Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
Lettura del testo

PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762)

34 - LA CONGREGAZIONE DEL SS. REDENTORE (1748-1750)

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34 - LA CONGREGAZIONE DEL SS. REDENTORE

(1748-1750)

 

Mannaggia ai morti tuoi!”. Era una delle espressionigarbate” che i contadini pugliesi nel fervore delle discussioni si lanciavano in faccia reciprocamente. Era considerata un “grosso peccato mortale” una bestemmia così orribile che alcuni vescovi se ne riservavano l’assoluzione .

Arrivato a Deliceto alla fine del 1744, Alfonso non aveva impiegato molto tempo a respingere tanta severità, che serviva solo a moltiplicare i peccati nelle coscienze falsate del popolino, al quale capitava senza molta malizia di maledire gli animali, il vento, la pioggia, la siccità o... i morti.

Per tanto poco, si finiva per allontanarlo dai sacramenti. Invece la realtà è altra, pensava il missionario, queste parole certo sconvenienti sono liberazione di collera contro le circostanze o i vivi, non già espressione di disprezzo o di odio per le anime del purgatorio o i santi del cielo.

Dopo aver interrogato un certo numero di tali “bestemmiatori”, il padre arrivò alla convinzione di dover contestare quella pastorale del peggio. Uno dei suoi amici, Giuseppe Jorio, ebbe un giorno la possibilità di interrogare al riguardo lo stesso Benedetto XIV, che gli rispose: “Avete il vostro Liguori, discutetene con lui”.

Alfonso sottopose un piccolo memoriale alle tre grandi congregazioni missionarie della capitale, ai Lazzaristi e ai Pii Operai: furono tutti unanimi nel convenire con le sue ragioni. Pubblicò allora nel 1746 una Lettera ossia dissertazione sopra l’abuso di maledire i morti, oggi purtroppo perduta, riportando molti consensi, tanto che in numerose diocesi il peccato, tutto sommato solo veniale, fu radiato dalla lista dei casi riservati.

Ma nel 1746, un focoso domenicano, Gesualdo Dandolfo, con un libello attaccò il “lassistasolitario della selva di Deliceto: “Chi sei tu, scriveva, che uscendo dal bosco, vuoi dar legge ad altri, e farli da maestro?”. Vada pure per l’uomo dei boschi, pensò Alfonso, ma si attacca anche il mio Istituto! Infatti, con il pretesto che la “vita divotainsegnava al popolino l’orazione mentale e la visita al SS. Sacra-

 

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mento, il figlio di san Domenico rimproverava al Liguori e ai suoi compagni di disprezzare la preghiera vocale, il rosario, L’orazione domenicale e il culto delle immagini. A volerlo credere, Alfonso e la sua congregazione di vagabondi formavano una setta di eretici, più che una società di missionari. Del resto, quella pretesa congregazione non aveva approvazione di Roma.

Alfonso si credette un dovere rispondergli in una Expiatio (una puntualizzazione), pubblicata in appendice alle sue Adnotationes in Busembaum (1788)1. Sulla maledizione dei morti, si lavava facilmente dal rimprovero di non aver riportato i pareri di Agostino, di Tommaso d’Aquino e di Duns Scoto, perché questi grandi dottori non avevano trattato questo problemapugliese ”. Passava poi alle accuse più particolari, respingendole una ad una:

“Io e i miei compagni professiamo di voler dare mille volte la vita per qualunque dogma, che la Santa Romana Chiesa propone alla fede. E quanto all’orazione mentale, che essa sia necessaria di necessità di mezzo per la salvezza, né a me né a nessuno dei nostri è mai neppure passato per la testa. Due sole cose abbiamo affermato: 1) che la preghiera di petizione è certamente necessaria di necessità di mezzo. E questo non ce lo siamo inventati noi, dato che è stato precedentemente insegnato da serissimi teologi... per il fatto che quasi tutti gli aiuti necessari per la salvezza ci vengono dati per mezzo della preghiera. 2) Parlando dell’orazione mentale, abbiamo affermato che essa è sì necessaria ma - lo abbiamo sottolineato espressamente - di necessità morale, dato che senza la meditazione delle verità eterne è moralmente impossibile, cioè difficilissimo, che l’uomo perseveri a lungo nella grazia...

Quanto all’altro punto che ci vien rimproverato, cioè che noi abbiamo predicato che le preghiere vocali, il rosario della beata Vergine e anche la stessa preghiera del Signore sono da rigettarsi, come lo si è potuto affermare di noi, quando in tutti i luoghi, in cui andiamo con le nostre missioni, non solo recitiamo pubblicamente ogni giorno il rosario della nostra Regina, che veneriamo con singolare onore e amore, ma lo inculchiamo con forza a tutto il popolo?... Aggiungo che io mi sono obbligato con voto a recitare ogni giorno il rosario. Quello che abbiamo detto è che le preghiere vocali, senza la meditazione delle verità eterne... senza attenzione della mente e senza affetto del cuore poco giovano... e perciò vediamo non pochi, avvezzi alle sole preghiere vocali senza la meditazione, non immuni dai peccati gravi, mentre quelli che praticano la meditazione difficilissimamente cadono in peccato mortale o almeno in esso rimangono...

Quanto al culto delle immagini sacre... tutti sanno l’abitudine della nostra Congregazione di predicare sempre con accanto al pulpito

 

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una statua della Madonna... Quello che predichiamo è che se le preghiere dinanzi alle immagini sacre sono utili, molto più utile è pregare dinanzi al SS. Sacramento dell’altare, perché non solo ci viene rappresentato Gesù Cristo, ma veramente e realmente è presente lo stesso Salvatore. E se poi queste fossero proposizioni erronee e esecrabili, non saprei più che dire ”.

Su queste accuse di eresia, del resto, Alfonso si appellava ai quattro vescovi, che avevano approvato e fatto stabilire nelle proprie diocesi i padri del SS. Salvatore. “ E vero, aggiungeva poi, che, come ci rimprovera il nostro avversario, finora non abbiamo ancora ottenuto l’approvazione della Sede Apostolica. Però finora non abbiamo ritenuto opportuno chiedere al Sommo Pontefice di concedercela, data l’esiguità della nostra società. Ma ora che per la misericordia divina essa è cresciuta e vediamo da Ogni parte che abbonda di benedizioni divine, con l’approvazione dei pastori della Chiesa e di tutti quelli che amano la gloria di Dio, speriamo tra breve di essere esauditi nel nostro desiderio, presentando le nostre suppliche per l’approvazione dell’Istituto all’attuale Sommo Pontefice, al quale sono tanto a cuore le missioni”.

 

Nell’estate 1748, sarebbe allora partita per Roma una supplica con la domanda di approvazione per la sua “congregazione di vagabondi”? Poco prima, lo stesso Alfonso aveva scritto che non si poteva mirare ad essa, senza prima quella del re, però gli aveva fatto aprire gli occhi un uomo ben al corrente, Mons. Giuseppe Maria Puoti, ieri bibliotecario del cardinale Lambertini e ora stretto collaboratore di Benedetto XIV, che a Napoli alla fine del febbraio 1748 gli aveva detto:

 - Stendetemi un memoriale e io lo consegnerò personalmente al papa. Benedetto XIV non andava certo pazzo per i religiosi, ma era prima di tutto e pienamente un pastore 2. Era precisamente questa corda missionaria che la supplica affidata da Alfonso a Puoti avrebbe fatto vibrare:

Beatissimo Padre,

il Sacerdote Alfonso di Liguori, Napoletano, insieme cogli  altri Sacerdoti Missionarj suoi compagni, congregati sotto il titolo del SS.mo Salvadore, umilmente supplicando espongono alla Vostra Santità, come essendosi per più anni esercitato nelle sante missioni come Fratello della Congregazione dell’Apostoliche Missioni, eretta nella cattedrale di Napoli, ed avendo osservato il grande abbandono, in cui si ritrova la povera gente, specialmente delle campagne ne’ vasti paesi del Regno, fin dall’anno 1732 si unì con detti Sacerdoti suoi compagni, sotto la direzione del fu Monsignor Falcoja, Vescovo di Castello a Mare, affine d’impiegarsi nell’ajutare colle missioni, istruzioni ed altri esercizj le

 

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 anime de’ poveri della campagna, che sono i più destituti di soccorsi spirituali, mancando chi loro ministri i santi sagramenti e la divina parola, tanto che molti di loro per mancanza di operar; giungono alla morte senza sape, e neppure i misterj della fede; poiché pochi sono quei Sacerdoti, che attendono di proposito alla coltura de’ poveri con tadini, per ragione delle spese ed anche degli incomodi, che bisogna sofferire per questo impiego.

E perciò essi supplicanti sin d’allora colle missioni sono andati ajutando questa povera gente, girando per le campagne e per li luoghi più abbandonati di sei Province del Regno, con tanto profitto universale, ch’essendone giunta la notizia alla Maestà del Re, specialmente per le fatiche fatte a benefizio del gran numero de’ pastori della Puglia S. Maestà con più dispacci ha procurato di fare un annuo assegnamento per lo mantenimento di detta santa opera, commendandola come utilissima per lo bene universale del suo Regno.

Benanche l’Eminentissimo Arcivescovo di Napoli, che con tanto zelo governa la sua Chiesa, si è degnato di chiamare essi Supplicanti a servirlo, come han fatto nelle missioni de’ casali della sua Diocesi.

A questo intento essi Supplicanti, coll’approvazione canonica degli Ordinarj, e col beneplacito ancora del Re, si sono congregati a vivere in alcune case o sieno ritiri, posti fuori dell’abitato in diversi luoghi del Regno, cioè nella Diocesi di Salerno, di Bovino, di Nocera, ed ultimamente nella diocesi di Conza...

In queste case oltre le missioni, colle quali essi Supplicanti continuamente sono usciti, si è dato ancora il comodo a’ contadini di venire da’ loro paesi, dove hanno avuto le missioni, a rinnovare le confessioni e ristabilirsi colle sante prediche.

Dippiù nelle medesime case si sono dati più volte l’anno gli esercizj spirituali chiusi, così agli ordinandi, come a’ Parochi e Sacerdoti mandati da’ loro Vescovi, ed a’ secolari ancora; cosa ch’è riuscita di sommo lor profitto, così proprio come degli altri; mentre con tali esercizj i Sacerdoti, di poi usciti e riformati sono divenuti degni ministri del santuario a beneficio de’ loro paesani.

E tutto ciò si continua a praticare, aumentandosi sempre più il concorso e profitto della gente.

Il Signore poi colla sua mano ha molto benedetta quest’opera non solo colla conversione di tante anime abbandonate e col profitto de’ paesi, dove han fatigato essi Supplicanti, ma dippiù coll’aumento de’ soggetti, che sinora si sono aggregati a questa lor Compagnia, sicché ora giungono al numero di quaranta in circa.

Beatissimo Padre, questo è lo stato in cui sta l’opera mentovata. Ma se la V. Santità non si degnerà di concedere la sua apostolica approvazione, l’Opera non potrà avere il suo felice proseguimento. Posti

 

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dunque a’ piedi della V. Santità, esso Supplicante e suoi Compagni La supplicano per L’amore che V. Santità conserva della gloria di Gesù Cristo e della salute spirituale di tanti poveri contadini, che sono i figli più derelitti della Chiesa di Dio, a concedere il suo apostolico assenso, che la suddetta lor Compagnia si eriga e stabilisca in Congregazione di Preti Secolari sotto il titolo del Santissimo Salvadore, soggetta sempre alla giurisdizione degli Ordinarj de’ luoghi, ad instar delle Congregazioni de’ PP. della Missione e de’ PP. Pii Operarj, col distintivo di dover sempre abitare i Congregati fuori dell’abitato, e nel mezzo delle Diocesi più bisognose, affine di meglio impiegarsi in benefizio de’ contadini, e d’esser così più pronti a porger loro ajuto. Degnandosi insieme la S. V. di approvare le Regole che a suo tempo s’umilieranno a’ suoi piedi; sperando da V. Santità, che ha tanto zelo per la salute delle anime, specialmente di questa povera gente della campagna, come ha dimostrato colle sue lettere Circolari inviate a’ Vescovi del Regno di Napoli, procurando al possibile d’ajutarla colle sante missioni, che voglia stabilire colla sua autorità suprema un’opera non solamente sì utile, ma ancora sì necessaria per l’ajuto di tante povere anime, che ne’ luoghi rurali di questo Regno così vasto, vivono abbandonate di soccorsi spirituali. E l’avranno a grazia, ut Deus3.

 

Prima della fine di marzo, Puoti fu a Roma e la supplica in mano al papa; il 30 il documento con una postilla di Benedetto XIV passò alla competente congregazione, quella del Concilio, il cui prefetto, il cardinale Antonio Gentili, lo stesso giorno lo inviò all’arcivescovo di Napoli, perché - notiamolo bene - esprimesse “il suo parere sulla domanda di Alfonso de Liguori4.

Anche Spinelli non era tutto fervore per i religiosi, ancor meno per il loro privilegio di esenzione dalla giurisdizione episcopale, ma, pieno di affetto e di venerazione per Alfonso e di ammirazione per la sua originale fondazione missionaria, prese a cuore la causa e avvisò, evidentemente, Liguori che in aprile era ancora a Napoli per i tentativi presso il re. Gli chiese anche le Regole? Roma non gli aveva commesso l’incarico di giudicarle, però le ricevette dal rettore maggiore: non le lunghe Regole e Costituzioni stabilite dall’assemblea dell’ottobre 1747 sulla base dei fogli di Falcoia, ma il loro Ristretto, tre volte più breve, fatto a Napoli da Alfonso e Sportelli, rivisto da Mazzini e Villani e presentato recentemente al Cappellano Maggiore per l’approvazione regia. In esso le considerazioni ascetico - mistiche su ognuna delle virtù del mese erano scomparse e restavano solo, ma in sintesi, le dodici costituzioni falcoiane, che le accompagnavano. Sono “ le Regole fatte a Napoli ”, di cui parlerà Villani nelle sue lettere da Roma 5.

L’arcivescovo affidò l’esame del documento al suo canonista, Carlo Blasco, e al suo teologo, Giuseppe Simioli, che, come Landi ci fa

 

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sapere, ebbero almeno una seduta comune di lavoro, alla quale parteciparono anche il cardinale, Mons. Giulio Torni e Don Nicola Borgia.

Fu certamente suggerito qualche aggiustamento a livello canonico e Spinelli chiese che si insistesse sull’autorità dei vescovi e che venissero ridotti i digiuni: “Chi è operario, ha bisogno di salute per faticare, non di penitenza per accortarsi la vita6 . Questi ritocchi però furono certamente fatti con il pieno accordo del fondatore, perché l’arcivescovo non aveva alcun mandato di revisione del suo testo, ma solo di dare un parere sulla domanda di approvazione dell’Istituto 7.

Un proverbio ecclesiastico dice: “Roma mora”, ma questa volta fu Napoli a tirare per le lunghe: da aprile a ottobre 1748. Durante questi sei mesi Alfonso venne spesso nella capitale? Certamente vi si trovava il 28 luglio, domenica, quando, per le mani di Mons. Torni, fu ordinato sacerdote il suo caro Celestino de Robertis. L’indomani, mentre assistito da Celestino celebrava la messa dai Girolamini nella cappella dei Martiri, un certo cavaliere imparò a conoscerlo. Era stato pregato dai pochi presenti di consacrare le ostie per la comunione, e dopo aver preso egli stesso il corpo e il sangue di Cristo, detti sulla piccola assemblea - secondo la liturgia di allora - il Misereatur e l’Indulgentiam, prese la patena, si girò verso i fedeli prostrati... Ma il nostro cavaliere era rimasto seduto, gambe incrociate, senza nemmeno abbozzare un inchino con il capo. Ecce Agnus Dei disse fervorosamente il celebrante... fermatosi un istante, si rivolse al nostro uomo sempre immobile:

- Eh che sei ciunco, che non ti inginocchi!

Stavolta il gentiluomo ritrovò immediatamente il movimento, si scosse con aria offesa e se ne andò in sagrestia a brontolare contro quel prete che aveva osato umiliarlo pubblicamente. Venuto però a sapere che si trattava del famoso P. de Liguori, imboccò velocemente la porta, senza aspettare il resto.

De Robertis, che ci narra l’episodio, ci fa anche sapere che Alfonso si fermò a Napoli fino al 15 agosto 8, certo per incontrare gli esperti del cardinale, gli amici e i consiglieri (Torni, Borgia, Testa, Pagano) e dare un’ultima mano al testo del  Ristretto.

Questo Ristretto, preparato dapprima per il Cappellano Maggiore, era - lo abbiamo già detto, ma qui occorre essere estremamente chiari - il “condensato” delle dodici costituzioni falcoiane votate dall’assemblea del 20 ottobre 1747. Alfonso però aveva eliminato il primo paragrafo. L’idea falcoiana dell’Istituto - sostituendolo con un altro che diceva chiaro il proprio punto di vista di fondatore e, nella versione corretta e migliorata ora preparata per Roma, accentuava ancora di più i termini. Cerchiamo di paragonare attentamente questo nuovo testo alfonsiano con quello falcoiano del 1747, che iniziava così:

 

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“L’idea di questo Istituto si è quella della più vicina imitazione della vita sacrosanta di nostro Signore Gesù Cristo e delle sue adorabilissime virtù, da ricopiarsi nella vita di ciascheduno de’ soggetti, perché questi adempiano nelle proprie persone l’intento di S. D. M., apparsa nel mondo nella nostra carne, per essere da noi imitato, e perché ciascheduno si renda esemplare agl’altri e possa dire coll’apostolo: Imitatores mei estote sicut et ego Christi.

Le Regole per questo intento sono le seguenti, al numero di dodeci, circa le dodeci più principali cristiane virtù: studiandosi i soggetti con modo particolare di profittare per ogni mese in quella virtù, che a tal mese sarà assignata9.

Nell’ultima pagina, la costituzione relativa al governo permetteva almeno di dire che le missioni “sono l’impiego principale dell’Istituto”; d’altronde nello stesso 20 ottobre 1747 l’assemblea aveva votato anche il Regolamento di Alfonso sulle missioni.

L’Istituto avrebbe quindi due ordini di attività: la santificazionepersonale” di “ciascuno” (non comunitaria) mediante l’imitazione delle virtù di Gesù Cristo e l’occupazione apostolica delle missioni. E del più genuino Falcoia.

Ma il testo preparato a Napoli rifiutava proprio questa dicotomia. Fin dalle prime righe, riprendendo l’ottica del suo Ristretto, Alfonso raccoglieva in unità spiritualità e ministero, in maniera che unico risultasse il fine dell’Istituto:

“Il fine di questo Istituto è di formare una Congregazione di Preti secolari viventi in comune sotto il titolo del SS.mo Salvadore, soggetta alla giurisdizione de’ Vescovi...”.

Sottolineiamo la parola d’ordine in vista dell’exequatur regio: “preti secolari”, e la vita in comune già essenzialmente missione: riunire i dispersi figli di Dio (Gv.11, 52). Ma cosa vivrà insieme questa comunità? Leggiamo:

“ ...L’unico intento della quale sarà di seguitare l’esempio del nostro Salvadore Gesù Cristo in predicare a’ poveri la divina parola, come egli già disse di se stesso: Evangelizare pauperibus misit me. E perciò i soggetti dl questa Congregazione dipendentemente dall’ubbidienza agli Ordinari de’ luoghi s’impiegheranno totalmente nell’andaraiutando la gente sparsa per le campagne e i paesi rurali, specialmente quelli che sono più abbandonati di soccorsi spirituali, colle missioni, istruzioni, dottrine cristiane, amministrazione de’ sagramenti, e singolarmente col ritornar più volte ne’ paesi, che hanno avute le missioni, affine di stabilire il frutto ivi fatto10.

Questo il programma del fondatore: l’unico fine dell’Istituto è continuare (seguitare, dargli seguito) l’esempio del Salvatore, perciò riunire comunità missionarie che si collochino dove maggiormente

 

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manca la presenza della Chiesa, per vivere con e per “ i più abbandonati di soccorsi spirituali”, Vita religiosa e vita apostolica non sono che una sola cosa imitare Gesù Cristo evangelizzatore e salvatore, permettergli di continuare la sua vita di redentore in uomini e in comunità che ne perpetuano, L’esistenza terrena I “Redentoristi” non faranno dell’imitazione e delle missioni (Falcoia), ma personalmente e comunitariamente saranno nella missione di Gesù Cristo (Liguori).

 

Il testo integrale del Ristretto, messo a punto da Alfonso, venne ricopiato) e autenticato dal segretario del cardinale, Don Gianfrancesco Cossali; rivisto dal fondatore, fu in settembre consegnato a Spinelli con un memoriale che offriva a Sua Eminenza gli argomenti da far valere a Roma:

 

Recherà maraviglia il sentire che, dopo tante Religioni, Congregazioni ed Istituti fondati nella Chiesa, pretendasi dalla S. Sede l’approvazione e conferma di questo nuovo Istituto, dicendosi da alcuni che sarebbe meglio togliere o riformare gli antichi che istituirne de’ nuovi. Ma cesserà la maraviglia quando s’intenderà il fine ed intento di questo Istituto, ed i principi con cui il Signore l’ha benedetto...

Ma tutti gl’Istituti, si dice, son cominciati con gran fervore e poi da quello son decaduti. Così avverrà a questo altro. . .”.

Alfonso ritorceva l’argomentazione, dopo aver fatto osservare che, malgrado tutto, “ in molti Istituti si è mantenuto c si mantiene il fervore”.

“Poi si risponde che non è possibile togliere la sua natura alle umane cose che, secondo la condizione presente degli uomini, cominciano con gran calore, ma questo sempre poi manca. L’acqua, quanto più si discosta dalla sua fonte, sempre si fa meno limpida e più torbida. Ma si vede che Dio... ha stimato bene di governare la sua Chiesa con disporre che, da tempo in tempo, se ne stabiliscano de’ nuovi... affine che, mancando il fervore degli Istituti antichi, supplisca il fervore de’ nuovi che universalmente cominciano con gran fervore; e questo, regolarmente parlando, si conserva per più secoli con immenso profitto, così de’ Congregati, come de’ popoli. Nella vigna, se non si sostituiscono alle vecchie le nuove piante, come si farà? Le antiche si seccano, le nuove mancano e certamente finirà la vigna.

Ma ora, si replica, son cresciute tante Religioni, tante Congregazioni, che finalmente son soverchie per la coltura de’ popoli.

Oh volesse Dio, e bastassero! Messis quidem multa! Chiunque è pratico un poco delle coscienze sa la scarsezza che vi è di veri operai che cercano veramente la salute delle anime, e sa quante anime si perdono per mancanza di aiuto. Ed è indubitato che ciò avviene specialmente ne’ paesi rurali, per più ragioni che ciascuno può da sé considerare, senza spiegarle. 532

 

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A questo fine, tanti sacerdoti di zelo hanno cercato d’impiegarsi nelle missioni; le quali, se nelle città sono utili, ne’ paesi della campagna sono affatto necessarie poiché, in questi piccioli paesi, pel lo più f mancanza di buoni sacerdoti, che spezzino il pane della Divina parola e che istruiscano quella gente incolta Di più, sono necessarie le missioni in questi luoghi rurali per ragione che vi sono pochi sacerdoti, e questi paesani; e perciò facilmente molte anime si trovano in sacrilegi di male confessioni, per la ripugnanza di confessarsi a quelli che le conoscono.

Onde avviene che, se queste anime così cadute non hanno il comodo della missione per poter manifestarsi a sacerdoti forestieri, può dirsi con certezza morale che seguiranno a vivere nella disgrazia di Dio, e certamente si dannano. E si è osservato dall’esperienza il profitto più speciale che tal sorte di gente ha ricavato dalle missioni, essendosi vedute popolazioni intiere santificate.

Ma piacesse a Dio benedetto e fosse un tal frutto perseverante! Non si vedrebbe quella corruttela di costumi che, anche dopo le missioni si vede, e poche anime si perderebbero. Ma questa è la disgrazia che, dopo qualche tempo, i popoli si raffreddano e ritornano allo stato di prima, anzi peggiore, per ragione della luce che acquistano con le missioni”.

Obiezione grave, ma che per Alfonso diventava un argomento dei più forti a favore della sua congregazione:

“Questa mira ha presa il nostro minimo Istituto, cioè di fare che il frutto, che si raccoglie dalle missioni, sia perseverante. A tal fine, vuole le case in mezzo alle diocesi, affinché non solo possano nelle medesime accorrere le povere genti per essere aiutate ne’ loro spirituali bisogni, ma altresì essere soccorse coll’aiuto delle istruzioni, novene cd altri continui esercizi, che i padri di detto Istituto van facendo ora in una terra, ora in un’altra della diocesi della loro residenza...

Di molto sollievo riesce ancora al popolo un tale aiuto, perché, ritrovandosi ne’ paesi piccoli scarsezza di confessori e in molti luoghi appena il parroco, ne viene che molti e molto di rado ricevono i sacramenti della confessione e comunione; o, se si confessano, per la vergogna e per la ripugnanza molti fanno confessioni sacrileghe: e lo sanno li confessori, che girano, quanto giovi questo aiuto, e di quanto sollievo sia a’ popoli.

E affine che i soggetti di questa Congregazione siano sbrigati totalmente e sciolti dalle applicazioni, in cui si sogliono ordinariamente Impiegare e trovare occupati quelli operari che vivono ne’ luoghi abitati, per attendere più di proposito alla coltura dei poveri contadini, si è stabilito che le loro residenze debbano sempre essere fuori dell’abitato .

 

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 E così, praticandosi da questa Congregazione questo impiego in beneficio delle genti della campagna, che non si pratica dalle altre Congregazioni di missionari, si spera dalla S. Sede l’approvazione e la conferma11.

Preparato questo dossier - regole e memoriale - , nel quale veniva evidenziata l’originalità del carisma del fondatore, Spinelli l’11 ottobre firmò un votum molto favorevole all’Istituto e alle sue Regole, suggerendo però cinque modifiche, della quali l’unica che ancora ci interessa è la soppressione - purtroppo! - del voto di andare a evangelizzare gli infedeli 12 .

Il primo ostacolo era stato felicemente superato, ma che ne sarà con quelli delle supreme autorità pontificie, che occorreva ora affrontare direttamente?

 

Si aspetterà la fine delle vacanze romane a ottobre per evitare che l’affare si impantanasse già in partenza, portandolo poi avanti vigorosamente. Andrà Alfonso a Roma a perorare l’approvazione? Non c’era problema per gli altri, ma egli disse no, allegando non senza ragione la sua salute: “...io non mi fido viaggiare l’inverno13, ma forse temendo anche di farsi vedere a Roma per paura di qualche mitria. Pensò ai padri Margotta e de Robertis, due uomini di legge e di piena fiducia, il secondo dei quali suo consigliere e segretario a Napoli dopo Sportelli; ma Mons. Nicolai tratteneva Margotta. Partirono allora, a fine ottobre, Villani e Tartaglione: Francesco, il “fratello diplomatico” della congregazione; Don Andrea, dei marchesi di Polla, tutto finezza e bontà e tanto appassionato dell’istituto da dire ai novizi: “ Figli, prima morto dentro la Congregazione che Papa fuori”14.

Latori del dossier di Alfonso e del cardinale, di lettere di raccomandazione dei vescovi di Salerno e di Nocera dei Pagani 15, carichi anche di qualche esemplare delle Adnotationes di teologia morale, i nostri due ambasciatori, lasciata Napoli il 9 novembre, sedicesimo anniversario della fondazione, giunsero a Roma il 13, attesi da un amico di Alfonso, Don Giuseppe Muscari.

Muscari, 35 anni, basiliano, professore di teologia, aveva conosciuto e ammirato Alfonso e i suoi compagni durante la sua residenza nel monastero di Materdomini alle porte di Nocera 16; uomo di valore e ambizioso, eletto abate di S. Maria del Patirion in Calabria, era stato trattenuto a Roma dal suo superiore generale, il Rev.mo P. Giuseppe de Pozzo, quale segretario io dell’Ordine: intimamente diviso tra gli onori abaziali e la vita missionaria, abile e influente, conosceva le porte giuste e le scalinate segrete della curia romana.

Accolse i nostri viaggiatori a braccia aperte, ospitandoli in due camere messe a disposizione dall’amico Don Giuseppe Rosa, diacono di

 

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Nocera, e mettendosi con premura a loro disposizione. Troveranno altri preziosi aiuti a S. Maria ai Monti tra i Pii Operai: i padri Panzuti, rettore, Sergio, consultore del Sant’Officio, Longobardi e... Sanseverino, L’ex - novizio e studente di Ciorani, Deliceto e Pagani.

Come prima aveva archiviato con cura quelle di Falcoia, così ora Alfonso conservò le venticinque lettere, non smarritesi lungo la strada, con le quali Villani lo tenne al corrente sui quattro mesi di pratiche 17: sorprese (il carovita, la burocrazia!), fatiche, finezze, momenti di timore, momenti di gioia di Don Andrea e del suo compagno; benevolenza degli eminentissimi Antonio Gentili, Domenico Orsini e soprattutto Gioacchino Besozzi, cistercense, cardinale ponente, canaglieria del sostituto ai Brevi, un certo Fiore, che tenterà di falsificare la lettera apostolica finale, perché risultassero approvate solo le Regole non già l’Istituto; infine servizi disinteressati ed efficaci di Sanseverino e di Muscari.

Sfortunatamente Villani non conservò le risposte del suo superiore. Leggendo le sue lettere, sembra che Alfonso non gli abbia mai dato un consiglio o una direttiva, ma, facendo pieno affidamento, si sia limitato a pregare e a implorare da tutte le parti: “Pregate ogni giorno, per le cose nostre, Maria, perché ora si sta trattando l’approvazione nostra in Roma. Ve lo dico per obbedienza18.

Frattanto, quando non era in missione, si divideva tra Ciorani e Pagani, dove in novembre fu trattenuto da una congestione polmonare e dove poteva finalmente attardarsi con gioia.

Infatti, mentre i suoi “plenipotenziariprendevano la strada di Napoli e di Roma, si spense finalmente a Pagani la guerra senza tregua nella quale da cinque anni si erano affrontati tanti odi accaniti e simpatie ardenti. Lo stesso Consiglio di Stato, che poco prima aveva rifiutato l’approvazione alla congregazione, si pronunziò in suo favore nel processo di Pagani, dando torto ai Contaldi nelle loro pretese tendenti a farsi restituire la casa e le rendite concesse alla fondazione; il “conventoera stato costruito con l’entusiasmo e la generosità del popolo su un altro terreno, comprato da Sportelli. Da lungo tempo Alfonso voleva, per amor di pace e malgrado la sua povertà, rinunziare alla donazione Contaldi, ma il vescovo di Nocera, Mons. Volpe, si era sempre opposto, rifiutandosi di favorire la cattiva fede e l’insolenza dei congiurati.

Ora però che essi erano confusi e i padri; ben stabiliti, il prelato lo lasciò fare e Alfonso strappò dinanzi a Contaldi l’atto di donazione, chiedendo solo di pagare, non in forza di giustizia ma a titolo di elemosina, i 900 ducati dovuti all’imprenditore.

Un disinteresse così inaspettato disarmò anche i peggiori e la gratuità ripristinò tutto d’un tratto la pace dove l’ingordigia - sempre essa! - aveva attizzato la guerra 19 .

 

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Se i grandi santi si affermano nelle grandi occasioni, spesso circostanze di minor conto non sono meno rivelatrici. Nello stesso autunno 1748 Liguori si recò a Sarno, a due leghe da Ciorani, con il p. de Robertis, attesi dal vescovo Mons. Francesco de Novellis, ex‑segretario delle Apostoliche Missioni, per predicare lui ai sacerdoti e Celestino ai seminaristi. “Nell’andarvi, racconta de Robertis, vi fece la sua nobil comparsa al suo solito con mantello e sottana rattoppata, e con mantello da stare meglio indosso al più mendico, e povero del mondo, che ad un semplice pretazzolo, non che ad un missionario capo di Congregazione, e nato cavaliere di piazza napolitana, e colla barba che la mattina prima di partire o giorni avanti colla forbice esso medesimo si aveva alquanto sbassata, ma tutta a scala ineguale tirando i solchi non da levante a ponente, o settentrione e mezzogiorno, ma da questo a levante, che la sola vista moveva a disprezzo e derisione.

Il vescovo con franchezza, e senza veruno riguardo né all’età avanzata né alla superiorità dell’intiera Congregazione né alla condizione di cavaliere, né alla fama che correva di servo di Dio per ubbidienza - notate il termine - l’ordinò che s’avesse fatta radere la barba.

A tal inaspettato c non immaginato avviso chinò la testa, ubbidì prontamente, senza replica, onde venuto il barbiere, e stando a sedere su d’una sedia entrò il detto P. D. Celestino, il quale in vederlo senza parlare parlò con un atto ammirativo, il quale penetratosi da D. Alfonso al primo incontrarsi occhi con occhi con detto padre disse: sono dieci anni, che non m’agio fatto la barba20.

Nemmeno per recarsi in udienza da re Carlo, eppure questi non gli aveva fatto alcun rilievo; ma gli ecclesiastici sono senz’altro meno discreti: meglio, decisamente meglio che fosse Villani a figurate nelle anticamere romane.

 

Il buon Villani venne a capo della sua missione in un tempo che stupì gli intenditori. Il l8 gennaio 1749 il cardinale Besozzi firmava per la S. Congregazione del Concilio un rapporto largamente elogiativo, nel quale, dopo Spinelli, sottolineava l’originalità e l’importanza dei “ ritornimissionari; L’Istituto però non avrebbe più portato il nome del SS. Salvatore, per evitare ogni confusione con i canonici regolari omonimi, ma sarebbe stato la “Congregazione del SS. Redentore”. F così avremo i “Redentoristi”.

“Tutto il sostanziale è rimasto salvo” aveva scritto Villani il 17 dicembre 1748, anche se in un ordine diverso. Era stato troppo ottimista, perché in realtà era scomparsa la struttura delle dodici virtù - povero Falcoia! - con i capitoli relativi alle tre virtù teologali (non si deve confondere l’ordine mistico con quello canonico!) e in primo piano era salito l’apostolato missionario (e questo sta bene). Si

 

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avevano perciò tre parti: 1) Delle missioni ed altri esercizj; 2) Degli obblighi particolari de’ congregati (voti di povertà, castità, ubbidienza e perseveranza, vita di preghiera e di umiltà, di silenzio e di mortificazione, di cultura spirituale e apostolica); 3) Del governo della Congregazione.

I poteri del rettore maggiore - eletto a vita - risultavano ampliati. Venivano soppresse alcune pratiche stimate puerili (ad esempio, il cambiare camera ogni anno); via anche, secondo il desiderio di Spinelli, il voto di andare agli infedeli (e vero, si tratta di un semplice problema di accento, dato che il voto di ubbidienza può già bastare, ma è un accento importante).

Infine le conferenze bibliche settimanali furono sostituite dall’obbligo per ognuno di tenere in camera la Sacra Scrittura .

Sfortunatamente si ricadeva nella dualità falcoiana, rigettata dal fondatore:

“Il fine dell’Istituto del Santissimo Redentore altro non si è che di unire sacerdoti secolari, che convivano e che cerchino con impegno imitare le virtù ed esempj del Redentore nostro Gesù Cristo, specialmente impiegandosi in predicare a’ poveri la divina parola ”.

Primo fine: L’imitazione delle virtù di Gesù Cristo. L’evangelizzazione dei poveri diventava una “specializzazione” di questa imitazione del Redentore, riapparendo perfino, nel capitolo dedicato alle missioni, come un altro fine: “Essendo l’impiegarsi nelle missioni uno de’ principali fini dell’Istituto....”.

Così le case saranno fuori dei centri abitati non per essere più vicine ai contadini e più accessibili alla povera gente, ma perché i congregati “meno distratti ed impediti attendano all’acquisto di quello spirito - (spirito di imitazione suppongo) - che è tanto necessario negli operarj evangelici ed alla coltura della gente più abbandonata21 .

La routine mentale del tempo ronzava: “Ogni Istituto ha due fini: il primo è la santificazione di sé, l’altro la santificazione de’ popoli ed il bene della Chiesa”. “No, aveva detto Liguori, non vita mista, contemplativo - attiva, ma vita cristiana, alla san Paolo: Vivo ìo.. ma è il Cristo che vive in me, il Cristo redentore se sono redentorista”. Si trattava di integrazione non di imitazione.

I riflessi burocratici non avevano permesso di cogliere l’intento, semplice e originale, che suscitava lo Spirito. Alfonso si inchinerà dinanzi a un testo proveniente dall’autorità del papa, troppo felice della ricevuta approvazione; però non si troverà mai la parolaimitazione” nelle lettere che rivolgerà ai suoi figli.

 

Ma riprendiamo il filo del racconto. A che punto si era con l’approvazione?

 

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Il 28 gennaio 1749 Villani stava scrivendo al rettore maggiore una lettera piena di delusione, perché il rapporto Besozzi sull’Istituto e le sue Regole programmato dalla Congregazione del Concilio per la seduta del 25 non aveva potuto trovare posto in un ordine del giorno troppo denso: “ Dio sa l’affanni, ed i crepacuori, ma tutto è poco, il peggio si è che in questo Carnevale non si tiene Congregazione, e Dio sa quando si terrà, onde sempre è piena d’affari: Così vanno le cose di Roma, ecc. ecc.”. Si presentò a questo punto un emissario del cardinale Orsini con in mano un biglietto, Villani lesse e... cadde in ginocchio poi scrisse all’inizio della lettera: “Gloria Patri! L’approvazione della Congregazione si è avuta. Ora è venuto il servitore d’Orsini da lui mandato”. Riprendendo quindi il filo del suo racconto al punto in cui l’aveva lasciato, spiegava: “Ora soggiungo. Orsini m’ave mandato un Servitore apposta con un biglietto ove mi la notizia che la Congregazione ave approvate le nostre Regole... ora s’aspetta l’Approvazione del Papa, ma il Signore ch’ave fatto l’uno farà l’altro ”. Su preghiera di Orsini, il cardinale Gentili aveva regolato la cosa in udienza privata: per i piccoli Redentoristi le Loro Eminenze s’erano imposte qualche ora di straordinario. Il rescritto del 27 gennaio, retrodatato 25, giorno della sessione ufficiale, dava al papa un parere favorevole all’approvazione dell’Istituto, delle Regole e delle Costituzioni della Congregazione del SS. Redentore 22 .

A Ciorani intanto, dove si bruciava per l’ansia di notizie sulla seduta cardinalizia, annunziata da Villani (lettera del 21 gennaio) per sabato 25, “i momenti sembravano secoli ad ognuno”, testimonierà Tannoia, che era presente 23.

Il corriere finalmente portò una lettera con l’indirizzo di mano del Villani e Alfonso, commosso, dicendo sicuramente il suo amen interiore, l’aprì lentamente. Le parole iniziali gli saltarono subito agli occhi: “Gloria Patri! L’Approvazione della Congregazione si è avuta ”. Gettatosi faccia a terra in un momento di intenso ringraziamento, fatta suonare la campana, raccolse in chiesa i suoi fratelli per un Te Deum pieno di giubilo. Poi commentò il salmo 80, versetto 15: “Dio degli eserciti... visita questa vigna, proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato”.

Mancava solo il placet del papa. Il 25 febbraio il cardinale Domenico Passionei, segretario ai Brevi, promulgò la lettera apostolica Ad Pastoralis Dignitatis fastigium, che approvava l’Istituto e le Regole della Congregazione del SS. Redentore. Il 28 ultima lettera di Villani: “ Mercoledì giorno dedicato a Maria SS. ed a S. Giuseppe ò ricevuto il Breve sotto scritto; e suggellato, ed ora sì che possiamo dire essere approvata la nostra Congregazione e non prima. Sia tutta la gloria di G. Cristo, Maria e S. Giuseppe... Domani Sabato coll’aiuto del Signore saremo da N. Signore (il papa)...”.

 

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La gioia di Alfonso non avrebbe avuto ombre se, per volontà di Falcoia e in forza dell’elezione da parte dell’assemblea del 9 maggio 1743 non fosse stato per principio rettore maggiore a vita.

Durante le trattative romane, aveva tentato di farsi dimettere d’ufficio dalla Santa Sede come sappiamo da questa risposta di Villani datata 4 febbraio 1749: “Padre mio, Dio benedetto vuole che V. Paternità porti questa Croce fino alla morte, ed opporsi, stimo esser cosa direttamente contro la Volontà di Dio.

Ora più che mai questa povera navicella ha bisogno d’un buon Nocchiero e povera V. Paternità sente lamenti. Pazienza Dio benedetto ci aiuterà; o perché avremo a diffidarci se è opera sua. Padre mio fate Core grande non vi perdete d’Animo, ora è tempo di slargare il Core. Si vede che il Signore ne tiene una Cura particolare, e lo vedrà V. Paternità coll’esperienza).

Il 7 marzo Villani e Tartaglione, lasciata Roma, andarono a Loreto a ringraziare la Madonna, poi rientrarono a Napoli, quindi a Pagani. Un “ romano ” li seguirà ben presto: L’abate Giuseppe Muscari il quale aveva tanto efficacemente spinto le pratiche e tanto supplicato “per le viscere di Gesù Cristo” che lo si ricevesse, anche come semplice fratello, che Alfonso, su istanze di Villani, aveva finito per cedere, benché per principio non aprisse la porta agli instabili, che avevano già sperimentato altre comunità. Autorizzato dal papa a cambiare famiglia religiosa, dispensato dal noviziato da parte del rettore maggiore, il prestigioso abate fece i voti da Redentorista il 1" giugno a Roma nelle mani del delegato di Alfonso, il cardinale Orsini, per evitare l’exequatur napoletano sulla dispensa papale e raggiunse Ciorani in estate.

Il giovane Sanseverino, che aveva anche lui lavorato per la messa a punto delle Regole, implorò ugualmente il suo ritorno in congregazione, ma questa volta il superiore non ritenne di poter cedere, scusandosi: “Non conviene siffatto disgusto a’ Padri Pii Operarii”. Senz’altro temeva anche la sua incostanza, anche se ci sono vere vocazioni al cambiamento: Sanseverino, preconizzato prima vescovo di Alife (1770), diverrà poi arcivescovo di Palermo (1776) 24.

A Napoli l’approvazione pontificia diede prestigio all’Istituto e si ebbe subito un affluire di eccellenti giovani e di valenti sacerdoti. Mannarini tentò ancora una volta di rientrare e 1’8 marzo, felicitandosi con Liguori per l’approvazione, riparlò di unione, incontrandosi poi con lui a Ciorani. In maggio a nome delle loro quattro case, il P. Geronimo Manfredi, assistente di Don Vincenzo, rinnovò la domanda di ammissione e Alfonso, commosso, consultò i suoi confratelli, il cui comune sentimento fu di rifiutare. Manfredi e altri soggetti di valore fecero allora domande individuali: “Se ricevo questi, rispose Liguori va a crollare quella Congregazione, perché questi sono, come la base,

 

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che la sostengono”. Mannarini infine fu costretto ad ammettere che la pagina era stata voltata per sempre 25.

 

Per accettare le Regole pontificie con un atto solenne di tutto l’istituto, il 1 ottobre 1749 Liguori convocò a Ciorani l’assemblea generale dei 34 padri che allora contava la congregazione; quelli trattenuti con i fratelli dal lavoro in missione e nelle case inviarono per iscritto il loro pieno accordo con tutto ciò che l’assemblea avrebbe fatto 26 .

L’assenza più senti a fu quella di Sportelli, che dieci mesi prima estenuato dalle missioni, durante una lunga cavalcata solitaria da Bisaccia a Ciorani tra la neve e il vento, era stato gettato a terra da un colpo apoplettico. Per fortuna... due banditi, accorsi per spogliarlo, si commossero dinanzi al prete, a terra, emiplegico:

- Che cosa è, Padre, ti metti forse paura?

- Figli benedetti, balbettò l’umorista santo, chi ha una vita intiera, ha una intiera paura; io che ne ho mezza, ho mezza paura.

Trasportato a Ciorani, poi ai bagni di Ischia, passava ora a Pagani gli ultimi suoi mesi nel pieno abbandono in Dio e nel sorriso 27 .

Mancava quindi, purtroppo, in questi grandi giorni accanto ad Alfonso colui che Alessandro De Risio chiamerà “il figliuolo primogenito della nostra Congregazione”; figlio primogenito insieme a Mazzini, aggiungiamo noi, e senza dimenticare Vito Curzio di santa memoria.

L’assemblea debuttò con un fatto incredibile. L’ultimo venuto, Muscari, forte del suo prestigio di esperto e di abate, decise di prenderne la conduzione con sorprendente sfrontatezza, senza la minima opposizione del rettore maggiore, che quasi sembrò suo complice.

Dotato di una parola forte e abbondante, disinvolto, spiegò che, essendo l’Istituto nato come una seconda volta, occorreva che tutte le cariche ricevessero nuova legittimazione mediante un’elezione nella forma delle Regole approvate; ogni superiore doveva perciò dimettersi, compreso il rettore maggiore non designato formalmente da Benedetto XIV.

Dopo una predica di Cafaro, Alfonso, messosi in ginocchio, chiese perdono delle negligenze commesse nel suo governo e rimise spontaneamente la sua carica nelle mani dell’assemblea, seguito dagli altri responsabili “con una pace e quiete universale”.

L’assemblea, non avendo più un capo, elesse un presidente provvisorio, il quale per assicurare l’obiettività delle votazioni non doveva avere alcuna possibilità per il generalato. “La sorte cadde sul più giovane”, il P. G. Landi, 24 anni.

Il pomeriggio dello stesso giorno (1 ottobre), si passò all’elezione legittima del Rettore Maggiore. Il primo scrutinio all’unanimità elesse Liguori con 23 preferenze su 25 votanti: mancava solo il suo voto e quello - nessuno può togliermelo dalla testa, anche se il segretario

 

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Cafaro non dice niente - di Muscari. Così la votazione lasciò due grandi delusi, Alfonso e l’ex‑abate. Il futuro avrebbe detto perché.

Il 2 ottobre, giovedì, si decisero alcuni problemi di procedura riguardo al futuro capitolo generale e l’indomani mattina furono eletti L’ammonitore del rettore maggiore, Villani, e il segretario generale, Cafaro (per diritto anche consultori generali), il procuratore, Margotta, e, L’uno dopo l’altro, altri quattro consultori (dovevano essere sei), Sportelli (sì, per primo l`amatissimo Sportelli, malgrado la sua assenza e la sua congestione cerebrale!, Rossi, Mazzini e... Muscari; in seguito i vocali delle case, Tortora, Ferrara, de Robertis e Scibelli; quindi i Supplenti per Sportelli e i rettori (che facevano già parte del capitolo in quanto consultori generali), D’Antonio, Fiocchi, Genovese, Muscarelli e Landi. Questi “sedicicostituirono il primo capitolo generaleregolare”, cui spettò continuare i lavori. L’assemblea generale poi fu sciolta .

Prima di separarsi a loro volta 1’8 ottobre, i capitolari precisarono l’applicazione di una sessantina di punti delle Regole e Costituzioni. La Madonna, “a cui, diceva la regola, dovranno tutti professare speciale divozione e tenerezza”, sarà la “Principale Protettrice” della congregazione sotto il titolo dell’Immacolata Concezione (10) e tutti i sacerdoti faranno voto di difendere questo suo privilegio (18) Il capitolo richiamò “L’antica nostra costumanza” delle virtù del mese (43), piantò i picchetti dell’iter degli studi: un anno di studi umanistici con la retorica, poi la filosofia in Pourchot, infine (sempre la Sorbona!) la teologia in Habert e la morale (46), raccomandando di seguire in teologia l’insegnamento di san Tommaso (17). Queste scelte furono del rettore maggiore non di Muscari e il ritorno al Compendium di Habert (1714), malgrado le sue simpatie giansenizzanti, testimonia che il P. Cafaro non aveva potuto portare a termine quel manuale di dommatica che tanto aveva assillato le sue messe e le sue meditazioni.

Alfonso era un esecutore. Il 19 ottobre, lasciando gli studenti umanistici a Ciorani in mano del P. Ferrara, trasferì filosofi e teologi (una dozzina) a Pagani sotto l’autorità spirituale di Mazzini e l’insegnamento di Muscari. Il vescovo di Nocera, Mons. Volpe, Don Domenico Di Maio, parroco di Pagani, Don Tommaso Tortora, abate di Angri, e alcune famiglie generose promettevano aiuti per il loro sostentamento 28.

 

L’Istituto entrava in una nuova era. All’inizio dell’assemblea generale tutti i soggetti professi avevano accettato la Regola di Benedetto XIV, rinnovando secondo il suo tenore i voti di castità, povertà e ubbidienza, insieme al voto e giuramento di perseveranza. Le Regole e Costituzioni, per la prima volta ben fissate, stampate e lette in tutte le case, resteranno il testobase per la vita comunitaria dei Redentoristi

 

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del mondo intero fino al Vaticano II. Paradossalmente, per più di duecento anni e in tutti i continenti, saranno in vigore prescrizioni particolari che avrebbero dovuto limitarsi ad essere solo degli statuti della provincia napoletana.

Per Alfonso “l’osservanza regolare” non significava bagattelle disciplinari, ma stile generale di “vita apostolicacomunitaria, cioè di carità, di preghiera intensa, pubblica e privata, di distacco totale nella condivisione delle strettezze dei poveri, di lavoro faticoso al servizio della loro santificazione, favorito da un’atmosfera di silenzio e unificato verso lo stesso fine dall’ubbidienza, che non era perdersi dietro meticolosità ma “sì” all’opera comune, la redenzione, nell’annegazione di sé. Sarnelli, Cafaro, Margotta, Garzilli e tanti altri, uomini fatti e santi già ben cesellati, al loro arrivo non ebbero problemi di adattamento: non entravano in un balletto di minuziose osservanze, ma in una grande corrente, in cui si gettarono a corpo perduto per continuare il Cristo evangelizzatore dei poveri.

Compito dei capitoli è adattare i testi di applicazione al variare dei tempi e dei luoghi, ma resta sempre inalterabile la fonte, dove occorre andare a bere e tuffarsi: il fondatore, la sua vita, i suoi scritti, in particolare i tre opuscoli stesi nella scia dell’approvazione e del capitolo per i giovani Redentoristi e pubblicati a Napoli nel 1749 e 1750: Avvisi spettanti alla vocazione religiosa, Considerazioni per coloro che son chiamati allo stato religioso; Conforto a’ novizj per la perseveranza nella loro vocazione. In questi libretti, pur contrassegnati dall’attualità (la miseria delle case esigeva eroi di annegazione, le famiglie erano il grande nemico delle vocazioni, ecc.), come in nessun’altra parte, il fondatore esprimeva chiaramente il carisma:

“ Chi è chiamato alla congregazione del ss. Redentore, non sarà mai vero seguace di Gesù Cristo né si farà mai santo, se non adempirà il fine della sua vocazione e non avrà lo spirito dell’Istituto, ch’è di salvare le anime e le anime più destitute di aiuti spirituali, come sono le povere genti della campagna. Questo già fu l’intento della venuta del Redentore, il quale si protestò: Spiritus Domini... unxit me evangelizare pauperibus29.

 

 


 

1

 

 





p. 525
1 TANNOIA, 1, pp. 185-186; DE MEULEMEESTER, Bibliographie, 1, pp.61-62;

S. ALFONSO, Adnotationes in Busetmbaum, coll. 1029-1032.



p. 526
2 SH 27 (1979), pp. 287 290.



p. 528
3 S ALFONSO, Lettere, I, pp 119-151: SH 17 (1969), pp. 215223.



4 TELLERIA, 1, p. 445, n 16.



5 Leggere il Ristretto in SH 16 (1968), pp. 385-399



p. 529
6 Citato da TANNOIA, I, p. 209.



7 SH 16 (1968), pp. 284-285.



8 SH 15 (1967), pp. 105-106, 108, n 8.



p. 530
9 Documenta miscellanea p 11; sei 16 (1968), p. 349.



10 Documenta, pp. 58‑59; SH 16 (1968), p. 400



p. 533
11 S ALFONSO, Lettere, I, pp.154‑157.



12 documenta, pp. 75-78



13S ALFONSO”, 12 (1941), p. 199.



14 DE RISIO. croniche, p. 156.



15 SH 21 (1973), pp. 284 291.



16 cf. DE MEELEMEESTER, Origines, II, p. 292; “S. ALFONSO”, 12 (1941), pp. 196-200, 211-213.



p. 534
17 Pubblicate in DE MEULEMEESTER, op. cit., pp. 274-315.



18 S ALFONSO, Lettere, I, pp. 158.



19 TANNOIA, 1, pp. 205206; cf. SH 12 (1964), pp. 237238.



p. 535
20 SH 15 (1967). p. 107



p. 536
21 SH 16 (1968), pp. 413-414. Ringrazio il P. S. Majorano, la cui analisi minuziosa della storia e del contenuto di questi testi mi è stata molto utile.



p. 537
22 Cf. DE MEULEMEESTER, op. cit., p. 274.



23 TANNOIA, I, pp. 214-215; situa però la scena dopo l’approvazione papale, con evidente   

confusione di ricordi.



p. 538
24 S ALFONSO, Lettere, I, pp. 163; TANNOIA, 1, pp. 216217.



p. 539
25 TANNOIA. 1, P. 217.



26 CF. TANNOIA, I, pp. 217219; LANDI, in DE MEULEMEESTER, op. cit. 316-323; Acta Capitulorum, pp. 3-23.



27 BENEDETTI, Posizioni e articoli per... P. Cesare Sportelli, n. 68.



p. 540
28 TANNOIA , I, pp. 218-219.



p. 541
29 Opere, Marietti, IV, pp. 429-430.



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