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PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762) 30 - LIGUORI O FALCOIA? (1742- 1743) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
“2 giugno 1741. Per terminare le dispute e controversie, che da più secoli nel Regno di Napoli sono state su diversi capi tra le Curie laiche, ed ecclesiastiche, e per torre con ciò ogni occasione di discordia tra le due Potestà, la Santità di Nostro Signore Benedetto XIV, e la Maestà di Carlo, Infante di Spagna, Re delle Due Sicilie... son convenuti ne’ seguenti capitoli...”.
Iniziava così il concordato del 1741 tra Roma e Napoli, il cui principale obiettivo era ridurre le esorbitanti immunità godute da beni luoghi e gente di chiesa. D’ora in poi i possedimenti ecclesiastici già esistenti avrebbero pagato metà imposta (prima ne erano totalmente esenti), mentre i nuovi sarebbero stati soggetti al regime comune e tenuti all’intera imposizione; il diritto di asilo, limitato alle sole chiese parrocchiali e a quelle dove era custodito il SS. Sacramento, non sarebbe valso per tutti i crimini, ma solo per atti immorali e delitti minori; per arginare la supercrescita del clero fu concordata l’ordinazione dei soli chierici già provvisti di patrimonio o di beneficio e dopo tre anni di seminario o di comunità religiosa; ogni libro straniero avrebbe avuto bisogno del visto teologico e morale.
Per vegliare sull’osservanza del concordato e dirimere il contenzioso fu creato il Tribunal misto, composto da quattro consiglieri di nazionalità napoletana (due ecclesiastici, nominati dal papa, e due magistrati, nominati dal re) e presieduto da un prelato scelto dal papa in una lista di tre nomi presentati dal re. In realtà presidente sarà abitualmente lo stesso Cappellano Maggiore, già “ vescovo ” e giudice sulle chiese e cappelle regie, sui forti e castelli, sulla servitù e le armate di Sua Maestà e infine sugli Studi pubblici, cioè sull’università. Il suo potere diventerà enorme almeno in teoria; in pratica, creatura di corte, si affaticherà molto per essere il primo servitore del trono e dei suoi ministri 1 .
Questo concordato fu una delle tante buone intenzioni di un Regno velleitario: in seguito soprattutto lettera morta come le altre, per il
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momento creò una certa distensione, che permise di sperare in qualche fondazione religiosa nuova, ma discreta e giustificata.
Così a Nocera dei Pagani, a soli 13 chilometri da Ciorani, potrà finalmente sbocciare un progetto fino ad allora soffocato, le cui radici risalivano al 1738?
L’agglomerato urbano, diviso oggi in Nocera Inferiore e Pagani, costituiva allora un’unica città, Nocera dei Pagani, anche se la sua più importante frazione, Pagani, aveva dignità di “ università ”, cioè di comunità popolare in parte autonoma.
Nel 1738 lo zelante sacerdote Nicola Tipaldi aveva invitato Liguori, Mazzini e Sportelli a Pagani per predicare la novena del Rosario nella chiesa del Corpus Christi, facente parte della parrocchia S. Felice. Il popolo conquistato decise: “ Questi uomini devono restare per sempre con noi! ”. Il ricco e vecchio parroco di S. Felice, Francesco Contaldi, s’era lasciato persuadere a mettere a disposizione, prima di morire, quei beni che non avrebbe potuto portare con sé nell’aldilà per una fondazione di “ Redentoristi”2, Ma nel 1738 i regalisti avrebbero subito reagito mettendo mano alla pala di becchino, soprattutto perché la piccola diocesi di Nocera (25 chilometri di perimetro) poteva contare allora per le sue 40.000 anime su un abbondante clero diocesano e su almeno tredici conventi maschili: Domenicani, Olivetani, Cappuccini, Frati osservanti, Conventuali, Carmelitani, Minimi, Chierici regolari delle scuole pie, Agostiniani, Basiliani, Benedettini cassinensi, Cistercensi, Benedettini di Montevergine 3. Una lista da mozzare il fiato e per noi incredibile, che ci fa capire perché il governo gridava: “ Conventi? no, basta! ”. Senza dubbio Alfonso, formato con Giannone alla scuola di Nicola Caravita, dava ragione al re e a Tanucci; ma tra tutta quella gente in tonaca chi si occupava dei poveri abbandonati? Di qui la sua decisione di fondare... un’altra cosa.
Dopo il concordato, che aveva rasserenato l’orizzonte, nel corso del 1742 gli incontri, prima solo accennati, si fecero intensi tra Sportelli, Falcoia, Contaldi e il simpatico vescovo di Nocera, Mons. Nicola De Dominicis, che precedentemente aveva accolto Maria Celeste Crostarosa. Durante la settimana santa, Alfonso da Sant’Aniello venne tre giorni al Corpus Christi per la preparazione al giovedì santo, riaccendendo in tutta Pagani la fiamma per una fondazione immediata.
Era proprio necessario fondare a Pagani? Alfonso non provava molto entusiasmo per una casa a sole due ore di cammino da Ciorani e, con tutta la comunità, prestava piuttosto l’orecchio a un appello proveniente da lontano, da Modugno, vicino Bari, in Puglia, la terra dei braccianti che, come quelli del Vangelo, ogni mattina stavano sulla piazza ad aspettare un’assunzione e un ipotetico pane quotidiano. “ Vi
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veggo ancora inclinati gli altri tutti, scriveva il 3 settembre Sportelli a Falcoia, purché così paresse alla Santa Ubbidienza, per la ragione, che in quelle parti la povera gente è più bisognosa, e destituta di simili aggiuti spirituali ”. La “ Santa Ubbidienza ” decise per Pagani.
Alfonso, “ distaccato ”, non si impegnò a fondo contro questa scelta, ancor meno nelle trattative che comportava: il Direttore adorava dirigere e aveva in Sportelli un esecutore ubbidiente, pratico e entusiasta. Si dedicò invece interamente alla campagna missionaria dell’inverno 1742-1743 nei dintorni di Nocera: Piazza di Pandola, Corbara, S. Lorenzo, S. Maria di Ogliaro, Antesano.
Il 13 ottobre 1742, con legato firmato dinanzi al notaio Carlo Pepe, Don Francesco Contaldi diede ai missionari il “ palazzo ” e gli altri suoi beni, con la riserva di 2.575 ducati e il diritto di continuare ad abitare in casa; la cugina, Donna Antonia, vi aggiunse una rendita annua di 50 ducati con l’obbligo di celebrare messe. All’inizio di novembre i padri Sportelli, Mazzini e Giordano e il fratello Vito Curzio passarono in casa Contaldi e nella vicina chiesa di S. Domenico, messa provvisoriamente a loro disposizione, ben presto “ oltre il Popolo di Pagani, vi concorrevano giornalmente in folla quei di S. Egidio, di Corbara, della Terra di Angri, e quei de’ Casali di S. Lorenzo, e S. Marzano ” 4 .
Sportelli, avanzando a passo di carica, il 5 novembre aveva già a disposizione un terreno da acquistare per la costruzione, ma prima chiese l’“ oracolo ” di Falcoia, insistendo nuovamente il 2 dicembre dopo la missione a Gajano:
“ Nelle cose di qui ho dovuto far punto, per le difficoltà propostemi prima con lettere, e poi a voce dal P. D. Alfonzo, intorno al fabbricare: dicendo, che avendo il Sig. Marchese Brancone accordato a Noi il trattenerci qui, ed aprire un oratorio nella casa ove abitiamo, se noi diamo la mano alla fabbrica, ed usciamo dalla Istruzione di esso Sig. Marchese, metteressimo tutto in pericolo. Onde io ho fatto pausa ad ogni altro trattato, per prenderne a voce gli oracoli di V. S. Ill.ma... Qui per altro Communemente si dimostra gran desiderio, che noi incominciassimo la fabbrica; e le persone, che al principio si sono mostrate contrarie, non dicono più parola ”.
L’“ oracolo ” del prudente Falcoia fu senz’altro di soprassedere e, per sbloccare la situazione, Alfonso in dicembre scrisse al re, appellandosi alla sua “ pietà e zelo esimio intorno alla salute de’ suoi amati vassalli ”. Ma Sua Maestà tardò a rispondere: era solo quel segno naturale di saggezza che si danno volentieri gli uffici importanti? No, v’era qualcosa di molto più grave, perché una parte dei sacerdoti e dei monaci del luogo gridava forte contro gli “ abusivi ” venuti ad occupare il “ territorio ” e aveva forse già fatto dei passi a corte. Nel febbraio
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1743 pertanto tutto lasciava pensare che si sarebbe abbandonata l’idea dl questa fondazione nata già morta.
“ Stava scottato Alfonso per quello che eragli accaduto in Cajazzo. Vedendo le cose in sì cattivo stato, pensava scuotersi le scarpe, e dare un addio ai Pagani. Non volendo restare in dubbio del volere divino portandosi in Napoli, va per consiglio dagli uomini più savj. Avendo fatto presente quanto ci era al Canonico D. Giulio Torni, ai padri Pii Operarii, a quei di S. Vincenzo, e ad altri, tutti furono di sentimento che si sloggiasse da Nocera. Fu ancora in Castellammare da Monsig. Falcoja. Anche questi, vedendo il gran fuoco, non la sentiva altrimente; ma sorpreso da un lume superiore, avendo fissati gli occhi in una statuetta di S. Michele, è Demonio, disse, è Demonio: tirate avanti, che Iddio, e S. Michele vi proteggeranno. Così stimò ancora Monsig. de Dominicis, e vollero, che difesa si fosse la fondazione come opera di Dio; anzi Monsig. Falcoja consigliò, che Casa, e Chiesa dedicata si fosse al medesimo Arcangelo” 5 .
Il 6 marzo il vescovo di Nocera rimise in moto il marchese Brancone ministro degli Affari ecclesiastici che il 23 dello stesso mese trasmise finalmente l’autorizzazione regia, chiedendo al governatore di Nocera di dare assistenza ai padri del SS. Salvatore e assicurando il vescovo “ d’esser di molto gradimento a Sua Maestà di farsi un’opera assai santa, pia e lodabile, come l’è d’acquistare le anime molto abbandonate” 6 .
Sportelli, nominato superiore della futura casa, non era a Pagani ad accogliere la notizia attesa da cinque mesi. Nel corso della sua visita a Castellammare in febbraio Alfonso aveva trovato “ il padre ” molto cambiato, provato dall’inverno e ormai avviato alla fine. Gli aveva mandato il figlio prediletto, Don Cesare, col fratello Tartaglione, prima di tutto per riconoscenza e per affetto e poi perché temeva che né i suoi canonici, né i Pii Operai avrebbero circondato di cure quell’uomo intransigente, che “risoluto per carattere, restio a mollare s’illuse sovente di poter piegare gli avversari alle proprie idee, che riteneva giuste. Cristallizzandosi in esse con le migliori intenzioni, ma con scarso tatto si attirò forti antipatie, che causarono penosi distacchi” 7 .
Il 24 marzo Sportelli scriveva ai confratelli di Ciorani: “ Monsignore ancor si mantiene... In questo punto sta facendo testamento... Ho letto il biglietto e Monsignore piangendo ci ha benedetti tutti, ha detto, che non si scorderà mai di noi ”.
Proprio il 24 marzo infatti il vegliardo consegnò le sue ultime volontà al notaio Francesco De Maio, pensando affettuosamente alle suore e ai padri del SS. Salvatore, ma in termini dei quali non deve sfuggire la differenza:
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“...vuole che passando da questa vita mortale all’immortale e sempiterna il suo corpo sive cadavere debbia esser seppellito dentro della venerabile Chiesa delle RR. DD. Moniche sotto il titolo del Santissimo Salvadore della città di Scala della costa d’Amalfi, in dove da più tempo ha desiderato e disposto d’essere seppellito, mentre egli l’ha raccolte dal mondo, ivi condotte, guidate per molti anni a datoli le regole e statuti...
Item... ordina e comanda che sequutita (seguita) sua morte sia tenuto detto suo erede ut supra Istituito dare e consignare alli RR. PP. della Congregazione del SS. Salvadore il quadretto dell’effigie della SS.ma Vergine che esso Monsignore si ritrova ” 8 .
Non una parola di “ appropriazione ” dei Redentoristi e l’omissione, dato il contesto relativo alle monache, è molto significativa. Tanto peggio per coloro che hanno voluto, in nome di una pretesa verità storica, fare di Falcoia il loro fondatore! Di fronte alla morte egli fu il primo a non rivendicare tale onore.
Se le monache di Scala non videro mai arrivare i resti mortali del prelato, fu perché i fedeli di Castellammare organizzarono picchetti armati per impedirne il trafugamento. Sportelli dovette contentarsi di far loro arrivare un anno dopo... ma leggiamo la sua lettera del 23 giugno 1744, nella quale il suo proverbiale umorismo non riuscì a trattenersi: “ Si manda alla riveritissima Madre Sr. Maria Angela del Cielo la tabbacchiera della F. M. del Padre Nostro; ed io vorrei indovinare j di lei sentimenti, quando se ne servirà... ”.
Il quadro della Vergine, portato da Sportelli a Nocera dei Pagani, sarà presentato il 23 luglio 1787 dal padre Villani al fondatore sul suo letto di morte: lo bacerà con tenerezza e, tenendolo tra le mani, lo contemplerà per un pezzo. Poi i Redentoristi lo smarriranno.
Ma torniamo a Castellammare, presso il Direttore morente. Alfonso gli aveva scritto e Sportelli rispose il martedì santo, 9 aprile:
“ Padre mio, io questa mattina ho fatto l’imbasciata di V. P. a Monsignore, che la prima volta, che vedrà Maria SS.ma, vi si raccomandasse; ed egli piangendo ha detto più volte: Mamma mia.
Gli ho detto che avevivo mandato a posta per avere qualche riscontro speciale di sua salute: Ha risposto: Come stanno essi? che per Me actum est ”.
La Madonna venne a cercare il suo fervente servo e figlio la mattina del sabato in albis, 20 aprile 1743. Poco prima di spirare, raccolte le sue ultime forze, disse, indicando Sportelli, a Mons. Agnello degli Anastasi, arcivescovo di Sorrento:
- Monsignore, quest’è Opera di Dio, Dio la benedirà, e si propagherà come gramigna 9 .
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Un’azzardata affermazione del domenicano Pio Tommaso Milante successore di Falcoia sulla cattedra di Castellammare, farà credere per lungo tempo che il P. de Liguori avrebbe scritto una vita del Direttore, come per Sarnelli, Curzio, Cafaro. Non è vero 10, perché Alfonso fu biografo solo di persone con le quali si era sentito in perfetta consonanza. Sportelli invece ce ne ha lasciato un ritratto, Maria Celeste Crostarosa un altro, molto diverso 11. Una spada viene percepita in un modo da chi la tiene per l’impugnatura e in un altro da chi è trapassato dalla sua lama: in entrambi i casi il giudizio è vero. Nel suo diario intimo (p. 68) Alfonso ha fermato e sottolineato l’immagine della spada:
“ P. Pagano - 28 ottobre 1737. M’à rimesso in tutto e Mons. Falcoia, per tutto, che mi à detto, e mi dirà. È spada provata ”.
Fu infatti uomo tutto d’un pezzo, fermo e lineare; di fede e speranza irremovibili, sicuro di Dio e... di se stesso, uomo positivo non intuitivo, perciò esperto negli affari e desideroso di condurli, aveva come leit-motiv: lasciatemi fare. E infatti aveva tanto da fare che le lettere si perdevano nell’ammucchiarsi della corrispondenza 12 . Resistente, duro con se stesso, povero e amico dei poveri; cuore materno con chi piegava la schiena, lama di acciaio con chi gli faceva resistenza la prima virtù richiesta agli altri era l’ubbidienza; esprit de geométrie, avrebbe detto Pascal, non già de finesse, era disorientato dai geni e dai mistici (Crostarosa, Liguori, Sarnelli); con lui era necessario entrare nelle categorie di serie e rinunziare alla libertà dello Spirito: sottomettersi o dimettersi. Così Maria Celeste dovette imboccare la porta, Sarnelli non fu “ redentorista ” ai suoi occhi; Liguori si trovò anche lui con un piede fuori della congregazione e quasi confinato nei ranghi dal vecchio vescovo in favore di Sportelli, figlio affettuoso e maneggevole. L’eccellente Cesare non chiedeva certo questo, ma, ubbidiente per dovere di coscienza e certo dell’amicizia di Alfonso, giocò intelligentemente questa falsa partita, tanto che a fine agosto 1742, dopo il ritorno di Alfonso a Ciorani, chiedeva al Direttore chi dovesse essere “ ministro ” e chi “ ammonitore ”. Non pensiamolo però tra il martello e l’incudine: da una parte dava le ultime gioie al “ nonno ” e dall’altra aveva Liguori troppo distaccato per far da incudine. Eppure questo santo faceto e dinamico non poté essere se stesso prima che la dipartita di Falcoia non l’avesse liberato dal “ padre ”.
Oltre l’immensa mole di pazienza e di umiltà, che gli aveva fatto acquistare, la “ direzione ” del vescovo aveva dato al Liguori la dimensione super-diocesana, assolutamente indispensabile per non restar preso, come una farfalla, nella rete di qualche piccolo prelato locale e quella del Pio Operaio l’iniziazione alla vita religiosa comunitaria. Ma Falcoia non tentò anche di imporre all’lstituto le sue Regole e la sua spiritualità? Il silenzio al riguardo del suo testamento sembra una
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confessione di insuccesso da parte del prelato. Il problema però è troppo grave ed è stato troppo discusso per poterlo far passare sotto silenzio.
Della perfezione cristiana, Falcoia non ebbe un’idea originale, che dopo tutto non è necessaria. La prese dai suoi formatori, due Pii Operai, entrambi prestigiosi uomini di Dio: il suo maestro di noviziato, Ludovico Sabbatini d’Anfora, “ imitatore di N. S. Gesù Cristo ”, e il suo primo superiore generale, Antonio Torres, che “ procurò sempre render sua vita tutta a modello e idea della vita di Gesù Cristo ” 13 .
Alfa e omega della spiritualità falcoiana fu l’imitazione della vita e delle virtù di Gesù Cristo, della quale cercò con ogni modo di impregnare i due Istituti del SS. Salvatore. La sua corrispondenza è ricca di richiami al riguardo, come la lettera del 13 marzo 1736 al P. Mazzini, maestro dei novizi a Villa:
“ S. D. M. L’ha posto in stato dove può far tutto guadagno di meriti, e radicarsi tanto nelle sante virtù di N. S. Gesù Cristo. Questo deve essere il suo esemplare: e vorrei, che bene, bene, bene, poneste nella ment’, e nel cuore di codesti benedetti Figli, la seguela, e l’imitazione delle virtù, e della vita del nostro Salvatore. Qui sta tutto lo spirito dell’Istituto: a questo solo bramerei s’attendesse... ”.
Uomo pratico e meticoloso, il Pio Operaio continuava a sentirsi il maestro dei novizi che già era stato e, direttivo, progettò un metodo da scolari. Maria Celeste aveva scritto “ nove Regole di virtù tratte dalle parole di Gesù Cristo nel Vangelo ”; con grande disappunto delle suore Falcoia aggiunse tre regole sulle virtù teologali (fede, speranza e carità verso Dio), ne fece così dodici, ne assegnò una ad ogni mese e il metodo era fatto.
Né il testo di Maria Celeste, né la sua ispirazione furono noti ai “ Redentoristi ”, eccezion fatta per il gruppo primitivo che con Mannarini era però partito nell’arco di cinque mesi. Per decisione di Falcoia però fin dall’inizio le dodici virtù divennero, mese per mese, “ le Regole spirituali ”, che dovevano catalizzare l’attenzione e lo sforzo della comunità.
Il 17 marzo 1735 Falcoia scriveva al fondatore:
“ Si serva bene delle Regole spirituali dell’Istituto. Ne assegni la pratica più distinta, d’una al mese: e la facci affiggere alla porta del Refettorio, e su quella facci una volta la settimana una conferenza, un sermone familiare, e pratiche del modo, come debba esercitarsi, ed assegni una delle meditazioni della giornata... potrà distinguere in una carta i motivi, e punti, ed i frutti e pratiche di quella virtù: con aggiungervi gl’atti, e qualche giaculatoria, che servono per tutt’il mese. E sopra la stessa virtù più, che nell’altra materia, pigl’il conto di coscienza ogni mese, da ciasched’uno: oltr’il sentirne brevissimamente ogni sera li mancamenti commessi, specialmente sopra la stessa virtù ”.
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Quindi una sola spiritualità per tutti: “ imitare la vita e le virtù di Gesù Cristo ”; un unico metodo: le dodici virtù, distribuite in modo che una di esse ogni mese dovesse coinvolgere tutti i pensieri e tutti gli sforzi, come in un concerto sinfonico. Altri però, rifiutando quest’analogia orchestrale, parleranno di martellamento o di marcia al passo.
Queste Regole spirituali, cioè le virtù del mese, non consistevano in testi già ben fissati, come del resto tutte le altre, dal momento che alcuni abbozzi ufficiosi, strumento di lavoro tra Liguori, Falcoia, Torni, non potevano certo dirsi Regole, né erano in mano ai soggetti.
Abbiamo già riportato la testimonianza del P. Villani riguardo a Ciorani nel 1737: “ si viveva da noi unitamente in Communità con Regole non scritte ”. Sul problema egli ritornò, nello stesso processo di canonizzazione precisando che Alfonso diede le Regole scritte al momento dell’emissione dei voti religiosi, cioè dopo la morte di Falcoia 14. Del resto solo questa carenza di Regole scritte può spiegare la ventina di lettere, nelle quali Falcoia tentava di scusarsi di ciò che egli sentiva sua maggiore lacuna: Le Regole si fanno... Si faranno... Si accomoderanno... Ho dovuto scrivere... Sono stato malato... Gli estremi guai miei non m’hanno permesso d’accomodare le Regole... Abbiatevi pazienza... Nelle Regole vi sarà questo e quello... Si troveranno nel mio cassetto... Ma in realtà non ne venne fuori niente.
Niente? E’ esagerato. Già nel 1734 Alfonso scriveva a Mezzacapo: “ Il Direttore, che regge quest’Opera, e ci ha dato le regole, è Mons. Falcoia ”. Come comprendere queste parole?
Sarebbe puerile prendere per regole un orario messo a punto d’intesa con il prelato (Nota delle ore) e affisso su una “ tabella ” in refettorio, in sagrestia e in cucina. Però nel novembre 1732 a Scala Falcoia, in qualità di esperto in vita religiosa della nascente congregazione, aveva dato oralmente i primi ordinamenti della vita regolare; nei tre anni seguenti nelle lettere al fondatore avrebbe precisato con meticolosità una sessantina di punti (spesso in risposta a domande di Alfonso) sulla povertà e l’elemosina, sulla formazione dei novizi, sulla vita di preghiera e di penitenza, soprattutto sulla condotta comunitaria (silenzio, lettura a tavola, ecc.) 15. Questi punti passarono e si sedimentarono nella vita e nella tradizione del gruppo: “ L’osservanza come una Casa de’ Religiosi de’ più austeri... con Regole non scritte ”, che aveva edificato Villani. Alfonso ne stese un condensato, che inviò a Castellammare, ma fu lavoro perduto, perché il vescovo gli rispose il 14 settembre 1733:
“ Gl’estremi guai miei non m’han permesso d’accomodare le Regole: spero d’aver tempo fra poco: abbiatevi pazienza in tanto; e regolatevi con quello avete scritto, che neppure ho potuto leggere, per modo di provision’, e non altrimente ”.
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Ma il definitivo non venne mai: nessuna Regola per l’lstituto maschile fu presentata al vescovo di Scala nel 1732-1733 e nessuna a quello di Caiazzo per la fondazione di Villa. In verità però Liguori non chiedeva loro di aprire una casa religiosa nelle rispettive diocesi, ma era pregato da loro ad andare prima ancora che l’Istituto fosse fondato. Al contrario nel settembre 1735, per l’autorizzazione della casa di Ciorani, presentò un compendio di Regola alla curia vescovile di Salerno. Era più dettagliato dello “ Abbozzo di Regole da osservare ” redatto da Falcoia e Sportelli nel gennaio 1736 per il marchese di Montealegre? Niente permette di affermarlo, però quest’ultimo documento merita d’essere citato integralmente:
“Intento de’ sacerdoti ed altri uniti sotto la Direzione di Mons.re Falcoja, vescovo di Castellammare, con Regole da esso Mons.re loro prescritte, sotto il titolo del SS. Salvadore.
Sono già quattro anni che molti sacerdoti si unirono nella città di Scala ed indi, richiesti da Monsignore Vigilante vescovo di Caiazzo, nella Villa degli Schiavi, ed ultimamente nella terra di Ciorani, diocesi di Salerno; con non meno piena soddisfazione de’ suddetti Prelati e popoli, che di tutti quei luoghi circonvicini, notabilmente ne’ costumi migliorati con li di loro spirituali esercizi.
Il principale intento di essi è l’imitare, quanto più sia possibile con la divina grazia da vicino, la vita e sacrosante virtù di Nostro Signore Gesù Cristo, e per il proprio profitto spirituale e per quello de’ popoli del Regno, particolarmente degli destituti di aiuto, in sollievo de’ vescovi e delle diocesi bisognose.
Eglino, nelle suddette case vivono in comunità perfetta, sotto l’obbedienza del proprio Superiore, compartiti a pro de’ popoli, chi alla scuola, chi al confessionale, chi alle istruzioni e prediche, congregazioni, oratori ed altro.
Girano le diocesi, nelle quali si sono fermati, con le sante missioni; e dopo, per conservare quel bene che Sua Divina Maestà si è degnata di farvi, da tempo m tempo ritornano alcuni di essi, e per ascoltare le confessioni, e per confermare le anime ne’ santi propositi fatti, con istruzioni, prediche, indirizzi e consigli spirituali ed altro.
Procurano, e fuori e dentro della propria Congregazione, di mettere, con la divina grazia, il piede ove ci ha restato impresse le sue vestigie il nostro Redentore e divin Maestro Gesù Cristo Crocifisso, affinché si possano rendere esemplari al popolo, non meno cogli esempi che con le parole.
Quindi, per poter riuscire in tale idea, hanno dodici Regole con le loro Costituzioni, che sono: Fede, Speranza, Carità verso Dio, Unione e Carità scambievole, Povertà, Purità di cuore, Obbedienza, Mansue-
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tudine ed Umiltà di cuore, Mortificazione, Raccoglimento, Orazione, Annegazione di se stesso ed Amor della Croce.
Ciascheduno nella settimana ha un giorno di ritiro, affinché, trattando a solo a solo con Sua Divina Maestà gl’interessi della propria anima, possa indi più avvalorato impiegarsi a beneficio del prossimo.
Quandoché si trattengono nella propria casa, gran parte del giorno la spendono in silenzio, raccoglimento, coro, mortificazioni, orazioni, che hanno tre volte il giorno, cioè la mattina prima delle Ore, il giorno circa l’ora di Vespero, e la sera dopo Compieta; esame di coscienza prima di pranzo, e prima di andar a letto; così ancora in accademie tra di loro, sì intorno le scienze ecclesiastiche, sì intorno al modo di avvanzarsi sempre più in una soda, vera e positiva imitazione delle sacrosante virtù di Sua Divina Maestà, e sì intorno al modo di riuscire più efficaci nel bene spirituale de’ prossimi ed aiuto delle diocesi destitute di soccorsi spirituali e de’ luoghi abbandonati.
Le case non saranno numerose di soggetti, e questi circa il loro mantenimento, cercano di non essere molesti a nessuno, ma si mantengono con quello che hanno portato dalle loro case, posto a piedi del Superiore, e con qualche altra cosa che spontaneamente venisse loro offerta, per l’amor di Gesù Cristo, dalla pietà de’ Fedeli.
Queste sono le brevi e laconiche notizie della sostanza dell’Istituto del SS.mo Salvatore ” 16 .
Questo testo, consegnato dal P. Fiorillo alla signora di Montealegre e finito nel cestino del segretario di Stato per gli Affari esteri, ci interessa prima di tutto perché ci offre un quadro d’insieme della vita di Alfonso e dei suoi primi figli sotto le Regole spirituali delle dodici virtù; poi perché figura, decapitato del titolo, nell’edizione 1887-1890 delle Lettere di S. Alfonso M de Liguori, testimonianza, con questa falsa attribuzione, della confusione delle idee, che ha caratterizzato un’intera epoca; infine perché è tipico di una spiritualità che Alfonso sopportò senza però mai farla sua.
L’espressione “ Sua Divina Maestà ” per indicare Dio o il Cristo è caratteristica di Falcoia 17 , quasi la sua firma, lasciata poi in eredità a Sportelli. Il documento fu dettato dal Direttore e scritto dalla mano di Don Cesare. Cosa vi leggiamo?
L’Istituto ha due fini tra loro connessi, la santificazione personale e l’apostolato per gli abbandonati: “ il proprio profitto spirituale e quello de’ popoli del Regno ”; “ un giorno di ritiro, affinché, trattando a solo a solo con Sua Divina Maestà gl’interessi della propria anima, possa indi più avvalorato impiegarsi a beneficio del prossimo ”; “ mettere... il piede ove ci ha restato impresse le sue vestigie il nostro Redentore... affinché si possano rendere esemplari al popolo ”. Il Cristo ha un duplice ruolo, Maestro da imitare e Redentore... anche da
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imitare: “ il principale intento è d’imitare... Ia vita e sacrosante virtù di Nostro Signore”, particolarmente, mese dopo mese, le sue dodici principali virtù, impegno del resto di ciascuno sulla “ propria anima ” per il “ proprio profitto ”. L’apostolato dunque è un fine secondario, quasi eco della perfezione, che consiste nel copiare le virtù di Gesù Cristo.
Questo dualismo, questo individualismo sono soddisfacenti?
Non resistiamo alla tentazione di citare un altro testo del Falcoia al Liguori del 25 novembre 1734, che infiorò il lungo conflitto in cui fu in gioco il venerabile Gennaro Sarnelli, il quale da più di sei mesi aveva lasciato Scala per Napoli.
“L’intende assai meglio lei, che D. Gennaro, con tutto ciò è compatibile il suo zelo, che via via s’anderà attemperando con i lumi migliori. Certo è, per molte ragioni, ‘l radicare il nuovo istituto, che puol’essere una pianta da portare frutti perenni e pro’ dell’Anime, che non il consumare se stesso in quel Ministero, senza lasciarne seme né radice per l’avvenire.
E s’ha per meglio l’alzar pagliucce da terra con l’obbedienza, ch’il santificar un mondo intiero, per propria volontà, e propenzione. Qui troviamo noi stessi, ed ivi si trova la volontà d’un Dio, che non ha bisogno d’uomini, per santificare l’anime: e vol’essere lui obbedito in tutto, e per tutto, com’è ragionevole, oh quanto! E la prima cosa che vuol da noi, è la nostra santificazione, che non s’incontra per la strada della nostra propria volontà. E che ci giova il santificare un mondo, con quel solo nostro discapito d’aver fatto il nostro proprio volere? Quid prodest homini, ecc.? Io godo assai del vostro bel sentimento, ma sto battendo quello di D. Gennaro, che pure compatisco; mentre nasce da quel buon fondo della cognizione del valore d’un’anima, e del Sangue di N. S. G. Cristo speso per comprarla ”.
A una tale lettera, Alfonso dovette impallidire, ma aveva acquisito da lungo tempo una forte padronanza di sé nel rispettare un padre impossibile. La volontà di Dio può essere forse altra cosa di ciò che gridano questo figlio, questa croce e questo sangue sparso: la salvezza, la santificazione del mondo?
Liguori rifiutava la dicotomia vita religiosa/vita apostolica; perfezione personale/santificazione del mondo: “ imitazione ” sì, ma non nel senso di “ copiare le virtù ”.
La contemplazione di Gesù incarnato, missionario, crocifisso, Eucaristia non metteva Alfonso di fronte a un maestro, ma di fronte al Salvatore: imitare il Salvatore è seguirlo, continuarlo, impegnarsi con e come lui. Alfonso finalmente libero scriverà:
“L’intento de’ Sacerdoti del SS.mo Salvatore è, per seguitare l’esempio del nostro comun Salvatore Giesù Cristo, d’impiegarsi principalmente nell’aiutare i paesi di campagna più destituti di soccorsi spirituali col distintivo assoluto di dover sempre situar le loro chiese e case fuori dell’abitato e in mezzo alle diocesi...” (Ristretto,
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1747). “ L’unico intento... sarà di seguitare l’esempio del nostro Salvadore Gesù Cristo in predicare a’ poveri la divina parola, come egli già disse di se stesso: Evangelizare pauperibus misit me (Lc. 4, 18). E perciò i soggetti di questa Congregazione... s’impiegheranno totalmente nell’andar’aiutando la gente sparsa per le campagne e i paesi rurali, specialmente quelli che sono più abbandonati di soccorsi spirituali... Le case dovranno sempre situarsi fuori dell’abitato e in mezzo alle diocesi e ciò affine di star sempre sciolti per potere andare con maggior prontezza girando per i luoghi d’intorno... e affine insieme di porgere in tal modo più facilmente il comodo alla povera gente della campagna di accorrere a sentir la divina parola ed a prendere i santi sagramenti ” (Cossali, 1748) 18 .
Al termine “imitare” Alfonso preferisce “seguitare” e non parla di “ imitare la vita e sacrosante virtù di Gesù Cristo”, neppure di “seguire gli esempi di Gesù Cristo”. “Seguitare” significa “continuare”; “ esempio ” è singolare, perciò “ continuare l’esempio ”, di chi? “ del Salvatore ”.
Alla morte di Falcoia Liguori rispetterà le tradizioni già acquisite, anche perché aveva troppo sofferto a causa di autocrati, per diventarlo a sua volta, come superiore, fino al suo episcopato, consacrerà la conferenza settimanale alla virtù del mese, cosicché i suoi ascoltatori attingeranno pagine e pagine di sentenze e di intuizioni 19; nelle sue Cose di coscienza ne aveva steso una sintesi completa con i principali punti delle Regole. Vale di più, dovette dirsi, questo panorama circolare sulle grandi virtù del Vangelo che la monotonia di un superiore che polarizzasse per un anno intero i confratelli sulla mortificazione o, quasi per caso, sull’ubbidienza. Questo a livello comunitario, pubblico.
Però la sua insistenza nell’attribuire a Falcoia la paternità di queste Regole non era solo umiltà, perché in realtà egli prese le distanze da orientamenti nei quali pur rispettandoli non si sarebbe mai riconosciuto. A livello personale, non troviamo nella sua vita alcuna attenzione al metodo delle virtù del mese, come fondatore e superiore generale, non disse una parola riguardo ad esso in nessuna delle sue circolari ai confratelli; come agiografo dei più santi di questi (Sarnelli, Curzio, Cafaro) non segnalò alcuna traccia del metodo nelle loro vite di perfetti Redentoristi. Eloquente silenzio.
Quando Alfonso arrivò a Scala a trentaquattro anni aveva una spiritualità ben precisa, non dovuta né alla Crostarosa né al Falcoia, però si sentì in consonanza con la prima e in dissonanza con il secondo. Ma le sorgenti che lo alimentavano erano altrove. I compagni della seconda ondata, che vennero a unirsi al suo progetto, quelli solidi, erano
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anch’essi uomini sulla trentina e santi: li rispettava troppo per metterli nei banchi di scuola. Fondatore carismatico di un nuovo Istituto, nella libertà sprezzante dei metodi che impastoiavano, proponeva loro uno scopo fondamentale, fuori del quale non voleva sapere altro, continuare il Salvatore per e tra la povera gente. Restavano con lui, liberamente, coloro che lo condividevano, costituendo una comunità missionaria al servizio e in mezzo ai poveri abbandonati: “Ne avete sempre con voi” (Mt. 26, 11) aveva predetto il Signore con un presente che suggerisce perpetuità.
Quanto a Mons. Falcoia 20, la cui dirittura fu totale e il merito incontestabile, sarà alla ribalta, necessariamente, nel primo capitolo generale, ma non nelle circolari dei Rettori maggiori, sia napoletani che romani. Del resto il suo figurare ancora oggi nella storia è dovuto a quel “ caro figlio ”, del quale non misurò fino in fondo né la grandezza né la santità.