono precisate nelle Istruzioni ai missionari destinati a percorrere la diocesi di Napoli, pubblicate da Spinelli il 12 ottobre 1741, documento fondamentale riassunto nel Regolamento per le Missioni, anch’esso del cardinale, che è sufficiente scorrere per riconoscervi la mano di Alfonso e di Sarnelli:
“Essendo l’idea e il fine delle nostre missioni per la diocesi, di lasciar piantati nelle contrade tutti quegli esercizi di pietà, che concorrono a rendere stabile e perseverante il frutto delle medesime, in profitto dei cleri, della figliolanza e dei popoli, massime della gente più incolta ed abbandonata, sicché in ogni chiesa si proseguano da quelli ecclesiastici gli esercizi già praticati dai missionari nel tempo della missione, giusta ciò che sta proposto ai missionari per la diocesi deputati:
La missione del popolo duri almeno quindeci giorni, e molto più nei paesi numerosi. Sul terminar della missione, tre o quattro giorni s’istruirà il popolo sopra gli esercizi divoti, a saper ben pregare il Signore e far la meditazione nei misteri della S. Religione. E questo esercizio divoto si farà prima di dare la solenne benedizione, acciò vi concorra tutto il popolo, e non pensi che dopo la benedizione avuta, sia già terminata la missione, e vi convenga piccol concorso.
Nelle contrade, dove oltre alla chiesa parrocchiale, si trovano delle cappelle. massime le rurali, sebbene la gente di quel contorno o con-
- 437 -
trada non fosse numerosa, vi si mandino dei missionari, con dimorar ivi per alcuni giorni, e farvi una piccola missione ”.
Poi il Regolamento prescriveva la creazione di confraternite per i bambini, e per i giovani; L’apertura di scuole per i ragazzi e le ragazze la predicazione degli esercizi al clero e l’organizzazione per esso di una conferenza settimanale di morale; la formazione dei sacerdoti all’animazione dell’orazione in comune, delle istruzioni e dei catechismi dopo Ia missione; infine le rinnovazioni di spirito per tutte le parrocchie e cappelle 20.
E così fu fatto. Don Matteo Testa stese un minuzioso rapporto dell’intera campagna missionaria, seguendo il gruppo e ciascuno in particolare m tutte le sue mosse. Per le missioni di Afragola e di Casalnuovo, come per le altre, annotò le pratiche durevolmente stabilite in ogni parrocchia e cappella, che quasi dovunque furono: la meditazione in comune al mattino; il suono delle campane a sera per la visita al SS. Sacramento o almeno per la meditazione in comune in famiglia i ritiri per i preti, con la creazione di accademie di morale, L’esercizio mensile dell’apparecchio alla morte; infine il piantare le cinque croci dei misteri dolorosi della passione 21.
Una missione però è prima di tutto la vita esemplare dei missionari, come il Vangelo la persona stessa e la vita di Gesù Cristo. Perciò “ regolò Alfonso queste Missioni - cito sempre Tannoia - come le sue, ed ognuno calar dovette la testa, ed ubbidire. Nel vitto specialmente altro non permise, che minestra, e lesso, e di carne comunale? Aveva per massima, che i popoli più si attengono a quello che veggono, che a quello si ascolta. Non volle pesci di costo, non polli, non selvaggine, né lavori di pasta. Non mancavano di questi regali, ma tutto mandavasi indietro, ancorché talvolta si trovassero a pranzo Canonici Napoletani, o altre persone di rango... Voleva Alfonso nelle Missioni il necessario, ma abborriva il soverchio, e molto più la lautezza”. Però, buon capo e per nulla desideroso di vedere i suoi compagni rompersi il collo cadendo da cavallo, “permise il calesse a’ Compagni, perché non assueti a cavalcare, non ispostandosi egli, ed i suoi dal solito asinello”.
La sequela del Signore non si riduce alla cavalcatura e al piatto ma Alfonso sapeva bene che stavano qui i “segni esteriori” maggiormente rivelatori per il popolo: i primi che lo colpivano, i primi di cui si informava, i primi sui quali intesseva commenti che facevano subito il giro del paese, per il meglio o per il peggio.
Per il meglio: da Afragola due vocazioni di fratelli coadiutori, Leonardo Cicchetti e Romualdo Di Cristoforo, 17 e 20 anni e poi l’arrivo inaspettato a Sant’Aniello, un bel giorno dell’estate 1741, di Don Paolo Cafaro (]707-1753), recentissimo parroco di S. Pietro a
- 438 -
Sepi nella sua città natale di Cava dei Tirreni, che passava le notti in chiesa, il giorno a predicare, confessare, visitare i poveracci, dare missioni nei villaggi fuori mano, per cui ci si chiedeva quando mangiasse e quando riposasse. Cafaro, da cinque anni amico e penitente di Alfonso, forse anche ausiliare nelle ultime missioni, arrivò per restare, tra la collera della famiglia e del suo vescovo, Mons. Domenico de Liguori, e la gioia profonda di Alfonso, che lo trattenne a Barra come novizio e compagno, rimandando Villani a Ciorani, dove il lavoro era troppo pesante e la salute non certo delle migliori. Le lettere di Sportelli a Falcoia in questo periodo sono infatti un piccolo dizionario medico !
Là altri novizi aspettavano i fratelli Romualdo e Leonardo: i giovani sacerdoti Benigno Giordano e Gaetano Pepe, il diacono Pietro Genovese. Ma non tutto ciò che entrava era oro, dal momento che i due ultimi vi furono solo di passaggio.
Dall’inizio di settembre - l’enorme compito premeva - Cafaro con Alfonso, Testa, Alteriis, fu in azione per la “rinnovazione” ad Afragola. Poi, domenica 10 settembre, si riprese la grande campagna di evangelizzazione tra Napoli e il Vesuvio: Barra, S. Sebastiano, Boscotrecase, S. Giorgio a Cremano, Resina, S. Caterina, S. Maria a Pugliano; S. Giovanni a Teduccio, Ponticelli, Pollena, dove si passo con le missioni prima e con le rinnovazioni poi. Alfonso ritrovava le parrocchie nelle quali quindici anni prima, durante l’inverno 1727-1728, aveva fatto le sue prime esperienze.
Questa fetta d’Italia era diventata meta di febbrili ricerche e curiosità da quando, cacciando le quaglie, re Carlo vi aveva scoperto... Herculaneum e, benché principe senza studi, del quale ci si chiedeva se scrivesse in francese, spagnolo o italiano, si era appassionato - e L’Europa intera con lui - per la risurrezione del mondo romano. Alfonso, che non aveva più il tempo nemmeno per uno sguardo alle statue di Ercole o di Cleopatra, perché preso da ben altri restauri, da umanista e da pittore, non restò indifferente. Quando più tardi qualcuno gli farà dono di un grosso volume sulle pitture di Ercolano, invece di distruggere quelle pagine zeppe di nudità pagane, prenderà la sua penna e il suo inchiostro di china e, tra il disegno di una Madonna e quello di un Gesù Bambino, ricoprirà le più provocanti per mettere L’album in comunità. Però la “ rinascita ” che lo appassionava era prima di tutto quella della fede e della vita cristiana: la “vita divota”.
Quando a fine giugno 1742 venne fermato dalla canicola, il bilancio di questi quattordici mesi parlava, per lui e per i suoi “ dodici ”, di 17 missioni durate da 15 a 40 giorni, che avevano raggiunto una popolazione di circa 40.000 abitanti in 12 diverse località. Si potrebbe
- 439 -
forse essere colpiti dal numero elevato degli operai apostolici, ma era principio inderogabile per Alfonso dare gli esercizi ai diversi gruppi moltiplicare la missione nelle cappelle, cominciare con l’assicurare sette ore di confessione al mattino, senza pregiudizio per gli impegni pomeridiani, perché anche l’ultimo “villano” trovasse facile ascolto e tutto il tempo necessario per mettere la sua coscienza in pace e la sua vita su una buona strada.
Il cronista della spedizione napoletana, Don Matteo Testa, ha lasciato questa testimonianza su Alfonso a Tannoia:
“Non entro ad individuare i fatti particolari, il numero, e la specie, che ci vorrebbero volumi, e non pagine. Innumerabili furono gli scandali, e gli abusi, che tolse il P. D. Alfonso nella Diocesi di Napoli Più non si videro nelle Chiese delle scostumatezze, e nelle Donne quelle tali sfacciataggini, che facevano la rovina ai deboli: le giovani zitelle che non sapevano, cosa fosse erubescenza, si videro riformate, e composte: mancò il concorso alle taverne; e da per tutto non ebbero più luogo certe danze, e certi passatempi in quelle Terre, e Casali tra uomini, e donne, e molto più tra zitelle, e giovinetti. Commutate si videro in sagre, e divote le canzoni scandalose, che dalle zitelle si avevano in bocca, operando nelle Campagne, massime in tempo di vendemmia e di raccolta”.
Non va dimenticato che queste “ sagre canzoni ” erano, testo e musica, creazione di Alfonso, che di quelle scandalose rigettava tanto l’aria che le putride parole, come due complici dei quali l’uno rischiava di riportare l’altro. Suoi anche quei disegni a penna (Gesù Bambino il Crocifisso, la Madonna), che poi incisi su rame diventavano immagini per un popolo di analfabeti e per le mura unte dei bassi.
Tannoia non si stanca di ripeterci il segreto di queste missioni, anche a costo di stancare: preghiera e macerazioni, digiuni e veglie, pazienza e bontà, lavoro e povertà: “seguitare l’esempio di Gesù Cristo”.
Povertà ! Dopo aver ascoltato la predica di apertura di una di queste missioni, fatta dal più “miserabile” del gruppo, i contadini si dissero l’un l’altro: “Se il Cuoco predica così, che sarà degli altri!”. Della sua carica di superiore Alfonso apprezzava il privilegio di poter assegnare a se stesso, d’autorità, come a Casalnuovo, il letto peggiore in un bugigattolo indifeso dalla pioggia e dal vento. Nell’umiliazione nel disagio e nella penuria, pensando al suo divin maestro, gli veniva voglia di danzare. Il suo più celebre canto natalizio inizia del resto così:
E vieni in una grotta
- 440 -
Perciò il duca Geronimo Cuomo, signore di Casalnuovo, perse a lungo il suo tempo e le sue istanze nell’offrirgli una camera nel suo palazzo.
A proposito di duchi e di palazzi, una di queste sere dell’estate 1742 a Sant’Aniello Donna Maria Caracciolo, duchessa dell’Isola, in soggiorno a Barra, lo mandò a cercare dopo la riunione serale del quartiere ai piedi del SS. Sacramento. Alfonso era solo in casa con il giovane postulante Leonardo Cicchetti, al quale disse:
- Fratello Leonardo, non ti fermare in niuno luogo, se non dove ti dico io, vieni sempre appresso di me.
Al palazzo la duchessa, che lo attendeva nel salone, si avvicinò (Alfonso si tolse gli occhiali, “per non vederla” commenterà Leonardo) e lo condusse nel suo studio. Il giovane fratello, ubbidiente, li seguì e Alfonso lo fermò sulla soglia:
- Siedeti qua avanti la porta.
Non sentirà niente, ma vedrà tutto. Alfonso, estasiato dalla biblioteca della duchessa, preso un libro, sedette sulla poltrona offertale da Donna Maria, che gli si accomodò di fronte. Era tutto orecchi alla sua interlocutrice, ma le sue dita e i suoi occhi (senza occhiali) scorrevano macchinalmente il volume. Temendo di essere sentita da Leonardo, la principessa avvicinò la poltrona a quella del padre, che retrocedette con la sua; stesso gioco due, tre, cinque volte... finché il sacerdote non fu letteralmente con le spalle al muro; la duchessa potrà allora finalmente parlargli occhi negli occhi. No, signora! Alfonso, girata la sua poltrona di lato, le prestò ancora meglio l’orecchio. Terminato il colloquio, Donna Maria fece venire una carrozza e due paggi per accompagnarlo .
- Grazie, Eccellenza, il mio bastone va bene come carrozza.
Fatti solo pochi passi nella notte, Alfonso rimandò i lacché dicendo:
- Rientrate, figli miei, il Signore ci guiderà nelle tenebre.
Anche da vescovo, Alfonso non accetterà mai di parlare a una donna senza testimoni. Rida pure chi voglia in questo nostro secolo di “facile fedeltà”! Egli aveva non solo l’umiltà di credersi fragile - che lezione per gli spacconi! - , ma anche la nobiltà di pensare che un amore deve sempre essere alla luce del giorno. Duecento anni dopo Alfonso, Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli (1914) nota questo tratto di costume e di mentalità:
“L’amore, o l’attrattiva sessuale, è considerata dai contadini come una forza della natura potentissima, e tale che nessuna volontà è in grado di opporvisi. Se un uomo e una donna si trovano insieme al riparo e senza testimoni, nulla può impedire che essi si abbraccino: né
- 441 -
propositi contrari, né castità, né alcun’altra difficoltà può vietarlo; e se per caso effettivamente essi non lo fanno, è tuttavia come se lo avessero fatto: trovarsi assieme è fare all’amore...
Se però non può esistere un freno morale contro la libera violenza del desiderio, interviene il costume a rendere difficile l’occasione.
Nessuna donna può frequentare un uomo se non in presenza d’altri soprattutto se l’uomo non ha moglie: e il divieto è rigidissimo: infrangerlo anche nel modo più innocente equivale ad aver peccato. La regola riguarda tutte le donne, perché l’amore non conosce età” 22 .
A voler essere precisi, il buon Leonardo ci lascia all’oscuro sulL’età della principessa, siamo però illuminati sulle intenzioni di Alfonso! Ma chi volesse gettare qualche ombra su quelle della duchessa, si rassegni, perché la nobile ereditiera era sul punto di partire per la Spagna per rivestire l’abito di Teresa de Ahumada. Di cosa volete allora che parlassero se non di vocazione, di Carmelo e di Teresa, che Alfonso da vent’anni chiamava “la mia Maestra”? Scommettiamo che Liguori, mentre chiacchierava con la duchessa, sfogliava il Cammino della perfezione o il Castello interiore? Infatti proprio nelle settimane dell’estate 1742 a Sant’Aniello stava dando il tocco finale alla sua prima opera spirituale: Considerazioni sopra le virtù e pregi di S. Teresa di Gesù, che vedrà la luce nel 1743 a spese del vecchio amico Don Domenico Letizia, dedicata... alla duchessa dell’Isola, Donna Maria Caracciolo 23.
Questo opuscolo di un centinaio di pagine, prezioso ex-voto filiale a colei che fervorosamente chiamava “santa Teresa mia”, rischia di passare inosservato, schiacciato dalle grandi opere, che vedranno la luce a partire dal 1750. Eppure le nove “considerazioni” sono seguite da una Breve pratica per la perfezione raccolta dalle dottrine di S. Teresa, nella quale il suo pensiero e la sua prassi ascetica sono già maturi. Questo “già” è del resto normale, dal momento che Alfonso aveva 46 anni: era un uomo “fatto”. La sua grande opera per le religiose, La vera sposa (1760) sarà lo sviluppo di queste venti pagine, conservandone anche il piano; il suo capolavoro, Pratica di amar Gesù Cristo (1768), e le sue ammirevoli Riflessioni divote (1773) non diranno altro.
La Breve pratica si apre con la formula chiave, di cui tutto il seguito è solo lo sviluppo concreto:
“Tutta la perfezione consiste in mettere in pratica due cose: Il distacco dalle creature e l’unione con Dio. Il che tutto si contiene in quel grande insegnamento lasciatoci da Gesù Cristo: Qui vult venire post me abneget semetipsum, tollat crucem suam et sequatur me (Mt. 16, 24)” 24 .
Quest’insegnamento è vecchio quanto il Vangelo e interamente
- 442 -
tratto dalla “maestra” di Avila; ma la formula, semplice e vigorosa, da lui stesso sottolineata nel testo, è di puro stampo alfonsiano. Ci dà la sintesi definitiva della sua dottrina ascetica.
Prima di tutto, distacco di spirito e di cuore, che, più della purificazione dello spirito cara agli intellettuali del XIII secolo, è strappare tutto l’uomo (pensieri e sentimenti) alle realtà caduche. Pienamente rispettoso e ammirato della creazione (uomo e mondo), Alfonso non disprezza né la felicità e la bellezza, né la ricchezza e la grandezza, come era di moda nel XIV secolo, ma vi riconosce valore solo in Dio e per Dio.
Distacco, quindi, dai piaceri, dai beni, dalla stima propria, cioè dalle tre concupiscenze “appuntate” da san Giovanni (1 Gv. 2, 15-17): servirsene coscienziosamente sì, amarli no, non essendo possibile sbagliare in amore. E specifica: distacco dai piaceri, quindi dai capricci e dal cattivo umore; distacco dalle amicizie sensibili e dalla famiglia; distacco dalla volontà propria e dalle gioie del senso (contemplare un libro piuttosto che una bella duchessa, mangiare scarso e amaro, dormire poco e sul duro, carezzarsi con cilizi e discipline, chiudere la bocca alle chiacchiere e le orecchie ai pettegolezzi); distacco dai beni: niente oltre il necessario e sempre il più povero, il più vile, e se anche manca, è la gioia perfetta; distacco dalla stima, eccetto lo scandalo: farne un buon investimento, fuggire le lodi, gli onori (la mitra!), gustare le accuse e i disprezzi, “cercare spesso a Dio la grazia d’esser disprezzato per amor suo”.
Per amor suo, più precisamente per unirsi a lui: l’unione. Avere un solo timore, quello del peccato che ci separa da lui (di qui la coscienza subito allarmata di Alfonso), avere una sola volontà, quella di Dio; infiammare e ravvivare incessantemente l’unione nell’orazione, nutrirla nella preghiera viverla coscientemente nella presenza, rilanciarla negli esercizi spirituali e nella celebrazione delle feste di Natale, della Passione, della Pentecoste, della Vergine (oggi avrebbe sottolineato maggiormente la Pasqua-Risurrezione), concretizzarla infine nell’amore del prossimo.
Distacco, distacco: è il “sinistr! destr!”, che gli psicologi moderni analizzano in ogni marcia in avanti dell’uomo; è la saggezza degli Indù, la via di Budda: distaccarsi dal mondo, dove non c’è alcuna consistenza, per mettersi alla ricerca di una pienezza. Ma quale pienezza? A questa domanda Budda non ha altra risposta che il suo enigmatico sorriso e Claude Lévi-Strauss, al termine del suo viaggio sotto i Tristes tropiques, dove finalmente tutte le società gli hanno insegnato che niente ha senso, brama “ riprendersi ” tutto (la sottolineatura è sua), per attingere l’essenza di ciò che è l’uomo “nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere, nel profumo respi-
- 443 -
rato dal calice di un giglio, o in una strizzatina d’occhio che un’intesa involontaria permette a volte di scambiare con un gatto ”. Se è tutta qui, alla luce della sapienza terrena, la contropartita del distacco volontario, è tanto triste quanto gli stessi tropici: con disincantata chiaroveggenza non fa che scambiare un nonsenso con un altro. Si comprende allora meglio la frenesia di coloro che si affannano a godere di tutto, prima di affondare con tutto nella pattumiera del nonsenso universale .
In Teresa d’Avila e Alfonso de Liguori, il distacco è un balzo in avanti verso colui che è, personalmente, la Pienezza: unione con Dio, dice Alfonso, che chiude la sua Breve pratica con questo aforisma di santa Teresa: “ Il tuo desiderio sia di veder Dio, il tuo timore di perderlo; il tuo gaudio di ciò che ti può condurre a Dio” . Trent’anni più tardi commenterà:
“Per giungere ad amare Dio con tutto il cuore bisogna distaccarsi da ogni cosa che non è Dio o che non tende a Dio...
L’amar Dio con tutto il cuore importa due cose: la prima è discacciare ogni affetto che non è per Dio o non è secondo Dio... La seconda poi è l’orazione per cui s’introduce nel cuore il s. amore. Ma se il cuore non si vuota della terra l’amore non può entrarvi perché non trova luogo. All’incontro un cuor distaccato da tutte le creature subito si accende e cresce nell’amor divino ad ogni soffio della grazia”25
Era la santità: per i cocchieri di Napoli, i caprai di Scala, i mandriani dei pascoli salernitani, come per i Redentoristi o le monache.
“E voi, scriveva a suor Maria Giovanna della Croce, quanto tempo potete avere, datelo tutto tutto all’orazione, cioè a pregar sempre Gesù che vi faccia fare perfettamente la sua volontà per essere tutta sua. Oh bella cosa vedere un’anima tutta di Dio, che non vuole che Dio non ama che Dio, non pensa che a Dio, non cerca in tutte le cose altro che Dio!”26 .
Il P. de Liguori tracciava così il suo autoritratto, ma a proposito, che voleva Dio da lui nell’estate 1742?
Costringendolo a prendere in mano la missione generale, Spinelli guardava più lontano. Aveva sognato una fondazione dell’Istituto a Sant’Aniello di Barra: egli vi vedeva ogni vantaggio per la sua diocesi, Alfonso invece ogni danno per i suoi figli e diceva:
- Quando i soggetti si sono radicati nella Barra, ed hanno acquistato Dame, e Cavalieri per Penitenti, va’ e smuovili se puoi, e rimandali ne’ luoghetti, e nelle montagne: se non si vuol dire, che col favore di questi se la passeggeranno in Napoli la maggior parte dell’Anno.
- 444 -
Il fondatore aveva perciò ringraziato l’arcivescovo, ponendolo dinanzi alle sue responsabilità:
- A Vostra Eminenza non mancano Operarj in Napoli per impiegarli in ajuto della sua Diocesi, come mancano agli altri Vescovi; né questi possono aver le Missioni da Napoli, specialmente per li Villaggi, e per altri luoghetti, che vivono abbandonati.
Spinelli comprese e non parlò più di fondazione; averne però posto il problema aggravava in Alfonso la lacerazione interiore causa tagli dalla sua forzata venuta a Napoli. La testimonianza trasmessaci dal Tannoia è qui troppo importante per non essere ponderata:
“Benché sperimentasse Alfonso il gran profitto, che colle Missioni si ricavasse nella Diocesi di Napoli, e il compiacimento, che tutto giorno dimostravane l’Eminentissimo Spinelli, tutta volta non ci persisteva che con somma sua pena. Rifletteva al bisogno di tanti luoghi abbandonati in altre Diocesi, e che il bene, che da esso si faceva in quella di Napoli, potevasi dal Cardinale ottenere anche senza l’opera sua per mezzo di tanti altri Missionarj, laddove tanti Vescovi, perché privi di Operarj, nol potevano conseguire, né in tutto né in parte. Questo riflesso affliggevalo estremamente. Pregava, e macerava se stesso avanti a Dio, per accertare qual fosse il suo divino volere ”.
Il 22 giugno 1742 scriveva a Sportelli e alla comunità di Ciorani:
“Raccomandatemi tutti a Gesù Cristo, e fatelo tutti specialmente alla messa. V. R. ce lo dica, e pregate che Gesù Cristo mi liberi da Napoli, se è gloria sua.
Il Cardinale non è tornato ancora (dalle visite pastorali): tornato, se gli parlerà; ma io tengo in capo che difficilissimamente ci lascerà partire affatto; almeno, come dissimo, ne cacceremo l’andare e venire”27.
Perché allora il Direttore si ostinò a voler sfondare una porta aperta colla dura lettera, redatta da Sportelli il 6 luglio a Ciorani, ma ispirata, se non dettata da lui nell’incontro avuto qualche giorno prima ?
“River.mo mio Padre Rettore, noi tutti di questa Congregazione speriamo vederci tra breve uniti, e consolati nel Signore con la Riverenza Sua, mentre il nostro Direttore, dopo aver ben considerate le cose di costì, ha spiegato chiaramente i suoi sentimenti; non avendolo fatto prima per accertare il Divino volere.
E primieramente si duole, che non vede camminare la Congregazione verso la Meta proposta; giacché si va uscendo dal segno dell’Imitazione di N. S. Gesù Cristo nell’evangelizzare a’ Poveri in mezzo delle Diocesi più bisognose, ed a beneficio delle anime più abbandonate. E perciò giammai Egli ha inclinato a fondazione in codesti Casali: che se talvolta vi ci ha dato qualche spinta, ed ha detto, che bisognava star
- 445 -
a vedere quello volesse S. D. M.; lo ha fatto, per osservare, se mai a V. R. fosse riuscito il far costì una fondazione, per non restare nello scrupolo di mettere impedimento a quel bene, che mai ne avrebbe potuto risultare. Ma in tal caso - (e ci stropicciamo gli occhi nel leggere il seguito) - la Fondazione di costì (Sant’Aniello) si avrebbe dovuta separare da quella di qui (Ciorani), e lasciare i Soggetti nella loro libertà, o di venirsene con V. R., o di restare qui nella sua direzione (di Falcoia) mentre la fondazione di codesti Casali non potrebbe esser secondo lo spirito della nostra vocazione”.
È proprio vero, bisogna leggerne di tutte!... Che dovette provare Alfonso a questo schiaffo di Falcoia per la mano innocente di Sportelli? Era venuto a Barra solo perché forzato dall’ubbidienza, lungi dalL’arenarvisi fondando una casa, come insinuava Falcoia, aveva detto chiaramente no alla richiesta in questo senso del cardinale; e ora, mentre si faceva un caso dl coscienza il restarvi, il Direttore gli parlava di tagliare con l’Istituto, con un ultimatum ai suoi membri: “scegliere tra te e me”! Qual era l’alternativa: “Che gli infedeli ti seguano fuori dello spirito della congregazione e della sua vocazione”. Ma non fu che un sogno cattivo, presto scomparso, come proverà il resto della lettera. Però era già troppo l’averlo fatto e l’averlo messo in scritto. In realtà scoppiava la piaga profonda, da sei anni apertasi tra i due uomini, che la rottura della corrispondenza aveva già lasciato intravedere. Il vegliardo (81 anni) perdeva sempre più i reni e, con essi, il sangue freddo, arrivando a augurarsi un Istituto senza Alfonso, con Sportelli per superiore. Sportelli, figlio suo da sempre, che gli doveva tutto: mamma Sportelli non era religiosa a Castellammare sotto la sua direzione? non si era scomodato fino a Roma con lui, pur di ottenere di poterlo ordinare finalmente sacerdote? Il buon Cesare, da parte sua, dovette sentirsi infelicissimo nel ruolo di sostituto impostogli dalla ferrea mano del vegliardo, mentre Alfonso, sempre in ringraziamento per un Istituto fondato su una decina di santi, dovette dirsi: Distacco, distacco, volesse Dio che Sportelli fosse superiore al mio posto! Per la grande stima in lui, il 20 ottobre 1740, aveva fatto voto di ubbidirgli come suo direttore spirituale in seconda e durante le sue lunghe assenze gli affidava il governo della casa di Ciorani 28.
Torniamo però alla lettera del 6 luglio:
“In secondo luogo, proseguiva il "segretario" Sportelli, ha spiegato, che V R. dovrebbe ritirarsi presentemente, terminato già l’anno delle fatiche per servire Sua Eminenza...
Per terzo ha spiegato... che V. R. si ritirasse senza però disgustare, come è dovere, un Signore così distinto ed un principe tanto degno di S. Chiesa. Cioè, con rappresentargli umilmente le ragioni del suo ritorno, e sono in parte:
- 446 -
Che gli pochissimi Soggetti restati in questo Collegio per miracolo non sono morti, oppressi dalle fatiche... Gli Novizi non hanno potuto essere accuditi... e per questa necessaria mancanza di accodimento, miracolo, che non se ne sono andati tutti... L’accagionata salute de’ Soggetti tiene bisogno di esser sgravata da qualche parte delle fatiche, e sollevata con qualche cura ragionevole, e necessaria... Unire i soggetti a prendere spirito uniforme, e per dar forma alla Congregazione... Bisogna ripigliare le Accademie di nostra Regola, e non solo per li Giovani, ma ancora per li stessi Padri.
Esposte efficacemente ed umilmente tali, ed altre ragioni a S. Em. non potrà prendere a male il vostro ritorno, tanto maggiormente, che soggetti degnissimi hanno osservato, e tal’uno praticato il modo tenuto da V. R., e moltissimi sono capaci di praticare altro miglior metodo in servizio delle opere intente da S. Em...”29 .
Ed eccoti servito, Don Alfonso, riguardo al tuo metodo!
Tre giorni dopo, il 9 luglio, Falcoia, recidivo e di proprio pugno questa volta:
“P. D. Alfonso mio caro, state sicuro, ch’io vi stimo, come la pupilla degl’occhi miei... ”. Ma “ la cosa del vostro Istituto - (si noti questo "vostro") - non va giusta: ed ha preso una voga, da ruinarsi fra poco; ed io non so trovare altro rimedio, fuorché l’unirvi nella vostra santa umile carità... Ma il farsi addietro della carriera intrapresa, bisogna trattarlo con modo e con destrezza; per non farsi più danno, e disordine. Con Sua Eminenza bisogna usare tutta la destrezza; per non disturbarlo... ”.
Esposte in altre parole le stesse ragioni da far valere presso il cardinale, Falcoia prendeva posizione riguardo al suggerimento di lasciare Sarnelli a Sant’Aniello con il fratello Francesco per la missione e per le sue opere napoletane:
“Voi non potete accordarvi con i suoi disegni, per conto alcuno. Qual figura farebbe lui solo, con un vostro Fratello? Se fa la figura d’essere della Congregazione del SS. Salvatore: come restar ivi solo?... Il Fratello Laico sotto qual titolo dovrebbe restare? Di Fratello della Congregazione, o di suo servitore? Vedete, se per l’una maniera, o per l’altra, risultano de’ gravissimi inconvenienti! Non deve commettersi così anche un minimo de’ vostri Fratelli, che deve da voi coltivarsi, curarsi e stimarsi!... ”.
“V’assicuro, che le sue (di Alfonso) perplessità, e cose, fanno voltarmi la testa”.
Il fondatore però non perse la sua. Mise in moto il canonico Giacomo Fontana, molto ascoltato dal cardinale, perché perorasse la sua causa. Vivace fu la reazione di Spinelli:
- 447 -
- Stando così le cose, blocco le missioni. Mancando il P. de Liguori, mancherà tutto.
Costernazione di Alfonso: che danno per la diocesi! E il cardinale non l’avrebbe certo perdonato alla congregazione.
- Certamente Don Alfonso mancherà molto, ma l’opera non ne soffrirà detrimento. Don Matteo Testa, colla sua abilità e zelo, potrà supplire a tutto e far da capo agli altri missionari. Tanto più che le missioni sono state incamminate e poste sul giusto piede dal P. Liguori.
- E sia, si arrese il cardinale, ma a condizione che resti Sarnelli e non Testa quale superiore e direttore dell’opera.
E così fu fatto, con soddisfazione di Spinelli. Molto più flessibile del Direttore, Alfonso lasciò Sarnelli a Sant’Aniello insieme al fratello Francesco e al nucleo del gruppo missionario. Don Gennaro resterà a capo delle missioni fino agli ultimi giorni del maggio 1744, un mese prima di morire (30 giugno), quando il suo posto verrà preso da Don Matteo Testa. Evangelizzati i casali si passerà alla grande missione urbana, che durerà un anno e mezzo e vedrà all’opera centocinquanta missionari 30.
Il 20 luglio 1742, con Villani di passaggio, Alfonso andò sul suo asino a congedarsi dall’arcivescovo, che, scorgendolo in un angolo dell’anticamera, si confuse in scuse per averlo fatto aspettare e, prendendolo per mano, lo ricevette prima di tutto il bel mondo di cui era piena .la sala d’attesa. Si informò sulle missioni, sullo stato delle parrocchie, su ciò che occorreva fare per il bene della diocesi, manifestandogli tutto il suo rammarico per la partenza. Il fondatore gli raccomandò la congregazione.
Prima di lasciare Barra, tenne con Cafaro la rinnovazione di spirito sotto forma di novena dell’Assunta. Gli alabardieri e i cavalieri del Seggio di Portanova videro un’ultima volta il suo asino, la sua sottana e la sua barba, quando andò a votare per l’ammissione dei tre fratelli Sambiasi e a raccogliere la bella sommetta, alla quale dava diritto la presenza. Distacco non è disprezzo.
“Vi dico la verità, aveva scritto a Sportelli il 10 agosto, mi sarebbe pesato venirmene leggiero a Ciorani, anzi con molti debiti, che già tengo ” 31 .
Soprattutto il suo cuore era pieno di gioia: L’ “esilio” a Napoli era finito e ritornava ai più abbandonati dei poveri.
Questo lungo ministero accanto al cardinale non portò frutti di una sola stagione. L’8 settembre 1745 Benedetto XIV rivolgerà ai vescovi del Regno la lettera Gravissimum Supremi Apostolatus sulle
- 448 -
sante missioni. L’iniziativa sarà del re Carlo, che gli chiederà un motu proprio con il quale “ s’eccitasse il zelo de’ vescovi a far fare le missioni ”, ma ispirata direttamente da Spinelli, indirettamente da Liguori e Sarnelli.
La lettera parte da una constatazione: “Lontano dalle vostre città numerosissimi vostri diocesani, soprattutto nelle zone montagnose, vanno alla perdizione”. Dopo un quadro storico abbozzato secondo le leggi del genere letterario, che richiama i grandi missionari, dagli Apostoli fino a Giacomo Cavalieri, vescovo di Troia e zio materno di Alfonso, il papa indica le sante missioni come “il più tradizionale, il più efficace e forse l’unico rimedio” alla miseria spirituale dei peccatori. Come arcivescovo di Bologna, egli stesso ha toccato con mano i frutti meravigliosi delle missioni “ soprattutto nei villaggi più lontani dai centri ”, ora “ con lagrime e desolazione ” pensa che “ numerose anime ” delle quali egli stesso e i vescovi dovranno rispondere, “ ignorano perfino le verità indispensabili alla salvezza ”. Occorre allora inviare “missionari dotti, per istruire con cura il popolo” (la missione catechetica, perorata da Alfonso, preferita all’uragano emozionale passeggero!). In conclusione il papa chiede che venga suscitata in tutto il Regno una grande azione missionaria, affidandone la direzione all’arcivescovo di Napoli 32 .
Un anno dopo, il 16 dicembre 1716, il sommo pontefice rivolgerà ai vescovi del mondo intero una lettera per incoraggiare l’orazione mentale. “Bisogna insegnare a tutti e dovunque a fare orazione... anche agli ignoranti... È cosa ottima, dove comodamente si può, che, come in alcune è stato già istituito, così in tutte e in ciascuna diocesi si facesse, cioè che ogni giorno, al suono della campana, o nelle chiese il popolo... o in casa dinanzi a qualche immagine sacra la famiglia si riunisca per la meditazione. Vi preghiamo, quindi, di esortare tutti i superiori e rettori di chiese... a riunire i fedeli al suono della campana... e di insegnare loro l’orazione mentale... e, se possibile, di stabilirne la pratica in comune”33.
La parola di due santi, ripercuotendosi al “vertice”, risuonò fino alle frontiere del Regno, le superò e raggiunse le estremità del mondo cristiano.
------