Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762)

31 - CENACOLO E PENTECOSTE (1743-1745)

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31 - CENACOLO E PENTECOSTE

(1743-1745)

 

Scala e la sua grotta erano state per Alfonso de Liguori il Tabor e il Calvario; il suo Istituto aveva avuto la sua culla e vi era nato come la Chiesa dalla croce. Ma il suo Cenacolo fu Ciorani, dove padri e fratelli del SS. Salvatore vissero insieme dal 1738 al 1743, “ tutti unanimi, assidui nella preghiera ”, nella penitenza, nell’apostolato, “con Maria Madre di Gesù”. Si conserva tuttora la piccola cella del fondatore: nove metri quadrati, tre tavole su due cavalletti di ferro per letto, un tavolo di legno bianco, due sedie di paglia; di fronte, un sottoscala senza finestra, dove si flagellava a sangue.

“La Nitria, e la Tebaide, scrive Tannoia, non videro forse ne’ loro cenobj simili contemplativi, come si vedevano nella nuova Casa di Ciorani. Una parola soperchia, non che in fallo, non si sentiva, né si vedeva un soggetto fuori di stanza senza necessità. Tutto era umiltà, e somma soggezione fra tutti. La volontà di Alfonso regolava il volere di ognuno. Non vi erano pretensioni, né ripugnanze, ma tutti senzaché uno invidiasse l’altro, erano soddisfatti nel proprio impiego. Avendosi avuto il Sacramento nella propria Chiesa, si faceva a gara di notte, non che di giorno e chi più poteva trattenersi in corteggiarlo. Tra tutti segnalavasi Alfonso... La penitenza, e la mortificazione... era la caratteristica di ognuno, e segnalavansi tutti in questa virtù, vedendosi Alfonso che non la perdonava a se stesso”1 .

In questo Cenacolo nel maggio 1743 si verificò quella che si è potuta chiamare “la Pentecoste redentorista2.

Resi gli ultimi onori a Mons. Falcoia, il P. Cesare Sportelli portò con sé da Castellammare i frammenti delle Regole abbozzati o redatti dal defunto prelato, che Alfonso già conosceva avendoli letti e discussi con lui durante gli incontri in episcopio. In particolare una costituzione, perfettamente messa a punto, stabiliva le modalità dell’elezione, con due terzi dei voti, del superiore generale 3: era giunto il momento di metterla in pratica. In qualità di primo assistente del defuntoDirettore”, Alfonso convocò a Ciorani un’assemblea generale dei padri per il 6 maggio 1743 4.

 

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La congregazione contava nove padri: Alfonso de Liguori, Cesare Sportelli, Gennaro Sarnelli, Saverio Rossi, Giovanni Mazzini, Andrea Villani, Benigno Giordano, Paolo Cafaro e Pietro Genovese, e sei fratelli coadiutori: Vito Curzio, Gennaro Rendina, Francesco Tartaglione, Leonardo Cicchetti, Romualdo Di Cristofaro e Gaspare Corvino. Sembra che il P. Gaetano Pepe, malgrado il voto di perseveranza emesso nel precedente 2 luglio, si fosse già ripreso la sua libertà.

I giorni 6, 7 e 8 maggio vennero celebrate a Ciorani tre solenni messe funebri per il venerato padre e pronunziata anche l’orazione commemorativa ufficiale, non si sa se da Liguori o da Sportelli. Poi la mattina del 9 nel piccolo oratorio della comunità, chiamato ancora oggi “la cappella del capitolo”, fu celebrata la messa dello Spirito Santo che iniziava con questa grandiosa prospettiva: “Lo spirito del Signore invase la terra intera” e si concludeva con quest’altra affermazione profetica: “Furono tutti ripieni di Spirito Santo”. Assenti Gennaro Sarnelli, che non era riuscito a liberarsi dalla grande missione napoletana e Pietro Genovese, partecipavano sette padri, tutti elettori e tutti eleggibili, data l’esiguità del numero.

Con voto segreto si elesse prima il presidente: Sportelli; poi il segretario: Mazzini; infine gli scrutatori: Liguori, Giordano e Cafaro. Il presidente rivolse ai confratelli un “fervoroso discorso”, che il segretario così riassunse: “...che in quest’elezione tenessero avanti gl’ occhi la Maggior Gloria di Dio, e il bene della Congregazione, e benché tutti i PP. (e qui il faceto Sportelli dovette abbozzare un sorriso) avessero spirito, e talento per portar tal peso, pur non dimeno tra essi come fra le stelle una differt ab alia in claritate...”. Era sottolineare. Come scrive il P. Claudio Benedetti, “che tra loro uno più che gli altri risplendeva per virtù. Voleva intendere Sant’Alfonso5 .

Si passò ai voti. Il primo scrutinio fu negativo, perché nessuno ottenne i cinque suffragi che costituivano i necessari due terzi; secondo scrutinio... terzo... nessun risultato positivo. Ignoriamo come si ripartirono i voti, quanti ne mancarono al “miglior piazzato”, se i tre scrutini furono identici; sappiamo invece che questa votazione farà scandalo per gli agiografi: Tannoia, Giattini-Marsella, Rispoli e quelli che dipenderanno da loro copriranno di un pudico silenzio questo brancolare “poco edificante”. Cento anni dopo la morte di Alfonso C. Dilgskron per primo ci darà integralmente il verbale di Mazzini, ma nel 1899 Berthe si rifiuterà ancora di dargli il dovuto valore. Eppure quanto sono simpatici questi tre scrutini nulli!

Innanzi tutto, meno informati di noi, i capitolari del 1743 ignoravano che il fondatore sarebbe stato canonizzato e proclamato dottore della Chiesa; certo lo stimavano un grande santo, ma eccellere nella

 

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santità era la norma di quasi tutto il gruppo, che eccezion fatta per l’assente Pietro Genovese contava solo personalità fuori del comune. Inoltre negli ultimi tempi Falcoia, poco soddisfatto di Alfonso, aveva spinto in primo piano Sportelli, la sua “ creatura ”, ed era difficile trovare di meglio di Don Cesare, perché durante la sua funzione di superiore interino a Ciorani “ dai segni che allora diede di prudenza, di regolare osservanza e di paterna carità, specie verso gl’infermi, tutti presagirono che sarebbe stato un modello di Rettore6 . Infine il processo di canonizzazione ci fa sapere che Alfonso non solo non voleva “superiorato”, ma “fu obbligato, e quasi forzato” dai confratelli. “Il governo, avrebbe poco dopo ricordato a Villani, l’ho accettato per ubbidienza, e l’ubbidienza sola mi ci tiene7 . Non è dunque azzardato pensare che avesse pregato individualmente i capitolari a non votare per lui, impietosendo l’uno o l’altro.

I tre scrutini a vuoto indussero il presidente a sospendere la seduta, pregando i padri di ritirarsi in camera o in chiesa a supplicare il Signore che facesse loro conoscere l’uomo da lui scelto. Dopo una buona ora di preghiera, gli elettori si ritrovarono nell’oratorio per il quarto scrutinio: con unanimità di suffragi, tranne il suo, il P. de Liguori ne uscì superiore generale o rettore maggiore, come allora si diceva.

La costituzione stabilita da Falcoia prevedeva a questo punto la cerimonia dell’ubbidienza, durante la quale ognuno baciava la mano all’eletto; poi suggeriva a quest’ultimo di tenere un’allocuzione nella quale “ ringrazierà tutti della elezione fatta in persona sua, dichiarando il suo poco merito per questo, e la sua piccola abilità per un tanto peso ”. Non dubitiamo che tutto avvenne così. Infine dovette esplodere il previsto Te Deum, cantato da Alfonso con la sua splendida voce non per la sua promozione ma per la congregazione, che, benché ancora tanto piccola dopo dieci anni, arrivava finalmente all’autonomia e allo sviluppo adulto.

La riprova la si ebbe subito.

Tannoia spiega:

Finora erasi vivuto in Congregazione senza legame, che obbligato avesse i soggetti a virtù Monastica; ma siccome la natura a poco a poco modifica, e perfeziona i suoi prodotti, così Alfonso disponeva anch’esso i suoi Congregati ad una vita più santa, e più perfetta. Benché da tutti finora si fosse vivuto, come dissi, collo spirito di povertà, e di una cieca ubbidienza, e non vi fosse tra soggetti né mio, né tuo, né quella libertà, che lusingando le passioni, schiavi ci rende di noi medesimi, tuttavolta non ci era alcun legame, che obbligato avesse a non vivere altrimenti. Tutto era libero, e spontaneo; ma perché lo spirito nelle case Religiose, anziché crescere, di ordinario manca, Alfonso

 

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volendo formare, come proposto si aveva, una comunità Apostolica e tutta santa, spesso spesso metteva in veduta de’ suoi il maggior merito che presso Dio si acquista, quando con voto se li dedica la propria volontà, e spogliati ci vediamo di ogni cosa terrena8.

Consultato a suo tempo, Falcoia non era stato negativo e aveva anche parlato di voti solenni, ma nella prospettiva tutta giuridica del titolo di ordinazione da essi costituito; però membro di una società senza voti, non dava alla professione religiosa la stessa importanza del fondatore e poi alla sua innata lentezza negli ultimi tempi si erano aggiunti l’apatia e il pessimismo propri dell’età senile. La sua morte aveva finalmente liberato il desiderio santamente impaziente che covava in Alfonso e nella sua giovane compagnia. Con l’accordo unanime del capitolo, primo atto del superiore generale fu realizzare quest’importante mutazione: L’emissione dei tre voti propri della vita religiosa che avrebbe reso i “Redentoristireligiosi nel senso moderno della parola.

“In questa Congregazione fecero in mano all’eletto Superiore i quattro voti: cioè d’Obbedienza, Povertà, Castità e Perseveranza nella Congregazione tutti i PP. e Fratelli. Il P. Rettore Maggiore già eletto fece ancora lui i detti quattro voti in mano del Capitolo”, così si esprime il verbale steso dal segretario Mazzini. I sacerdoti, già vincolati al celibato in forza della loro ordinazione, non fecero il voto di castità, ma, dopo l’impegno di “perseverare... fin’alla morte in questa santa Congregazione del SS.mo Salvadore ”, pronunziarono questa formula scritta di proprio pugno da Alfonso: “Di più fo voto di povertà nel modo e forma come sta nelle Regole: col voto annesso di rinunciare ad ogni Dignità, Benefici ed Offici extra la Congregazione. Di più fo voto d’obbedienza col voto anche annesso di andare alle missioni ancora ad Infedeli quando mi sarà mandato dal Sommo Pontefice o dal Rettore Maggiore di questa Congregazione”.

In questo secondo voto annesso l’anima del fondatore e del giovane Istituto esprimeva il suo anelito universale, accentuando la scelta dei più abbandonati: la Cina, il Capo di Buona Speranza... Sfortunatamente, cinque anni dopo, il cardinale Spinelli, interrogato dalla curia romana in vista dell’approvazione della congregazione, ne chiederà e ne otterrà l’abrogazione... pontificia, perché “i missionari saranno occupatissimi nell’opera di ammaestramento dei contadini”, come annoterà con spirito di campanile, di diocesi o tutt’al più di poligono nazionale e non di “missione apostolica9. Questo colpo di forbici, che per fortuna non accorcerà la mira del fondatore, né quella dei suoi figli, resterà però come una cicatrice ancora dolente. Uomini di tavolino “non spegnete lo Spirito; non disprezzate i profeti” (1 Tess. 5, 19)!

Con l’emissione dei voti. i padri del SS. Salvatore divennero

 

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teologicamente religiosi, anche se giuridicamente restavano sacerdoti secolari con voti semplici: voti semplici ma pubblici perché la loro congregazione era riconosciuta dai vescovi di Salerno e Nocera. Prevedendo la reazione dei regalisti, L’assemblea sottolineò che, nei riguardi dello stato, niente era mutato: “ Che non sia religione, essa dichiarò, ma Congregazione di sacerdoti ad instar de’ PP. della Missione e ad instar de’ PP. Pii Operari10 .

 

Il 9 maggio 1743 segnò una delle grandi svolte nella vita di Alfonso. Prima di tutto nella sua vita personale: non essendo più di questo mondo il suo direttore di coscienza e essendo il suo “supplenteSportelli superiore a Pagani, scelse come guida spirituale il P. Paolo Cafaro, prodigio di zelo, di orazione e di austerità. Poi nella sua vita di fondatore: finalmente era libero, ma di una libertà che doveva comporsi con un capitolo generale da riunire periodicamente (mai una qualsiasi assemblea aveva avuto una parola da dire durante i dieci anni di direzione falcoiana) e continuare su un lancio e un’orbita, tracciata da dieci anni di tradizione, che “erano” l’Istituto, nel bene e nel meno bene.

Un diario scoperto nel 1958 ci svela qualche segreto del neo superiore generale. Si tratta di nove pagine, tracciate forse la sera stessa dell’elezione 11, alla vigilia perciò delle discussioni, cui l’improvvisato capitolo generale non poté sottrarsi, prima che i padri riguadagnassero i campi apostolici, abbandonati per qualche giorno. Su tre pagine Alfonso annotò trentaquattro punti di vita regolare e apostolica, alcuni dei quali si ritrovano anche nei decreti dell’assemblea, cinque pagine si riferiscono ai postulanti, novizi, studenti, con questo significativo appunto: “Per prima la Regola de’ Suddiaconi è una Regola così dura”. Questo porre al primo posto i problemi dell’ammissione e della formazione dei giovani indica una volontà di crescere, moltiplicarsi, esplodere: come la Chiesa della Pentecoste. Infine una pagina ci svela alcune risoluzioni personali del nuovo rettore maggiore:

Osservar sempre le Regole ad litteram, e non dispensare, se non quando si conosce la maggior gloria di Dio.

Dir sempre bene delle cose di Mons. Falcoia, e non lagnarsene...

Conveniente s’unisca ecc. s’intende ordinariamente che senta, e bilanci le ragioni de’ Consultori, e ne’ casi dubbi cerchi d’uniformarsi per quanto meglio li pare. Ma non già, dove a’ forte ragione in contrario. Obbedienza 1743 D. Paolo (Cafaro)”.

Questa linea di condotta, certamente quella di un capo, si ricollegava a una costituzione, preparata dal “ Direttore” e ripresa dallo stesso capitolo, che faceva del padre generale un “monarcaindipendente dai suoi consiglieri: questi avevano solo voce consultiva, non

 

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deliberativa, anche se veniva raccomandato al rettore maggiore di “unirsi” al parere della maggioranza o dei migliori. Si esprimeva così il dodicesimo del diciannove decreti, presi in fretta dall’assemblea riguardo ai voti o ad altri problemi sollevati alla rinfusa: si insisteva sulla povertà, sulla vita perfettamente comune e sulla proibizione di ogni vitalizio; il rettore maggiore non poteva autorizzare case che non fossero fuori delle città e in mezzo agli abbandonati, no alla direzione spirituale delle monache (chi si sarebbe occupato allora dei dimentica ti?), non omettere mai la predica sulla Vergine “come sperimentato la più giovevole” (ci saremmo dovuti meravigliare se la Madre di Gesù non fosse stata al centro di questo Cenacolo); il maestro dei novizi dovrà essere libero da qualsiasi altra occupazione (ecco una solida decisione per il reclutamento!); infine “ Che si debba totalmente e sempre abbracciare ed osservare lo stabilito dal nostro fu Padre direttore Monsign. Falcoia” e “che si commetta ad un Padre d’unire le Regole e costituzioni lasciateci disperse dal nostro Fondatore12 .

Sarà in primo luogo questo il lavoro di Alfonso, al quale certamente consacrerà tutta la sua estate, purché Dio gli avesse dato vita... Infatti a Messina era scoppiata la peste e a fine maggio già non si contavano più i morti. Napoli tremava. Nella tradizione del “ servizio eroico ”, che è come una forma di martirio, Liguori e Sarnelli, senza minimamente considerarsi eroi, fecero voto di assistere gli appestati. qualora il flagello arrivasse in Campania 13 . Ma fortunatamente l’epidemia non oltrepassò lo stretto.

Passate la paura e la calura dell’estate 1743, i capitolari si ritrovarono a Ciorani per il 10 settembre: si sentiva venire la vita e si sentiva venire l’uragano.

La vita fu a Pagani la scoppiettante festa popolare del 22 luglio (S. Maria Maddalena), durante la quale il vicario generale di Mons. De Dominicis, circondato dal capitolo della cattedrale, dai parroci di Nocera e dintorni, da numerosi sacerdoti e religiosi, benedisse la prima pietra della chiesa e della casa dei padri; e poi, ogni giorno, si videro villani e gentiluomini, fattoresse e nobildonne portare materiali, ducati, gioielli, ritrovandosi fianco a fianco manovali e muratori. L’uragano furono le riflessioni sornione di una ventina di preti e di qualche paffuto monaco: “ Tutti corrono dietro questi padri... che fine faranno le nostre offerte? ”. Cominciò a prendere corpo e a crescere un’opposizione ben concertata, che sfocerà in ricorsi astiosi alle autorità e ai tribunali di Napoli e di Roma. Fervore e odio: la storia di Villa si ripeteva, ingrandita...

Però, come dice Claudel, “la più forte è la speranza”, la speranza che bussava alla porta. Carmine Fiocchi, 22 anni, laureato presso gli Studi di Napoli, diacono di Salerno, era entrato in noviziato il

 

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 giorno stesso dell’elezione di Alfonso, malgrado l’opposizione dei suoi genitori. Veramente un bel regalo, padre generale! Francesco Sanseverino, alte relazioni, grandi talenti, bella generosità, si presentò in agosto, carico di fervore e con il pieno assenso dei suoi genitori; ma non era ancora suddiacono, quindi le costituzioni falcoiane gli chiudevano la porta...

Alfonso convocò i capitolari per il 10 settembre. Questo voleva dire prima di tutto che il tempo dell’assolutismo era finito, perché si consultava la base; poi che il rettore maggiore si sentiva legato dalle decisioni del Padre e del capitolo: ma anche che c’era un problema grave e urgente da risolvere . Quale?

Era proprio necessario convocare i padri per il breve spazio di una giornata per stendere la costituzione dell’ammonitore e per fissare alcune proibizioni, quali il ricorso ai tribunali, la caccia con il fucile o la rete. L’avere presso di sé animali come cani e uccelli? Il problema di fondo era un altro: avendo Falcoia ristretto il corridoio di accesso all’Istituto tra il suddiaconato e i trent’anni, era urgente aprire porte più ampie. Si decise che il rettore maggiore poteva dispensare dal secondo punto e che, per i giovani, L’età di ammissione veniva abbassata a diciotto anni, senza ordinazione, naturalmente. Due giorni dopo Ciccio Sanseverino, 20 anni, raggiunse al noviziato 14, sotto l’austera direzione di Cafaro, il sacerdote Paolino Scibelli, il diacono Carmine Fiocchi, i suddiaconi Bernardo Tortora (dottore in diritto come Fiocchi ) e Biagio Amarante. Ben presto verranno anche il sacerdote Lorenzo D’Antonio e l’accolito Nicola Muscarelli (o Muscariello) lo stesso giorno in cui compiva diciannove anni.

I giovani venivano, venivano! Pagani si costruiva, i settecomuni” della città di Nocera avevano votato un sussidio di cento ducati, si faceva a gara nel rubare questi predicatori: il vescovo per le sue visite pastorali, i parroci per le loro parrocchie.

Angri (5-6.000 ab.), alle porte di Nocera, reclamava la sua missione e in novembre vi andò lo stesso Alfonso con un bel gruppo, accolto come un santo e ospitato in casa di Lorenzo Rossi. Ci fu subito “ caccia ” a qualsiasi oggetto servito al P. de Liguori, che aveva evidentemente ben altro da fare che sorvegliare la danza del vasellame o della sua misera biancheria. Non aveva mai saputo che a Pagani nel 1741 un suo capo aveva guarito un braccio della madre di Don Tipaldi, ma la voce aveva fatto il giro. Imbaldanzita e caritatevole, Teresa Rossi si mise in azionestrappando” al fratello coadiutore “un pajo di sottocalze di Alfonso, intinte di sangue”. Preziosa reliquia!

- No, le disse un missionario, non sta bene! E’ dare culto a una persona ancora viva!

Docile e timorosa, Teresa si sbarazzò degli oggettisupersti-

 

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ziosi”, offrendoli a un povero mendicante dalle gambe gonfie a causa di una tenace idropisia. Qualche giorno dopo il pezzente ritornò danzando:

- Da che mi daste queste calze, mi si sgonfiarono le gambe, e mi vidi sano!

Il padre e i suoi confratelli si dedicavano ad altre guarigioni: le 128 prostitute (la precisione della cifra lascia pensare che vivessero in case chiuse) cambiarono mestiere e una buona trentina di giovani donne si consacrarono al Signore 15.

Da Angri Alfonso passò alla parrocchia principale di Nocera, S. Matteo, con Sportelli e altri confratelli, tra i quali il P. Benigno Giordano, che però venne meno, sotto i suoi occhi, spossato dall’apostolato: a 38 anni, portastendardo dei padri, raggiunse il 21 gennaio 1744 Gaudiello nella congregazione del cielo. Terzo sarà il venerabile Gennaro Sarnelli: a 42 anni, tra sbocchi di sangue, consumato dalle penitenze, dallo scrivere e dal predicare, cesellato anche da prove mistiche, si spense a Napoli il 30 giugno 1744, assistito dal fratello Tartaglione e dal novizio Francesco Antonio Romito, mandati affettuosamente da Alfonso. Le sue ultime parole furono:

Padre mio, eccomi qua... Voi sapete, che quanto ho fatto, quanto ho pensato, tutto è stato per la gloria vostra... Fratello, andate apparecchiando le vesti più vecchie che vi sono, per quando sarò morto, acciocché non si perdano con me... Voglio morire recitando il rosario”.

 

Non solo giovani, ma anche anziani prendevano il posto degli scomparsi: Giacomo Andrea Nola, primicerio della cattedrale di Nocera, Paolo Muscati di Serino, sacerdoti al di sopra della quarantina, vocazioni originate dalle missioni.

Ma ecco un postulante inaspettato, che non veniva da una missione e che andava oltre i limiti anche più generosi di ammissione: Don Giuseppe de Liguori. Il vecchio lupo di mare era venuto a Ciorani per un ritiro.

“Non ancora entrato in casa, si compunge, osservando la povertà dell’edificio, maggiormente vedendo l’esemplarità de’ nostri, il silenzio, che vi regnava, e l’odore di santità, che spirava da per tutto. Tanto bastò per far idea del solo eterno, e scadergli dal cuore ogni cosa di mondo. Invidia la sorte del Figlio, e più non pensa a Vescovadi: lo abbraccia, lo bacia, e non si sazia di benedirlo. Non fu così breve la sua dimora; e vie più invogliato dalla condotta de’ nostri, e della santità del Figlio, coraggioso risolve, non voler aver più che fare col mondo, ma vivere sotto la condotta del Figlio nello stato di Fratello serviente. Lo disse, ed avrebbero fatto; supplicò piangendo,

 

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ed insistette: Alfonso se si compiacque dell’umiltà di suo Padre, lo persuase non esser quella la volontà di Dio, e che Iddio volevalo in mezzo al mondo, per portare in casa sua la croce de’ figli, e del proprio stato... Giunto in Napoli D. Giuseppe, non visse più da militare, ma da divoto eremita: orazione e lettura di libri santi era tutta la sua occupazione: Chiesa, e casa facevano il suo trattenimento; aprì carteggio col Figlio solo di cose eterne... Avendoli cercato notizia D. Giuseppe di qualche vita di Santo di suo profitto... Alfonso gli scrisse: “Si compri la Vita di S. Luigi Gonzaga grande che, poco fa, è uscita, la Vita di S. Filippo Neri e, se la trova, la Vita di S. Pascale o di S. Pietro d’Alcantara. Si compri un libretto che si chiama: Le verità eterne del Rossignoli e le Massime eterne del Cattaneo16 .

Mentre diceva no a questo commovente postulante, Alfonso tentava di strapparne un altro alla dedizione di Arcangela e di Ippolita sorelle di Giffoni, tutto cuore e attenzione per il fratello - la loro gloria! - Nicola Maria Celestino de Robertis, 25 anni, bell’avvocato buon tipo di cristiano dalla messa quotidiana. La missione era passata e ripassata per le sue parti e nel febbraio 1744 Don Celestino, partecipando a un ritiro a Ciorani, sentì la spada di Dio entrare, per dir così, nella sua carne. Iniziò una lunga corrispondenza con il P. de Liguori che lo sosteneva, lo rilanciava, lo pressava:

“Sia laudato il SS. Sacramento e Maria Immacolata! Essendomi pervenuta la notizia della buona risoluzione o inclinazione che V. S. aveva circa la sua vocazione, mi sono alquanto forte maravigliato che V. S. ha voluto comunicarla agli altri e non a me... il demonio in questi affari, quando non può arrivare a distogliere, almeno procura di far pigliare tempo lungo, perché così gli è riuscito più volte di far perdere a tanti le vocazioni più belle” (15 marzo 1744).

“Subito che può, non perda nemmeno un momento di tempo a venire. V. S. non sarebbe il primo che sarebbe qui ricevuto da secolare e senza alcun Ordine, sempreché vi sono le condizioni convenienti e !a volontà risoluta di esser tutto di Dio. Tra pochi giorni sappia che qui si sono ricevuti più soggetti, partiti di casa loro senza dir niente a’ parenti, a’ quali affatto non siamo obbligati, in queste vocazioni, a manifestar le nostre risoluzioni; anzi, col manifestarcele, vi è gran pericolo di perder la vocazione, e colla vocazione la protezione di Dio e la salute eterna.

Si metta dunque sotto i piedi ogni tenerezza de’ parenti, e faccia animo: Dio lo chiama, non a qualche posto di terra, ma al gran posto di santo... Animo dunque, e pensi che, per questo Dio così amabile e che ha fatto tanto per l’anima vostra, ogni cosa che si fa, anche il dar la vita, è poco...

La prego in questi giorni, prima di venire, se la faccia sempre o

 

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col SS. Sacramento o col Crocifisso in camera” (7 aprile 1744) 17 .

 

Alfonso evocava qui l’esperienza decisiva della sua vita di giovane avvocato, che stava per testimoniare nell’introduzione, scritta in quegli stessi mesi, alle sue Visite al SS. Sacramento ed a Maria SS ma: “Io per questa divozione di visitare il SS. Sacramento, benché praticata da me con tanta freddezza ed imperfezione, mi trovo fuori del mondo, dove per mai disgrazia son vivuto sino all’età di 26 anni ”. All’inizio delle lettere a Celestino de Robertis, all’inizio di quasi tutte le lettere del periodo febbraio 1744 - aprile 1745, Alfonso, abbandonato l’abitualeViva Gesù, Maria...”, lo sostituì con “Sia laudato il SS. Sacramento e Maria Immacolata”. Queste due date non racchiudono forse il tempo durante il quale compose a bocconi, nel corso di giornate sovraccariche, L’opuscolo che avrebbe reso una sola cosa il suo nome con la pratica della visita al SS. Sacramento?

Eppure Liguori non ne fu l’iniziatore, perché l’adorazione fuori della messa si era sviluppata spontaneamente in Occidente a partire dal Medioevo. Questo progresso della fede e della pietà è un frutto immortale dello Spirito, per il quale anche la Chiesa contemporanea impegna la sua autorità 18 ; leggendo il Documento teologico di base per il Congresso eucaristico internazionale di Lourdes (1981), si pensa alla vita e ancor più al piccolo volume di Alfonso:

Adorando lui, il Crocifisso, che ha dato la sua vita per gli uomini e che Dio ha risuscitato per la potenza dello Spirito, accediamo alla conoscenza dell’amore del Cristo, che supera ogni conoscenza (Ef. 3, 19) e impariamo a dare la nostra vita ai fratelli...

Tutta la liturgia dell’Eucaristia ci invita all’adorazione del Cristo che dimora in mezzo a noi con il sacramento della sua presenza fedele e reale.

Mentre tanti uomini sono alla ricerca di tecniche che permettano loro di raggiungere l’Assoluto, siamo invitati a riconoscere questa vicinanza del Cristo che ci offre la sua presenza e sollecita la nostra ospitalità”.

Bisogna allora meravigliarsi se gli attuali fondatori - ieri Carlo de Foucauld, oggi Teresa di Calcutta - si uniscono ad Alfonso de Liguori ai piedi del Signore presente nel SS. Sacramento? E’ stato chiesto recentemente a Madre Teresa:

- Qual è secondo lei l’essenziale nella formazione delle religiose

- L’essenziale, ha risposto, è portare le suore a un amore profondo, personale all’Eucaristia, a trovare Gesù nel SS. Sacramento. Allora saranno capaci di trovare Gesù nel loro prossimo e di servirlo nei poveri 19 .

 

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La fede, come la vita, non si divide. Alfonso de Liguori mandava i suoi novizi al roveto ardente, dove egli stesso e gli altri compagni diventavano tutti di fuoco, e, per nutrire la loro contemplazione e la loro preghiera, aveva scritto un certo numero di testi. Ci fu chi, sentitili durante un ritiro, ne rimase entusiasta e decise di stamparli a proprie spese per il grande pubblico, chiedendo però al santo di completarli in modo da avere una visita per ogni giorno del mese. Questo benefattore altri non era, sembra, che il suo amico, penitente e ospite napoletano, Giovanni Olivieri 20, il “turcoconvertito delle Cappelle serotine.

A questo punto ci si trova di fronte a un problema di storia della spiritualità: le Visite, composte da un nucleo primitivo per i novizi del SS. Salvatore e da un gruppo aggiunto nel 1744 in vista dell’edizione per il pubblico, sono della stessa vena? Ne è stato fatto uno studio attento 21 , che porta alle seguenti piste.

Il nucleo primitivo scritto per i novizi - abitano sotto il medesimo tetto con il SS. Sacramento (Visita 3) - comprende le Visite 1-15, la cui struttura è più limpida e sempre la stessa: un testo biblico vivacemente commentato introduce rapidamente agli atti, sentimenti e preghiere. Sembra che Alfonso le compose fondandosi soprattutto sulla propria esperienza, dal momento che le fonti, facilmente riconoscibili, sono le stesse da cui egli “beveva” in questo periodo: C. A. Cattaneo (1645-1705), raccomandato al padre; Sarnelli, alle opere del quale collaborava; soprattutto la sua Madre Teresa d’Avila, esplicitamente citata cinque volte; infine gli spirituali spagnoli Giovanni d’Avila, Giovanni Eusebio Nieremberg, S. Pietro d’Alcantara, Baldassarre Alvarez. In queste visite, redatte negli anni 1740-1743 durante i quali componeva anche le Considerazioni sopra le virtù e pregi di S. Teresa, l’autore è spontaneo, pienamente se stesso, ispirato molto più dalla memoria che non dallo sguardo gettato su un libro o una nota.

Le corrispondenti Visite a Maria SS.ma, più brevi e nettamente differenti da quelle della seconda quindicina del mese, sono della stessa fattura: un testo biblico, cinque o dieci righi di commento: una veloce frecciata.

Il gruppo aggiunto su richiesta di Giovanni Olivieri è di tutt’altra fattura, più disparata, con la considerazione introduttiva meno guardinga e decantata. I nostri abili critici hanno individuato due fonti, ben caratterizzate.

Le Visite 16-23 - tranne la 22 - sono tutte ispirate da Giovanni Battista Saint-Jure (1688-1756): De la connaissance et de l’amour du Fils de Dieu (Douai, 1639), cap. 10, sez. XVIII, XIX e XX. Con Saint Jure sotto gli occhi, Liguori sceglieva, mutava l’ordine, riassumeva,

 

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ampliava qui, allegava : tagliava il diamante secondo il suo bisogno - luminosità, sobrietà - e l’incastonava in un’opera d’arte, che avrebbe portato da quel momento il suo sigillo. Questo modo di comporre suggerisce che ci troviamo di fronte a delle Visite di completamento, stese di seguito, non più per novizi, ma per gente impegnata negli “ affari del mondo(Visita 19). Da questo “blocco Saint-Jure”, composto nel 1744, si discosta la 22 di chiara vena spagnola nel suo contenuto e nel suo movimento: una scappatella nella quale Alfonso ritrovava pienamente se stesso! Anche le visite 24-31 sono di ispirazione francese, non più berulliana ma risalente a Paray-le-Monial: vi si visita il “Cuore che ha tanto amato gli uomini”, oltraggiato, abbandonato, trapassato, amabilissimo e tutto amore; la 24 è un atto di riparazione, la 25 una vera litania del Sacro Cuore. Lungo questi otto testi si pensa ai padri Giuseppe de Gallifet ( 1663- 1749): De l’excellence de la dévotion au Coeur de Jésus Christ (Lyon 1733, edita in italiano a Venezia nel 1736) e Giovanni Croiset (656-l738) La dévotion au Sacré Coeur de N S. Jésus Christ (Lyon 1691).

L’introduzione alle Visite e la preghiera di apertura, composte certamente per ultime o quasi, come spesso accade per le introduzioni, sono ispirate ugualmente da Paray-le-Monial.

Le Visite si ricollegano così alle grandi correnti spirituali del XVI e XVII secolo e, attraverso esse, al Medioevo: piccola sinfonia a tre movimenti (carmelitano, berulliano e ignaziano) raccoglieva, armonizzava e rilanciava questa triplice tradizione con stupefacente risonanza. Ancora vivente l’autore, questo libretto di centoventi pagine conobbe circa 50 edizioni italiane, 24 francesi, 7 tedesche, 7 fiamminghe; a tutt’oggi raggiunge, in 40 lingue, le 2.017 edizioni inventariate. A parte la Bibbia e l’Imitazione di Cristo, quale libro ne conta di più 22?

Eppure gli inizi furono modesti, come per ogni sorgente. Non possediamo alcun esemplare della prima edizione e non possiamo nemmeno dire se sia del 1744 o del 1745. Il 10 agosto 1744 infatti Alfonso scriveva al suo confratello delle Apostoliche Missioni, il canonico Giuseppe Sparano:

“Io ho cercato e pregato il Sig. canonico Torni, che commettesse la revisione di questo mio picciolo libretto del SS. Sacramento e di Maria SS. non ad altri che alla persona di V. S. Ill.ma, sperando certamente che ella me lo sbrighi presto. Pertanto di questo la prego, a lasciare ogni altra cosa e sbrigarmelo, dovendo sapere che lo stampa un divoto per limosina e, se passa tempo, temo che si spendano li danari e non si stampi più. Io penso che sia un libretto molto utile per chi vuol far la visita al SS. Sacramento e Maria SS., e dico di non averne veduto altro simile; perciò l’ho fatto...

 

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Le invierò appresso le altre visite che ci mancano, perché desidero, che presto si cominci a stampare, acciò il divoto si trovi impegnato nella stampa23.

Si sente il padre assillato da lavori e da preoccupazioni, malgrado la pausa dell’estate: a Ciorani, la responsabilità di superiore, l’assallo di coloro che venivano per i ritiri, altri lavori di scrittore; a Pagani, la giovane fondazione sempre più minacciata. Gli avversari di quest’ultima ricorrevano a tutte le armi: calunnie, falsificazioni di documenti, processo dinanzi ai tribunali di Napoli, ricorsi su ricorsi (almeno quattro) alla Santa Sede; inoltre il suo protettore, Mons. De Dominicis, morì improvvisamente il 22 agosto. Per spalleggiare Sportelli, che si batteva da leone, Alfonso ritornò avvocato con lunghi memoriali per la Real Camera e per Roma e con suppliche ai consigileri del Sacro Real Consiglio 24. Così il manoscritto delle Visite poteva raccogliere solo le ultime briciole di tempo, ma, perché il suo mecenate non spostasse altrove il denaro, L’autore inviava al censore un opuscolo incompleto: “ Si cominci a stampare... Le invierò appresso le altre visite che ci mancano”. Sbocceranno a Ciorani in questa tarda estate 1744 o dovranno attendere la primavera 1745 e fiorire nella solitudine mistica di Deliceto?

 

Con l’autunno e la ripresa delle missioni, Alfonso in novembre fu a Roccapiemonte, tra Ciorani e Pagani, per poi passare sull’Adriatico (dieci giorni di duro viaggio invernale), essendo atteso da due anni dai braccianti di Modugno e dall’arcivescovo di Bari. Ma Mons. Muzio Gaeta dovette aspettare ancora un mese, perché un vecchio signore di Bracigliano, Don Andrea Calvini, nel corso della missione di Roccapiemonte rimase profondamente impressionato dal P. de Liguori e dai suoi confratelli e ottenne che, prima di raggiungere Modugno, predicassero una missione a Deliceto, di cui era stato governatore.

Iliceto (Ilicetum, lecceto) oggi Deliceto, punteggiato e coronato di lecci, domina a 500 m. di altezza il versante orientale degli Appennini, a metà strada tra Ciorani e Modugno (Bari). Aveva un capitolo collegiale, dipendente dal vescovo di Bovino. Amico di Calvini, il canonico Giacomo Casati contattò prontamente ed efficacemente le autorità, Mons. Antonio Lucci, i canonici, il principe di Castellaneta signore del luogo, che subito all’unanimità chiesero la missione. Tutti però avevano un secondo pensiero: far stabilire i missionari sulla collina dove si ergeva, a tre chilometri, sotto una foresta di lecci, il convento e la chiesa da poco abbandonata di S. Maria della Consolazione.

Sabato 11 dicembre 1744, dopo tre giorni di viaggio nel freddo e nel fango, Alfonso arrivò a Deliceto con i padri Cafaro, Genovese D’Antonio e lo studente Sanseverino. Con la missione iniziarono an-

 

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che con molto tatto gli approcci: Andiamo a vedere il santuario della Consolazione!... Alfonso arricciò il naso: “È distante, sperduto in un bosco...”. Alfonso si illuminò in un sorriso: “Una chiesa che rapisce e, Dio mio, che bella Madonna!”.

- E la regione è abbandonata, fece notare Casati, sapendo bene quale corda toccare.

Dall’alto della collina, dove si ergeva il santuario, si poteva infatti contemplare l’immenso tavoliere pugliese con i suoi vasti pascoli, dove all’avvicinarsi dell’inverno migliaia d’uomini scendevano dalle montagne per svernarvi con le greggi, restandovi mesi senza sacerdoti. Nell’animo del santo ritornarono le emozioni di S. Maria dei Monti. Se a tutto ciò si aggiunge la prospettiva di far rivivere in quel luogo il culto della Madonna e i timori per la fondazione di Pagani, si capisce perché accettò senza ulteriori rimandi. Infatti il 19 dicembre, otto giorni appena dopo l’apertura della missione, considerava la fondazione come decisa e inviava questa entusiastica lettera al P. Saverio Rossi:

Ringraziamo Gesù Cristo e Maria Vergine, che si sono degnati di concludere la fondazione di questa casa di S. Maria della Consolazione fra otto giorni. Il canonico Casati ha già stipolata la donazione inter vivos stamattina, con averci dato ancora il possesso. Il vescovo già ci ha fatta la concessione del luogo. E già il Capitolo, che qua rappresenta il parroco, coll’università ci han dato il consenso...

Qui ci hanno accettato tutti, Vescovo, preti e secolari come angeli del Paradiso, e non fanno altro che ringraziare Gesù Cristo di questa nostra venuta; specialmente il Signor canonico Maffei ha dimostrato di noi un gradimento immenso; onde vi è buona speranza che il Principe faccia ancora qualche buono assegnamento alla sua venuta, che sarà di breve qua, oltre la speranza certa che ci è d’un buono assegnamento degli Abruzzesi, di 300 ducati l’anno...”.

Furono accolti “ come angeli del Paradiso ” e tutti sapevano che gli angeli non mangiavano. C’era qualche “speranza” da parte del principe, qualche “speranza” da parte della donazione Casati, però, però... “Nella donazione, il fondatore si è riserbato l’usufrutto di tutti i beni, ma solo ha promesso di darci 56 ducati l’anno, col peso di una messa. Vi sarà il beneficio Maffei e quello che renderanno i territori della Madonna. È certo che frattanto vi si starà con strettezza. Dio aiuterà. Allegramente! ché in vita nostra saremo sempre pezzenti25 .

Ma che importava! La Congregazione prendeva piede in una nuova diocesi, in una nuova provincia, la Capitanata, ai confini di una delle regioni più vaste e più abbandonate del Regno: la Puglia, con l’Abruzzo a portata di mano.

Perciò Alfonso fu sempre più del parere di lasciare Pagani, dove

 

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non si trovava pace: non aveva certo voltato le spalle ai tribunali per consumare poi la sua vita in arringhe! Ma Sportelli, ex-avvocato anche lui, non era dello stesso parere e il Sacro Real Consiglio il 14 dicembre 1744 decise in favore dei padri. Segno di Dio?...

Segno di Dio in ogni caso fu per Deliceto l’autorizzazione regia, ottenuta il 9 gennaio 1745 dal fervente amico il marchese Brancone, anche se, come a Pagani, “ con l’espressa condizione, che il detto edificio non avesse a tener forma di convento, ma di casa secolaresca per comodo solamente e ritiro di detti Preti ”. Con i suoi confratelli Alfonso vi si era stabilito la vigilia di Natale: veramente una stalla - “una porcherecciascriverà Landi - fredda e misera. Alfonso, felice, il 28 dicembre scrisse a Sportelli:

“Qui le cose seguitano ad andar prospere... Saranno da novantamila anime abbandonate, ma oh Dio, e come abbandonate! Se avessi potuto senza pregiudizio sbrigarmi dalla missione di Modugno, ora l’avrei fatto per indrizzare la raccolta di questa gran messe, cioè le missioni degli Abruzzesi. Ma non mi è paruto bene tralasciar per ora, dopo tanti appuntamenti coll’arcivescovo, arciprete e clero, quella missione. . .

Io non ho risoluto la totale permanenza a questa casa per sempre. Quando Dio vorrà tornerò a Ciorani. Ma mi pare necessario che per qualche tempo notevole io non mi parta da qui, perché sono infinite le cose da aggiustarsi e risolversi, e di gran peso.

Seguito a scrivere per altra mano, perché mi ritrovo infermo nel letto con flussione e catarro di petto e febbre. Qui il bene che si può fare, per le circostanze che vi sono, è immenso; altro che a Nocera e Ciorani. Tralascio di scriver tutto. Ma quando verrete qui, Dio piacendo, lo vedrete. Si tratta di estrema necessità”.

Inviata subito in Abruzzo una compagnia di missionari guidata dal P. Villani, il 24 gennaio partì egli stesso per Modugno (una settimana di viaggio) con cinque padri. Scriverà a Brancone: “La fatica è stata eccessiva, per esservi ivi eccessivo il bisogno; perocché è stato necessario durar la Missione per 30 giorni continui senza riposo né di giorno, né di notte”. L’insediamento dei Lazzaristi a Bari lo dispensò dal dar seguito al progetto di fondazione a Modugno e ne fu felicissimo, perché gli abbandonati erano ancora più abbandonati nella zona di Deliceto e i poveri ancora più poveri: gli stessi signori portavano abiti rattoppati quasi quanto i suoi.

Domenica Laetare, 28 marzo 1745, il superiore prese possesso ufficiale della chiesa e della casa di S. Maria della Consolazione, alla presenza del vicario generale di Bovino, Don Filippo Gentile. Subito fece venire il P. Cafaro con i novizi, Nicola Muscarelli e Andrea Nola, raggiunti ben presto dal nostro avvocato Celestino de Robertis, da un

 

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sacerdote di Serino, Don Paolo Muscati, e un altro di Eboli, Don Ignazio Martucci: tre “signori” che abbandonavano gli agi delle loro famiglie patrizie, per “seguitareGesù Cristo. Lo Spirito della Pentecoste era ben vivo.

Ma a Pagani lo spirito del male era duro a morire. Chiamato, atteso, Alfonso rifiutava di lasciare le sue missioni, limitandosi a scrivere a Spinelli, a Brancone e facendo affidamento su Sportelli e Mazzini, anche perché essi avevano dalla loro parte la benevolenza della corte, il giudizio dei tribunali, L’appoggio del nuovo vescovo, Mons. Gerardo Antonio Volpe.

Faceva però i conti senza la rabbia folle dei maligni. Questi piazzarono due barili di polvere sotto la nuova costruzione, che sarebbe saltata in aria, se il P. Mazzini non fosse stato avvertito all’ultimo momento da uno dei congiuratitocco da rimorso interno”.

Era troppo: meglio andar via. Verso la metà di giugno Liguori lo comunicò a Sportelli, che prese sopra di sé la responsabilità di soprassedere e di sentire il parere di qualche amico a Napoli. “È una tentazione” gli fu risposto e Alfonso s’inchinò. All’inizio di settembre nominò Mazzini rettore di Pagani, lasciando così libero Don Cesare per le missioni pugliesi e abruzzesi 26; poi il 24 settembre la piccola comunità da casa Contaldi passò nella nuova costruzione. Il fondatore, guardando all’avvenire, scrisse:

“La Congregazione sarà portata avanti da Dio, sintanto che vi sarà osservanza e li soggetti si vogliano far veramente santi; altrimenti anderà in fumo ogni cosa. Colla Divina grazia, già abbiamo tre case, e bastanti soggetti a sostener gl’impieghi della Congregazione; tutto sta a portarci bene con Dio e che ciascuno attenda alla perfezione: e così la Congregazione si avanzerà, e cresceranno i soggetti, e si faranno molte cose di gloria di Dio. Altrimenti Dio ci abbandonerà, e caderà ogni cosa. La prego a far sentire questo mio biglietto a tutti” 27.

Sportelli arrivò a Deliceto a metà settembre, subito colpito, nonostante lo splendore autunnale della vicina selva, dalle estreme strettezze della comunità: Casati, che continuava a vivere, aveva diritto a quasi tutto l’usufrutto delle terre; Maffei conservava le sue rendite, il re e il principe, entusiasti del fatto che la religione assicurasse loro sudditi onesti, non pensavano di alleggerirsi per i missionari; i pellegrini infine erano tanto poveri da essere costretti a chiedere l’elemosina, piuttosto che portare un obolo. In un documento del tempo Alfonso scriveva:

“Nei primi anni in questa Casa si stiede con molta povertà, poiché il Fondatore in sua vita secondo la Convenzione fatta non corrispondeva più a’ PP. che la somma di ducati 50. Onde allora si pativa molto in tutto, specialmente nel vitto. Il pane era negro, di saravolla, e

 

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di mala qualità pieno di bufoni; carne poco se ne vedea; per frutti si davano fave abbrustolite, e le medesime per minestra”.

Il fondatore pagò questa miseria con una delle più grandi pene della sua vita. Il fratello Vito Curzio, inviato a luglio in cerca di qualche aiuto presso amici a Troia, venuta la sera, chiese ospitalità ad alcuni religiosi, ma, messo alla porta, passò la notte sotto le stelle. Il mattino seguente, in preda a una violenta febbre, si trascinò lungo i trenta chilometri del ritorno senza riuscire ad arrivare al convento, perché stremato fu costretto a fermarsi nel centro di Deliceto in casa di un sacerdote amico, dove restò quarantanove giorni, edificando con la sua ammirevole pazienza coloro che lo assistevano o venivano a visitarlo. Il confessore gli chiese un giorno se desiderasse vivere.

- No, rispose.

- Allora desiderate morire?

- Voglio solo quel che vuole Dio; ma in quanto a me più desidero di morire, per liberarmi dal pericolo di più offenderlo, e per andarlo a vedere, se per sua grazia mi salvo.

Prima di prendere il Viatico, interrogato se volesse riconciliarsi, rispose:

- Per grazia del Signore non mi occorre alcuno scrupolo.

Morì il 18 settembre 1745, a trentanove anni. “È morto il santo!” si disse per la cittadina e una processione trionfale lo ricondusse a S. Maria della Consolazione. Mentre presiedeva i funerali, Alfonso più volte scoppiò in singhiozzi 28... Era un prezzo troppo caro per la nuova fondazione! Ma non bisognava che ogni casa, come ogni altare per la messa, si innalzasse sulla tomba di un santo? Gaudiello, Giordano, Curzio... Ben presto Alfonso scriverà di Deliceto:

Ora da più anni si danno diverse mute d’Esercizj ogni anno ad Ordinandi, a’ Sacerdoti, e Secolari, che sono arrivati sino al numero di 40, in circa.

Di poi sono uscite sinora innumerabili Missioni, così per le Pagliaja di Foggia, d’Ascoli, di Melfi, come per... Lacedonia, Rocchetta, Monteverde, Carbonara, Trivico, Castello, Cerignola, Canosa, ed altre molte”29 .

Così sotto la spinta dello Spirito della Pentecoste, la giovane congregazione, uscita dal suo cenacolo, fece bruscamente un primo passo verso lo spazio universale proprio del messaggio apostolico: “La forza dello Spirito Santo sarà su di voi e voi sarete allora miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, fino agli estremi confini della terra” (Atti, 1, 8).

 


 

 





p. 464
1 TANNOIA, I, pp. 118-119



2 L’espressione è del P. DOMENICO CAPONE, cf. “S. Alfonso”, 6 (I935), p. 296.



3 Cf. le annate 1726-1729 di “Analecta”, specialmente 6 (1927), pp. 235-247; 8 (1929), pp. 175-181; SH I6 (1968), pp. 318-348.



4 Verbale dell’assemblea, in “Analecta”, 1 ( 1922), pp. 87-90; cf. DE MEULEMEESTER, Origines, II, pp. 28-37.



p. 465
5 BENEDETTI, op. cit., n. 58; cf. TELLERIA I, pp. 319-320; DE MEULEMEESTER, op. cit., II, p. 35.



p. 466
6 BENEDETTI, op. cit., n. 45.



7 Summarium, p. 111; S Alfonso, Lettere, I, p. 119.



p. 467
8 TANNOIA, I, p. 133



9 Documenta Miscellanea, p. 77; su questi voti, cf. Summarium, pp. 113, 124; “Analecta”, 1 (1922), pp. 42-49; DE MEULEMEESTER, op. cit. II pp. 39, 50, 236-239; SH 19 (1971), pp. 280-303; 22 (1974), p. 79.



p. 468
10 Con la differenza che i lazzaristi avevano solo voti privati e i Pii Operai nemmeno questi.



11 SH 6 (1958), pp. 345-352



p. 469
12 DE MEULEMEESTER, op. cit., II, pp. 240-242.



13 Summarium, p. 450; “Asprenas”, 8 (1961), pp. 252-258.



p. 470
14 DE MEULEEMESTER, op. cit., II, pp. 242-243; KUNTZ, op. cit., II, p. 209.



p. 471
15 TANNOIA, I, p. 143.



p. 472
16 IBID., I, pp. 146 bis e ter (queste due pagine per errore sono numerate 145-146 come le precedenti); S. ALFONSO, Lettere, I, p. 86.



p. 473
17 S. ALFONSO, Lettere, I, pp. 89-93; cf. SH 15 (1967), pp. 79 ss.



18 Cf. PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei (1965), n. 66; Istruzione Eucharisticum mysterium (1967), n. 50; GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Redemptor Hominis (1979), n. 20; Lettera ai vescovi per il Giovedì Santo 1980, n. 3.



19 E. LE JOLY, Mere Teresa et les missionnaires de la charité, trad. dall’inglese (1977), Paris 1979, p. 152.



p. 474
20 SH 4 (1956), pp. 177-184; 13 (1965), pp. 212-213.



21 Contribution à l’histoire de la visite au saint sacrement d’apres du livres desVisites” de S. Alphonse de Liguori, a cura di un gruppo di ricercatori diretto dai PP. F. BOURDEAU E H. LECOMTE (ringrazio il padre Bourdeau per avermi procurato questo manoscritto); cf. anche S. ALFONSO, Opere ascetiche, Introduzione generale, pp. 187-190.



p. 475
22 Cf. Acta Doctoratus, Summarium additionale, Romae 1870, pp. 530-531; DE MEULEMEESTER, Bibliographie, I, pp. 56-61 e 202 ss.; per le 7 edizioni italiane tra il 1938 e il 1980, ho attinto direttamente le informazioni dalle Edizioni Paoline, che ringrazio della cortesia.



p. 476
23 S. ALFONSO, Lettere, I, pp. 95-96.



24 SH 25 (1977), pp. 289-299; DE MEULEMEESTER, Origines, II, pp. 247-251; S. ALFONSO, Lettere, I, pp. 86-89, 96-98.



p. 477
25 S. ALFONSO, Lettere, I, pp. 99-101; poi pp 103-104 e SH 5 (1957), pp. 277-311; 12 (1964), pp. 227-230; DE MEULEMEESTER, op. cit., II,  p. 255.



p. 479
26 TANNOIA, I pp. 63-169; SPORTELLI, Epistolae, pp 105-110, DE MEULEMEESTER, op. cit., I, pp. 86-90.



27 S ALFONSO, Lettere, I, p. 108.



p. 480
28 S. ALFONSO, Brevi notizie della vita e morte di Fr. Vito Curzio, pp. 30-31 TANNOIA, I, pp. 162-163.



29 SH 5 (1957), pp. 298-299.



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