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PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762) 32 - “NATO PER IL BENE DI TUTTI, CON LA SUA VITA, LA SUA AZIONE E LA SUA PENNA” (1744-1748) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
32 - “NATO PER IL BENE DI TUTTI, CON LA SUA VITA,
Altro è un’assemblea campagnola, dove predominano donne pie, altro un pubblico raffinato di sacerdoti o di monaci, eppure le Visite al SS. Sacramento sono state e restano una fonte mistica gustata allo stesso modo dall’una e dall’altro. E la caratteristica delle opere classiche. Del resto il loro autore riusciva con uguale facilità a indirizzare i suoi doni in direzioni diverse: pubblicava le sue Visite, per tutti e da tutti assaporate, tra un libretto catechistico per ragazzi e un direttorio per vescovi. “Un autore nato per il bene di tutti” dirà ben presto il canonico Torni.
Il 7 febbraio 17’12, l’enciclica di Benedetto XIV Etsi minime aveva richiamato i vescovi al dovere di assicurare il catechismo, raccomandando, senza imporla, la Dottrina cristiana del Bellarmino e chiedendo che il testo scelto e adoperato fosse accompagnato da una formula, breve ma completa, degli atti di fede, di speranza e di carità.
Il cardinale Spinelli, che dopo la grande missione Liguori-Sarnelli aveva cominciato la visita pastorale della diocesi, ebbe un’attenzione specialissima per questo punto. Nel 1713 costatava con disappunto: “Quantunque assaissimi libri di catechismi si trovino, e si esponga di continuo la Dottrina Cristiana, pur nondimeno strana cosa è il mirare sì poco profitto de’ fanciulli e degli adulti e sì poco migliorato il costume: cagion chiarissima che la maniera con cui si fa la Dottrina Cristiana non è buona”1 . Decise perciò di imporre un unico testo affidandone la redazione al P. de Liguori, che allora ritornava a Ciorani dopo aver lasciato a Sarnelli la direzione delle missioni napoletane.
Da venti anni Alfonso era catechista in piena azione: i ragazzi di S. Angelo a Segno prima e poi gli adulti delle missioni di Propaganda e i popolani delle Cappelle serotine ne avevano fatto un esperto, attento e sperimentato. Credeva tanto alla pastorale del catechismo da dare nelle sue missioni il primo posto alla catechesi degli adulti.
Nel 1744 apparve, senza il nome dell’autore, un Compendio della
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Dottrina Cristiana. Era però frutto molto elaborato del lavoro di Alfonso, come emerge da diverse testimonianze e dal fatto che egli stesso lo includerà in un elenco delle sue opere. Lo si credette smarrito fino alla scoperta nel 1948 da parte di R. Telleria a Agrigento dell’unico esemplare attualmente conosciuto di una ristampa fatta dall’autore nel 1758 2 .
Oggi perciò conosciamo il catechismo del quale il cardinale Spinelli andava giustamente fiero. A parte l’inevitabile “Iddio è un puro Spirito infinito e perfettissimo”, non è una serie di astrazioni scolastiche, perché il Compendio alfonsiano, più concreto e meno erudito della Breve Dottrina del Bellarmino, è anche più pastorale. Suppergiù della stessa lunghezza (una ventina di pagine) e ugualmente articolato in domande e risposte, non ritiene utile enumerare i sette doni dello Spirito Santo, le quattordici opere di misericordia, i sette peccati capitali e i quindici misteri del rosario; consacra però più di una pagina ad ognuno dei due sacramenti della vita quotidiana, la penitenza e l’eucaristia; mette l’accento sulla necessità della preghiera; non esce dall’essenziale, neanche a proposito della Madonna. Questo catechismo “costituiva, nota R. De Maio, un progresso pedagogico rispetto a quello di Bellarmino, per essere a più immediata portata dei catechisti”.
Non si poteva infatti pensare di mettere il libretto tra le mani dei ragazzi o degli analfabeti (il 95% della popolazione) e Sarnelli lo annunziava come un’opera “ piena e sostanziosa ” al servizio degli ecclesiastici e degli animatori laici per il catechismo vivo “nelle domeniche e feste dell’anno”3. Le 133 risposte, spiegate bene, dette e ripetute, finivano per imprimersi nella mente.
Si susseguono l’una dopo l’altra, senza alcuna suddivisione, concatenate tra loro: ogni domanda prende appiglio dall’idea o perfino dalle parole della risposta precedente. Si ha così un crescendo in tre parti: prima la storia della salvezza (Dio, la creazione, L’incarnazione, la redenzione, la Chiesa), conclusa dal Credo, che riassume tutto l’insegnamento della fede; poi l’attività della speranza (grazia divina, buone opere, preghiera), con il Pater e l’Ave, che concretizzano quest’atteggiamento; infine la carità, vissuta nel rispetto dei comandamenti di Dio e della Chiesa, nella coscienza dei propri peccati e nei sacramenti. È il programma voluto dal concilio di Trento.
Nelle ultime pagine troviamo: il modo di servire la messa, gli atti del cristiano chiesti da Benedetto XIV, alcuni atti da fare nel corso della giornata (ad esempio, questa preghiera dopo i pasti: “Vi ringrazio, Signore, di aver fatto bene ad un vostro nemico”), infine una canzoncina.
Questa canzoncina, unica nelle opere di Alfonso, le cui poesie sono
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di carattere lirico o drammatico, mettendo sulle labbra del popolo il suo slancio contemplativo e mistico, è didattica come quelle di Julien Maunoir o di Grignion de Montfort, e contiene in quattro strofe tutta la rivelazione: i misteri della Trinità, incarnazione, redenzione e risurrezione. Dato che non figura nelle raccolte delle sue Canzoncine, non vogliamo rinunziare al piacere di farvela gustare:
Padre, Figlio e Spirito - Santo:
S’è fatt’uomo il Verbo Eterno:
Fa bruciar d’ogni uomo il cuore
Ma castiga i malviventi
Il Compendio termina con l’esclamazione-firma dell’autore anonimo: “ Viva Gesù, Maria, Giuseppe e Teresa! ”.
Lo zelo però non conosce confini. Mentre era alla ricerca delle sue ultime Visite al SS. Sacramento e dava alle stampe la sua “dottrinella” per i piccoli e gli umili (1744), Alfonso iniziò la stesura di un centinaio di pagine di Riflessioni utili ai Vescovi per la pratica di ben governare le loro Chiese.
“Girando le Province, scrive Tannoia, deplorò Alfonso l’indolenza di tanti Vescovi, che godendo de’ beni delle Chiese, non facevasi carichi de’ proprj doveri. Volendo giovare, e risvegliare in tutti lo zelo del proprio carattere, restrinse in un libricino le precise loro obbligazioni. Quest’operetta quanto è picciola di mole, altrettanto è gravida di sensi”. L’inviò “a tutt’i Vescovi Italiani” 4 .
Bisogna forse leggere: “a tutt’i Vescovi dell’Italia meridionale”, dove era ben conosciuto e venerato e poteva perciò permettersi questa audacia, che egli certo sentiva come un problema di coscienza.
Non pretendeva assolutamente presentare alle Loro Eccellenze
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un nuovo “specchio del vescovo”, non essendone sprovviste, a cominciare dalla Regula pastoralis di san Gregorio Magno fino al classico Buon Vescovo di Giuseppe Crispino (1682). Ma i vescovi trovavano il tempo per immergersi in queste opere? Liguori aveva fatto voto di non perdere un minuto, detestava i chiacchieroni e gli scrittori prolissi, come le speculazioni fatte per il solo gusto di speculare.
“ Già vi sono molti libri, scriveva nella introduzione, che trattano diffusamente degli obblighi de’ prelati circa il governo delle loro chiese. Io però, avendo avvertito coll’uso di venti anni di missioni, che molte notizie non giungono alle orecchie de’ vescovi, per solo desiderio della gloria di Gesù Cristo ho voluto notare solamente qui in succinto in questi pochi fogli alcune riflessioni di maggior peso, che possono loro molto giovare per meglio regolarsi nella pratica così circa le cure più principali del loro officio (e cioè: il seminario, gli ordinandi, i sacerdoti, i parroci, la casa vescovile e le monache), come circa i mezzi più efficaci che debbono usare per la coltura delle loro greggie (cioè: L’orazione, il buon esempio, la residenza, la visita pastorale, le missioni, il sinodo, la prudenza nel consigliarsi, la disponibilità alle udienze, il coraggio nel correggere); e questo è stato l’unico mio intento. Queste cure e questi mezzi si noteranno in due brevi capitoli, sperando nella divina bontà, che queste povere carte, le quali per il poco conto che merita l’autore, non meriterebbero neppure d’esser mirate, siano lette almeno per la loro brevità con qualche profitto”5.
Qual era il tipo di vescovo al quale si rivolgevano le Riflessioni? A un corpo di pastori poco simile all’episcopato dell’Ancien Régime che pontificava allora in Francia e in Germania. L’Italia non era unificata e nessuna grande e antica monarchia vi aveva creato una forte nobiltà di rango, per cui l’aristocrazia, più numerosa che altrove, proveniva dal commercio, dalla banca, dalla magistratura, dalla medicina (i Medici), più che discendere altera e rara da qualche sedicente semidio. La mitra non era più e da lungo tempo riservata alla nobiltà inoltre, il P. de Liguori conosceva solo la situazione del Regno di Napoli, nel quale i 147 vescovi erano generalmente poveri, in diocesi troppo piccole. Fu questa una delle ragioni per cui, anche se i vescovi non rispettavano tutti il dovere della residenza, la commenda vi era fortunatamente quasi sconosciuta? I soggetti poi erano ben selezionati: il re aveva diritto di nomina per 22 sedi e le sue scelte erano serie, anche perché dovevano essere accettate da Roma; alle altre 125 provvedeva la Santa Sede e vi metteva tanta più oculatezza e cura, quanto più il Regno era vicino e quindi facile informarsi. Generalmente i vescovi venivano scelti tra l’élite del clero napoletano, degli Ordini religiosi o dei capitoli canonicali, per cui si ebbero uomini medi tra i quali alcuni giganti di zelo e di santità, come Costantino Vigilante o il venerabile
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Antonio Lucci. Buona parte del loro tempo e delle loro energie veniva per forza di cose spesa non in commissioni nazionali, come accade oggi, ma in sterili diatribe: in alto, con un potere regale meticolosamente “sagrestano”; in basso, con i sacerdoti e i “patroni” laici delle chiese ricettizie.
I capitoli di Alfonso non erano quindi una requisitoria, ma un programma concreto ed esigente, che partiva dalla constatazione che intorno a vescovi “ onesti ” andavano a rotoli cleri e fedeli miserabili, e dalla convinzione, nata anch’essa dall’esperienza, che vescovi santi e zelanti erano capaci di cambiare il mondo. Da qui la loro responsabilità: “...bisogna persuadersi ogni vescovo, che in ricever la mitra si addossa gran pesi sulla coscienza”.
E’ questo uno dei tratti più marcati della mentalità e della coscienza di Alfonso: la responsabilità è... dei responsabili. Se in missione invitava i notabili a uno speciale ritiro, non era certo per adulare la loro classe sociale, ma per il peso delle loro decisioni, del loro spirito, del loro esempio su tutta una baronia. Con più forti ragioni: nelle diocesi, dai vescovi “ dipende la santificazione de’ popoli”, nelle parrocchie, “dalla cura de’ parrochi dipende il profitto o la ruina de’ popoli”; nei monasteri, “dalle superiore e dai confessori dipende l’osservanza o il rilassamento”; nei seminari, occorrono prima di tutto non buoni seminaristi, ma un “buon rettore”, “buoni professori”, prefetti “attempati, spirituali e forti nel correggere”.
I seminari! “Quanti ne’ seminarj entrano angeli, e tra breve diventano demonj!” costatava amaramente, pur sapendo bene che “da’ seminarj si forma il buon clero, e dal clero poi dipende il profitto comune del popolo”.
Dodici anni dopo (1756), pubblicherà il Regolamento per li Seminarj: “Lo manderò a tutti i vescovi in dono, e spero che lo leggano, perché è breve” scriverà all’amico Fontana, superiore del seminario urbano di Napoli 6. Questo Regolamento di 43 paginette traumatizzerebbe oggi per la chiusura al mondo esterno, per una certa fissazione sulla “ modestia ” e per l’abuso di sorveglianza e di correzione, anche se quest’ultima è “alfonsiana”, cioè opportuna, segreta e piena di amore. Ma era pratico in maniera sbalorditiva, permetteva di riprendere in mano decisamente la selezione dei candidati, gli studi e la pietà, soprattutto operava una rivoluzione copernicana: solo cinque pagine alla fine erano dedicate agli obblighi dei seminaristi, mentre ben diciassette ai doveri del vescovo, dieci a quelli del rettore, otto a quelli del prefetto. Se un seminarista va male, la colpa può essere anche sua, ma se tutto un seminario va male, allora le cause sono certamente nel quadri dirigenti, perché lo sviluppo armonico di un uomo, di un
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sacerdote, come di un fiore, è problema di clima e di terreno. Perciò per Alfonso, la responsabilità era... dei responsabili 7.
Così non si mostrava molto sicuro sulla salvezza eterna dei primi responsabili, i vescovi, e citava la risposta del domenicano Antonio Ghisleri, divenuto Pio V, a chi gli chiedeva:
- Perché, Santità, è così pallido e tremante?
- Essendo io religioso, avea grande speranza della mia salute: fatto vescovo cominciai molto a temerne: ora divenuto papa quasi ne dispero...
Molti prelati lo ringraziarono, ma non tutti rimasero scossi, come Mons. Fabrizio Salerno, vescovo di Molfetta, che scrisse all’autore:
“Questa di lei singolar bontà anderà sempre congiunta con un suo benigno compatimento; poiché coll’esperienza, che ha in venti anni di Missioni, non meno de’ Vescovi, che de’ popoli, rifletterà senza dubbio, che quanto è facile la teorica, altrettanto è ardua la pratica, attese le maggiori difficoltà che s’incontrano”8.
Era dirgli con garbo: “Vorremmo vedere te al nostro posto!”. Effettivamente, lo vedremo e allora leggeremo con lui praticamente le Riflessioni utili ai Vescovi.
Pur non fermandoci ora, sottolineiamo quella che illumina tutto il ministero del missionario: citando il concilio di Trento, assegnava al vescovo come “ministero precipuo” non il presiedere l’Eucaristia o l’ordinare i sacerdoti, ma “pascere le pecorelle colla divina parola e colla propria voce... E che? forse per sola cerimonia la santa chiesa nell’ordinazione del vescovo gli fa imporre sul capo e sulle spalle il libro degli evangeli? Oh! quanto più degli altri muove la voce del proprio pastore!”. Alfonso riconosceva quindi alla “voce” del vescovo una maggiore efficacia, dovuta alla grazia sacramentale di apostolo ordinato prima di tutto per la Parola. Proprio questa sarà una delle prospettive rivoluzionarie del Vaticano II 9; “rivoluzionaria” perché i testi pastorali di Trento erano stati occultati in favore del ministero eucaristico .
- Ma il vescovo non può personalmente predicare in tutti i luoghi.
Deve allora moltiplicarsi inviando missionari che saranno come la sua presenza e la sua voce.
“Ma oh Dio! che dicono alcuni? colle missioni s’inquietano le coscienze... S’inquietano le coscienze? Ma questa ha da essere la cura del pastore, di mandare ad inquietare le pecorelle che dormono in peccato...”.
Questa teologia dell’episcopato, dalla quale erano nate le missioni parrocchiali nel concilio Lateranense IV, impregnava in maniera molto marcata la vocazione e l’Istituto di Alfonso, che sottolineava spesso il
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lavoro della sua congregazione sotto la diretta autorità dei vescovi. Non una delle sue duemila lettere parla di una missione decisa e preparata con il clero locale, anche perché nel Settecento e nel Regno di Napoli (niente nella storia è più dannoso delle generazioni!) le missioni venivano regolate tra i vescovi e le società missionarie, passando al di sopra delle teste e a volte anche contro il parere dei parroci. I missionari, in quanto mandati, arrivavano come la voce del primo pastore della diocesi, perciò, parlando dei mezzi da adoperarsi dai vescovi coscienziosi, Alfonso consacrava quattro pagine delle sue Riflessioni alle “sante missioni”. Ne abbiamo già letto a suo tempo la parte essenziale, che esortava i prelati a non sentirsi tranquilli in coscienza con le missioni centrali e perorava per gli angoli più sperduti, dove ordinariamente venivano dimenticati i più bisognosi.
Mentre l’autore mandava la sua opera ai vescovi (1745), in tutto il Regno una voce autorevole diede grande risonanza a questa teologia e a queste missioni: la lettera Gravissimum dell’8 settembre 1745, con la quale Benedetto XIV, ispirato da Spinelli, dava “autorità” alle idee care al P. de Liguori in favore dei montanari abbandonati e, mentre spronava i vescovi alle missioni parrocchiali, incaricava il cardinale di organizzarle, scegliendo i predicatori e inviandoli ai vescovi che ne facevano domanda.
Mons. Faccolli, successore di Cavalieri a Troia, non si fece pregare, reclamando immediatamente da Spinelli per Troia e Foggia Alfonso de Liguori e i suoi padri del SS. Salvatore. Vedendosi così costretto a moltiplicare i fronti della sua battaglia, Alfonso, per non abbandonare la diocesi di Bovino, dove da poco aveva fondato Deliceto, chiamò padri da Ciorani e Pagani e in novembre partì con Sportelli, Villani, Cafaro, Scibelli e Tortora all’assalto della città vescovile di Troia (4.500 ab.).
I più anziani, che non avevano ancora dimenticato lo zio, erano ansiosi di vedere all’opera il nipote, anche perché avevano fama di essere di uno spirito critico, impietoso nei riguardi dei grandi predicatori; il gesuita Santorelli dopo il terzo giorno aveva dovuto raccogliere prediche e bagagli, il venerabile Don Filippo Aveta delle Apostoliche Missioni era stato costretto a scendere dal pulpito e anche il suo celebre confratello Tommaso Carace era stato contestato 10. Venisse pure il famoso Liguori!...
Arrivò con dei confratelli a immagine sua: un povero “ lacero, e rattoppato nelle vesti, modesto, sempre raccolto in se stesso” per “predicare con fervore Apostolico”. Questa testimonianza è di un avvocato di 24 anni (ancora uno), Gaspare Caione, che colpito in maniera “ inguaribile ” non troverà riposo prima di entrare nel 1751 nella congregazione 11.
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Se si fosse trattata di una popolazione meno difficile, Alfonso l’avrebbe senz’altro lasciata in altre mani, per correre all’inizio di novembre a Marianella, dove si spegneva il padre. In sua vece mandò al capezzale il P. Saverio Rossi, che durante il suo lungo ritiro a Ciorani aveva ricevuto le confidenze e si era guadagnato l’amicizia del vegliardo. Degli altri due figli sacerdoti, solo Don Gaetano potette assistere il moribondo, perché il benedettino Antonio (Don Benedetto Maria) era morto a quarant’anni il 3 agosto 1739.
Don Giuseppe de Liguori morì, timorato e fervoroso, la domenica 14 novembre 1745, dopo 50 anni e sei mesi di matrimonio, all’età di 75 anni. Alfonso, che durante il suo prossimo passaggio per Napoli sarebbe venuto a consolare la madre Donna Anna Cavalieri assicurò da Troia al padre il suffragio delle messe sue e dei confratelli e le preghiere di quel popolo toccato e riconoscente 12.
Dal 1° dicembre 1745 all’Epifania 1746 fu a Foggia (15.000 ab.) con undici altri missionari per le tre chiese parrocchiali e la collegiale della Icona Vetere, la Madonna dei Sette Veli, prodigiosa consolatrice nel 1731 di un popolo tanto provato.
Accanto all’abituale lavoro delle sue straordinarie missioni, un duplice incontro caratterizzò per Alfonso queste cinque settimane a Foggia. Dal marzo 1738, suor Maria Celeste Crostarosa, con la ritrovata certezza della sua missione e della pienezza di vita del Cristo in lei e in tutte le creature che non gli si rifiutano, aveva fondato, secondo le sue Regole, il Monastero del SS. Salvatore, ora già pieno di giovani fervorose 13. Alfonso predicò loro i ritiri, come faceva di solito nei monasteri durante le missioni? Tutto ce lo lascia pensare. L’Autobiografia della venerabile ricorda i loro incontri, parlando del padre in termini che evidenziano la venerazione e l’amicizia, sempre avute per lui: “ con profonda umiltà... con allegrezza e mansuetudine perseverava nell’Opera del Signore”14 .
L’altro incontro trasformò tutta la regione in paradiso, come racconta Tannoia:
“Vi è cosa, che maggiormente autenticò in Foggia l’alta idea, che si aveva della santità di Alfonso. Predicava egli colla Sacra Icona di Maria Santissima, detta de’ sette veli, esposta a vista dal popolo sopra l’Altare Maggiore. Una sera diffondendosi più da Angelo, che da uomo, in magnificare le glorie della Divina Madre, quando fu alla mozione degli affetti, manifestandosi al popolo la Vergine, si vide da tutti un raggio di fuoco permanente, che uscendo dal volto di Maria Santissima, attraversando la Chiesa, andava a ferire Alfonso nel volto, ed egli nel tempo istesso, come uscito di sé, elevato da tre palmi sulla cattedra. Tutto il popolo, a tale spettacolo, diede in un
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grido di gioja, e tale, che s’intese il fragore, come di un tumulto, anche in distanza... e molta gente di lontano anche corse in fretta alla Chiesa. Il favore fu patente a quattromila, e più Anime; e col popolo, Preti e Gentiluomini, abbiamo contesti il nostro P. D. Francesco Garzilli allora Canonico in Foggia, ed il P. Domenico Corsano Sacerdote Secolare, che col Clero assistevano in Chiesa...
Siccome questa Città è ricca per se stessa... non è scarsa, ma abbondante di limosine. Il credito non però in cui era Alfonso, maggiormente facevalo padrone della borsa altrui. Grosse somme si riscossero, e troppo segnalate furono le opere di Carità”15 .
Però, secondo la regola inviolabile di non accettare alcun dono o retribuzione, neppure un carlino prese la strada di Deliceto per placare la fame dei novizi.
“Il frutto è stato distintissimo dalle altre Missioni” scrisse Sportelli a Mazzini, segnalandogli anche “ qualche cosa strepitosa ”, ma non una parola sulla più grande, la manifestazione della Vergine e il lungo rapimento di Alfonso, perché la stessa sera il padre superiore aveva riunito i confratelli e, sotto precetto formale di ubbidienza, aveva loro proibito di parlarne, finché fosse in vita 16.
Però il canonico Garzilli e Don Corsano, che non erano del SS. Redentore, ne parlarono - come tutta Foggia del resto - e, appena terminata la missione, seguirono il fondatore al noviziato di Deliceto.
Il padre maestro, incantato di fronte ai 30 anni del secondo arricciò il naso dinanzi ai 55 del primo, per di più debole di salute e senza esperienza del pulpito.
- Non fidatevi delle apparenze, gli fece Liguori, il canonico si ristabilirà e vivrà lunghi anni. Invece voi, caro Don Paolo, voi partirete molto prima di lui...
Garzilli infatti morrà a Pagani quasi centenario, ben 33 anni dopo Cafaro.
Eppure, aveva creduto di dover lasciare subito le ossa accanto alla Madonna della Consolazione per il freddo, la fame, la miseria! Conosciamo già da Alfonso le “ghiottonerie” del regime, ma Garzilli ce ne dettaglia il menu: Ia biancheria a brandelli, le coperte trasparenti, le finestre con carta oleata, i tramezzi sconnessi e il vento padrone dentro e fuori, i tetti bucati e la neve sui letti 17.
Arriverà ben presto il giovane Giuseppe Landi, che aggiunge, a: “Andavamo quasi tutti ignudi colli piedi, per non avere come rappezzarci.... e molto più si pativa nell’Inverno, perché è luogo freddissimo, e le nevi che fecero si conservavano, e si mantenevano fino a 15 giorni... si trovava l’acqua gelata, anche dentro le stanze, ed in ogni
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parte; tanto che il nostro P. D. Alfonso faceva fare l’acqua calda al fuoco per uso della Comunità a tavola... lui per prendere un poco di calore, e molto più alle mani, giacché allora stava scrivendo, e componendo l’opera della Morale, mi ricordo che teneva un ferro riscaldato vicino al tavolino, e così da quando in quando pigliava un poco di calore, e forza alle mani, mentre lui diceva, che li faceva danno il fuoco, e mai se ci accostava, ma tutto lo faceva per mortificarsi”18 .
Eppure, Deliceto non era il Polo Nord e, dopo l’inverno, la primavera, l’estate e l’autunno dovevano dipingere e cantare nei pascoli e nei boschi, pieni di sole e di uccelli. Ma si aveva fame, si era privi di tutto, si perdeva sangue dodici mesi su dodici, per cui i “pazienti” che ne hanno scritto, sembrano avervi conosciuto solo un perpetuo inverno. Desolato e impotente, il rettore maggiore non poteva far altro che dire “con maniera da intenerire le pietre”: “Padri e Fratelli miei che altro siamo venuti a fare sopra questa montagna che a patire per Gesù Cristo?”19 .
Perché allora si ostinava a tenervi novizi e studenti? In quei tempi di fondazioni e di costruzioni, la situazione finanziaria era dappertutto precaria e le altre case meno solitarie; e poi, contava che da un giorno all’altro i promessi ducati sarebbero stati scongelati. Ripeteva perciò incoraggiante: “ Abbiate fiducia nella Provvidenza. Pazientiamo ancora un po’: se li serviamo fedelmente, il Signore e la Vergine non ci abbandoneranno ”.
Infatti, nel dicembre 1745, Mons. Lucci assegnò loro il beneficio della cappella dell’Olmitello, alla curva della strada, cinquecento metri prima della Consolazione, alla sua morte Don Giuseppe aveva lasciato al figlio 200 ducati, senza pregiudizio evidentemente per i 150 annui del suo patrimonio. Alla fine del gennaio 1746, poi, il canonico Casati, il “ fondatore ” della casa di Deliceto, stava per dire addio a questo mondo e ai suoi beni. Desiderando al capezzale il P. de Liguori, il 2 febbraio un messaggero corse a cercarlo a 15 chilometri, a S. Agata di Puglia, dove partecipava alla missione... dal fondo del letto, prostrato da una forte febbre. Incapace a mantenersi sul somaro, fatto il viaggio in portantina, il malato si incontrò con il morente poi si fece portare nel suo convento, lasciandogli accanto il P. Celestino de Robertis. Il moribondo non stava più in sé dalla gioia: il P. de Liguori era venuto e in quali condizioni! La stessa sera, alla presenza di un notaio, aggiunse un codicillo al suo testamento, con il quale lasciava alla Madonna della Consolazione anche tutto il suo mobilio la sua argenteria, il suo bestiame e tutto ciò che possedeva dentro e fuori casa. Poi, perse la parola e l’indomani morì.
Ma, come capita intorno ai moribondi, centinaia di pretesi depositari o creditori non aspettarono il suo decesso per venire a cercare
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i “loro beni”, dalla cantina fino alla soffitta, sotto gli occhi stessi del canonico. Tanto peggio per i poveracci del convento! Ciò nonostante Alfonso si alzò dal letto per tributare al benefattore fraterne esequie, deponendolo teneramente ai piedi dell’altare maggiore della chiesa della Consolazione.
Per fortuna - o per sfortuna? - non tutto fu razziato dai saccheggiatori, perché restarono 900 ducati, dei quali solo la perpetua conosceva il nascondiglio: furono subito inghiottiti. dai debiti e dalle riparazioni più urgenti. Ma questo maledetto “tesoro” di pezzi arrugginiti nella terra fece lavorare la fantasia, trasformandosi in - perché fermarsi? - 800.000 ducati, accendendo gelosie e suscitando vessazioni da parte del potere regio e del terribile canonico Antonio Maffei, governatore del feudo di Deliceto 20.
Ah, il denaro! Le cose non andavano diversamente sul versante della stessa famiglia di Alfonso, dove, diventato capofamiglia in seguito al decesso del padre, il fratello Ercole, che pure gli doveva la sua situazione, pretese di trattenere per sé d’ora in poi il suo patrimonio annuo, dandogli solo una volta per tutte i 200 ducati del testamento paterno e questa bella promessa: “Quando vi troverete in strettezza, non vi farò mancare il denaro”.
“Questo, gli scrisse Alfonso nel febbraio 1746, è troppo strapazzarmi... Avete ragione, perché avete trovato me. Se aveste trovato D. Gennaro Sarnelli, che convenne il padre e si fece assegnare la sua porzione, o Suor Marianna e Suor Maria Luisa, che convennero mio padre e si fecero far l’assegnamento dal giudice, non parlereste così...
Ora, fratello mio, se non volete proprio ligitare, e se non volete trattarmi da bastardo, ditemi che cosa finalmente mi volete assegnare l’anno, acciò io mi possa far li conti miei. Vi prego, per amore di Maria Vergine, a non strapazzarmi più... Li 200 ducati, se ora non l’avete, non serve a pigliarli ad interesse; aggiustatemi ora l’assegnamento annuo; questo m’importa più per vivere quieto, io e voi...”.
Ben presto accomodante mise fine egli stesso alla disputa con la lettera del 22 febbraio, accontentandosi per l’immediato di 72 ducati all’anno, lasciandone 78 in prestito al fratello senza alcun interesse. Tuttavia, per mettere al sicuro i diritti dei suoi “figli” dalle dimenticanze del fratello Ercole senza figli, il 5 marzo stese il seguente testamento:
“...Lascio per mia erede universale la SS. Madre di Dio e mia, Maria, e per Essa la Congregazione del SS.mo Salvatore, di tutti i miei beni che mi spettano, e specialmente dall’attrasso (arretrati) del vitalizio di 150 ducati l’anno, che mi si dee da mia casa dal mese di dicembre 1745, dopo la morte di mio padre; e benché io mi sia contentato che mio fratello D. Ercole, per le sue strettezze, presentemente e sino
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a miglior sua fortuna, me ne corrisponda solamente ducati 72 L’anno, nulladimeno dopo mia morte voglio che tutto l’attrasso insieme col resto delli 72, che sono ducati 78, l’anno sino agli annui ducati 150 tutto versi e si esiga dalla Congregazione...”21.
Appare chiaro che per Alfonso la vera povertà non consisteva nel lasciarsi mangiare senza vergogna dall’avarizia e dallo spreco degli altri.
Intanto, restando Deliceto a pane duro, Alfonso non fu per nulla entusiasta della nuova fondazione propostagli dall’arcivescovo di Conza nel cuore dell’Appennino napoletano, a metà strada tra Deliceto e Nocera dei Pagani.
Nel precedente autunno, infatti, Mons. Giuseppe Nicolai, arcivescovo di Conza, aveva confidato le sue preoccupazioni a due santi sacerdoti della sua diocesi, L’arciprete di Contursi, Don Giovanni Rossi ex-Pio Operaio, e Don Francesco Margotta, rettore del seminario, che li risposero:
- Quello di cui avete bisogno, Monsignore, è una fondazione dei missionari del P. de Liguori.
- C’è un luogo indicatissimo nel cuore stesso delle mie 24 povere parrocchie: il santuario di Materdomini, che domina Caposele. V’è qualche rendita, un eremitaggio... Don Giovanni, concluse il prelato, voi siete stato segretario e biografo di Mons. Cavalieri, andate a trovare il nipote e convincetelo a venire a Caposele.
Don Rossi era partito raggiungendo Alfonso alla missione di Foggia nel dicembre 1745. Il fondatore non gli diede molte speranze: nuovi campi di apostolato? ma si erano appena aperti quelli della Puglia e dell’Abruzzo... Una quarta fondazione? no, almeno per ora... Era intervenuto allora Villani:
- Padre, tante popolazioni beneficiano già delle nostre missioni, non si perde niente ad andare a vederne una in più. E se Caposele ci riserva qualche sorpresa ?
Così verso metà maggio 1746 Alfonso, portando l’ex-canonico Garzilli al battesimo di fuoco dopo solo quattro mesi di noviziato, con i padri Villani, Genovese e de Robertis, guadagnò le sorgenti del Sele per una missione e forse anche per una fondazione 22 .
Arrivati a Caposele, seppero che l’arcivescovo era in visita pastorale a Calabritto, il paese vicino. Il giorno dopo l’apertura della missione Liguori andò a presentargli i suoi omaggi, salendo dopo pranzo i tre chilometri di bosco. Monsignore e la famiglia Del Plato, che lo ospitava, non si erano ancora alzati da tavola e Liguori, discreto, entrò nella cappella esterna del castello, sulla piazza, pensando di terminare la recita del breviario . Ma no! Il giovane abate Don Saverio
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Del Plato doveva chiudere l’oratorio; lo vide... che stracci, che barba... certamente un prete vagabondo in attesa di Monsignore per estorcergli qualche elemosina, o forse un ladro che faceva la posta a qualcosa da portar via!
- Signor mio, gli fece abbiate la bontà di uscire, perché debbo , serrare la Chiesa.
- Pazientate un poco, quanto dico Vespero, e Compieta.
- Dico, che uscite, jeri mi fu rubata una tovaglia: ce ne fusse oggi un’altra di soperchio?
Il padre se ne andò a recitare il breviario sulla piazza poi, presentandosi al castello, si fece annunziare all’arcivescovo, che, felicissimo, gli si affrettò incontro, prodigandosi nei più grandi segni di stima. Il povero Don Saverio, figlio del padrone di casa, non credeva ai suoi occhi e alle sue orecchie: quel “ pezzente ”, gettato fuori della chiesa, era proprio il santo, il famoso missionario, il cavaliere napoletano Alfonso de Liguori! Confuso e timoroso, non sapeva dove nascondersi, ma non ce n’era bisogno, perché Alfonso lo salutò senza far trasparire niente, come se non l’avesse mai visto. E non si sarebbe saputo mai nulla dell’avventura, se non l’avesse resa di pubblico dominio lo stesso giovane prete. Allora toccò al vescovo prendersi una bella collera - aveva un cattivo carattere - , ma poi scese tutti i giorni a Caposele a sentire il santo missionario.
Erano là anche i fautori della fondazione: L’arciprete Rossi, Don Francesco Margotta, un dottore, Don Pietro Zoppi, che prometteva già 30 ducati l’anno. Promesse, promesse, dovette pensare Alfonso: un fratello, venuto espressamente da Deliceto, gli portava cattive notizie. . .
Ma cominciò subito la classica scena dei sacerdoti che già si vedevano strappare il pane di bocca. Il 4 giugno tutto il clero della borgata indirizzò a Mons. Nicolai una petizione contro la fondazione e, di rimando, Alfonso cominciò a interessarsene, facendosi prendere dalla fiducia:
- Ho caro, confidava al P. de Robertis, che ci sia opposizione: segno è che il Demonio prevede il suo danno, ma la vincerà Iddio, e non il Demonio.
Lo stesso giorno, l’arcivescovo condusse Alfonso al santuario di Materdomini, con Rossi, Margotta, Zoppi e numerosi notabili laici calorosamente favorevoli alla fondazione, ma anche con un violento oppositore, Don Salvatore Corona, che aveva giurato di far prevalere il punto di vista del clero, del quale era uno dei capi. Appena entrati nella piccola chiesa tutta nuova, dato che la precedente era stata distrutta dal terremoto del 1731, Corona dinanzi all’altare fu colpito da violente convulsioni e la sua bocca distorta, come per un attacco di
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apoplessia. Lo sventurato, pensando che la Vergine gli volesse dare una vigorosa lezione, si rivolse a lei dicendole come poteva:
- Madre di Dio, mi protesto, che non intendo più contraddire la Fondazione!
La crisi subito finì e la sua bocca, tornata normale, non cesserà più di perorare in favore dei padri.
Adesso però fu l’arcivescovo a rimettere tutto di nuovo in discussione, dicendo:
- Fondate, giudicherò i padri dal loro lavoro. Si vedrà poi come farli vivere...
Alfonso, che ne aveva fin troppo di rendite esistenti solo in speranza e pagate a caro prezzo dalla sofferenza dei suoi figli e dalla decimazione del suo Istituto, rispose con fermezza:
- Monsignore, io non son venuto qui, per fare la Fondazione, ma per la Missione, e per servire V. E. Avendo adempito a questo, non ho altro che pretendere.
Vedendo svanire ogni cosa, il vecchio arciprete Rossi si gettò in lacrime ai piedi del prelato, supplicandolo di non fare il gioco del demonio. La situazione si capovolse: Margotta, Zoppi e il capitale del santuario assicureranno una rendita annua di 500 ducati, Mons. Nicolai vi aggiungerà una volta per tutte altri 2.000. Così sabato 4 giugno 1746 si concluse la fondazione di Materdomini e la missione di Caposele poté poi sfociare in gioiosa apoteosi.
Da quel promontorio di 600 metri d’altezza, a piombo sul borgo, lo sguardo si allargava da tutti i lati su un panorama di montagne ricoperte di boschi, mentre dai vicini oliveti saliva il canto dei contadini. A fine agosto Liguori verrà con Sportelli a prendere possesso dell’altura, predicando ai pellegrini la novena per la festa patronale dell’8 settembre, poi lascerà questo nuovo settore - apostolato e costruzione - in mano a Don Cesare, che avrà molto da fare con la povertà, le malattie, le cadute dei muli su pessimi sentieri e, dulcis in fundo, un arcivescovo autoritario e esigente 23.
Tra due estenuanti campagne, ritroverà volentieri a S. Maria della Consolazione la piena solitudine della selva di Deliceto, la vita regolare di “ romito in casa ”, un’intensa attività di scrittore e la miseria dei più poveri della sua congregazione di pezzenti.
In questo settembre 1746 Alfonso compiva cinquant’anni
A Deliceto, dove il denaro si ostinava a venir meno tanto in fretta quanto il pane nero, L’inverno 1746-1747 fu di un rigore siberiano. I padri Nola, Muscati, Martucci non riuscirono più a resistere, seguiti non sappiamo bene da quanti giovani, perché i cataloghi dei primi anni, compilati in seguito sulla base dei ricordi, riportano solo i nomi
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di coloro che rimasero e sopportarono gli estremi disagi almeno per un certo tempo. Tannoia, che era là, testimonia:
“La miseria, in cui si viveva in quella Casa, essendo estrema, disanimava talmente i Giovanetti, che dandosi indietro, levavan mano dall’aratro. Tanti e tanti non avendo il coraggio di esporre la loro fiacchezza al P. Cafaro, fuggivano di soppiatto, e non potendo per la porta, anche lo facevano giù dalle finestre.
La strettezza della Casa, e questa incostanza sperimentata ne’ Giovanetti novizzi, metteva alle strette il cuore di Alfonso. Essendosi stimata, perché meno disagiata la Casa di Ciorani, si trasferì in quella il Noviziato nell’entrata di Febbrajo di questo medesimo anno (1747)”24.
I novizi già sacerdoti che avevano resistito furono rapidamente ammessi ai voti e raggiunsero sul campo di azione le varie compagnie missionarie: Francesco Garzilli, Domenico Corsano (da noi già conosciuti) e Domenico Vacca di Eboli, mentre Lorenzo Fungaroli, non ancora sacerdote, nipote dell’arciprete di Caposele, fece “ tre piccoli giri ”, tre voti e se ne andò.
I cinque postulanti, che non avevano preso la porta o la finestra, partirono il 12 febbraio per Ciorani. Erano il sacerdote Matteo Criscuolo (28 anni), Gerardo Grasso (27), Giuseppe Landi (21), Antonio Maria Tannoia (19) e Bernardo Apice (18). Di essi solo gli ultimi tre, i più giovani, persevereranno e saranno grandi Redentoristi: Apice (1728-1769) come missionario, Landi (1725-1797) e soprattutto Tannoia (1727-1808) come archivisti, storici e cronisti del fondatore e delL’Istituto.
“Benedisse Iddio, prosegue proprio Tannoia, questa determinazione (di trasferirli a Ciorani). Maestro de’ Novizj vi fu stabilito il P. D. Andrea Villani; e fu tale il concorso de’ Giovanetti, che tra poco tempo giunsero fino a venti. Facevano tutti la consolazione di Alfonso col loro fervore, e colla loro costanza nel bene; ed egli volendoli assodare vie più nello spirito, stabilì e fecela regola costante in appresso, che nell’anno. della probazione non vi fosse per li Novizj applicazione letteraria, e che unicamente atteso si fosse alle cose eterne”.
Clima più dolce, tavola più generosa, celle nuove: questo per i novizi fu il primo cambiamento, cui se ne aggiunse ben presto un secondo. Cafaro, prodigio di santità, era dolce e affabile con tutti, caritatevole con ognuno e soprattutto con i malati; ma lo era “per carità”, attraverso un temperamento austero per se stesso e naturalmente severo 25 . Villani al contrario “rubavasi i cuori dei suoi Novizi con una singolare carità che più che Maestro, il mostravano una tenera ed amorosa Madre... il distintivo del suo governo fu mai sempre la dolcezza. Questo facevalo, non pur venerare dai Soggetti come Superiore;
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ma eziandio amare come Padre. E qui bisogna ingenuamente confessare, che per questa singolare dolcezza, con cui il P. Villani reggeva la Comunità, si aveva in tutta la Congregazione in opinione di maggiore santità, che lo stesso S. Alfonso... non ritrovasi vestigio di lamento o di taccia contro il suo governo; e se v’ha alcuno, è piuttosto di troppa dolcezza verso i Soggetti. E su questo dolevasi talvolta di lui il nostro S. Fondatore e non mai di altro” 26 .
Ma a questo noviziato, dove ormai i giovani entravano numerosi. occorreva assicurare un seguito, creando una casa di studi.
Il problema non era nuovo. Mancando i maestri, Falcoia aveva sbarrato la strada ai candidati, che non avessero già terminato la loro formazione, ma dal 1735 Alfonso, in disaccordo con lui, si era permesso qualche eccezione per l’una o l’altra recluta, della quale dovette come sappiamo, orientare e controllare il lavoro. Nel 1743 L’assemblea di Ciorani aveva aperto la porta ai giovani di 18 anni e parlato di “studentato”. Nel settembre di quell’anno il noviziato contava solo un prete, Paolino Scibelli, mentre Carmine Fiocchi Biagio Amarante e Bernardo Tortora (un diacono e due suddiaconi j erano entrati da poco e il giovane e brillante Francesco Sanseverino arrivava appena. Il noviziato comportava allora una parte di lavoro intellettuale 27, consistente prima di tutto e forse unicamente in un corso di teologia morale tenuto da Alfonso. Così già nel 1743 egli aveva iniziato a Ciorani il gigantesco lavoro sfociato, cinque anni dopo, nella prima edizione della sua più importante opera, quella che farà di lui un Dottore della Chiesa e il Patrono dei moralisti e dei confessori dell’intera cattolicità .
Non aveva trascurato la dommatica, tanto da inviare Sanseverino a Pagani, dopo pochi mesi trascorsi a Deliceto, per curarsi nella salute e prepararsi all’insegnamento della teologia di Habert. Dopo un anno questo giovane ricco di promesse (le manterrà altrove) ma malato aveva abbandonato la congregazione e al suo posto toccò a Cafaro preparare e dare i corsi di dommatica a Deliceto (il sant’uomo si lamentava perché ne aveva lo spirito “ molto occupato, sicché quando fo orazione, e quando dico Messa, e quando dico l’Officio, penso allo scritto”28... Grazie Don Paolo!). Alfonso invece tra una missione e l’altra spiegava ai più giovani le Institutiones philosophicae di Pourchot e cominciava a costruire, insegnando la morale ai più anziani, l’opera più grande della Chiesa del secolo XVIII.
Il suo disegno fu molto umile, come scriverà nel 1756 rispondendo a un anonimo censore:
“Certamente io non ho data alla stampa la mia Morale, per desiderio d’esser nominato, e lodato. Sarei stato un pazzo, se dopo aver lasciato il mondo, ed essermi ritirato in congregazione a piangere i peccati
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miei, poi avessi voluto inutilmente spender tanti anni di fatica (mentre quest’opera mi costa da dieci anni di fatica, eccessiva, e nojosissima) . . . Il mio fine di far quest’opera è stato solamente, prima la gloria di Dio, e poi il giovare a’ giovani della nostra congregazione dove i congregati per proprio Istituto s’impiegano in far missioni per nove mesi dell’anno alla gente abbandonata della campagna. Che per ciò vedendo essere ad essi come missionarj, ed addetti ad un continuo impiego dl prender le confessioni, sovra tutto necessaria la scienza della Morale, ho fatta quest’opera, per dar loro in breve la notizia delle dottrine più importanti... ed inoltre, perché non mi pareva a proposito di dare a’ giovani altri libri di Morale, perché o troppo brevi o troppo voluminosi, o troppo rigidi, o troppo benigni”29.
Se non voleva dettare le sue lezioni (non lo permise mai anche agli altri), occorreva servirsi di un autore. Avendo da lungo tempo rigettato il “probabiliorista” Genet, impostogli venti anni prima in seminario scelse il “probabilista” che più si avvicinava all’ideale che andava intuendo: la Medulla Theologiae Moralis del gesuita tedesco Hermann Busembaum (1600-1668), un volume di 744 pagine, chiaro e ordinato, relativamente breve e tuttavia completo, di spirito benigno e misurato. Il libro offriva una sintesi dei principi morali e un inventario delle soluzioni proposte dagli autori più solidi ai casi di coscienza più comuni nelle confessioni; pubblicato a Munster nel 1650 era diventato il testo di base preferito dalle università e dai seminari che avevano resistito all’ondata rigorista della seconda metà del secolo XVII, con più di duecento edizioni tra il 1650 e il 1770 Era insomma più di qualunque altro il maestro della scuola di pensiero, sempre più malvista ufficialmente, nella quale si riconosceva Alfonso. Umilmente ma rigorosamente, nell’antica tradizione dei grandi maestri, ne intraprese il “commentario”, arricchendolo e correggendolo con note, spesso lunghe, che ne triplicheranno pressappoco il volume, e, per rendere un servizio a tutti i suoi confratelli e agli altri confessori, spinto anche dalla generosità dell’amico Olivieri, lo diede alle stampe. Il 20 settembre 1748 scriverà a Don Giuseppe Muscari, abate del monastero di S. Basilio a Roma:
“Il mio libro non è uscito ancora... Il libro poi mi pare ch’è venuto utilissimo. Non molto voluminoso, ma pieno delle cose più sostanziali di tutta la Morale, specialmente di cose di Prattica...
Mi costa anni ed anni di fatiga, specialmente in questo ultimo ci ho fatigato quasi 5 anni continui, otto, nove e dieci ore il giorno, che quando ci penso mi fa orrore”30.
Il volume apparve in latino, alla fine del 1748, con il seguente titolo di copertina: “R. P. D Alfonsi de Ligorio Adnotatione in Busembaum” e all’interno: “Medulla theologiae moralis R. P Hermanni
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Busembaum Societatis Jesu Theologi, cum adnotationibus per Rev. P. Alphonsum de Ligorio.. apud Alexium Pellechium. Superiorum permissu. Expensis D Ioannis Oliverii”.
I superiori furono per lo Stato la Real Camera di S. Chiara su approvazione del Cappellano Maggiore, Celestino Galiani; per la Chiesa, il vicario generale di Napoli, dopo revisione di... Mons. Giulio Torni, vescovo di Arcadiopolis, che ebbe per il suo allievo queste parole nelle quali il cuore fu profeta: “Bisogna dire che l’autore è nato per il bene di tutti, non solo con la sua vita e la sua azione, ma anche con la sua penna”.
Però, malgrado l’immane lavoro di cui esse sono già il coronamento, le Adnotationes in Busembaum non furono che un abbozzo. In incessante dialogo con gli uomini, i libri, la vita e Dio, con una ricerca appassionata della verità, L’autore rimetterà cento volte in cantiere l’opera, per darci progressivamente maturata la sua Teologia morale, che diventerà quella della Chiesa.
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