Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
Lettura del testo

PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762)

35 - IL SERVO DI MARIA (1750-1756)

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35 - IL SERVO DI MARIA

(1750-1756)

 

Il seminarista Alessandro Di Meo era un giovane prodigio, la cui intelligenza e memoria lasciavano stupefatti i superiori, come i suoi colpi di testa li facevano disperare.

- Lo mando via, fu costretto a dire un giorno il vescovo di Montemarano, è impossibile cavarne un prete e neppure un buon cristiano.

- Se facciamo questo, implorò il vicario generale, va certo al reprobo senso, e perdiamo un talento, che non appare. Ci penseranno gli anni a moderarlo nella sua impetuosità.

Più tardi fu di passaggio il P. de Liguori e, quando stava per rimettersi in sella, malgrado tutte le sue proteste, Mons. Innocenzo Sanseverino considerò un onore reggere la staffa; per l’ambizioso Alessandro fu come una folgorazione: “Dunque la santità è tale, che esige rispetto dai medesimi Vescovi!” e partì per Ciorani. Eravamo nel gennaio 1748.

Al noviziato, dove aveva creduto trovare la pace, il combattimento fu duro sotto gli assalti a ondate furiose dei rimpianti: “Qui stai lontano dai tuoi genitori, dai tuoi amici, da qualsiasi piacere. Non sarai mai altro che una nullità. Nel mondo invece diventeresti una celebrità…”. La battaglia fu aspra e la Madonna, ardentemente invocata, lo sostenne, ma... Alessandro scrisse di nascosto alla famiglia annunziando il suo prossimo ritorno. Una bella sera, addio celletta! Scese la scala del noviziato gettò passando uno sguardo ardente verso il quadro dell’Addolorata, che ancora oggi si erge sul pianerottolo, mormorando:

- Mamma mia, non ce la faccio più!

- Figlio, ove vai? Se lasci la Congregazione, sei certo dannato.

Il giovane cadde in ginocchio:

- Mamma mia, eccomi qua: ti voglio servire per fin che vivo e voglio amarti per tutta l’Eternità 1.

Nello stesso periodo (1749) il fondatore scriveva per i suoi novizi redentoristi nell’ultima delle quindici Considerazioni per coloro che son chiamati allo stato religioso:

 

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Maria SS. ama tutti gli uomini con tale affetto, che non vi è né vi può essere dopo Dio chi la superi o l’uguagli nell’amore... quanto dobbiamo pensare che la gran regina ami i religiosi che han consagrata la loro libertà, la lor vita e tutto all’amore di Gesù Cristo?... Costoro vede spesso a’ suoi piedi, attenti ad invocarla e domandarle grazie, e grazie tutte conformi a’ suoi santi desiderj, cioè di perseveranza nel divino servigio, di fortezza contro le tentazioni, di distacco dalla terra, di amore verso Dio. Ah come possiamo dubitare ch’ella non impegni tutta la sua potenza e la sua misericordia in beneficio dei religiosi? E singolarmente di noi che ci troviamo in questa santa congregazione del ss. Redentore, dove si fa (com’è noto) una special professione di onorar la Vergine madre colle visite, col digiuno nel sabato, colle mortificazioni particolari nelle sue novene ecc., e col promuovere da per tutto la sua divozione colle prediche e colle novene in suo onore?”.

 

Da vent’anni Alfonso predicava ogni sabato le glorie di Maria. Le sue glorie? Prima di tutto la sua misericordia, perché amare è la gloria dell’amore. Nutriva perciò di letture e di meditazioni una predicazione, che per non ripetersi doveva essere inesauribile. Fin dal 1734 a Villa aveva messo mano a un libro che condensasse il meglio della tradizione mariana sia teologica che spirituale 2 e dopo sedici anni di paziente lavoro di orefice che cerca, sceglie, taglia e incastona pietre preziose, all’inizio dell’ottobre 1750, pubblicò Le Glorie di Maria, dedicandole al suo divino Figlio:

“Mio amatissimo Redentore e Signor Gesù Cristo... gradite questo mio picciolo ossequio dell’amore, che ho per voi e per questa vostra Madre diletta. Voi proteggetelo con far piovere luci di confidenza e fiamme d’amore a chiunque lo leggerà verso questa Vergine immacolata, in cui voi avete collocata la speranza e ‘l rifugio di tutti i redenti. E per mercede di questa povera mia fatica donatemi, vi prego, quell’amore verso di Maria, ch’io ho desiderato con questa mia Operetta di vedere acceso in tutti coloro che la leggeranno”.

Volgendosi poi a Maria, testimoniava l’esperienza della sua già lunga vita - tutto gli era venuto da lei - , da cui era scaturita la convinzione centrale di tutta la sua predicazione e di quelle pagine: a Madonna è mediatrice di tutte le grazie.

“A voi mi rivolgo poi, o mia dolcissima Signora e Madre mia Maria: voi ben sapete ch’io dopo Gesù in voi ho posta tutta la speranza della mia eterna salute; poiché tutto il mio bene, la mia conversione, la mia vocazione a lasciare il mondo, e quante altre grazie ho ricevute da Dio, tutte le riconosco donatemi per vostro mezzo. Voi già sapete ch’io per vedervi amata da tutti, come voi meritate, e per rendervi ancora qualche segno di gratitudine a tanti benefizi che m’avete fatti, ho

 

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cercato sempre di predicarvi da per tutto, in pubblico ed in privato, con insinuare a tutti la vostra dolce e salutevole divozione. Io spero di seguire a farlo sino all’ultimo fiato di vita che mi resta; ma vedo che per gli anni avanzati e per la mia logora sanità già si va accostando il fine del mio pellegrinaggio e la mia entrata all’eternità; onde ho pensato prima di morire di lasciare al mondo questo mio libro, il quale seguiti per me a predicarvi e ad animare anche gli altri a pubblicare le vostre glorie e la grande pietà che voi usate co’ vostri divoti”.

Nell’“Introduzione” L’autore si rivolgeva poi affettuosamente al lettore: “Lettore mio caro e fratello in Maria, giacché la divozione che ha spinto me a scrivere e muove or voi a leggere questo libro, ci rende ambedue figli felici di questa buona Madre ”, svelandogli il segreto del suo metodo:

“ Ben io ho osservati innumerabili libri che trattano delle glorie di Maria, e grandi e piccioli; ma considerando che questi erano o rari o voluminosi o non secondo il mio intento, perciò ho procurato da quanti autori ho potuto aver per le mani di raccogliere in breve, come ho fatto in questo libro, le sentenze più scelte e spiritose de’ Padri e de’ Teologi”.

In realtà per sedici anni aveva ascoltato e scrutato la moltitudine immensa della tradizione (padri e teologi, ma anche Bibbia e liturgie scrittori spirituali e popolo di Dio, antichità, Medioevo e tempi moderni ) con la curiosità di un amore ardente, l’onestà di un santo l’esperienza di un mistico, il senso pastorale di un eccellente missionario e infine il rigore di un teologo al quale Pio IX avrebbe decretato il titolo di dottore della Chiesa.

Le sue fonti immediate generalmente erano di seconda mano (autori e raccolte degli ultimi duecentanni), ma sapeva maneggiarle con precisione quando si trattava di stabilire una dottrina, con libertà intelligente del cuore quando invece si trattava di esprimere la pietà 3.

Lo scopo eradare il modo a’ divoti, con poca fatica e spesa d’infiammarsi colla lezione nell’amor di Maria, e specialmente di porgere materia a’ sacerdoti di promuovere colle prediche la divozione verso questa divina Madre”.

Era il tempo dei grossi volumi in folio: il solo maneggiarli assicurava già la cultura fisica a chi avrebbe poi impiegato settimane per leggerli. Apparendo invece in formato dodicesimi, in due parti rispettivamente di 360 e 408 pagine, le Glorie offrivano una lettura “con poca fatica e spesa”. Tutto naturalmente è relativo.

Ed ecco l’intento e il piano dell’opera:

“In questo mio libretto, lasciando agli altri autori il descrivere gli altri pregi di Maria, ho preso per lo più a parlare della sua gran pietà e della sua potente intercessione... E perché nella grande orazione

 

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della Salve Regina, approvata già dalla stessa Chiesa, ed intimata da lei a recitarsi per la maggior parte dell’anno a tutto il clero regolare e secolare, vi si ritrovano a maraviglia descritte la misericordia e la potenza della SS.ma Vergine; pertanto mi sono posto in primo luogo a dichiarare con distinti discorsi questa divotissima orazione. Oltre di ciò ho creduto far cosa grata a’ divoti di Maria, L’aggiungervi le Lezioni, o sian Discorsi sulle sue Feste principali, e sulle Virtù di questa divina Madre; con porvi in fine le pratiche degli Ossequi più usati da’ suoi servi e più approvati dalla Chiesa”.

Infine Alfonso si congedava amabilmente dal suo lettore: “ Addio. A vederci un giorno in paradiso a’ piedi di questa dolcissima Madre e di questo amantissimo Figlio”.

 

Le Glorie di Maria è l’ultimo grande libro europeo, scritto in gloria di Maria”, secondo il parere di Don Giuseppe De Luca (1898-1962), maestro della storia della spiritualità e fondatore a Roma delle Edizioni di Storia e Letteratura e dell’Archivio Italiano per la Storia della Pietà, che aggiunge:

Sant’Alfonso non ha avuto paura di amar la Madonna. L’ha amata con un abbandono, con un impeto, con un fuoco, che hanno scandalizzato i tiepidi. Ha vinto, nei nostri cuori, la battaglia che i protestanti dapprima e poi i giansenisti avevano provocato. Protestanti e giansenisti ci avevano istillato mille scrupoli e mille esitazioni che a nostro malgrado non riuscivamo a vincere... Sant’Alfonso, con la sua dottrina di teologo e di formidabile teologo; con la sua fiammante e ardente anima di devoto incomparabile; col suo genio di scrittore popolare, ha spazzato via gran parte di quelle esitazioni, ha ricondotto l’anima cristiana, dinanzi a Maria, a quella felice libertà dell’amore, che ebbero i nostri fratelli di fede nel Medioevo.

Senza dubbio, molti dei cosiddetti intellettuali, che sono stati i più crudamente feriti dal Protestantesimo e dal Giansenismo, han continuato a rimormorare traendone nuovo pretesto da Sant’Alfonso medesimo (G. De Luca pensava alle diatribe di Doellinger e Reusch [1889], Meffert [1901], Heiler [1923] in Germania; ai libelli di Amsterdam [verso il 1900]; a Meyrick e Littledale in Inghilterra [1854] 4 ecc.).

Quante ne hanno dette di questo glorioso libro! Han detto che è eccessivo, e non hanno capito che il sentimento dell’eccesso derivava in loro dal loro scarso amore, dalla loro freddezza. Non una sola delle proposizioni del Santo può essere addotta in esame e biasimata, a regola di severa teologia. L’eccesso, dunque, non è nella dottrina. È nel tono, essi replicano: e il tono fa la musica.

Verissimo: il tono del libro è caldissimo, e d’un caldo insostenibile. Ma questo è né più né meno

 

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che amore. Ma da quando in qua l’amore dev’essere giudicato da chi non ama?”5.

Il popolo di Dio - umili e sapienti - si ritroverà nella luce e nel fervore de Le Glorie di Maria, che avranno “la maggiore tiratura tra le opere mariane di tutti i tempi: un migliaio di edizioni dal 17506.

 

Eppure, la nascita del libro non fu indolore, come il 12 ottobre 1750 L’autore scriveva al canonico Fontana:

Invio a V. S. Ill.ma il mio povero contraddetto libro della Madonna, uscito finalmente dopo molti stenti, e dopo molti anni di fatica a raccogliere in breve quello che ci sta”7.

Contestazioni? stenti? Non perdiamoci in congetture. Il manoscritto arrivava ai censori e allo stampatore nel gennaio 1750, nello stesso tempo in cui scompariva il famoso Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Gli scontri provocati in trent’anni dalle prese di posizione mariane - o meglio antimariane - del temuto controversista sfociarono in guerra furibonda sulla sua fresca tomba e il P. Francesco Pepe provocava, non avendo più motivo di temere, gli artigli del leone morto, subissandolo sotto la mole delle sue diatribe oratorie. Le dispute in pubblico arrivarono fino allo scandalo, tanto che il Nunzio ne scrisse allarmato nei suoi rapporti alla Segreteria di Stato.

Il libro di Alfonso non veniva a gettare altro olio su tutto quel fuoco? Basta! basta! Finito tra le mani di qualche censore ecclesiastico stanco di tutte quelle controversie o addirittura (chi può saperlo?) partigiano del Muratori, Alfonso impiegò otto mesi per sbarazzarsi di questo critico dalle forbici molto lunghe e per ottenere quale giudice teologico l’amico canonico Savastano 8. Fortunatamente, perché egli era certo il solo che potesse affrontare nobilmente, amichevolmente e ad armi pari il geniale bibliotecario di Modena. Lo fece infatti con il rispetto e la moderazione dei forti.

Alfonso non riteneva Muratori il pericoloso giansenista pensato da alcuni dei suoi avversari o anche da qualche suo biografo. Sapeva che quello spirito universale, gran signore della storia, era un sacerdote fervoroso e zelante, sceso in campo spinto solo dallo “zelo per la casa del Signore” per purificare una religiosità popolare diventata troppo spesso un giardino di rovi e di erbacce, cioè di superstizioni. L’ardente riformatore dava però colpi di zappa troppo forti nelle aiuole della teologia mariana, strappando insieme alla gramigna anche qualche roseto.

Ludovico Muratori, ch’io sempre ho venerato, egli è stato un uomo celebre presso tutta l’Europa... ma verso la Madre di Dio in più luoghi delle sue opere, come ho notato, non ha mostrato tutta quella pietà che conveniva al suo spirito di dimostrarlescriverà nel 1775 Alfonso 9 .

 

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Per restare ai punti nodali, il disaccordo verteva sull’immacolata concezione e sulla mediazione universale di Maria 10.

Toccare questi due punti era colpire il Liguori nel cuore stesso della fede. La sua incomparabile conoscenza della tradizione lo aveva portato nell’avanguardia della Chiesa e già nel 1748 aveva inserito nelle sue Adnotationes in Busembaum due dissertazioni in difesa l’una della concezione immacolata della Vergine e l’altra dell’infallibilità del papa, quando parla ex cathedra in materia di fede e di costumi: i due dogmi che saranno più tardi definiti da Pio IX e dal Vaticano I.

Personalmente Muratori credeva nell’immacolata concezione della Madre di Dio, ma la riteneva una semplice opinione non già una verità di fede. Perciò il “voto di sangue ”, cioè il voto di dare eventualmente anche la vita per questa credenza, gli sembrava invalido, superstizioso e suicida: non si sacrifica la vita per un’opinione!

- Ma anche la Chiesa non celebra una festa liturgica fondandosi su una semplice opinione: lex orandi, lex credendi, la preghiera ufficiale della Chiesa ne esprime la fede. Era l’ultimo argomento addotto dal Liguori al termine di un ampio ragionamento in cui faceva ascoltare la fede comune del popolo di Dio dal concilio di Efeso (431), malgrado qualche palesemente falsa osservazione di un san Bernardo, di un san Bonaventura, di un sant’Alberto Magno e di un san Tommaso.

Per il nostro “Dottore zelantissimo” la fede nell’immacolata concezione di Maria non era un fiore di lusso appuntato amorosamente alla sua corona, perché da vero Redentorista vi vedeva un domma vitale per il mondo redento: quell’innocenza totale, tratta dalla potenza della grazia salvifica in Cristo Gesù dalla nostra umanità come un segno e una promessa, è una primizia per la famiglia umana, che emerge progressivamente dal peccato e certamente un giorno, tranne il rifiuto ostinato, sarà interamente senza macchia. La fede nell’Immacolata era il contrapposto luminoso di quella nel peccato originale e un’attenuazione delle tenebre delle quali i protestanti e i giansenisti pretendevano rendersi conto: la natura umana non è talmente corrotta che Dio non possa far sorgere da essa un fiore di totale innocenza. Questo il primo significato dello Spes nostra salve, posto da Alfonso sul frontespizio de Le Glorie di Maria sotto un espressivo disegno, da lui stesso tracciato, di colei che è la tutta bella e la tutta santa. Del resto, partendo proprio dalla sua visione dommatica della “redenzione”, aveva dato l’Immacolata come celeste patrona ai suoi “Redentoristi11.

Questa speranza infatti è più di una promessa, è una forza attiva nel cuore del mondo ancora nel peccato. Dal suo “sì” all’incarnazione, soprattutto dalla sua “com-passione” sul Calvario, l’Immacolata è madre nostra, vita nostra: giorno per giorno, per tutti e per ciascuno, è mediatrice del perdono, della grazia, di tutte le grazie.

 

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Questo era il secondo punto nodale su cui Muratori indebitamente restringeva il cuore di Dio e la speranza degli uomini. Con lo pseudonimo di Lamindo Pritanio, nel 1747 aveva pubblicato il libro Della regolata divozione dei cristiani, una vigorosa requisitoria contro le pratiche di un pietismo spesso aberrante. Anche qua però, mentre attaccava con molta pertinenza ciò che chiamavadivozione indiscreta” gli capitava di strappare qualche pietra dal muro che voleva solo scrostare. Devozione indiscreta, scriveva, è quella che, dimentica che “Maria non è Dio”, arriva ad affermare che ella “ comanda in cielo ”; devozione indiscreta anche quella che pretende “ niuna grazia. niun bene venire a noi da Dio se non per mano di Maria”; devozione indiscreta infine quella che esagera la portata del ricorso alla santa Vergine al punto da sostenere che “chi è suo devoto non potrà dannarsi”, mentre con san Paolo (1 Tim. 2, 5) non riconosciamo che un solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesu Cristo 12.

Alfonso gli rispose punto per punto. “Diciamo che Maria in cielo, benché non possa più comandare al Figlio, sempre non però le sue preghiere saran preghiere di madre”. Quanto all’unico mediatore, “altra è la mediazione di giustizia per via di merito, altra la mediazione di grazia per via di preghiere. Altro parimente è il dire che Dio non possa, altro che Dio non voglia concedere le grazie senza l’intercessione di Maria”. Grazie di protezione, di santità, ma prima di tutto di misericordia: “Deve temere di perdersi quel peccatore, al quale la stessa madre del giudice si offerisce per madre ed avvocata?... Va’ ricorri a Maria, e sarai salvo” 13.

In questo senso andava inteso il titolo di corredentrice. Ne Le Glorie di Maria Alfonso lo evitò attentamente per non far ribollire maggiormente la bile del Muratori ancora in vita alla fine del 1749 quando terminò il manoscritto, se ne servì invece più di venti volte in seguito. In piedi sotto l’albero dal quale pende il frutto della vita, la nuova Eva coopera alla redenzione come la donna delle origini aveva concorso alla caduta. Immacolata, “schiaccia la testa del serpente” e diventa “la Vivente, perché è lei la madre di ogni vivente” (Gen. 3, 15 e 20). Nella mediazione universale ella attua questa sua maternità spirituale: Maria, madre di Dio, genera tutte le “membra del Cristo” e, da vera madre, le nutre, le rialza, le “eleva”, anche e soprattutto le più infelici, le più peccatrici.

Se ancora fosse vissuto, Muratori si sarebbe arreso alle ragioni di Alfonso? Il nipote Francesco Soli e, molto più tardi, un certo abate Leoluca Rolli si preoccuparono di rispondere al suo posto, ricevendo entrambi, nel 1756 il primo e nel 1775 il secondo, delle Risposte misurate e irrefutabili.

Con Le Glorie di Maria, scrive Romeo De Maio, “ s. Alfonso

 

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costituiva Napoli il massimo centro europeo di idee e dibattiti intorno alla vita spirituale. Di tutte le devozioni mariane, quella dunque ch’ebbe maggiore espansione e che assunse più significato, fu verso l’Immacolata Concezione. A diffonderla e ad esprimerla più che gli scritti popolari... valevano le tele di Solimena, dei suoi discepoli e di tutti gli altri accademici, e anzitutto le quattordici poesie mariane di s. Alfonso. I versi di O bella mia speranza / dolce amor mio Maria (1737) sono i più popolari, mentre i trenta senari di Sei pura sei pia, / sei bella o Maria (1750) sono agili e pur solenni e plastici, un rapimento salutare14.

 

E’ stato rimproverato all’autore de Le Glorie di mancare di senso critico nel vaglio dei quasi centotrentaesempiposti al termine delle sue riflessioni e riassunti in appendice. L’uso degli “esempiera, lo ricordiamo, una maniera di procedere cara a Filippo Neri e si trovava a suo agio nell’esuberanza del barocco. Certamente il P. Malebranche, i Bollandisti, Tillemont, Dom Mabillon e suoi Maurini - per non parlare del Muratori - li avrebbero passati al setaccio epurandoli con severità. Ma questa via del futuro era allora stata aperta troppo recentemente per essere ben nota e per imporsi negli scritti spirituali. Alfonso da parte sua propendeva a credere all’autenticità degli esempi riportati .

Conforme è debolezza, egli scriveva, il dar credito a tutte le cose, così all’incontro il ributtare i miracoli che vengono attestati da uomini gravi e pii, o sente d’infedeltà, pensando che a Dio sieno impossibili, o sente di temerità, negando il credito a tal sorta d’autori. Possiamo dar fede ad un Tacito ed uno Svetonio, e possiamo negarla senza temerità ad autori cristiani dotti e probi?”15.

Tuttavia Alfonso nel prendere tali esempi, come la maggior parte delle citazioni patristiche, dagli “autori cristiani dotti e probi” del XVII e XVIII secolo non pretese far opera di storico, ma di teologo e di spirituale. Gli rimprovereremo di non averli passati al vaglio della critica moderna, oppure li respingeremo troncandoli come protuberanze morte o di poco gusto? Sarebbe non capirne la portata teologica e pastorale. Che il racconto evangelico del buon samaritano sia storico. come la maggior parte dei Padri della Chiesa sembra ritenere, o sia semplice parabola, come a noi oggi appare evidente, la lezione di divina sapienza in esso contenuta resta sempre la stessa. Analogamente, storici o leggendari i racconti de Le Glorie di Maria conservano tutta la verità che Alfonso vi lesse insieme a tutta la Chiesa che li trasmetteva: una verità non storica ma dommatica, come quella, ad esempio, che lungo tutto il Medioevo, attraverso il teatro, i predicatori, i trattati spirituali, le vetrate e i bassorilievi delle cattedrali, la tradizione cristiana

 

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aveva perpetuato nel “miracolo di Teofilostrappato da Maria al potere di Satana. Queste “leggende aureemariane, anche se non storiche (ma spesso lo sono), illustrano come parabole una verità che sfida la critica: la credenza comune dei fedeli e quindi la fede della Chiesa in Maria avvocata onnipotente delle cause disperate 16.

Nei Discorsi sulle sette feste principali di Maria l’ardente amore di Alfonso per la Vergine ne fece un fervente sostenitore di tesi allora relativamente in voga. - Fin dal suo primo momento l’Immacolata supera in santità tutti gli uomini e tutti gli angeli insieme? Questo “insieme le vertigini; però possiamo fermarci alla formulazione adottata poi da Pio IX nella bolla Ineffabilis: Maria piena di grazia sorpassa nella santità fin dalla sua concezione gli stessi angeli e serafini”. - La Vergine ricevette tutta questa ricchezza soprannaturale con piena coscienza fin dalla sua concezione? Nel XIII secolo san Tommaso aveva fatto di questo privilegio una prerogativa - ma una prerogativa esclusiva - del Cristo; nel XIV secolo l’opinione si era diffusa e poi aveva preso il sopravvento estendendosi anche a Maria Alfonso nel suo discorso Della nascita di Maria ne sostenne le ragioni di convenienza.

Nel nostro tempo in cui l’ecumenismo e la lettura obiettiva dei Vangeli hanno portato la Chiesa a prendere maggiore consapevolezza del fatto che “Cristo ha assunto la nostra condizione di uomini in tutto, tranne il peccato”, si può ritenere che il nostro dottore ha felicemente penetrato la “convenienza” di una visione pienamente realistica dell’incarnazione.

 

Nell’introduzione alla prima edizione de Le Glorie di Maria il P. de Liguori annunziava una seconda opera:

Dopo cotesto libro della Speranza in Maria, che ora vi do, spero tra breve di darvene un altro dell’Amore a Gesù suo Figlio, che forse non meno di questo vi gradirà17.

Ne abbiamo per fortuna lo schizzo autografo nelle prime 70 pagine di un libretto, formato 10 x 7 cm, che prese il posto delle Cose di coscienza. Il titolo del progetto è: Giesù Cristo nostra speranza ed amore, articolato in tre capitoli: I. Amore dell’Eterno Padre in darci il Figlio; II. Della speranza in Gesù: III. Dell’amore che ci porta Gesù: - Dell’Incarnazione, - Della Nascita, - Della Passione, - Del SS. Sacramento 18.

Alfonso sviluppava questi titoli con 239 citazioni tratte in gran parte dalla Sacra Scrittura e 72 da Padri e scrittori ecclesiastici, dei quali indicava il nome ma quasi mai la fonte: per lui erano non tanto citazioni, quanto verità che l’avevano colpito, infilate come perle alla rinfusa insieme alle parole bibliche. Tocchiamo qui il segreto della

 

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composizione letteraria delle sue opere spirituali: da innumerevoli letture, nelle quali la Bibbia era sempre al primo posto, Alfonso traeva questi “ rosari ” di pensieri, li girava e li rigirava cento e cento volte nella meditazione e nella preghiera, li precisava in inesauribili variazioni, decidendo alla fine di cristallizzarli rapidamente in un volume: Amore a Gesù Cristo.

L’opuscolo di un centinaio di pagine, che nel 1751 apparve presso Pellecchia, era solo un elemento del progetto: L’amore delle Anime cioè Riflessioni ed Affetti sulla Passione di Gesù Cristo; si articolava in sedici capitoli, intersecati da preghiere, che seguivano lo svolgersi della passione. L’autore si spiegava alla fine in un “ Avviso al lettore ”:

Amato mio lettore, io ti promettei nel mio libro delle Glorie di Maria un altro dell’Amore di Gesù Cristo: ma poi, per cagione delle mie infermità corporali, dal mio direttore (Paolo Cafaro) non mi è stato concesso di farlo. Appena m’è stato permesso il dare alla luce queste succinte Riflessioni sopra la sua Passione, nelle quali per altro ho ristretto il fiore di ciò che io tenea raccolto su questa materia; eccettuate alcune altre cose appartenenti all’Incarnazione e Nascita del Signore, che ho pensiero, se m’è permesso, di dare appresso alla stampa in un libretto della novena di Natale”.

La Novena del Santo Natale, un volume in dodicesimi di 570 pagine, apparirà nel 1758: dieci discorsi accompagnati da meditazioni per ogni giorno dall’inizio dell’Avvento fino all’ottava della Epifania. Alfonso si prenderà tutto il tempo per svilupparvi il suo pensiero, per effondervi il suo cuore.

Aveva cominciato però nel 1751 con la Passione di Gesù Cristo, anche se aveva dovuto limitarsi allo spazio di un libretto - ma vi sarebbe ritornato in nove altre pubblicazioni - , perché: “l’Apostolo dicea ch’egli non volea saper altro che Gesù e Gesù crocifisso, cioè l’amore ch’esso ci ha dimostrato sulla croce... Ed in verità, da quali libri noi meglio possiamo apprendere la scienza dei santi, ch’è la scienza di amare Dio, che da Gesù crocifisso? Il gran servo di Dio Fra Bernardo da Corlione cappuccino non sapendo leggere, i suoi religiosi volevano istruirmelo; egli se n’andò a consigliare col Crocifisso, ma Gesù gli rispose dalla croce: - Che libri! che leggere! Ecco io sono il tuo libro, dove sempre puoi leggere l’amore che t’ho portato - . O gran punto da considerarsi in tutta la vita e per tutta l’eternità: un Dio morto per nostro amore! un Dio morto per nostro amore! O gran punto!”19.

Allora prima la Passione e poi il mistero del Natale. In entrambe le opere però ritroviamo alla base dello sviluppo le citazioni del piccolo libro di appunti. Gli autori di quel tempo non si preoccupavano granché di citare in maniera precisa e Alfonso annotava i passi come

 

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li trovava e li utilizzava allo stesso modo. Che interessa? Diventati verità personali, a lungo assimilate nella sua esperienza di Dio e degli uomini, non rimandavano più a un autore ma a un saporoso mistero, che invitava a condividere. Va aggiunto però che le sue opere dommatiche e morali ci danno un ben altro genere letterario: da avvocato rigoroso, qui si preoccupò di addurre riferimenti precisi insieme a argomenti di autentico acciaio.

 

Il lettore penserà forse che Liguori, stanco, risentendo già degli anni, mise da parte il crocifisso del missionario per usare la penna dello scrittore. Si ingannna! Nell’anno santo di metà secolo (romano nel 1750, poi universale nel 1751) fu spesso sul campo alla testa di gruppi di suoi missionari. In un documento ufficiale, presentato al re alla fine del 1752, vengono enumerate 117 missioni redentoriste negli anni 1750-1753 in 14 diocesi, oltre le “ ritornate ” e i quasi 25 ritiri per preti e laici in casa e nei seminari 20. Partendo dal Natale 1749, il superiore fu personalmente sulla breccia a Sarno, Nocera dei Pagani, Melfi, Rionero (i cui fedeli, incoscienti!, scrissero al re chiedendo una fondazione) e Ripacandida, dove predicò in un carmelo, che, proprio lui penitente fino allo spaventoso fu costretto a moderare nelle austerità, confessando ammirato: “Non mi avrei creduto trovare un garofalo, come questo, sopra una Rupe21.

Doveva fare miracoli per contentare tutti i vescovi, senza ammazzare i suoi padri:

“Oh che imbroglio, scrisse al P. Francesco Margotta, Monsignor di S. Angelo vuole il P. Cafaro a far ivi gli esercizi; Monsignor di Nocera vuole due missioni dentro quaresima. Madonna aiutaci! Esercizi a Ciorani, esercizi ad Iliceto. Li Padri sono sfiniti di forza ”.

Ma questo non era un motivo valido perché i superiori delle case stessero sempre per via. Lo stesso P. Francesco, rettore di Caposele. si fece richiamare all’ordine:

“Mi ha alquanto dispiaciuto sentire che ancora state ad Atella. Queste dimore così lunghe fuor del collegio mi dispiacciono. Pensate che ora siete colà Rettore... Quando alla casa manca il Rettore, ogni cosa va a traverso” (23 gennaio 1750). E poco dopo ( febbraio): “V. R. piglia tante gatte a pettinare, tante lettere, tante corrispondenze, tante faccende non proprie, e che so io, e specialmente tante divozioni che guastano poi l’osservanza a cui pare che V. R. stia attaccata... Presentemente che sta nella Congregazione, e precisamente ora ch’è Superiore, dee pensare che la maggior gloria di Dio è badare al bene di codesta casa... V. R. già avrà veduto che, quando manca il capo, tutte le cose van disordinate... attenda al bene della casa, della chiesa di Mater Domini e dell’osservanza... Io le parlo con tutto l’affetto, perché la stimo e la stimo assai, ed ho un gran concetto di V. R..;

 

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sperando che V. R. sia uno di quelli che nella Congregazione si abbia a far santo, come D. Paolo, Villani, Mazzini, Fiocchi, Ferrara, ecc., che sono morti alla propria volontà, e non come certi altri che mi bisogna trattar con delicatezza e che saranno trattati così da me”22.

Risalendo da Melfi, il 16 maggio 1750 colse l’occasione proprio per fare la visita canonica a Caposele, le cui mura finalmente stavano salendo. Ma si era cominciato male: il portale di ingresso era un po’ adorno, le imposte delle finestre altrettanto...

- Che polizie sono queste? Noi siamo poveri, fece severo il visitatore, e vogliamo le cose povere.

Ritiratosi in camera, gli furono portati i piani dell’architetto da lui stesso scelto, L’amico Pietro Cimafonte, e una lettera nella quale questi spiegava che era impossibile fare le cose in maniera più semplice. Di fronte alla buona fede dei confratelli, il superiore tornò sereno, ma non sappiamo se poi si sia sfuriato per lettera con il “ colpevole ”. E evidente però che Alfonso voleva una povertà effettiva, comunitaria, visibile.

Non si attardò e, regolati quattro punti in un rapporto (recessus) di dieci righifidandoci in tutto il resto della prudenza, pietà zelo e lare qualità del Superiore23, si affrettò verso Ciorani, chiamato da preoccupazioni ben più gravi.

 

In verità non era il noviziato a renderlo inquieto: “Gloria Patri! vi è un concorso di giovani, che non ne possiamo più”24, ma il vicino studentato di Nocera dei Pagani.

Nel 1749 Alfonso aveva creduto di riunire tutte le condizioni favorevoli allo sviluppo religioso e intellettuale degli studenti: un rettore di 28 anni, Carmine Fiocchi, un prefetto spirituale santo, Giovanni Mazzini, e un professore eminente e avvincente, Giuseppe Muscari. Quest’ultimo aveva cominciato bene, mostrandosi come il più umile e il più affascinante degli animatori, ma, avuti i giovani bene in mano, aveva subito gettato la maschera e sfoggiato una vocazione di riformatore, meglio di fondatore. Facendosi beffe dell’Istituto e delle sue pratiche di penitenza, aveva preso in contropiede Mazzini e il gruppo dei giovani si era diviso in due campi: quelli che resistevano al novatore e i fanatici del profeta.

Alfonso, che non era certo uomo da permettere il saccheggio del giardino della congregazione, nel dicembre 1749 aveva mandato il professore a Ciorani incaricandolo di animare il ritiro degli ordinandi; Cafaro, impegnato con Villani nella missione in un villaggio vicino, avrebbe ripreso i corsi di teologia e tanto peggio per quelli di storia, lingue antiche e alta filosofia, in cui si moltiplicava Muscari ! L’ex-abate si era ribellato, ma non era facile far colpo sulla calma fermezza di Alfonso

 

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- O questo, o resti in vostro arbitrio il far ritorno nella vostra religione .

Il nostro uomo, colto di sorpresa in un suo segreto progetto, passò la notte in bianco in un duro conflitto interiore.

- Darò gli esercizi agli ordinandi, disse l’indomani mattina, poi me ne andrò.

Ciorani, all’oscuro della crisi dello studentato, fu in subbuglio e Cafaro, Villani, lo stesso Fiocchi rettore di Pagani, lo studente Tannoia intercedettero per L’ex-abate, al quale si doveva tanto e che, d’altra parte, era rientrato in sé, umiliandosi... Bene, bene. Alfonso, che non chiedeva altro che d’essersi sbagliato, L’aveva rimandato a Pagani, nominandolo anche prefetto spirituale al posto dell’amico Mazzini, che, rimosso per amor di pace, fu inviato a Materdomini (febbraio 1750) 25. Restava però viva la sua segreta preoccupazione: non aveva allontanato il buon pastore e consegnato l’ovile al lupo?

Tutto sembrò procedere per il meglio nel corso del 1750. Dopo una broncopolmonite, che lo aveva inchiodato a letto per tre settimane, e l’apparizione - finalmente! - de Le Glorie di Maria, Alfonso dovette assicurare la “predica grande” allo Spirito Santo a Napoli - come rifiutarsi per l’anno santo alle Apostoliche Missioni, di cui restava sempre membro effettivo? - e poi far missioni nella diocesi di Lettere alla testa di 21 confratelli: come l’anno precedente a Sarno, i missionari videro ammucchiarsi ai piedi della Vergine non mazzi di fioricattivi libri per un falò riparatore, ma pugnali e pistole, baionette e stiletti 26.

Con l’inizio dell’estate 1751 a Pagani I ‘ascesso, che intanto era maturato, scoppiò improvvisamente. In gran segreto Muscari aveva convinto quattro giovani eccellenti ma ingenui (Pasquale Adinolfi, Gaetano Spera, Domenico Cacciatore e Domenico Siviglia) a seguirlo in un nuovo ordine che avrebbe evangelizzato la Mongolia, il Paraguay e la Cina e ora tirava pubblicamente fuori le unghie e i denti contro l’Istituto, rivoltandogli la maggior parte degli studenti.

Tutto era finalmente chiaro: occorreva allontanare quel pomo di discordia e di cattivo spirito, ma Liguori, profondamente buono e fine psicologo, trovò un espediente nobile e lusinghiero:

- Tutte le congregazioni hanno una procura a Roma. Avendo tante conoscenze nella città eterna, siete il più indicato per fondare una tale residenza per il nostro Istituto. Porterete con voi il P. Bernardo Tortora (un altro il cui spirito preoccupava Alfonso).

L’ex-abate capì che lo si allontanava dagli studenti e dispose subito le cose in maniera che il quartetto di “fedeli” lo potesse poi raggiungere a Roma: redatto a loro nome un memoriale destinato al papa in cui si sparava a zero sul fondatore e sulla congregazione, fattolo

 

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firmare, lo chiuse nel suo tiretto. In seguito essi avrebbero dovuto datarlo e inviarglielo nella città eterna: il libello intessuto di odiose calunnie avrebbe giustificato il suo cambiamento di rotta, accreditato la sua fondazione e facilitato la dispensa dei loro voti.

Ma il Signore la sa più lunga del diavolo. Accadde che il rettore maggiore invitasse tutti i suoi studenti a Ciorani il 12 ottobre per un pellegrinaggio al santuario di Montevergine. Il più giovane, Pasquale Adinolfi, non seppe trattenere la lingua, lasciando capire che avrebbe lasciato l’Istituto; Alfonso, venuto a saperlo, lo chiamò per aiutarlo nella tentazione e il povero studente finì per rivelare tutto il complotto di Muscari.

- Ah il traditore, esclamò il fondatore, ti ha fatto girare bene la testa!

La stessa sera, riuniti i consultori generali presenti a Ciorani, li mise al corrente della macchinazione che mirava né più né meno a “distruggere la congregazione”, caricandola di calunnie e strappandole un gruppo di studenti e di fratelli laici, e propose l’immediata espulsione dell’ex-abate. Lo stupore fu tale che i padri non credettero alle loro orecchie e ci furono rimostranze vive, ma la fortunata indiscrezione di Adinolfi aveva reso insostenibile la situazione dei quattro “muscariani”, che l’indomani dopo la meditazione in comune del mattino si presentarono al rettore maggiore, bastone in mano e mantello sul braccio, chiedendogli con fare imperioso la dispensa dai voti. Le esortazioni e le suppliche di Alfonso e dei confratelli non servirono a mente:

- Vogliamo partire!

- Ma prendetevi almeno tre giorni di riflessione e poi deciderete.

- Vogliamo partire immediatamente.

E, volte le spalle al padre e ai confratelli, senza dispensa dai voti, presero la porta proferendo minacce.

Subito il padre generale riunì un consiglio di crisi: il consultore generale Muscari venne espulso dall’Istituto con voti unanimi dei suoi pari; il P. de Robertis venne inviato a Napoli per prevenire il marchese Brancone contro qualsiasi manovra malevole dei rivoltosi 27; Alfonso scrisse a Roma al P. Sanseverino, perché il cardinale penitenziere fosse messo al corrente, infine il P. Fiocchi fu incaricato di comunicare a Muscari l’avvenuta espulsione, “ovunque si trovasse”.

L’ex-abate, che si preparava all’imminente partenza per Roma, era andato con Tortora a congedarsi dal vescovo di Nocera. Il rettore si fece loro incontro e, non osando parlar chiaro dinanzi a Tortora, disse semplicemente a Muscari:

- Certamente sapete perché quattro studenti hanno chiesto la dispensa dei voti!

 

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- Non ne so niente, fece Muscari sorpreso, almeno niente che possa dire a voi.

- Se non potete dirmi niente, andate a giustificarvi presso il Rettore Maggiore.

- Volentieri e immediatamente, concluse arrogante il miserabile.

Senza la presenza di spirito di passare prima in casa a ritirare il memoriale calunniatore (lo si sarebbe poi trovato nel tiretto, rendendo manifesta per tutti la sua perfidia ), prese la strada di Ciorani Derò vistosi meschinamente scoperto a causa dell’uscita prematura delle sue quattro vittime, non ebbe la faccia di affrontare Alfonso. Passando davanti al suo antico monastero basiliano di Materdomini di Nocera, non andò oltre e di qui scrisse al P. de Liguori un ridicolo biglietto protestando la sua innocenza nell’affare dei “fuggiaschi”, lamentandosi di essere stato accusato di tradimento ingiustamente e reclamando la sua biancheria e i suoi libri. Questa lunga giornata, tragica e liberatrice, fu il 13 ottobre 1751, la risposta del fondatore, fremente di franchezza, sofferenza e perdono, fu del giorno seguente:

Padre D. Giuseppe mio stimatissimo, io due notti non ho dormito né posso darmi pace, pensando alla ruina fatta a questa misera Congregazione, un tempo così amata da V. R. prima di entrare fra noi, e dopo entrato così odiata. Io non mi potea persuadere, che V. R. potesse aver parte a far perdere la vocazione a questi poveri giovani; ma da quel che ho ricavato dalla bocca di loro medesimi e dalle altre notizie avute ultimamente, non mi posso persuadere il contrario. Non mi stendo a dir le cose particolari, perché è inutile ed a V. R. danno più dispiacere. Io, D. Giuseppe mio, sapete quanto vi ho amato e stimato prima che eravate nostro; dopo già sapete quel che ho fatto per onorarvi con quei miseri onori, che può dare una misera Congregazione; io le ho fidato in mano, dal principio, il tesoro più pregiato della Congregazione, che sono i giovani; io, per provvedere alla sua maggior quiete, ho dato lo sfratto da Nocera a D. Giovanni Mazzini, soggetto di tanta stima e d’edificazione appresso tutti; io l’ho destinato a mantenuto lettore; di più, prefetto e padre spirituale de’ giovani, ma sempre con timore. V. R. diceva che non ci era niente. Ma ecco il niente a che è riuscito: è riuscito alla ruina di quattro poveri giovani, che erano tanti angeli, e ieri mattina parevano tante furie benché io li pregassi con tanto affetto e dolcezza, sino ad inginocchiarmi ai piedi, che avessero differita almeno per tre giorni la loro uscita così precipitosa; mentre specialmente questi quattro io li amava quanto gli occhi miei, perché veramente erano quattro angeli che sempre si erano portati bene... e ieri mattina poi, V. R. se ne sarebbe scandalizzato, se avesse inteso con quale sturbamento ed arroganza parlavano

 

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con me e tutti, con che disprezzo ed anche minacce esclamavano contro la Congregazione, arrivando a dire che volevano ricorrere a Sua Maestà contro di me, dicendo che io li voleva tenere a forza, perché io non volea assolvere loro il voto e giuramento. Dio mio! essi si sono legati con Gesù Cristo, ed io li teneva a forza? Ma perché io non rilasciava loro i voti? perché io li amava e ne avea compassione, e vedeva che perdevano la vocazione per mera tentazione del demonio.

Or basta: non occorre darvi più tedio, perché già intendo che ogni parola vi pena. Basta, dico: non me lo meritava io, ne la Congregazione, questo tratto da V. R. Io vi perdono e prego Gesù Cristo che vi perdoni, perché ancora vi stimo ed amo, e spero che, se ora non lo conoscete, un giorno la Madonna v’abbia da far conoscere l’errore che avete fatto, in far questo danno alla Congregazione ed a questi poveri giovani, acciocché lo possiate piangere, come si deve. E queste sono tutte le ingiurie pubbliche che si sono dette, cioè che V. R. ha tradito la Congregazione: cosa, che la conoscono anche le pietre.

V. R. ha scritto che non farà danno alla Congregazione, anzi procurerà di giovarla. Questo ora prego io ancora: non le fate danno, perché darete gran disgusto a Gesù Cristo. Qui non ci stiamo che a patire ed a faticare per Gesù Cristo, per le povere anime, e voi già lo sapete. Io temo che d’oggi avanti il demonio, sentendo nominare la Congregazione, vi farà sentire nominare la cosa di vostro maggior odio, e che vi abbia a suggerire che, per giustificare la vostra condotta, sia necessario il discreditarci. P. D. Giuseppe mio, non lo fate. Io vi scrivo di cuore e colle lagrime agli occhi. Io voglio sperare che V. R., sedata che sarà la passione che avete contro di me e de’ nostri savii, abbiate a farci conoscere colle prove che abbiate a ripigliare l’affetto, che un tempo avete dimostrato alla Congregazione.

In quanto poi alle robe e libri, V. R. non dubiti. Ah D. Giuseppe! noi abbiamo amata e desiderata la sua persona, non le sue robe e così al presente mi dispiace di perdere la persona e non le sue robe, perché, torno a dire, ancora v’amo, e voi lo sapete se vi ho amato e stimato: e così non s’inquieti punto perciò, perché resterà soddisfatto e contento...” 28 .

Povero Muscari, il suo sogno finì con questo fiasco, insieme con la sua malignità, perché una volta a Roma non diede più alcun segno di vita ai poveracci sviati dai suoi miraggi. Reintegrato nell’ordine di san Basilio e nella dignità abaziale. si pavoneggerà per venticinque anni in insegne prelatizie sulle cattedre del Regno, ma rispetterà la congregazione e il fondatore dei Redentoristi. Fattosi nominare dal papa abate a vita di Grottaferrata (Roma), sfogherà la sua mania di dominare e maneggiare sui suoi confratelli napoletani, come del resto Alfonso aveva

 

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predetto a Don Bartolomeo di Marco, abate di Materdomini e futuro generale, delicatamente venuto, dopo il tiro mancino di Muscari, a presentargli le scuse dell’Ordine:

- Ora ha fatto piangere a noi, verrà giorno, che farà piangere voi.

 

La mattina del 13 ottobre, subito dopo la clamorosa partenza dei quattro giovani esaltati, Alfonso aveva raccolto la comunità sconvolta:

- Ringraziamo Dio e diciamo un’Ave Maria alla Madonna: il Signore ha liberato l’Istituto da alcuni membri cancrenosi.

Il 16 riunì nella cappella i figli ancora traumatizzati, esortandoli a confermare i loro legami di amore con Gesù Cristo e la congregazione, poi, in ginocchio, rinnovò i voti seguito da tutti gli altri. Uno dei fuggiaschi, Gaetano Spera, disilluso era già di ritorno all’ovile e, piangendo, chiese perdono al padre dinanzi a tutta la comunità, rinnovando poi anche lui i voti con voce scossa dai singhiozzi. Alla fine Alfonso intonò il Te Deum. Sei mesi più tardi ritornerà anche Siviglia, mentre Adinolfi e Cacciatore diverranno buoni sacerdoti secolari 29.

Il rettore maggiore, al quale restava da ricostituire lo studentato, lasciò definitivamente Ciorani, fissando la sua residenza a Nocera dei Pagani, dove d’ora in poi saranno la testa e il cuore della congregazione. Reintegrò il P. Mazzini nelle funzioni di prefetto spirituale e scelse come professore di teologia non Cafaro o l’eminente Giovanni Rizzi (38 anni, antico rettore del seminario di Campagna, professo da dieci mesi), ma il giovane Alessandro Di Meo, il ripescato dalla Madonna, che dopo l’ordinazione sacerdotale a 23 anni nel dicembre 1749, era stato mandato a Napoli a imparare il greco e l’ebraico: fin dall’infanzia gran divoratore di libri e dotato di una memoria straordinaria non era assolutamente inferiore a Muscari quanto ad acume di intelligenza, ampiezza di erudizione, padronanza delle lingue classiche e bibliche; piccolo di statura ma grande per il fervore, lo zelo e l’umiltà, era l’ammirazione di Alfonso, che diceva: “E tale, che fa fare idea della Sapienza di Dio30 .

L’epilogo di questi sconvolgimenti fu la prima circolare del fondatore a tutta la congregazione:

“Miei fratelli carissimi, sappiate che a me non rammarico il sentire che alcuno de’ miei fratelli è stato chiamato da Dio all’altra vita: lo sento, perché sono di carne, del resto mi consolo che sia morto nella Congregazione, dove morendo, tengo per certo che sia salvo.

Neppure mi affligge che alcuno, per suoi difetti, si parta dalla Congregazione; anzi mi consolo ch’ella si sia liberata da una pecora infetta, che può infettare ancora gli altri. Neppure mi affliggono le persecuzioni, anzi queste mi danno animo; perché quando noi ci portiamo bene, son certo che Dio non ci abbandona. Quello che mi spaventa è,

 

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quando sento esservi alcun difettoso, che poco ubbidisce e poco fa conto delle Regole.

Fratelli miei, voi già sapete che molti, i quali sono stati de’ nostri ora stan fuori della Congregazione. Qual sarà il loro fine, io non lo so, ma so certo che faranno sempre una vita infelice, viveranno inquieti e moriranno inquieti per avere abbandonata la vocazione. Essi si son partiti per vivere più contenti; ma non avranno mai un giorno di quiete, pensando di aver lasciato Dio per vivere a loro capriccio. E difficilmente frequenteranno l’orazione; perché nell’orazione sempre si affaccerà il rimorso di aver lasciato Dio: e così lasceranno l’orazione, e lasciando l’orazione, Dio sa dove andranno a parare.

Vi prego a fuggire i difetti, fatti ad occhi aperti, e specialmente quelli de’ quali siete stati corretti. Quando uno dopo la correzione si emenda, non sarà niente; ma quando non si emenda, il demonio lavora, e vi farà perdere la vocazione; e con questo mezzo l’ha fatta perdere a tanti.

Per grazia di Dio, dove vanno le nostre missioni, fanno prodigi, e dicono le genti che non hanno avuto missioni simili; e perché? Perché si va con obbedienza, si va con parsimonia e si predica Gesù Cristo crocifisso, ed ognuno attende a fare l’ufficio che gli è imposto. Mi ha ferito il cuore però il sentire, che alcuno ha cercato in missione di avere qualche incombenza più onorevole, come di far la predica o l’istruzione. Ora, che frutto mai può fare chi predica per superbia? Questa cosa mi ha fatto orrore. Se nella Congregazione entra questo spirito di ambizione, poco o niente serviranno più le missioni.

Ho inteso ancora che alcuni hanno incominciato a predicare con istile pulito. Torno a dire che lo stile famigliare è quello che fa riuscire le nostre missioni, le novene ed eserci i .. Ed io prego Gesù Cristo che castighi, con castigo notabile, chi vuole introdurre lo stile pulito. Stiamo attenti: è certo che la superbia ne ha cacciati molti dalla Congregazione.

A rispetto delle missioni, state attenti al mangiare; quest’è la causa per cui danno più edificazione le nostre missioni: il contentarsi del poco che ci permette la Regola, secondo si è praticato sinora...

Proibisco di più a’ Superiori di dar licenza a’ soggetti di farsi cose particolari per loro uso proprio; ma, bisognando, ce le faccia la Comunità: come anche proibisco a’ soggetti particolari tener danaro in loro potere .

Fratelli miei, portiamoci bene con Dio, e così Dio ci aiuterà in tutte le persecuzioni che ci facessero gli uomini e demoni31. Effettivamente queste non tarderanno a infierire: “battaglie alL’esterno, timori al di dentro” (2 Cor. 7, 5).

 

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Tutto ricominciò con una banale storia di caccia 32 . Alla fine del gennaio 1751, il re Carlo di Borbone, che non si sentiva felice se non quando aveva un fucile tra le mani, battendo il bosco e la macchia della sua riserva di Tremoleto nel territorio di Deliceto a caccia di cinghiali, scorse la chiesa e la costruzione quadrata della Madonna della Consolazione, nobilmente appollaiate sul poggio e chiese a un magnate del seguito:

- Cosa è quel castello?

- E una Casa de’ Missionarj del P. Liguori... Ed hanno avuta la piena; hanno ereditato nientemeno, che sessantamila, e più ducati.

- Anche questi fanno come gli altri: non ancora sono nati, e si veggono questi acquisti?

Collera del re, collera dei ministri. Lo spettro della manomorta si ergeva a Deliceto e quindi a Ciorani, Pagani, Caposele... Venne ordinata un’inchiesta, che fece tremare tutto l’Istituto redentorista, tranne Alfonso che disse:

- Il Signore vuol tirare avanti la Congregazione, non con applausi, e protezioni di Principi, e di Monarchi, ma con disprezzi, povertà, miserie, e persecuzioni; quanto mai si è veduto, che le opere di Dio si sono cominciate con applauso? Sant’Ignazio all’ora era contento quando aveva nuove di persecuzioni e travagli.

Lanciata una campagna di preghiere, messe, penitenze, elemosine, si portò a Napoli per presentare ai segretari di Stato il resoconto delle rendite delle sue case: 300 ducati carichi di pesanti impegni a Deliceto, 500 a Ciorani, altrettanti a Caposele, quattro mura e un piccolo giardino a Pagani. Le conclusioni a cui arrivarono i commissari regi furono inferiori alle stesse cifre dichiarate dal superiore. Venne incaricato Don Baldassarre Cito, il compagno delle partite a carte serali al tempo degli studi, dell’inchiesta sulla favolosa eredità di Deliceto, che si rivelò una vera favola: i 60.000 ducati si ridussero a 700 con pesanti impegni. A conti fatti, gli appannaggi del solo Tanucci uguagliavano le rendite di tutti i Redentoristi insieme. Tanta povertà e sincerità sembrarono toccare il re (oh, molto superficialmente) ma non Tanucci, né il presidente della Real Camera di S. Chiara, Nicola Fraggianni, dettopapa Nicola”. Non abbiamo il coraggio di imporre al lettore il dettaglio dei passi, delle suppliche, dei rifiuti sgarbati, delle umiliazioni, che segnarono ancora una volta nel corso del 1752 la vita napoletana del fondatore, impegnato contemporaneamente da predicazioni e da missioni sfibranti: Marianella, la chiesa dei Pellegrini, ecc. Alfonso fu costretto a vivere nuovamente il calvario degli anni 1747- 1748 .

Vi aggiunse macerazioni da far rabbrividire, perché l’Opera votata alla salvezza degli abbandonati potesse continuare a vivere. Una

 

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sera, arrivato in casa del fratello Ercole al quartiere dei Vergini tra gli schiamazzi dei perdigiorno a causa del suo asino, della sua barba, del suo vecchio mantello, si chiuse in camera e l’indomani non vedendolo comparire si dovette forzare la porta: sul letto, completamente vestito, non dava segni di vita e i medici, chiamati in fretta, scoprirono che un orrendo cilizio lo faceva venir meno per lo strazio. Se aveva rischiato la morte per il dolore, credette poi di morire per la confusione d’essere stato scoperto nelle sue penitenze.

Sabato 23 settembre 1752, con tragica calma, scrisse da Napoli a uno dei suoi padri:

“ Io mi avrò da trattenere fino a sabato ad otto. Giovedì si tratta l’affare nostro. Preghiamo Dio che almeno ci lascino le case; giacché il marchese Brancone mi ha insinuato a dismetterne due. Se ci lasciano le case, per l’entrate bisogna uniformarsi colla volontà di Dio, perché son guai. Se non avevamo Brancone, forse a quest’ora saremmo stati già dismessi. Nell’ultimo consiglio, il Re parlò forse più fieramente contro di noi. Contentiamoci delle case e della provvidenza di Dio. Dite quel che vi pare, colla vostra prudenza, di ciò anche agli altri coristi, acciò facciano orazione con fervore in questi giorni, mentre non siamo ancora fuori di pericolo. Stamattina, ho fatto una sbattagliata con Brancone, che non so come non si è infastidito33 .

La decisione arrivò solo il 9 dicembre 1752 con un decreto che, lungi dall’accordare l’exequatur alla bolla pontificia di approvazione, negava ogni riconoscimento legale all’Istituto, concedendo tuttavia alle quattro case una precaria sopravvivenza, pagata con la spoliazione di quel poco che possedevano:

“1) A’ Sacerdoti Missionari conviventi, e adunati sotto la direzione del Sacerdote D. Alfonso de’ Liguori, si proibisce da S. M. di acquistare, e possedere in comune beni stabili, e qualunque altra sorte di annue rendite... Ma affinché i medesimi Missionari possano sostentarsi, e mantener l’opera delle loro Missioni, le quali con tanto profitto comune de’ Popoli, e con indefessa applicazione han praticate sin’ora per molte Province di questo Regno; e giacché in dette Missioni essi tengono il lodevol costume di non andare questuando; ordina S. M. primieramente, che sia lecito a tali sacerdoti di ritenere i loro propri e patrimoniali beni.

2) Che le seguenti robe di sotto descritte, e sin’ora da essi acquistate si lascino da’ medesimi, e si amministrino dai Vescovi di quei luoghi ove son situate le suddette robe, coll’intelligenza del Governatore e del Sindaco del Luogo.

3) Che del fruttato di esse debbano i suddetti Vescovi somministrare carlini due il giorno per ciascheduno di essi Sacerdoti, e loro servienti, e che tutto il sopravvanzante del fruttato distribuito si debba

 

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dai Vescovi ai Poveri di quei luoghi dove sono site le robe... (Due carlini corrispondevano al salario giornaliero di un operaio).

4) Che ciò s’intenda sino a tanto, che da essi Sacerdoti si eserciterà la detta Opera delle Missioni, poiché nel caso, che quest’Opera si dismettesse tutto il fruttato delle suddette rendite si dia dagli accennati Vescovi a’ Poveri parimenti di quei Luoghi, dove sono siti i beni...

Colle suddette condizioni e non altrimenti il Re permette ad essi Sacerdoti di convivere nelle dette sole quattro Case di Ciorani, Caposele, Iliceto e Nocera, e non in altre, purché vivano da Preti Secolari, e sempre subordinati agli Ordinarj, non riputando S. M. queste Case, come Collegj o Comunità34 .

Non mirando che a vivere per evangelizzare i poveri, Liguori trovò il decreto “ molto favorevole ”, anche perché aveva temuto la soppressione. Quanto all’indigenza, L’aveva sposata per amore, come Francesco d’Assisi: “Se restiamo poveri, è sicuro che, quando noi ci porteremo bene, Dio non ci mancherà35.

A noi invece è difficile evitare la collera, quando pensiamo che l’ossessione della manomorta, che condannava gli apostoli degli abbandonati a vivere di fame e a morire di tisi, destinava il ricavato dalle imposte, sudore di un popolo di poveri, a ricoprire d’oro cortigiani e cortigiane e ad appagare una corte numerosa e un’aristocrazia nullafacente con giocattoli fastosi quali il teatro S. Carlo, il palazzo di Procida, quello di Capodimonte, quello di Portici, quello di Caserta. Per quest’ultimo si arrivò a creare un canale artificiale di cinquanta chilometri, che richiese capaci acquedotti, e a requisire le più belle colonne della cattedrale di Ravello. Se sotto la pressione del domenicano Gregorio Rocco fu costruito anche il grandioso Albergo dei poveri, il governo si preoccupò subito di passarne le fatture agli ordini religiosi 36, che in realtà potevano ben pagarle.

Alfonso non getterà alcuno sguardo invidioso sulle delizie reali, né sui monasteri ben provvisti di rendite, ma, per i suoi confratelli e il loro reclutamento, non si rassegnerà all’insicurezza conseguente al rifiuto dell’exequatur da parte del re. Suor Angiola del Divino Amore, sua antica penitente, che aveva fondato il carmelo di Capua, era nelle grazie della regina Maria Amalia. Riusciranno le donne a ottenere quello che gli uomini non erano stati capaci di strappare? In una lettera del 4 luglio 1753, Alfonso le ricordava, senza troppo illudersi, che contava proprio su di lei per un ultimo disperato tentativo:

“Quando la Regina sarà a Caserta, prego V. R. a non dimenticarsi di ciò che le scrissi nell’ultima.

Tutta la difficoltà è per gli acquisti. Noi ci contentiamo che la Maestà del Re, circa degli acquisti faccia quel che vuole. Se vuole

 

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che noi non abbiamo mai a possedere niente, ma che solamente i vescovi ci possano somministrare qualche limosina, ce lo comandi, che sarà ubbidito. Basta che ci approvi, e non ci faccia stare così in aria. Se il Re sentisse questa nostra proposizione, crederei che s’ammollirebbe, sentendo che noi non vogliamo possedere niente. Ma questa proposizione chi glie la fa? Se io ci potessi parlare, glie la farei io ma il Re non udienza. Ho cercato di parlargli, e non è stato possibile. La Regina potrebbe farlo, se vuole. Basta. Quando sarà tempo di nuovo pregherò V. R. a dirle questa nuova proposizione.

Io non ho perduta la speranza che Gesù Cristo, per mezzo di V. R., ha da stabilire quest’Opera per la salvazione di tante povere anime abbandonate. Forse che Dio avrà fatt’incontrare a V. R. questo favore della Regina, non solo per l’affare del suo santo Ritiro, ma ancora per tutte le cose di sua gloria. Ma se mai V. R. non stimasse la nostra approvazione fosse di gloria di Dio, io non pretendo che V. R. ne parli più. Or io penso e dico sempre che il Signore vorrà mortificare la mia superbia, e che l’approvazione non si otterrà, se non moro io. Dominus est, quod est bonum in oculis suis, hoc faciat37.

 

E il novembre:

“Come già dissi a V. R., noi non vogliamo acquistare ricchezze; che il Re ci limiti quel che vuole per queste quattro case che abbiamo; basta che ci dia 15 grana (= un carlino e mezzo) il giorno per uno, e ci dia la sua approvazione, acciò non resti questa Congregazione così in aria, la quale, tutti vedono il bene che fa. Si tratta che nelle nostre missioni, di cui se ne fanno da quaranta l’anno, in ogni anno si metteranno in grazia di Dio da trenta in quaranta mila persone. Ora basta, e facci Dio! Prima, come dico, a Maria SS. e poi a V. R. stanno le speranze mie e di tutti li miei compagni, a cui ho comunicato in segreto l’affare”.

Sua Riverenza non potrà fare niente. Il 4 marzo 1751 il padre scriverà ancora a Luigi Sagliano, un altro suo penitente, che teneva i rapporti tra lui e la carmelitana:

Don Luigi mio, scrivo per altra mano, perché sto a letto, e da molti giorni sto infermo... Avvisami quando sai che la Madre Priora abbia fatto qualche cosa di buono, e se no, si faccia santa!”.

Era la sua maniera di dire: “Lasciamo stare!”.

E veramente “si farà santa”... Nel febbraio 1756, per la terza volta, Alfonso ricomincerà il giro di tentativi e di disillusioni, poi per venticinque anni lascerà perdere. Sconfitto come avvocato, fu migliore come profeta: L’approvazione regia verrà ottenuta molto più tardi e grazie a un tragico equivoco. Aveva scritto: “Prima a Maria SS.

 

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stanno le speranze mie e di tutti li miei compagni” e la sua piccola congregazione affidata all’Immacolata, malgrado tutto, resisterà contro i venti e le maree. Era solito dire: “Il servo di Maria non perirà mai”.

 

 

 

 

 

 





p. 543
1 TANNOIA, Vite dei Padri D. A. Di Meo.... pp. 3-9; DE RISIO, Croniche, pp. 233-237; KUNTZ, I II, pp. 236 ss.



p. 545
2 BERRUTI, op. cit., p. 151; C. M. ROMANO Delle opere di S. Alfonso M. de Liguori, p. 44, n 1



p. 546
3 Cf. Opere ascetiche, “Introduzione generale ”, pp. 190-192.



p. 547
4 Cf. C. DILLENSCHNEIDER, La mariologie di S. Alphonse de Liguori, 1, pp. 273-282.



p. 548
5 G. DE LUCA, Sant’Alfonso il mio maestro di vita cristiana, pp. 84 e 126-127.



6 R. LAURENTIN, Court traité sur la Vierge Marie, V ed., Paris 1967, p. 84: cf. DE MEULEMEESTER, Bibliographie, Ie III“ Asprenas ”, 10 (1965), p. 225. occorre aggiungere le 10 edizioni italiane degli ultimi anni e la traduzione francese di Favre (1945). questo. senza contare le edizioni parziali e quelle. certo numerose, di cui non ci resta alcun esemplare.



7 S. ALFONSO, Lettere, I, p. 177.



8 TELLERIA, I p. 544; D. CAPONE, in Pietra alfonsiana erga Matrem Mariam, pp. 16- 19.



9 Opere Ascetiche, VII, p. 501.



p. 549
10 Cf. DILLENSCHNEIDER op. cit., I, pp. 68-78; G. CACCIATORE, S. Alfonso de Liguori e il giansenismo, pp. 518 ss; SH 3 (1955), pp. 107-124.



11 Cf. F. CHIOVARO, in “S. Alfonso” 25 ( 1954). pp. 18 ss. e 49 ss.



p. 550
12 Della regolata divozione dei cristiani, Trattato di LAMINTO PRITANIO c. XXII.



13 Le Glorie di Maria, cc. 5 e 6: per le citazioni cf. Opere ascetiche. VI pp. 203, 160-161, 237-238.



p. 551
14 Ibid., pp. 376-377; cf. SH 3 (1955), pp. 182-195.



15 Opere ascetiche, VII, p.. 359; sulle fonti delle glorie e specialmente degli “esempicf. il volume dell’“introduzione generale”, pp 190-202, 285-290



p. 552
16 Cf. P. HITZ, in Pietas alfonsiana pp 94-97; DILLENSCHNEIDER, op cit II, pp. 42-47 .



17 Cf. Opere ascetiche, VI, p. 19, n. 19.



18 AGR, SAM, VI, 9a; cf. Opere ascetiche, “Introduzione generale”, pp. 307-318.



p. 553
19 Opere ascetiche, V, pp. 15, 8.



p. 554
20Analecta”, 20 (1948), pp. 190-192



21 TANNOIA, I, pp. 219-222.



p. 555
22 S. ALFONSO, Lettere, I, pp.169, 170. 172-173



23 Ivi, p. 177; BERRUTI, op cit.. p. 50



24 S. ALFONSO, Lettere, I, p 172.



p. 556
25 Su questi fatti cf TANNOIA (I, pp. 225-229), testimone oculare corretto per quanto riguarda le date, dalle lettere di CAFARO (pp. 34 e 37); KUNTZ IV, pp. 167-175



26 TANNOIA, I, pp. 220, 239; cf SH 8 (1960), pp. 446-447.



p. 557
27 Questa lettera importante è in Contributi, pp. 241-243



p. 559
28 S. ALFONSO, Lettere, I, pp. 184-187



p. 560
29 TELLERIA, I p 497; “S. Alfonso”;12 ( 1941 ), pp. 198 ss., 211 ss., 13 (1942), pp. 4 ss.



30 TANNOIA, Vite dei Padri..., pp. 9-13; SH 15 (1967), pp. 113-115, cf. DE MAIO, op. cit., pp. 302, 319-320.



p. 561
31 S. ALFONSO, Lettere, I, p 188-190.



p. 562
32 Cf. TANNOIA, I, pp. 237-244; SH 20 (1972). pp. 369-372.



p. 563
33 S. ALFONSO, Lettere, I, p. 204-205.



p. 564
34Analecta”, 19 (1940), pp. 65-68.



35 S. ALFONSO, Lettere, I, p 207, 208.



36 DE MAIO, op. cit.. pp. 369-372



p. 565
37 Per l’ultima parte del capitolo, cf S. ALFONSO, Lettere, I, pp. 218-219, 240, 247, 350; TANNOIA, I, p. 271; “S. Alfonso”, 20 (1949), p. 38.



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