Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762)

33 - “IL PURGATORIO MIO QUI, IN NAPOLI” (1747-1748)

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33 - “IL PURGATORIO MIO QUI, IN NAPOLI

(1747-1748)

 

1747. A Ciorani, un noviziato colmo e fervoroso; a Deliceto, un piccolo gruppo di studenti, meno disagiati dopo la partenza dei postulanti, che aveva ridotto il numero delle bocche; nelle quattro case, una congregazione missionaria che stava per compiere quindici anni.

Già si saldavano due generazioni: da una parte i “vecchi” che avevano conosciuto “il Padre” (Falcoia) e partecipato alle assemblee generali del 1743 e 1744 (26 agosto), nelle quali si era democraticamente discusso e deciso sui problemi più urgenti; dall’altra i “giovani”, privi di certe radici, ignari della prima storia, che ingenuamente volevano “ rimettere tutto in discussione ”, come si suol dire esagerando.

Era tempo di assicurare chiare basi, sia di fronte allo Stato che alla Chiesa, a un Istituto la cui vitalità si era affermata e la cui originalità apostolica era ammirata dai vescovi, dalla corte e dalla stessa Roma. Inoltre i nemici della fondazione di Nocera dei Pagani non disarmavano mai, facendosi forti del fatto che la congregazione non era autorizzata né dal re né dal papa. Diventava urgente un’esistenza riconosciuta dalla legge.

Per far questo però bisognava presentare un corpo di Regole.

In realtà a questo scopo nell’autunno 1746 il fondatore aveva convocato a Ciorani una quarta assemblea generale, apertasi il 13 ottobre e trasformatasi subito per Alfonso in una spaventosa esperienza. Una congestione polmonare lo aveva trattenuto a Deliceto e Cafaro, con i rappresentanti della comunità, era rimasto con lui, ma a Ciorani alcuni impulsivi avevano deciso di procedere ugualmente e rimesso in discussione punti precedentemente acquisiti. Informato dal segretario, Mazzini, Alfonso aveva scritto al rettore della casa, Villani, una lettera sofferta, con questa decisione:

“Vi prego in segreto a vedere colla vostra prudenza di sciogliere questo Capitolo con bel modo per farsi appresso... Onde dichiaro che.. il Capitolo dee disfarsi e farsi poi a tempo suo, con tutte le sue formalità necessarie ed essenziali... Non si dubiti che il Capitolo, sen-

 

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za meno, io lo farò fare, ma coll’intervento mio e di tutti li Votanti1. E con lo stesso inchiostro a Sportelli, presidente dell’assemblea:

“Questi Signori, in questi punti che toccano il Rettore Maggiore, più presto potevano avvisarne V. P., acciò l’avesse meditati, ma non proporli in Capitolo, per fare decisioni sopra le cose già decise e stabilite.

Pare che togliono la facoltà di dispensare; ma questo è contro tutte le regole, perché le leggi umane, intrinsecamente, hanno da esser capaci di dispensa...

Del resto, io spero col tempo, e forse tra breve, se il Signore mi favorisce, di mettere in piedi la Regola...

Li punti proposti, altri sono cose frivole, che non hanno bisogno di decidersi dal Capitolo, ma solo di discorrersi, ché la moltiplicità de’ decreti anche sarebbe ruina della Congregazione...”2 .

Alfonso avrebbe potuto “mettere in piedi la Regola” a Deliceto, ma non voleva fare a meno dell’aiuto di Andrea Villani, per cui nelL’aprile 1747 si trasferì a Ciorani. Sembra che il suo lavoro, fissato dall’assemblea elettiva del 9 maggio 1743: “Totalmente e sempre abbracciare ed osservare” e “unire le Regole e costituzioni lasciateci disperse dal nostro Fondatore”, fosse terminato a fine maggio. Nella prima settimana di giugno fu a Napoli, per settimane? mesi? Sapeva solo che tentava l’impossibile: ottenere il riconoscimento giuridico di un nuovo Istituto religioso.

 

In questa “impossibilità” non dobbiamo vedere una guerra tra religione e laicismo, perché tutto era religioso nel Regno; tanto meno una lotta del libero pensiero contro la fede: Carlo di Borbone “questo re, pio di coscienza e di pratiche, inclinava in quel tempo alla Chiesa così per suo talento, come per arte di governo... Non è già incredulo re, o re largo di coscienza... ma l’Infante don Carlo, che nella Chiesa di Bari, vestendo abito canonicale, offizia tra canonici nel coro; che vestito d’umile sacco, lava nella chiesa de’ pellegrini i piedi al povero; che serve a messa per acquistare le indulgenze; che ogni anno modella e compone di sue mani le figure e la capanna del natale di Cristo; che crede alla santità vivente del P. Pepe gesuita e del P. Rocco domenicano...”3.

Alla morte del padre, Filippo V (1746), aveva rimandato in Spagna il marchese di Montealegre, cercando di essere il primo ministro di se stesso. Suo braccio destro era diventato allora il ministro degli Affari esteri e della Giustizia, Bernardo Tanucci, uomo avvincente, disinteressato e, come appare dalla corrispondenza, profondamente cristiano. Il segretario di Stato per gli Affari ecclesiastici, il marchese Gaetano Brancone, che aveva un fratello monaco ben presto fatto vescovo, era

 

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personalmente quasi un religioso, in rapporto di totale fiducia e affettuosa venerazione con il P. de Liguori: Alfonso gli inviava i suoi disegni della Madonna e del Salvatore, mentre il marchese, volta per volta, si affidava alle “sante preghiere” sue e della sua comunità 4.

Però il secolo XVIII era il secolo del regalismo: gli Stati non solo scuotevano il giogo di una Roma che li aveva tenuti per troppo tempo sotto tutela, ma sconfinavano anche nello stesso potere spirituale della Chiesa, come questa precedentemente nel loro potere temporale. Era il rovesciarsi della clessidra: dispotismo per dispotismo.

A Napoli il regalismo era più virulento che altrove per reazione al preteso vassallaggio del Regno da parte della Santa Sede e per la disastrosa situazione economica del Paese derivante in parte dalla proliferazione di chiese e di conventi.

Alfonso capiva i regalisti? Ma era intellettualmente cresciuto in casa di Nicola Caravita, accanto a Pietro Giannone! La pace però poteva nascere dalla guerra? Il concordato del 1741 non aveva previsto alcuno statuto per le congregazioni, per cui unica legge restava la circolare segreta del 1740 ai governatori delle province, con l’ingiunzione di vegliare affinché non si costruisse nessuna chiesa, nessun convento, senza il previo assenso regio.

Il convento di Ciorani era anteriore, ma non al sicuro da un’arbitraria retroattività; quelli di Pagani e di Deliceto avevano ottenuto, rispettivamente nel 1743 e nel 1745, un “dispaccioreale, che permetteva di costruire un alloggio “ con l’espressa condizione, che il detto edificio non avesse a tener forma di convento, ma di casa secolaresca per comodo solamente, e ritiro de’ detti Preti, i quali dovessero in tutto, e per tutto essere sottoposti a’ vescovi del luogo”. Con queste stesse riserve la Real Camera firmerà il 17 giugno 1747 L’autorizzazione per la costruzione di Materdomini 5.

Allora non era pura follia chiedere il riconoscimento giuridico di un nuovo Istituto? Eppure era quanto si accingeva a tentare Alfonso a Napoli nei primi giorni del giugno 1747. Portava con sé Francesco Tartaglione, dall’inizio delle persecuzioni contro la comunità di Pagani suo commesso presso amici, Brancone e le cancellerie, accolto dovunque come un sorriso di Dio per la sua umiltà e la sua pietà 6 . Presero alloggio in casa dell’amico e benefattore Giovanni Olivieri, vicino a S. Caterina a Formello, a due passi da Castel Capuano, il palazzo di giustizia.

Il P. de Liguori iniziò le sue visite e le sue consultazioni: dal P. Pepe, dal Cappellano Maggiore Galiani, dal cardinale Spinelli... Arrivò in casa dell’amico Brancone, accolto con una... mazzata.

- Voi volete l’autorizzazione per il vostro Istituto, io vi voglio vescovo. A Palermo sta per morire Mons. Domenico Rossi e io vi ho proposto al re come suo successore.

 

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Vescovo!... e per di più a Palermo, l’altra capitale delle Due Sicilie!... Alfonso credette impazzire per la sorpresa e l’orrore. Il marchese si sforzò di tempestarlo con più e più ragioni, divine e umane, ma Alfonso, che non volle sentir niente, proprio niente, rispondeva supplicando:

- Se mi amate, non mi parlate di Vescovado. Ho lasciato casa mia, e sin d’allora esecrai qualunque onore in questo mondo.

Duro e prolungato corpo a corpo... Ma Alfonso non si arrese e alla fine toccò a Brancone abbassare le armi:

- Vi do la mia parola che non vi angustierò più 7.

Del resto ci si era preoccupati troppo in fretta a sotterrare il presule palermitano: Mons. Rossi si ristabilì e Alfonso, ripreso respiro, si rimise a pensare alle coseserie”.

La prima era redigere una sintesi delle Regole, che non sapesse né di convento, né di vita religiosa. D’accordo con Sportelli - avvocato anche lui - che lo aveva raggiunto a questo fine il 22 giugno, mise a punto un testo il più “inoffensivopossibile, spedito il 4 luglio a Mazzini con queste parole:

Mandate subito questo scrittorino a D. Andrea a Ciorani, acciocché in ogni conto, venerdì, me lo rimandi per Angelillo. Questo è il compendio delle Regole che si avrebbero da dare al Re, fatto insieme con D. Cesare. Voglio che lo veda D. Andrea, prima di farlo copiare, acciocché vi noti qualche cosa; e se anche V. R., prima di mandarlo a D. Andrea, vi potesse dare un’occhiata e notare qualche cosa necessaria, L’avrei a caro. Ma presto; perché in ogni conto bisogna che venerdì vi si rimandi da Ciorani... Ma ci vuol forza di orazioni.

Notate che si è pensato di mettere giuramento, non voto di perseveranza, per toglier l’apprensione che si è presa di voler fare Religione. E veramente più stringe il giuramento, che non può essere assoluto da’ Vescovi, che il voto, che certamente può esser da quelli assoluto. Il purgatorio mio qui, in Napoli, dura e durerà, e non so quando finisce... Raccomandatemi a Gesù e Maria8.

Mentre elaborava questo condensato diplomatico, sorse la più inaspettata delle complicazioni: una pietra non un granello di sabbia nelL’ingranaggio dei negoziati in corso.

Vincenzo Mannarini e il gruppo della prima ora, che nel marzo 1733 avevano abbandonato Scala e Liguori per fondare con altre prospettive la Congregazione del SS. Sacramento, non essendo riusciti a trascinare con loro Alfonso, avevano tentato già nel 1733 e poi nel 1735 di ritornare tra i padri del SS. Salvatore, ma Falcoia era prontamente scattato a chiudere la porta e Liguori aveva detto un no ugualmente convinto, anche se meno brutale. Ora venuto a conoscenza dei passi di

 

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Alfonso per il placet regio, Mannarini tornò alla carica, cercando in qualche modo di prendere d’assalto la vettura già in cammino, per imporre la fusione: non solo assillò di istanze a Napoli il fondatore, ma pensò anche di aggirarlo andando a Ciorani a perorare direttamente la sua causa con Villani e gli altri confratelli della casa madre.

Si dichiarava disposto “in nome di tutti i suoi Congregati a voler abbracciare senza eccezione la sua (di Alfonso) Regola, e riconoscer lui per Superiore.

Quali che fossero le rimostranze del Mannarini, Alfonso fu sempre restio a compiacerlo. Stringevali il cuore una sì sincera esibizione, ma troppo convincenti erano i riflessi, che lo determinavano in contrario. Dubitava, che l’unione non fosse per giovare a quella Adunanza, e fondatamente temeva pregiudicata la sua. “ Chi è avvezzo, diceva, di possedere, e disporre, mal volentieri potrà vedersi povero, e privo di libertà; e chi oggi, senza il voto di ubbidienza, ha giocato di propria volontà, dimani se non oggi, si pentirà essersi soggettato. Son persuaso, gli disse, della risoluzione di tutti, e la credo sincera; ma raffreddato l’impegno, non si mancherà far ritorno all’antico. La libertà, che piace, si può insinuare anche ne’ miei; e così potrò vedere danneggiato me medesimo ed i miei, senza giovare né a voi, né agli altri”.

Ma Mannarini, mobilitando grosse influenze, aveva guadagnato dalla sua parte il Cappellano Maggiore: soddisfare e promuovere due società non approvandone che una era certo un buon colpo a livello diplomatico e, perché no?, missionario .

“Troppo stretto si vidde Alfonso. Contraddirlo non conveniva prevedendolo contrario al suo intento; e compiacendolo, prevedeva confusione, e disordine tra’ suoi. Espose, e pose in veduta i suoi motivi; ma un così voglio di Monsig. Cappellano scioglieva qualunque dubbio. Non si arrese Alfonso, ancorché in somma costernazione. Tutta volta, dubitando de’ proprj lumi, ricorse all’orazione protestandosi avanti a Dio non volere che la gloria sua, ed il vantaggio dell’Opera”.

E l’ex-avvocato intravide uno spiraglio, del quale ponderò prontamente le possibilità e le difficoltà con Sportelli e Don Nicola Borgia. Restava prima da preparare e poi da convincere da una parte i suoi confratelli e dall’altra Don Vincenzo Mannarini. Cominciò con i confratelli .

Lunedì 22 luglio indirizzò a Mazzini una lettera destinata alle due comunità di Pagani e di Ciorani (Deliceto troppo lontana non poteva essere coinvolta e Materdomini, autorizzata solo dal 17 giugno, era sì un attivo centro di missioni, ma non ancora una residenza), lettera fondamentale in cui deliberatamente tutto è in chiaroscuro:

“Se la cosa andava come voleva io, andava troppo liscia: ma ora andrà con molti imbarazzi e fatiche, ma non è disperata...

 

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Ho parlato ancora stamattina col Cappellano Maggiore, il quale mi ha replicato più volte che ci unissimo con Mannarini, e che insieme con lui andassimo a trovarlo. Io l’ho assolutamente escluso, ché ciò non può essere, perché differente Istituto, scuole, dentro le città ecc. Così ho detto e dirò sempre. Ma poi mi son posto in mille agitazioni con un pensiero, che dice: Strappiamone ora quest’approvazione del Re, da cui dipende quella di Roma, che viene a dire che importa tutto; e poi Deus et dies. Essi si terranno le cose loro e noi le nostre. Perché, da quel che comprendo per certo, il Cappellano Maggiore vuol bene a Mannarini, e non vorrebbe vedere approvata la Congregazione nostra, e quella no ch’è protetta da lui. Onde, se vedesse approvata l’una e l’altra insieme, sarebbe tutto a favore; e se no, ci sarà contrario; e l’affare sarà concluso, perché il Re vuol dipendere dalla sua Consulta.

Da una parte, considero che, ottenendo quest’approvazione, (si farebbe) tutto lo stabilimento (della Congregazione): ma... quale Congregazione si avrebbe da approvare, la nostra o la loro? le Regole nostre, o le loro? Questo è l’imbroglio che si avrebbe da aggiustare, il che mi pare difficilissimo, perché noi non vogliamo mutare l’Istituto nostro, né essi il loro.

Unitevi, discorretela e pensate, e poi D. Cesare abbia pazienza: verso lunedì o martedì mi venga a trovare in Napoli, e mi riferirà quello che si ha potuto pensare. Mandate uno apposta a Ciorani con questa istessa mia, domani, e che subito vi dicano anche essi il loro parere. Il caso è molto dubbio. Io non scrivo a Ciorani, per non replicar lettere. Ogni sera alle case nostre si dica l’orazione per il Re, e sempre che si può nella messa.

Per la causa (di Pagani), la settimana entrante si andrà informando9.

La comunità di Pagani, certamente messa sull’avviso da Sportelli, diede carta bianca al fondatore; Ciorani invece, per la penna del rettore Villani, sollevò un nugolo di obiezioni a ogni idea di fusione e il rettore maggiore reagì vivacemente nella risposta datata 29 luglio:

Dico la verità, la vostra lettera mi ha sturbato un poco. Voi vedete con quante cautele io procedo, con quanti dubbj, con quanti consigli.

Apposta ho fatto venire D. Cesare, e dopo parlato col P. Amadeo e concertata la venuta di D. Vincenzo, per maggior cautela siamo andati con D. Cesare a concertare l’affare col canonico Borgia, ch’è uomo di Dio e uomo singolare per queste sorte di consigli. Dopo che con D. Cesare e con lui abbiamo concordato il tutto di quello che si ha da fare circa quest’approvazione, leggo la vostra lettera, fatta così riserbata, con tanti timori, con tanti scrupoli ecc.

 

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Io non so che scrupoli sono questi senza fondamento. Se mai potesse riuscire veramente l’unione con pace e di profitto, ognuno di noi la desidera e ci consente; ma perché pensiamo che non potrà mai riuscire così, perciò, si dice che se non riuscirà l’unione, riuscirà almeno l’approvazione ecc.

In pochi versi mi avete scritti mille dubbj, ma tutti questi si sono discorsi e scrutinati. E voi sapete, se io sono propenso a far dubbj, e quanti ne ho fatti!...

Dico la verità: se non fosse proprio per Giesù Cristo, ora lascierei qui ogni cosa e me ne verrei a chiudermi dentro una cella a Ciorani, senza intricarmi più di niente. Ma non mi fido farlo in coscienza. M’immaginava che V. R. e gli altri così si fossero in quest’affare, dove vedono che io procedo con tante riflessioni, rimessi a me, o almeno a me e a D. Cesare, come han fatto quelli di Pagani, ma la vostra lettera m’ha pieno di confusione, scrivendo solo scrupoli, condizioni e timori, a cui a tutti ci è la risposta. Frattanto mi lasciate inquieto, che non so che fare, perché io non voglio appresso sentir lontani nella Congregazione, basta quanti ne ho inteso.

Parlate con D. Cesare e appuntate con lui, dove vi possiate abboccare per lunedì; perché lunedì a sera in ogni conto voglio che mi mandate la risposta vostra per via di Pagani, acciò io sappia quello che ho da fare, e se mi ho da ritirare o no.

Pensateci bene. Vedete che ora le cose stanno con buona speranza: Brancone impegnato, il Re inclinato, tanto più che ora è stato parlato dal P. Pepe, il Cappellano Maggiore che vuol aiutare. Poi si mutano le cose, si perdono le specie. Pare prudenza di andare pigliando tempo? Io mi protesto avanti a Giesù Cristo, che se questa cosa si sgarra, non ci sarà più rimedio. Dico gran cosa, perché da questa dipende tutto lo stabilimento della Congregazione, e senza niuno timore, perché ogni timore è frivolo. Il maggior timore è che la Congregazione, non avendo l’approvazione del Re, non avrà mai stabilità e forse colle liti a simiglianza di queste di Nocera, anderà forse a dismettersi.

Dove c’immaginavamo noi che Dio ci avesse aperte le vie, che ora ci ha aperte? E noi ora vogliamo trascurarle! Ora io me ne scotolo i panni avanti a Dio. Basta che non manca per me.

Io non parlo, perché voglio fare il fondatore ed il dispotico. Vedete, quanti dubbj e quanti consigli cerco ed ho cercati prima. Ma quando si vede che le cose vanno fatte con esame e discrezione, non pare bene impedirle.

Ora fate quello che vi detta Dio. Prego Giesù Cristo, che non voglia per li peccati miei distruggere questa Opera sua. E fate seguitare l’orazione Viva Giesù e Maria.

 

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(P.S.)... Che sono questi tanti dubbj che fate per quest’unione, quando vedete che io ne sono così alieno, e non sono per acconsentirvi mai per le ragioni vostre ed altre, se non in qualche caso, ch’è moralmente impossibile, cioè ch’essi veramente ci venissero appresso; e questo non si avrebbe da fare poi che causa cognita e col consenso vostro. Ma ciò in sostanza già ve l’aveva scritto. Viva Giesù e Maria10 .

Decisamente il P. Villani non aveva capito niente di quello che si stava tramando (neppure noi del resto, almeno per ora), perché Alfonso, non potendo scriverlo chiaramente (chi sa dove può finire un pezzo di carta!), gli diceva per mezzo di parole enigmatiche, se non contraddittorie: “Rimettetevi a me, Sportelli vi spiegherà!”.

 

Prima ancora che Sportelli riportasse le risposte delle case, Alfonso si ritrovò bruscamente di fronte a un incubo: se egli aveva dimenticato l’arcivescovato di Palermo, la morte non aveva fatto altrettanto con Mons. Rossi, che si spegneva il 7 luglio. Anche se Brancone fu fedele al suo impegno di non proporre l’amico, il re non aveva accantonato il P. de Liguori.

- Se il Papa, disse, fa delle buone provviste, io voglio farle migliori del Papa.

Il marchese, intimamente entusiasta, comunicò la determinazione del sovrano ad Alfonso, che rimase come colpito da un fulmine:

- Mi si costringerà a dare questo scandalo ai miei compagni? Eppure Sua Maestà sembra tenere tanto all’Opera delle missioni: se me ne ritira, l’Opera cadrà, con sventura delle anime e di tutto il Regno. Ringraziatelo, ve ne prego, ma fategli presente il male che farebbe all’Opera; e anche che io sono legato dal voto di rifiutare qualsiasi dignità.

- Un voto? Il Papa, disse il re al marchese, dispensa tutto. Questi tali riescono buoni Vescovi, che non vogliono esser Vescovi.

“E tempo d’orazione e di preghiere, scrisse Liguori al suo direttore Paolo Cafaro, perché mi vedo in una grave persecuzione e un sommo travaglio. Il Re ha stabilito di eleggermi Arcivescovo di Palermo, ma io piuttosto anderò ad intanarmi in un bosco, che accettare una tale dignità”.

Mise in ginocchio confratelli, amici, monasteri, mentre egli stesso si macerava duramente per attirare su di sé la misericordia di Dio. Fu un mese di angoscia. Il re e Tanucci interpretarono male il suo rifiuto, ma Brancone riuscì poi a far loro comprendere le sue ragioni, tanto che alla fine Carlo si convinse che quell’umile era un santo, a capo di una congregazione di santi, possibile futuro vivaio per la corona di buoni vescovi.

- Ma questo, disse Alfonso messo al corrente da Brancone, è

 

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distruggere l’Opera delle missioni, aprendosi la strada, con queste cariche, allo spirito di ambizione. Vescovi per le Chiese non mancano ma operaj per affaticarsi in salute delle Anime, specialmente ne’ villaggi, non è così facile il ritrovarli...

 

Intanto, sotto il sole di luglio e di agosto, il padre continuava i suoi passi, le sue marce e le sue retromarce, accolto qui, respinto , insultato altrove, per contattare magistrati, convincere coloro che si opponevano, suscitare appoggi, senza più tempo né per mangiare, né per dormire.

A fine luglio ricevette le risposte delle case riguardo alla fusione con Mannarini. Era stato presto raggiunto un accordo, secondo la circolare - strana, veramente strana - che il agosto indirizzò ai confratelli:

Scrivo di fretta una per tutti, perché non ho tempo. Ho ricevuto le vostre e quelle di Ciorani. Pregate ora Gesù Cristo che mi dia forza e lume, perché ho perduto il sonno, L’appetito ecc. Ieri mattina, il Cappellano Maggiore a principio quasi ci escluse affatto, poi di nuovo si raccapezzò l’affare; ma Dio faccia che non sia contraria la relazione. La Madonna lo può fare: perciò seguitate e fate seguitare le orazioni. Domani ci ho da tornare.

Stamattina poi, ho fatto una buona sbattagliata con Mannarini, ed ho parlato risoluto sopra di un certo punto, ed esso ha ceduto tanto quanto. Non sono cose di lettere, così perché non è bene fidarle a carte, sì perché ci vorrebbe dieci fogli scritti ogni volta per dir tutto ”.

In questa “sbattagliata”, durante la quale Alfonso aveva imposto con decisione la sua volontà, sta la risoluzione dell’enigma. Non si trattò di integrazione dei padri del SS. Sacramento, dal momento che Mannarini lo implorava inutilmente da quindici anni. Ma allora di che cosa? Riusciamo finalmente a indovinare quello che il fondatore non poteva affidare alla carta. Date le disposizioni di Galiani, era impossibile un’approvazione senza la fusione dei due Istituti, perciò sì alla fusione. Ma Liguori non aveva più volte ripetuto che essa era impensabile? Precisamente. Allora qual era quel “ certo punto ”, sul quale dopo “una buona sbattagliataMannarini “ha ceduto tanto quanto”? Fatta ufficialmente l’unione per la forma, ogni congregazione sarebbe rimasta di fatto autonoma: “I Padri del SS. Sacramento faranno il loro lavoro e noi il nostro”. Questo non poteva mettersi sulla carta e Alfonso aveva inviato Sportelli a Pagani e Ciorani, per chiarire con la dovuta discrezione tutto il gioco. Proseguiva poi nella sua lettera con tono ottimista:

“In quelle confusioni e disturbi, mi consola sentire le cose del noviziato, e specialmente mi rallegra l’allegrezza con cui sta D. Girolamo”.

 

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(Don Girolamo Ferrara, 31 anni, brillante professore di lettere al seminario di Conza, “convertito” da una predica di Alfonso e dalle sue Visite al SS. Sacramento, s’era sottratto alle lacrime del fratello, alle grida delle sorelle, all’inseguimento armato dei parenti e, in giugno, era entrato nel noviziato. Il suo rettore, Don Francesco Margotta 48 anni, dottore in diritto e ex-governatore di Andretta, poi vocazione tardiva, prenderà la stessa strada).

“D. Cesare ora può partire per Caposele colla santa benedizione. Il P. Rettore D. Andrea mi ha voluto confondere con tante umiliazioni, che sono confusioni per me. Così è: da lontano, per lettere, è impossibile conferire.

Il P. D. Cesare parli ancora coll’arcivescovo di Conza qual mezzo avrebbe l’arcivescovo in Roma, almeno per fare destinare qualche Cardinale dal Papa per l’approvazione della Congregazione; perché, se mai la Madonna ci facesse spuntare col Re, bisognerebbe che subito almeno si introducesse la nostra approvazione in Roma. Raccomandatemi a Gesù e Maria11 .

Spuntarla col Re ”? Non era più pura utopia, dal momento che il primo ostacolo, il consenso del Cappellano Maggiore, era quasi superato... Ma Galiani ci ripensò e fece retromarcia.

S’era lasciato trascinare troppo avanti: amava Alfonso, ma era anche al servizio dello Stato; il cuore gli aveva fatto dimenticare per un momento la sua posizione, ma la coscienza ora lo riportava al suo “dovere”. Il voltafaccia fu brutale: aveva sempre ripetuto: “ Voglio L’unione per l’approvazione”, ora affermava tutto d’un tratto: “L’approvazione è cosa impossibile, perciò la fusione non ha nessun motivo” (21 agosto). Per ben cinque volte, Liguori e Mannarini chiesero di essere ricevuti... ma furono messi alla porta. La speranza scaltramente perseguita svaniva in un solo colpo.

Non era possibile! Alfonso ritornò da solo alla casa di Mons . Galiani; riuscì a farsi ricevere parlando e intercedendo per la sua Opera con tanto calore che il Cappellano Maggiore gli lasciò sperare il suo appoggio. Parallelamente tentò un passo direttamente presso il re, ricorrendo al fratello dell’arcivescovo di Salerno, Don Bartolomeo Rossi, l’addetto alle udienze del sovrano, suo amico. L’indomani stesso, 22 agosto, al cadere del giorno, mentre nel giardino di S. Caterina a Formello stava recitando il breviario con lo studente de Robertis, che sostituiva Sportelli, fu raggiunto da un “volante” di Don Rossi, che lo convocava per la sera. Troppo tardi per andare a farsi prestare una sottanacorretta” a sua misura e passare dal barbiere! C’era solo il tempo di affittare una carrozza e trottare verso il palazzo, insieme al fratello Tartaglione 12. Dinanzi a un re pieno di rispetto e ben presto

 

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commosso, il sacerdote cencioso e rasato con quattro colpi di forbici perorò ardentemente per la sua povera Opera nata a servizio degli abbandonati del Regno. Toccato, il “monarca” - titolo derisorio - avrebbe firmato seduta stante l’approvazione, se disposizioni ben congegnate non l’avessero sottomesso in tutto al Consiglio di Stato. Avrebbe atteso il rapporto del Cappellano Maggiore. Gli fu inviato lo stesso 22 agosto. Eccone il “cuore”, se così si può dire, come lo si legge in Tannoia:

Dovendo io umiliare il mio parere alla Maestà Vostra, mi conviene con profondo rispetto sottoporre alla sua Sovrana comprensione, che riguardo allo Stato, ed al Pubblico, tanto è fondarsi una nuova Congregazione, quanto il volersi fondare una nuova Religione.

Che i Padri della Missione, per ragion di esempio, sieno una Congregazione di Preti Regolari, e non una Religione, come sono i Domenicani, ed i Francescani, questo allo Stato nulla importa, perché gli uni, e gli altri si moltiplicano, ed acquistano nuovi beni, i quali passando in manus mortuas, sono fuori di commercio.

La licenza dunque, di cui vien supplicata V. M., che le suddette Case possano erigersi in una Congregazione governata da un Superiore con proprie Regole, principalmente importa, che le dette Case mediante il Real Beneplacito di V. M., e l’approvazione di Sua Santità, divengono Collegj legittimi, senza la qual condizione non possono ora far acquisto di beni.

Non può negarsi, che il P. Liguori co’ suoi Compagni non s’impiegano ora utilmente, e con profitto nelle istruzioni de’ poveri Contadini, che sono ne’ Villaggi più incolti, e sparsi per le campagne, e che la vita de’ Preti Missionarj non sia assai esemplare; ma tutti i diversi Ordini, e Congregazioni, Sacra Maestà, di Regolari e di Preti Secolari, anche nel loro nascere sono stati utili ed esemplarissimi; ma indi a poco tempo, spento il primo fervore, son divenuti inutili, e di peso grave allo Stato, senza ricavarsene alcun vantaggio. L’esperienza del passato, gran maestra dell’avvenire, fa temere che l’istesso sarà per succedere nella nuova Congregazione del P. Liguori, e che, morti i primi Fondatori, L’opera pia ed utile, alla quale finora si sono impiegati con lodevole zelo, si andrebbe a dismettersi, com’è succeduto in altre simili Congregazioni, che erette per lo stesso fine dell’istruzione de’ Villani per le Campagne, o de’ Fanciulli orfani, ora le loro Case si trovano stabilite nelle Città, con attendere a tutt’altro, che al fine unico, e principale del loro Istituto.

Stante tutto ciò, e trovandosi questo Regno pur troppo pieno di Case Religiose, stimerei, quando non sembri altrimenti al sublime intendimento della Maestà Vostra, di non concedersi il Real Beneplacito al P. Liguori, almeno senza molte limitazioni.

Le case fondate sono le seguenti: una nella Terra di Ciorani nella

 

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diocesi di Salerno, un altra nel luogo detto i Pagani nella diocesi di Nocera, la terza nella Terra d’Iliceto nella Diocesi di Bovino, e la quarta in Caposele in Diocesi di Conza. Oltre queste quattro Case, ve ne sono quattro altre abitate da simili Preti Missionarj, sotto il titolo del SS. Sacramento, le quali vorrebbero unirsi a queste del P. Liguori, e formare una sola Congregazione sotto il nome del SS. Salvatore.

E’ ben noto al sublime intendimento di Vostra Maestà, che alcuni popoli di questo Regno son quasi selvaggi, e commettono in gran numero de’ delitti, specialmente omicidj, e latrocinj gravissimi, come nel Cilento ne’ confini della Provincia di Salerno, verso la Calabria, ed in alcune contrade della Calabria e della Basilicata. Or se in detti luoghi si fondasse nella Campagna, o ne’ Villaggi qualche Casa di questi buoni Preti, stimerei, per fin che in essi si conserva il presente spirito, che potesse essere di qualche vantaggio, per rendere quegli abitanti più umani, ed impedire i tanti atroci omicidj, che tutto giorno si commettono.

...e rappresenta al Re, potersi accordare... il suo Real Beneplacito, ma con queste condizioni, e non altrimenti: Che i Missionarj non debbano stabilirsi in altro luogo del Regno, senza prima ottenersene il permesso della Maestà Vostra; che, traviando dal loro Istituto, e non osservando esattamente l’Opera dell’istruzione de’ villaggi, de’ contadini, e pastori, possa la Congregazione essere soppressa ipso facto da Vostra Maestà, e da’ suoi Serenissimi Successori, senza esserci bisogno di ottenere licenza o permissione del Papa: che dandosi un tal caso, i beni, che possono avere acquistati, possono impiegarsi da V. M., e da’ Suoi Serenissimi Successori, in opere pubbliche, e pie, che loro più piaceranno; che non possano accettare eredità, o donazioni causa mortis, quando il Testatore abbia parenti poveri fino al quarto grado inclusivo de jure Ecclesiastico; e che ciascuna delle loro case, non possa fare maggiori acquisti che di tanti beni di qualunque natura, e specie essi siano, che costituiscono tutto insieme l’annua rendita di ducati mille, ed anche meno, come più piacerà alla Maestà Vostra”.

L’indomani, 23 agosto, la Sacra Real Camera, timorosa più dello spauracchio religioso, che dei briganti del Cilento e della Calabria, rifiutò l’approvazione. Il “sovrano”... ubbidì e decretò lo statu quo, pur raccomandando a Brancone: “Dite al P. D. Alfonso, che stia sicuro di mia protezione: che seguiti a promuovere col medesimo zelo l’Opera di Dio, e dello Stato; e veda in che altro posso compiacerlo, che lo farò”.

Solo dopo due giorni, il marchese trovò il coraggio di annunziare il “fiasco” all’amico. Alfonso abbassò la testa, mormorando: “Fiat voluntas tua!”, ma la notte seguente non riuscì a chiudere occhio.

L’indomani 27 agosto, mentre nella tarda mattinata celebrava la

 

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messa nella cara chiesa dei Girolamini, si sentì soffocare all’improvviso dalla disperazione, come da una valanga: “La congregazione non sopravviverà al rifiuto del re: appena lo sapranno i suoi nemici a Pagani abbatteranno con un solo colpo di spalle la fondazione e la rovina di quella casa trascinerà con sé quella delle altre...”. Sgomentato da questa visione apocalittica, privo di qualsiasi luce divina, partì in pieno pomeriggio e, attraversata in fretta tutta Napoli, arrivò sudato al palazzo Brancone: bisognava, bisognava assolutamente parlargli prima che il “dispaccioregio venisse reso pubblico... Erano solo le 16 e l’anticamera non era ancora aperta. Stanco, Alfonso sedette sui gradini della scalinata tra la “gentaglia”, ma da un balcone il marchese lo scorse e, desolato e edificato, lo fece chiamare immediatamente, dicendo alla sua gente: “Non fate mai attendere il P. de Liguori a qualunque ora si presenta”. La sola vista di Alfonso esprimeva chiaramente la sua angoscia: questo “dispaccio” del re sarà il segnale per la distruzione della congregazione, delle missioni ai poveri...

- Ma no, ma no, lo rassicurava il segretario di Stato, non dovete temere niente, perché dispacci particolari assicureranno per l’avvenire ciascuna delle vostre case e quindi la congregazione. Il caso non è così disperato, come vi credete: non mancherà alla pietà del Principe un qualche ripiego, meglio esaminate le cose, per render più stabile la vostra Congregazione .

Alfonso, che aveva in mente il Cappellano Maggiore e la Real Camera, restava molto agitato; allora Brancone lo rimproverò gentilmente:

- Non vedete che con questo diffidare, date a vedere, che ci è terra per lo mezzo!

Il padre tacque, si riprese, si rasserenò, si abbandonò al beneplacito di Dio: non cadrà mai più in una simile agitazione 13. Ma uscì stremato da questi tre mesi di vano lottare, come scrisse a fine agosto, probabilmente a Villani:

“Si seguiti a pregare per la Congregazione e per me, che sono crepato in Napoli in trattar con questi ministri, che mi hanno fatto venire in tedio la vita. Tengo dentro un cato di veleno: non posso più vorrei fuggire, e nemmeno posso fuggire da Napoli. Bisogna che assista a far votare la causa ora, quanto più presto si può.

E’ venuta la consulta, e si è proposto (il nostro affare) in consiglio regale; e il Re ha stimato di pigliare un ripiego, che forse riuscirà più utile per la Congregazione.

D. Vincenzo mi seguita ad andare attorno per far l’unione; ma Io mi vado scusando, ché si è veduto coll’effetto che Dio non l’ha voluta E questo è il mio sentimento risoluto, che quest’unione non possa affatto riuscire, né io ci sarò per consentire mai”14 .

 

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Il “ripiegopensato dal re - “più utile” della fusione legale con Mannarini? - fu un dispaccio in data 26 agosto, con il quale ordinava al Tribunal Misto di esaminare i bilanci delle fondazioni pie laicali, per vedere se fosse possibile prelevarne una rendita annua in favore del P. de Liguori e delle sue missioni. Diciamo subito che l’esame andò per le lunghe e la risposta fu negativa 15. Veramente Carlo di Borbone non aveva braccia lunghe !

 

Durante questa spaventosa estate però l’avvocato non aveva messo in letargo l’apostolo: i suoi amici Fontana e Fatigati lo invitarono spesso per conferenze ai seminaristi e agli allievi del Collegio dei Cinesi ; numerosi monasteri gli chiesero gli esercizi spirituali, L’altro amico, Giuseppe Porpora, ottenne per la sua parrocchia di S. Giovanni Maggiore la novena dell’Assunta, che fu, come scrive Tannoia, “una intera Missione”.

Uno di questi inviti diede luogo a un incidente gustoso e significativo. Alfonso, membro a vita delle Apostoliche Missioni, fu richiesto dal superiore, Don Nicola Borgia (ben presto vescovo di Cava e poi di Aversa) di tenere la “predica ai fratelli” nella riunione di lunedì 21 agosto. Celestino de Robertis ebbe il permesso di accompagnarlo. Alfonso non dovette cercare a lungo il tema rivolgendosi a missionari alcuni dei quali prendevano molto sul serio il loro titolo di Illustrissimi, cominciò, proseguì e concluse sull’obbligo di mettere con semplicità alla portata degli umili il pane della parola di Dio. Si animò contro coloro che predicavano se stessi, fuochi d’artificio che lasciavano solo un po’ di fumo e di carta bruciata:

- Tutti vogliono fare il P. Bernardo Maria Giacchi, che si credeva “ il Cicerone napoletano ”, morto tre anni or sono. Ma non so che se ne ricava di profitto per le Anime. I sermoni de’ Santi si fanno per imitarsi; quando non sono all’Apostolica, non se ne ricava frutto, e si ci perde il tempo. Io mi contento che il P. Giacchi, per aver impastata di frasche la parola di Dio, non sia per piangere in Purgatorio la sua vanità anche fino al giorno del Giudizio...

Un mormorio discreto percorse le file dei bei parlatori. Lo percepì il predicatore? Era troppo preso dall’ardore del suo discorso e poi nelle sue orecchie erano entrati tanti peccati che cominciava a diventare un po’ sordo. Ma sulla strada del ritorno, de Robertis l’informò della reazione che aveva suscitato. Stupore di Alfonso...

- Ma padre, voi avete detto questo in pubblico.

- Non è pubblico, una congregazione privata.

D’altronde Borgia, soddisfatto e incoraggiato da numerosi fratelli, lo fece tornare quindici giorni dopo. Ecco il suo esordio in quel 4 settembre:

- Sento essersene offesi taluni, avendo io riprovato lo stile fiorito

 

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e la condotta del P. Giacchi. Aveva pensato confessarmene, ma vedendo mancarmi il proposito, me ne sono astenuto.

E ricominciò con più forza ancora contro coloro che infiocchettavano con fiori adulterini la parola di Dio; poi passò alla vanità dei sacerdoti, alla loro mondanità, alla loro ricercatezza nel vestire e nell’acconciatura. Proprio un incorreggibile e tanto simpaticamente persuasivo, che ognuno se ne uscì scontento sì, ma di se stesso 16.

 

A metà settembre 1747, Alfonso partì dalla terribile capitale. Vinto? Lo si vedrà. Ai suoi occhi era solo un intervallo per riprendere forze e permettere al tempo di far la sua parte e a Mannarini di allontanarsi.

Passò a Pagani, poi si spinse fino a Caposele per visitare la giovane comunità di Materdomini - Sportelli, Garzilli e il fratello Gaspare Corvino - e incontrare l’arcivescovo di Conza. Per ringraziare e ammansire questo incontentabile prelato, ma anche per farsene un alleato nei futuri passi a Roma, gli dedicò le sue Adnotationes ad Busembaum con una lettera in latino nella quale, una volta tanto, si divertì a srotolare periodi pieni di enfasi, che avrebbero fatto la gioia del suo maestro Buonaccia 17 .

Poi giunse il momento di tenere l’assemblea generale sciolta l’anno precedente. Da quattro anni quella del 9 maggio 1743 L’aveva incaricato di “abbracciare ed osservare” e “unire le Regole e costituzioni lasciateci disperse dal nostro Fondatore”; Alfonso vi si era attenuto come a un dovere, anche se aveva preferito lo stile narrativo alla forma artificiosa del colloquio tra Dio e il religioso. Era ora di sottomettere tutto il suo lavoro ai confratelli, per fissare con loro il testo da presentare poi all’approvazione della Santa Sede.

Gli otto capitolari, presenti a Ciorani la mattina del 17 ottobre erano, oltre il superiore generale, Sportelli Mazzini, Rossi, Villani Cafaro, Scibelli e Fiocchi. In quattro giorni condussero a buon fine l’esame e gli emendamenti del progetto presentato da Alfonso: le dodici Regole e Costituzioni relative alle virtù del mese e un annesso sul governo dell’Istituto. Quest’insieme fu votato il 20 ottobre i Redentoristi lo chiameranno Regole primitive e non senza ragione, perché codificazione di quello che si era vissuto più o meno da quindici anni. E dunque una testimonianza, però non fu mai, neppure per un istante, il codice della vita regolare promulgato e letto nelle comunità; non fu mai approvato dalla Santa Sede e, del resto, fu modificato nei mesi successivi. Resta solo una testimonianza. Questo però non impedì che i Redentoristi più anziani vi si sarebbero riconosciuti in cento dettagli, mentre i più giovani vi si sarebbero inoltrati come in un museo.

Lo stesso 20 ottobre fu anche votato il lungo “ Regolamento per

 

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le missioni” di mano di Alfonso eccetto nell’introduzione di impronta falcoiana. Nei giorni successivi l’assemblea formulò una ventina di decreti riprendendone altri quattordici già decisi nelle riunioni del 1743 e 1744, tra i quali - occorre notarlo - quello di “totalmente, e sempre abbracciare, ed osservare lo stabilito dal nostro fu P. Monsignor Falcoia” (n. 26)18.

Questa barriera non sembra innalzata contro il dinamismo di Alfonso, perché rieletto subito superiore generale all’unanimità. Allora contro i giovani, sempre poco curanti delle tradizioni?... In ogni caso permetterà al fondatore di prendere le distanze dallo spirito e dalla lettera di quelle Regole: “Ci sono state date da Mons. Falcoia”. Per umiltà? Liguori era più fine.

Però Regole e assemblee avevano ragion d’essere solo per la missione agli abbandonati e, con l’inizio della campagna invernale, Alfonso il 26 ottobre partì con Sportelli cercando di dimenticare le cocenti delusioni napoletane e le quisquiglie capitolari tra gli umili contadini delle baronie di Siano e di Calvanico, vicino a Ciorani. Verso l’Epifania del 1748 ritornò a Napoli a battersi ancora per l’autorizzazione regia.

 

Il 1748 si apriva sotto la cappa di pesanti preoccupazioni: a Napoli, per l’approvazione dell’Istituto occorreva ricominciare da zero; a Pagani, niente si era calmato, anzi i Contaldi, spinti da un’orda di forsennati, pretendevano riprendersi la casa e il terreno donato; a Ciorani, scomparso il vecchio barone, difficile e esigente, i figli - eccetto Don Andrea, il donatore - volevano cacciare i padri e riprendersi una donazione fatta “alla Congregazione” (non aveva alcuna esistenza legale!), “per fondar un collegio” (motivo delittuoso!), senza alcun exequatur regio 19; Materdomini stava per essere costruita e tutta Caposele vi avrebbe concorso con la sua fede, il suo cuore, le sue mani, ma Mons. Nicolai era un partner difficile. Il 7 febbraio Alfonso scriveva a Francesco Margotta, da due mesinovizio” in casa sua, trattenuto a Calitri da impegni e dal suo arcivescovo:

“Io sto ancora in Napoli, per ultimare gli affari della Congregazione e spero tra breve ultimarli, e mi pare mille anni di sbrigarmi...

Monsignor l’arcivescovo stava rammaricato con me, perché non gli ho voluto concedere il P. Cafaro a fare il quaresimale in Calitri, per giustissime ragioni. D. Paolo ha da fare lo studio in Iliceto questa quaresima, e senza di lui non si può far lo studio, perché esso ha fatto lo scritto. D. Paolo non tiene il quaresimale; onde avrebbe da fare una gran fatica inutile, perché i quaresimali non sono del nostro Istituto. E questa è la ragione più sostanziale: il far quaresimali è affatto contro il nostro Istituto e Regole; e se s’introducesse questo esempio,

 

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 non lo potrei negare poi agli altri Vescovi delle altre nostre case, quando Monsignore ci ha promesso, e se ne è conservata ]a sua lettera, di trattarci come ci trattano gli altri nostri Prelati, e nell’istromento sta espresso che ci debba impiegare secondo le Regole nostre.

Se V. Carità poi non parlerà forte coll’Arcivescovo per sé, dicendogli che già si trova ricevuto ecc., non si spiccierà mai. Gli metta avanti lo scrupolo della vocazione. Basta: a V. Carità non manca giudizio e prudenza. All’ultimo che si ha da fare? Pazienza, e forse è più la pena nostra di non vedervi fra noi, che la pena vostra. Raccomandatemi a Gesù Cristo che mi faccia presto spicciare da Napoli; mi pare mille anni di fuggire dal trattare con questi benedetti ministri che mi fanno mangiar veleno. Se non fosse per la Congregazione, non lo vorrei più sentir nominare.

Monsignor l’arcivescovo, se si lamenta di me, si lamenta a torto io credo di averlo servito quanto ho potuto sinora, e per servirlo non mi son curato di disgustare gli altri nostri Prelati. Dio sa che ho avuto da fare, per mandare ora li Padri a servirlo alle missioni e far gli esercizi al clero... Non so più che fare per compiacerlo. Ma buttare a terra la Regola e l’Istituto a principio, non lo posso permettere. Quando vi viene a taglio, fate sentire a Monsignor questo che vi ho scritto20.

 

Il P. de Liguori era quindi nuovamente e per ben quattro mesi nella capitale, con Celestino de Robertis, alloggiando questa volta in Borgo dei Vergini, accanto alla madre e a Don Gaetano, in casa del fratello Ercole al Supportico Lopez (l’amico Olivieri aveva forse cambiato casa?). Era venuto a correggere le bozze e a fare gli indici della sua Morale soprattutto a riprendere, tenace, i passi abortiti cinque mesi prima.

C’era allora qualcosa di nuovo? Sì e no. Alfonso coglieva nelle opposizioni un segno di speranza; L’amico Don Matteo Testa gli aveva assicurato che Tanucci si andava addolcendo, Brancone l’aveva avvisato che il re era amareggiato del rifiuto del Tribunal Misto a sbloccare una rendita per le missioni; infine l’approvazione gli era assolutamente necessaria per assicurare alle giovani reclute un avvenire meno precario e per sollecitare - ci pensava - quella del papa. Rimise perciò al marchese una supplica per il re, nella quale la passione per l’ “opera” si sposava a una commovente sincerità:

“Il sacerdote Alfonso de’ Liguori, insieme con i suoi compagni missionari, detti del SS.mo Salvatore, umilmente supplicante espone a V. M., come non avendo stimato bene la V. M. di accordare il suo Real permesso, acciocché la loro compagnia, unitamente all’altra de’ sacerdoti nominati del SS. Sacramento, insieme colle altre loro case, si erigessero in una Congregazione, sicché d’ambedue se ne formasse

 

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una sola: pertanto supplica la M. V. a degnarsi di concedere il suo Real beneplacito almeno e solamente per le loro quattro case, che stan situate nelle diocesi di Salerno, Nocera, Bovino e Conza, affinché coll’autorità di V. M. si stabilisca la loro Opera in beneficio della povera gente della campagna, come a V. M. è ben noto.

Si protesta esso supplicante di non volere fondare più case, ma solo di vedere stabilite queste che vi sono. Ed in quanto all’acquisto de’ beni per lo mantenimento di esse case, e dell’opera delle missioni, si contenta che la V. M. disponga e tassi come meglio stima; giacché esso supplicante, purché veda formata questa santa Opera coll’autorità della M. V., resterà appagato di tutto quello che gli prescriverà: mentre non pretende già che le suddette case diventino ricche, ma solo che abbiano appena il sufficiente a mantenere l’Opera, per la propagazione della gloria di Dio, e per lo profitto de’ suoi vassalli.

E in caso, quod absit, che i soggetti di tal Congregazione mancassero dal loro Istituto e l’Opera decadesse, esso supplicante, in nome suo e di tutti i suoi compagni, si contenta, anzi prega V. M., che in tal caso s’interponga col sommo Pontefice, acciocché dismetta e sopprima non solo qualunque delle loro case, ma tutta la Congregazione insieme. E da ora esso supplicante, in nome di tutti i Congregati presenti e futuri, si obbliga di non difendere in verun modo giuridico la loro condotta, né contraddire; ma di sottoporsi in tutto a quello che stimerà e rappresenterà la M. V., poiché esso supplicante e tutti i suoi compagni altro non desiderano che, con tal Opera, resti appagato lo zelo, che ha V. M. del bene di questa gente abbandonata delle campagne: sperando di più che in avvenire tal condizione abbi anche a servire per freno a tutti i Congregati per non rilasciarsi, e di stimolo per conservarsi nello spirito e proseguire l’Opera, secondo sinora da essi si è praticato; e l’avrà a grazia, ut Deus. - Alfonso de’ Liguori21.

- Lo trasmetterò senz’altro, fu la risposta di Brancone, però dovreste chiedere anche una rendita per la sussistenza dei vostri missionari .

Liguori vedeva in questo un possibile pretesto per un tirarsi indietro da parte del re.

- Non abbiamo bisogno di niente, ribatté, tranne l’approvazione: questo è quello, che unicamente desidero dalla Maestà del Sovrano.

A metà gennaio una crisi di asma, che fece perfino temere per la sua vita, lo costrinse a letto per tre settimane, ma il 5 febbraio poté di nuovo celebrare la messa e il 18, insieme al “fratello” di Propaganda Giuseppe Sersale, iniziò la missione della sua parrocchia battesimale, S. Maria dei Vergini: a lui spettò la predica grande, mentre il futuro arcivescovo di Sorrento tenne l’istruzione 22.

All’inizio di marzo stessa scena dell’agosto precedente: udienza

 

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benevola del re, la supplica passerà al Real Consiglio, questo concluderà con un no risoluto e la “Maestà Sovrana” si sottometterà come un bambino.

Nell’attesa del verdetto, Alfonso predicò otto giorni a S. Giovanni Maggiore, otto allo Spirito Santo, dove, del tutto innocentemente sollevò una tempesta. Parlando dell’accesso immediato dei più poveri al Signore nel tabernacolo, citò un pensiero familiare della sua “Maestra d’Avila”, che si legge anche nella decima Visita: “Non è permesso ad ognuno parlare col re; il più che ciascheduno può sperare è di fargli parlare per terza persona”. Qualche cortigiano si alzò seduta stante e uscì protestando? Ad ogni modo c’era quanto occorreva per deferire il “sacrilego” al Palazzo e Tanucci, molto risentito, parlò più o meno di bandire l’insolente. Non mancava che questo per ottenere l’approvazione! Alfonso corse dal cardinale e da Brancone, entrambi furono da Tanucci; il ministro si calmò, si informò, prese il missionario in venerazione, ma il regalista non si lasciò intenerire. Non ci fu nessun placet regio per l’Istituto.

Dal 28 marzo all’8 aprile (domenica delle palme), il padre predicò agli ufficiali e, la sera, alla truppa della guarnigione di Pizzofalcone. Poi lasciò il purgatorio di Napoli, per trascorrere a Ciorani la settimana santa e le feste pasquali.

Napoli lo vedrà alla fine di ottobre per la missione in tre chiese alle quali non aveva voluto rifiutarsi, per delle ragioni facilmente intuibili: S. Anna di Palazzo nell’antico feudo urbano delle prostitute S. Antonio Abate nel quartiere fuori le mura dove Sarnelli le aveva fatte confinare e, come dire no a Spinelli, la cattedrale. Anche quest’ultima però fu troppo piccola, tanto che tutta la Napoli bene, pur di avere un posto, vi si istallava molto prima dell’ora di inizio.

Notava però Tannoia: “ Non istimando Alfonso esser Napoli il destino della sua Missione, perché carico di operaj, e chiamatosi vedendosi in prestar soccorso a quelle Anime, che tra le ville abbandonate si veggono, e tra Casali, nell’entrata del Gennaro 1749 si portò colla Missione nel Casale di S. Michele in Diocesi di Salerno... poi nell’Archidiocesi di Conza... in quella di Cava... ”.

Tuttavia non fu inutile quanto aveva sofferto nella capitale: lasciandola nella primavera del 1748, dopo il secondo rifiuto del re portava con sé da questa città religiosamente provvista una grande speranza per i contadini abbandonati: un incontro inaspettato gli aveva fatto improvvisamente intravedere la fine della notte.


 

 

 

 

 





p. 505
1 S ALFONSO, Lettere, I, pp. 118-120.



2 Ibid., p. 121.



3 COLLETTA, op. cit., 1. I, XXXII, p. 82.



p. 506
4 Cf. SH 20 (1972), pp. 349-372.



5 DE MEULEMEESTER, op. cit., II, p. 259; TELLERIA, I, p. 416.



6 TANNOIA, Vite dei Padri..., p. 106.



p. 507
7 TANNOIA, I, p. 187; per tutto questo capitolo, cf. ibid., pp. 187-209; SPORTELLI, Epistolae, pp. 147-149.



8 S ALFONSO, Lettere, I, pp. 131-132.



p. 509
9 Ibid., pp. 133-135.



p. 511
10 SH 12 (1964), pp. 234-236; cf. S ALFONSO, Lettere, I, pp.132-133.



p. 513
11 S ALFONSO, Lettere, I, pp. 137-138; per il tempestoso esodo del padre Ferrara, cf. ibid., pp. 127-131; SH 15 (1967), p. 104.



12 SH 15 (1967), p. 109, N. 13; DE ROBERTIS però si sbaglia sull’anno (e non la prima volta), perché l’udienza avvenne il 22 agosto 1747 non già ‘48.



p. 516
13 TANNOIA, I, pp. 193-194; SH 15 (1967), p. 111, n. 21.



14 S ALFONSO, Lettere, I, p. 138.



p. 517
15 DE MEULEMEESTER, op. cit., II, pp. 178-179, 272.



p. 518
16 Cf. TANNOIA, I, pp. 198-199; SH 8 (1960), p. 446; 15 (1967), pp. 106-107.



17 CF. S ALFONSO, Lettere, III, pp. 3-9.



p. 519
18 I testi in Documenta miscellanea (Regole di Conza), pp. 11-80; “Analecta”, 1 (1922), pp. 127-139, 171 ss., 206 ss., 255 ss.



19 Cf. S ALFONSO, Lettere, I, pp 142-144; DE MEULEMEESTER, Origines I, p. 285.



p. 520
20 S ALFONSO, Lettere, I, pp. 144-146; cf. ibid, p. 140.



p. 521
21 Ibid., pp. 147-149.



22 SH 8 (1960), p. 446.



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