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PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762) 36 - “UN GRANDE DIBATTITO IN CUI PESARE IL PRO E IL CONTRO” (1752-1 762) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
36 - “UN GRANDE DIBATTITO IN CUI PESARE
IL PRO E IL CONTRO”
Gli storici sono gente troppo seria per affidarsi ai segni zodiacali nel loro impegno di decifrare il passato. Eppure è piccante notare che Alfonso de Liguori, nato il 27 settembre, era bilancia e che, giovane fine e sensibile, lavoratore esigente e virtuoso del clavicembalo, era stato per quattordici anni uomo di legge e di giustizia, cioè uomo di bilancia, prima di essere per tutta la Chiesa il dottore del giusto mezzo in teologia morale.
Equilibrista, equiprobabilista (c’è parentela di parole e di realtà), manterrà la bilancia sempre uguale tra la legge e la libertà, i diritti di Dio e quelli dell’uomo, l’autorità e la coscienza, la grazia e la volontà.
La Santa Sede (fatto unico nella storia della Chiesa) riconoscerà solennemente che ha tracciato “ la via sicura nel groviglio delle opinioni teologiche del lassismo e del rigorismo... tanto che numerosi cardinali... quasi tutti i vescovi, i supremi moderatori degli Ordini religiosi, insigni università teologiche, illustri capitoli canonicali e scienziati di tutte le discipline hanno chiesto che venisse onorato con il titolo di dottore della Chiesa” (Pio IX, 11 marzo 1871).
Eppure a metà Settecento questo sole stava salendo su un orizzonte verso il quale gli appassionati dei Lumi non gettavano lo sguardo, quello degli umili. La Napoli indipendente del 1750 andava tanto fiera di se stessa con il nuovo spirito suscitato da Pietro Giannone nell’ambito della politica regalista, da Antonio Genovesi nel campo economico e sociale, da Gaetano Filangieri sul piano giuridico e istituzionale! Questi iniziatori avevano suscitato un entusiastico movimento di idee per la riforma del Regno, sollevando gli animi di migliaia di giovani nell’ambito dell’aristocrazia, della borghesia e perfino del clero e facendo del secolo XVIII il più vivo, il più aperto, il più dinamico, il più artistico della storia di Napoli. Però solo nella stratosfera dell’élite intellettuale e nell’inefficace discorrere di pretenziosi cenacoli. “Napoli fece indigestione di illuminismo anglo-francese, ma non immise un pizzico di razionalità nel corpo anchilosato del Paese, dove perdurava il mondo del fascino stregonesco accanto a quello del-
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L’arbitrio dei galantuomini”1. Si alleò invece con il giansenismo contro Roma, accrescendo così il peso del rigorismo ufficiale della Chiesa 2 .
Alfonso de Liguori, nato e cresciuto nei palazzi napoletani, per dieci anni gomito a gomito con questa intellighenzia nelle alte sfere della magistratura e nel circolo Caravita frequentato insieme a Vico e Giannone, ebbe la grazia di comprendere la vanità anche delle più belle elucubrazioni se non portano ad amare.
“Oh Dio, scriverà nel 1772, a che siamo arrivati! . Ecco dove giungono i letterati del presente secolo illuminato. Secolo illuminato e frattanto le anime vanno a ruina; Napoli è ruinato: non si confessano, non sentono prediche, e tutti i secolari parlano di teologia e mettono mano alle Scritture, dogmi e precetti!”3.
Il nome del Liguori divenne una cosa sola con la morale. Ma perché, si chiedono alcuni, non creò qualche opera innovatrice degna dei grandi dell’Illuminismo, invece di seguire i sentieri già battuti della casistica?
La sola idea di scrivere per farsi un nome tra i Lumi lo avrebbe fatto ridere fino alle lagrime: se aveva lasciato Napoli a dorso d’asino non era stato certo per brillare, ma per illuminare e riscaldare le masse dei piccoli, insegnando che Dio amava proprio loro non amati dagli altri uomini. Si pose il problema di ribaltare le strutture feudali che le schiacciavano o in forza del suo realismo perse subito ogni illusione? In quarant’anni Tanucci, certamente meglio piazzato di lui, dato che fu segretario di Stato, reggente e poi primo ministro, non riuscirà neppure a smuoverle di un palmo 4. Lanciarsi in un’opera geniale? I pensatori e gli scrittori che volano in alto vengono incontrati solo dalle aquile e queste sole possono guardarli in faccia.
Immaginiamo che in teologia morale Alfonso avesse scritto un’opera come la Scienza nuova di Vico: come questi avrebbe dovuto attendere cent’anni prima di essere capito da una élite e intanto la massa dei poveri - sacerdoti e fedeli - sarebbe rimasta fuori nelle tenebre, flagellata dal rigorismo e dalla disperazione.
Ora, mentre le opinioni riformiste degli eminenti regalisti, giuristi e fisiocrati suoi contemporanei si rivelarono incapaci a cambiare la società e l’economia italiana, impotenti ad accrescere le risorse proporzionalmente all’enorme crescita demografica, buone solo a far espellere i Gesuiti, nel suo campo Alfonso non morirà senza avere interpellato l’Occidente e a cinquant’anni dalla morte la sua spiritualità cristica e mariana, la sua teologia della grazia e della preghiera e soprattutto la sua morale e la sua pastorale si saranno ufficialmente imposte a tutta la Chiesa. Alla fine del secolo XIX un grande storico tedesco della Chiesa, il luterano Adolf von Harnack (1851-1930) dovrà costatare non senza dispetto:
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“Quando la Compagnia di Gesù stava attraversando tempi tempestosissimi Dio fece sorgere un nuovo campione per il Probabilismo, ed assicurò alla Compagnia un trionfo per l’avvenire che nessuno avrebbe mai potuto prevedere. Questo campione fu il Fondatore dei Redentoristi, Alfonso Liguori (l699-l787) il teologo romano più influente dopo l’epoca della Contro-Riforma” (in nota: “Il Liguori ed il Voltaire furono precisamente contemporanei: fra le nazioni romaniche essi furono influentissimi e guidarono le anime”), “Liguori, il Beato (1816), il Santo (1829), il Dottore della Chiesa (1871) è il vero contrapposto di Lutero, e nel Cattolicesimo moderno ha fatto quello che per l’antico fece Agostino... Quantunque il Liguori non arrivasse ai vergognosi estremi dei Probabilisti del secolo XVII, pure accettò pienamente il loro metodo, ed in un numero infinito di questioni, comprese quelle dell’adulterio, dello spergiuro, e dell’omicidio, ei fu abile nel trasformare in veniale il peccato mortale. Nel secolo XIX ei non trovossi di fronte ad un Pascal; anzi di decennio in decennio, l’autorità del Liguori non fece che aumentare, egli era il nuovo Agostino, ed oggi fa scuola in tutti gli Ordini, in tutti i seminari, in tutti i manuali di dottrina”5.
In questa appassionata constatazione, troppo densa per riportare tutte le indispensabili sfumature, il maestro della storia dei dogmi non teme di mettere il Liguori sulla bilancia - anche lui! - con Lutero, del quale è l’esatto contrappeso; con Voltaire, L’altro capo spirituale del secolo ma in campo opposto; soprattutto con Agostino, il pastore d’anime pessimista e rigoroso, soppiantato dall’ottimismo e dal “lassismo” (?) di Alfonso. La bilancia infatti pende dalla parte del napoletano .
Veniamo così condotti nel cuore stesso del dibattito fondamentale della salvezza, un dibattito vecchio come il cristianesimo: lungo la breve vita di ogni uomo, nella collaborazione umano-divina dove si pesano il bene e il male, dove si giocano il cielo e l’inferno, la bilancia va tenuta in equilibrio tra i due partners? Ammesso che il problema possa porsi in questi termini, qual è la parte di Dio e quale quella dell’uomo ?
La parte di Dio? Ma Dio è l’onnipotente: tutto deve dipendere da lui e lui da nessuno. Riuscite a immaginarlo sospeso alla buona volontà della sua creatura e messo in scacco da essa? E allora la parte dell’uomo? L’uomo è libero, si o no? E’ capace di fare qualcosa o no? E solo un oggetto in mano a Dio? Ma non sarebbe onorevole né per l’uno né per l’altro. Che cosa significherebbero allora buona volontà, impegno, moralità, santità?
All’inizio del secolo V il monaco irlandese Pelagio negò che
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L’umanità fosse peccatrice: la natura umana è buona, bella e pura; la liberta umana è capace di osservare la legge divina con le proprie forze; la grazia, cioè l’intervento di Dio, deve solo guidarla e poi coronarla Sant’Agostino reagì con forza e per trent’anni divenne il campione della grazia contro i pelagiani, senza però misurare sempre bene le sue formule. L’uomo è decaduto, diceva, il peccato originale ha reso schiavo il suo libero arbitrio e perciò è incapace di qualsiasi bene; la grazia di Dio invece è onnipotente e quindi solo essa è “efficace”, cioè tale da produrre infallibilmente il suo effetto, senza con questo sopprimere la libertà umana. E come? Mistero... Concretamente di fronte agli appelli del bene e alle tentazioni del male, tu hai sui piatti della bilancia da una parte la sua concupiscenza che spinge al peccato, dall’altra il soccorso di Dio che stimola alla virtù. Se la grazia ha maggior peso, essa ti determina alla virtù; se invece lo ha la concupiscenza, questa ti determina al peccato. Ma allora, in questo secondo caso, che fine ha fatto la grazia? Per sé era “sufficiente ”, ma la tua concupiscenza l’ha vanificata, dato che era troppo forte. Se quindi la “ grazia sufficiente ” perde il suo peso, la colpa è tua, della tua concupiscenza che è tanto pesante. Tutto il male insomma deriva dalla “ natura cattiva ”, tutto il bene dalla “grazia efficace”. E Agostino arrivava a questa terribile professione di fede:
“Come cristiani cattolici per grazia di Gesù Cristo, sappiamo che gli uomini prima della loro nascita non hanno fatto né bene né male in una vita propria... Vengono nel mezzo delle miserie della presente vita, perché, usciti da Adamo secondo la carne, hanno contratto la lordura del peccato che conduce alla morte, né possono essere liberati dalla pena della morte, la quale da uno solo è passata in tutti a seguito di una giusta condanna, se non sono rigenerati per grazia in Gesù Cristo.
Ma la grazia di Dio non viene data ai bambini o alle persone in età di ragione in virtù dei nostri meriti... Né la grazia è concessa a tutti gli uomini. E quelli ai quali viene data non l’ottengono in forza del merito delle loro opere, né di quello della loro volontà... Solamente per gratuita misericordia divina viene data la grazia a coloro ai quali è concessa dal Signore e per un giusto giudizio di Dio non viene data a coloro ai quali Dio la rifiuta”6 .
Solo alcuni uomini sono quindi predestinati gratuitamente alla salvezza, grazie a un decreto assoluto dell’onnipotenza divina, che non ha altra motivazione che questa stessa onnipotenza.
- E gli altri uomini? e la bontà di Dio? e la sua giustizia? e la libertà umana?
- Spiriti indiscreti ! Accettate di non sapere ogni cosa e imitate piuttosto san Tommaso d’Aquino, che ammette su questo punto la piena autorità del “ dottore della grazia”.
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- No, dissero Erasmo e gli umanisti del Rinascimento, la natura è buona, nell’uomo ragionevole la virtù esercita tanto fascino! Seguite la natura e sarete salvi!
Lutero, monaco agostiniano, reagì proclamando l’agostinismo più duro; lo stesso fece Calvino.
Il Concilio di Trento tenne i due capi dal bandolo affermando che da una parte è necessaria la grazia attuale (l’aiuto di Dio) per tutte le opere buone e dall’altra l’uomo è effettivamente dotato di libero arbitrio. Ma quali rapporti si danno tra la grazia e la libertà? Il concilio non seppe che dire, lasciando la porta aperta ad ogni genere di conflitto tra gli stessi cattolici. Cominciarono già nell’assise conciliare.
Cent’anni dopo (1640) apparve un libro ponderoso, l’Augustinus, scritto qualche anno prima dal rettore dell’università di Lovanio, Cornelius Jansen, detto Jansenius (allora vigeva la mania molieresca di latinizzare i nomi), sulla dottrina agostiniana della grazia. Il dotto e austero professore, morto nel frattempo da vescovo di Ypres, ossessionato dall’angoscia della salvezza e dall’idea di un Dio terribile e despota, si era messo un paio di occhiali affumicati nel leggere Agostino, che da parte sua non aveva certo bisogno che lo si rendesse ancora più oscuro. Ne aveva conservato solo le tesi più pessimiste: il libero arbitrio di fatto non esiste; la “grazia efficace” fa tutto; il Cristo non è morto per tutti gli uomini; nella “massa dannata” degli uomini Dio sceglie pochi privilegiati ai quali, non già a tutti, accorda la salvezza eterna.
Un amico di Jansenius, Duvergier de Hauranne, abate di Saint-Cyran, introdusse questo “cristianesimo” tetro e austero tra le monache di Port-Roval sue penitenti. Monache e “ solitari ” di Port-Royal-des-Champs divennero “giansenisti”, cioè discepoli di Jansenius.
Con la sua teologia di un Dio arbitrario e avaro nei riguardi della sua salvezza, il giansenismo poteva solo generare l’ansietà delle anime nobili, l’ossessione della legge di Dio, L’esigenza di una purezza angelica, L’allontanamento dai “temibili” sacramenti, in una parola, il rigorismo morale e pastorale.
“La morale di Jansenius è sempre una scommessa in favore di Dio. La ragione umana corrotta dal peccato originale non è capace di intervenire in morale più validamente che in dommatica. Ogni ignoranza o errore nel campo morale è insieme conseguenza del peccato originale e colpa imputabile alla coscienza. L’unico conflitto possibile è quello che oppone la natura corrotta alla volontà di Dio e la sua risoluzione è fin troppo evidente.
Così il giansenismo rigetta il probabilismo e si impegna a istaurare un assoluto tuziorismo. Il suo ideale morale è ben presto detto: applicare, in tutto il suo aspro rigore e
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senza considerazione per le circostanze di tempo e di luogo, la parola di Dio come si è concretizzata nella Chiesa primitiva” 7 .
Appena apparso, L’Augustinus si attirò violente contestazioni da parte dei Gesuiti di Lovanio prima e poi di ogni altra parte d’Europa mentre fu applaudito da vescovi, “religiosi” (Oratoriani di Francia Domenicani, Carmelitani) e università. Le reiterate condanne del giansenismo da parte di Roma (1641, 1642, 1653 e soprattutto 1713 con la bolla Unìgenitus) servirono solo a diffonderne il virus nell’intera Europa, mettendo in moto il “ complesso antiromano ” e accendendo nuovi conflitti tra i cattolici 8.
Nell’ambito del cattolicesimo, che si divise in due correnti, si affrontarono due “scuole”: da una parte coloro che erano prima di tutto preoccupati di salvaguardare l’assolutezza di Dio, la sua onnipotenza, i suoi diritti, la sua legge, essendo Dio tutto e l’uomo, paragonato a lui, niente, operatore di niente, capace di niente (a voler essere precisi il paragone è semplicemente impossibile); dall’altra coloro che invece volevano onorare la persona umana, la sua ragione, la sua volontà, la sua libertà. La prima scuola, coerente con il procedere speculativo, fu quella dei Domenicani al seguito di san Tommaso, insieme con il Santo Ufficio, la maggior parte dei vescovi e dei seminari; la seconda fu quella dei Gesuiti al seguito dell’uomo degli “Esercizi” sant’Ignazio, e del teologo Luis de Molina (1535-1600). Per farla breve, si parlò di “ tomisti ” e di “molinisti”.
I “tomisti” erano i cavalieri dichiarati della sovranità di Dio: per la loro dommatica la grazia è tutto, per la loro morale in caso di dubbio occorre seguire sempre l’opinione più probabile (probabilior) e perfino mantenersi sempre nel più sicuro (tutior), cioè prendere sempre le parti della legge. Erano quindi “probabilioristi”, spesso “tuzioristi”, sempre rigoristi.
I “molinisti” invece ritenevano che dopo tutto Dio è ben libero di rendere l’uomo partecipe della sua sovranità, per cui la decisione umana collabora efficacemente con la grazia per la salvezza, e in morale è permesso seguire qualsiasi opinione probabile, anche se contraria alla legge (probabilis). Furono quindi “probabilisti”, liberali, spesso accusati di lassismo.
Il secolo XVII aveva visto un po’ dovunque il progressivo trionfo dei rigoristi, che, anche in reazione alla ventata di permissivismo venuta dal Rinascimento, aveva improntato a severità il clima ufficiale; di qui ll successo dell’Augustinus e poi delle Provinciales di Blaise Pascal malgrado l’Indice e i libelli. Le successive condanne da parte del papi Alessandro VII (1665-1666) e Innocenzo II (1679) avevano finito di soffocare il lassismo.
L’imprigionamento di Molinos (1685) e
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di Jeanne Guyon (1695) e la messa alla berlina di Fénelon (1699 furono l’incarcerazione e la squalifica della libertà.
Il probabilismo fu sul punto di scomparire quando a generale della Compagnia di Gesù venne eletto, per le pressioni di Innocenzo XI, Thyrso Gonzalez con il compito di imporre ai Gesuiti il probabiliorismo. Fortunatamente la sua fatica andò a vuoto e il nuovo papa Alessandro VIII intervenne perché non si stringesse fino in fondo il cappio con il quale si voleva strangolare ogni specie di probabilismo (1690).
Spingendosi più in là di Roma, L’Assemblea del Clero Francese del 1700 pose fine al Grand Siècle con una condanna solenne del probabilismo, senza alcuna sfumatura, senza appello e senza suscitare la minima voce di protesta; anzi vescovi, professori di seminari, predicatori, confessori, in Francia e fuori, si convinsero che ne avrebbe risentito l’onore di Dio, se non avessero visto peccato dovunque e se non si fossero mostrati duri con i peccatori.
Così il rigorismo divenne padrone del campo. Tanto peggio per il Vangelo! Mi limito a due esempi-chiave: L’unione sessuale degli sposi è dichiarata peccato, a meno che non sia giustificata dalla volontà di procreare o scusata dalla richiesta dell’altro coniuge (a dire il vero anche Francesco di Sales non aveva saputo dire altro a Filotea). Secondo esempio: il rimedio per eccellenza da adoperare per la correzione dei peccatori è il rifiuto dell’assoluzione con il conseguente loro allontanamento dalla comunione: le medicine vanno messe fuori portata dei malati e riservate solo a coloro che stanno bene! Di qui queste battute tra un vescovo del Midi francese e un parroco “vecchia maniera”:
- Monsignore, sono desolato: ho un solo uomo che fa la comunione a pasqua !
- Ma è ancora troppo, mio caro curato!
L’abbiamo già detto nel corso del capitolo 13, Alfonso de Liguori trovò e ricevette questa cultura pre-evangelica nel seminario, nella diocesi di Napoli, nelle Apostoliche Missioni: quella di Giovanni Battista: “Già la scure è posta alla radice degli alberi” (Mt. 3, 10; Lc. 3, 9). Dovette pagarla di persona prima con i suoi scrupoli di coscienza, poi con le sue angosce di giovane confessore.
Ma ben presto si rese conto che missionari esperti e veri uomini di Dio, attenti al Vangelo e alle persone, praticamente agivano diversamente dalle teorie ufficiali - la storia non finisce mai di ripetersi, ma secondo quali criteri? Di fatto era il caos.
Nella costante comunione con il Cristo, con il Vangelo e con i poveri peccatori, Liguori, confortato anche dall’ubbidienza a Pagano, Torni, Falcoia, Cafaro, arrivò a convinzioni pratiche benigne e otti-
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miste. Professore di morale, scelse quale testo da commentare un maestro del probabilismo, il gesuita H. Busemhaum, non perché ne approvasse tutte le soluzioni (lo gonfiò e lo contraddisse con le sue Adnotationes), ma perché gli piacevano il piano, il metodo, la concisione e la moderazione 9. Avendo optato in coscienza per il probabilismo, adottò il migliore probabilista di allora, sapendo bene che non si fanno avanzare le idee e le cose se non partendo da dove si è arrivati e da ciò che già esiste.
Dopo almeno cinque anni di un lavoro ripugnante quasi fino alla nausea, la pubblicazione delle Adnotationes in Busembaum poteva significare la fine della fatica? No, era solo l’inizio di un impegno che riprenderà ininterrottamente per più di trent’anni.
Nel dicembre 1751 il P. de Liguori scrisse da Nocera dei Pagani a suor Maria di Gesù, priora del carmelo di Ripacandida:
“In quanto al venire io costi, Sorella mia, è impossibile, almeno per ora. Non sono questi viaggi più per la salute mia; oltre che ora sto con un’opera in mano, di stampa, per li confessori, che non posso per quest’anno lasciare un momento; e perciò non esco mai di casa”10.
Interessa poco se si riferisse al rifacimento della sua Morale sul punto di apparire in due volumi o alla sua pastorale in italiano (Pratica del confessore) aggiunta al secondo tomo, in ogni caso sappiamo che stava rifacendo tutto da cima a fondo, pur conservando sempre come filo conduttore il Busembaum. Il risultato fu la sua Teologia morale.
Sarebbe bello saperne di più sull’ambiente missionario e intellettuale creato intorno a lui dai padri Giovanni Mazzini, Girolamo Ferrara, Alessandro Di Meo, ben presto Gaspare Caione (il giovane avvocato conquistato nella missione di Troia, professo e sacerdote nel 1752) e dagli studenti. Non possiamo però dimenticare il giovane sacerdote Aniello Ruscigno (28 anni, professo il 2 ottobre 1751), che finì letteralmente con l’ammazzarsi nel leggere le fonti, cercare i riferimenti, stabilire l’indice, correggere le bozze, mentre Alfonso valutava personalmente ogni cosa e scriveva quasi tutto di sua mano 1474 pagine con più di 70.000 citazioni di oltre 800 autori 11.
La sua Teologia morale è una vera enciclopedia. I due tomi, dedicati a Benedetto XIV, apparirono a Napoli presso Giovanni di Simone, il primo nell’autunno 1753, il secondo nella primavera 1755, nelle stesse settimane in cui Aniello Ruscigno, dopo aver versato sangue sugli in folio di morale, diceva addio a questo mondo, a soli 32 anni, la vigilia dell’Ascensione (7 maggio 1755).
Commentando il suo maestro Francesco di Sales, Alfonso scriveva:
“L’officio di confessare è il più importante è il più difficile di tutti. E così è: egli è il più importante, perch’è il fine di tutte le
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scienze, ch’è la salute eterna: il più difficile, mentre per prima l’officio di confessore richiede la notizia di tutte le scienze e di tutti gli altri offici ed arti; per secondo la scienza morale abbraccia tante materie disparate; per terzo ella costa in gran parte di tante leggi positive, ciascuna delle quali si ha da prendere secondo la sua giusta interpretazione; inoltre ogni legge di queste si rende difficilissima per ragione delle molte circostanze de’ casi, dalle quali dipende il doversi mutare le risoluzioni.
Alcuni che si vantano d’esser letterati, e teologi d’alto rango, sdegnano di leggere i moralisti, che chiamano col nome (appresso loro d’improprerio) di casuisti. Dicono, che basta per confessare posseder i principi generali della morale, poiché con quelli possono sciogliersi tutti i casi particolari.
Chi nega, che tutti i casi si han da risolvere coi principii? Ma qui sta la difficoltà, in applicare a’ casi particolari i principii che loro convengono. Ciò non può farsi senza una gran discussione delle ragioni che son dall’una e dall’altra parte: e questo appunto è quel che han fatto i moralisti, han procurato di chiarire con quali principii debbano risolversi molti casi particolari” 12.
Ponendosi molto al di sopra di una casistica alla Pascal, Alfonso faceva così capire chiaramente che il vaglio delle scelte va fatto prima al vertice, a livello di principi da assumere per la valutazione dei casi particolari. I principi dei casisti farisei sul sabato non erano gli stessi del Signore, perché essi assolutizzavano la legge e questi amava le persone. La novità di Alfonso moralista si collocava a questo livello teologico e antropologico (in una parola, evangelico), nella calda luce della sua santità, dato che fu un uomo posseduto dallo Spirito Santo. Sta qui il segreto del suo metodo.
Occorre infatti distinguere attentamente il metodo, già acquisito quando commentava Busembaum, dal sistema, frutto dello stesso metodo, maturato solo nel 1762.
Qual è allora il metodo del Liguori? Lo spiegava in una solenne dichiarazione, nella quale l’uomo di Dio e l’uomo dei Lumi si fondevano, svelandone la statura 13 :
“In questo mio libro capiterà spesso che non riuscirò a soddisfare il gusto di tutti. Da coloro che sono attaccati più di quanto sia giusto o alla sentenza rigida o a quella benigna sarò ritenuto o troppo austero, perché mi sono distaccato dai pareri di molti e importanti autori, o troppo indulgente, perché ho accettato come probabili numerose opinioni in favore della libertà”.
Liguori dava subito il colore. Da uomo di scienza del suo tempo rifiutava la prova d’autorità e sulla sua bilancia i nomi dei grandi della morale non impressionavano né per i titoli né per il numero, ma avevano
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valore solo per il peso delle argomentazioni; da santo con uno sviluppato senso di ammirazione per i tanti santi intorno a sé, da quelli del popolo minuto delle Cappelle serotine ai propri confratelli, rifiutava il pessimismo agostiniano, ristabilendo il povero uomo nella sua dignità di partner quale era stato voluto da Dio. Detto questo, ecco il suo giuramento:
“Chiamo Dio a testimone - Dio al quale mi sono dedicato per il suo onore e la salvezza delle anime - che tutto ciò che ho scritto non l’ho scritto sotto l’impulso di qualche passione, o per cedere alle parole di qualche autore, o per inclinare troppo verso l’austerità o la benignità. In ogni problema dopo diuturno studio mi sono preoccupato di arrivare alla verità, soprattutto in quelle cose che sono di maggior importanza per la prassi”. Aveva perciò studiato gli autori antichi e moderni, pesandone attentamente le ragioni, tanto che “a volte per farmi un retto giudizio di una questione ho consumato più giorni. Pertanto non ho seguito alla cieca le vie degli scrittori come una pecora (per usare le parole dei rigoristi), ma mi sono impegnato ad attingere la verità o ad abbracciare quelle sentenze che maggiormente si avvicinano alla verità. Con tutte le mie forze ho cercato sempre di anteporre la ragione all’autorità e, quando sono stato convinto dalla ragione, non ho esitato a contraddire numerosi autori, anche quelli ai quali forse avrei potuto maggiormente aderire”.
Alla possibile obiezione: malgrado questo, citate maggiormente gli autori favorevoli a una morale benigna, rispondeva:
“Non ho omesso però di leggere anche gli autori favorevoli alle sentenze rigide... con animo pronto a mettere da parte il mio parere nel caso che le loro ragioni mi avessero convinto della loro verità. Ma come potevano convincermi, quando li vedevo sforzarsi a sostenere le loro opinioni con invettive e scherni più che con la forza delle argomentazioni? Come avrei potuto aderire in tutto a coloro che troppe volte predicano che le proprie opinioni sono vere e più conformi al Vangelo per il solo fatto che sono più rigide? E spesso insultano le opposte come false e contrarie al Vangelo solo perché sono favorevoli alla libertà?
Del resto... non bisogna imporre niente agli uomini sotto colpa grave a meno che la ragione non induca a ciò con evidenza...
Guardando la fragilità della presente condizione umana, non è sempre vero che sia più sicuro dirigere le anime per la via più stretta”.
Ma allora Alfonso presumeva di avere l’infallibilità dalla sua parte? Era mille miglia lontano dal solo pensarlo: “Protesto, continuava, che se mi è sfuggito qualche errore desidero che mi venga segnalato. Sono infatti pronto a ritrattarmi immediatamente e senza rossore, come non ho arrossito in questa mia nuova edizione di prendere le distanze
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da numerose opinioni precedentemente ritenute probabili, apparsemi poi o troppo benigne o troppo rigide”.
Stendeva infatti nella Teologia morale un elenco di ben 99 proposizioni delle Adnotationes, che riteneva di dover correggere; nella sesta edizione (1767) ne ritratterà ancora 23 e nell’ottava e penultima (1779) altre 3 .
- Ma comportandovi così, padre, comprometterete la vostra reputazione e il credito dei vostri libri!
- Si dica di me ciò che si vuole. Son soggetto ad errore come tutti gli altri. Sant’Agostino e san Tommaso l’han fatto prima di me... Io non cerco la mia gloria, ma il bene delle anime e la gloria di Gesù Cristo 14 .
L’atteggiamento fondamentale di Alfonso fu la ricerca appassionata della verità, di fronte a Dio e alla Madonna del Buon Consiglio la cui immagine dominava sul suo piccolo tavolo di legno bianco e verso la quale i suoi collaboratori lo vedevano gettare spesso uno sguardo, una parola di amore e di invocazione.
Ricerca libera e appassionata della verità, ma di quale verità? Il secondo elemento del metodo alfonsiano sta proprio qui: ricerca di una verità non teorica per il puro sapere, ma pratica per l’agire.
Il suo metodo è come l’arte del medico curante, del “praticante”, anzi egli era sinceramente convinto che in morale non se ne potesse dare un altro, perché nella scienza del retto agire, L’esattezza e la profondità delle vedute non dipendono solo dall’acutezza e dall’altezza dello sguardo, ma anche e in uguale misura dalla singolarità delle situazioni e delle persone, e dall’esperienza di ciò che è concretamente possibile e migliore. Occorre più virtù che scienza e questa virtù si chiama prudenza.
La prudenza è la perenne invenzione, al di là di ogni ricetta, di una condotta giusta e vera nella unicità delle circostanze del momento presente; la suprema saggezza pratica che pone la verità dell’azione particolare.
In Les degrés du savoir, Jacques Maritain spiega che la teologia mistica di san Giovanni della Croce fu “ praticamente pratica”, perché frutto dell’esperienza propria della prudenza, aggiungendo:
“Converrebbe fare analoghe osservazioni nei riguardi del grandissimo moralista non solo speculativo ma anche pratico che è stato sant’Alfonso de Liguori. Ai nostri occhi la dottrina di questo santo è un esempio molto più puro di scienza morale praticamente pratica di quanto non lo siano alcune esposizioni della casistica, alle quali si possono rimproverare insieme una maniera troppo speculativa e una tendenza a misconoscere il ruolo assolutamente irriducibile, nella rego-
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lazione degli atti umani, della virtù della prudenza, la quale non potrebbe essere sostituita da nessuna scienza, perché solo essa è capace di giudicare infallibilmente lo stesso contingente” 15, cioè tutti quei complessi imprevisti di cui è zeppa la vita.
Benedetto Croce, che conosceva molto bene il Sei-Settecento napoletano anche sotto l’aspetto religioso ed ecclesiastico, disse un giorno al P. Domenico Capone: “Alfonso non era casista. Non lo era perché nel dare le regole per la soluzione dei casi, si lasciava guidare, non da schemi, ma dalla intuizione del concreto”16 .
Questa eminente prudenza, nata dalla scienza ma soprattutto dallo Spirito e dal contatto amoroso con gli uomini, condusse il Liguori all’audacia delle revisioni anche più profonde, perfino a livello di principi, come quella, celebre e tanto attuale ancora oggi, sui fini del matrimonio. Alfonso ebbe l’intelligenza e il coraggio di andare contro tutta la tradizione risalente a sant’Agostino affermando che fine primario del matrimonio non è la procreazione: “I fini intrinseci essenziali sono due: il dono mutuo dei corpi e il vincolo indissolubile... Chi si sposasse con l’intenzione di non avere figli, peccherebbe gravemente, ma il suo matrimonio sarebbe valido”. E chiedeva ai confessori di non interrogare i penitenti sulla contraccezione 17.
Anche se il metodo della prudenza normalmente riesce a illuminare di luce diretta l’esistenza cristiana, a volte il diritto e i doveri restano dubbi e la coscienza allora diventa come un tribunale dinanzi al quale si affrontano due avvocati, la legge e la libertà (“legge” è da intendersi qui in senso ampio, come obbligo, dovere, volontà di Dio). Incerta su quanto debba o possa fare, la coscienza può superare la sua indecisione per la via indiretta dei “principi riflessi”. Questi principi erano diversi secondo il sistema morale della scuola teologica a cui ci si rifaceva: più esigenti se si era tomisti, più permissivi se si era molinisti.
Alfonso mise al bando lo spirito di scuola, sembrandogli comico e assurdo che si pensasse “legge” solo perché si era ricoperti del saio bianco del domenicano e “libertà” solo perché si era modellati dalla sottana nera del gesuita. Ricercatore spassionato della verità, non si vincolò per principio ad alcuna scuola.
Pur avendo messo a punto il suo metodo prudenziale, frutto della santità, fin dai primi anni del suo ministero, impiegherà lungo tempo nella ricerca del miglior sistema morale, arrivando a definirne uno suo e originale solo nel 1761-1762, all’età di 66 anni.
Contestato aspramente sia dai rigoristi che dai lassisti, Alfonso scriverà una quindicina di dissertazioni, apologie, note, avvertimenti, per esporre, precisare, difendere il suo pensiero su questo punto e
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dopo la sua morte fino a metà del XX secolo si consumeranno intere foreste in libri e articoli, per discuterne in maniera contraddittoria e non sempre obiettiva 18.
Questo interesse appassionato per il sistema del de Liguori, del quale ognuno si servirà per tirare acqua al suo mulino, non ha uguale se non nell’indifferenza in cui oggi dorme questo problema. Non aggiungeremo perciò un altro volume alle centinaia che prendono polvere nelle biblioteche. Alfonso oggi sarebbe d’accordo che tutto praticamente venisse riportato alla prudenza pastorale, perché il sistema deve cedere al metodo. Perciò raccomandava quella benignità che etichettava di peccato solo ciò che lo era certamente, che ammetteva al perdono il peccatore caduto, che lasciava nella buona fede il vizioso - anche l’adultero! - il cui emendamento non era certo; e invece, da vero medico spirituale, imponeva di procedere sul più sicuro (tuziorismo!) quando si trattava di evitare le occasioni di peccato, mostrandosi perciò molto duro con i fidanzati e con i loro genitori riguardo agli incontri prima del matrimonio, avendo presente la “coabitazione giovanile” a cui si era costretti in quel tempo a Napoli e altrove 19.
Resta da dire che il cammino e la posizione del P. de Liguori nella determinazione del suo sistema morale segnarono profondamente la sua vita intima ed ebbero profonde ripercussioni sulle sue vicende di fondatore.
Conosciamo il punto di partenza: seminarista ricettivo e cavaliere della gloria di Dio, si nutrì di probabiliorismo, mostrandosi ardente rigorista, ma mise tanto cuore, tanto zelo, tanta preghiera e tanta penitenza nel “ lavorare ” gli induriti e i recidivi da non negare mai l’assoluzione.
Dopo un “lungo tempo” di esperienza, quando si rese conto che il rigorismo insegnato dagli intellettuali da camera non era applicato sul campo da eminenti missionari e che era speculativamente poco solido e praticamente nefasto 20, passò all’altra sponda, al probabilismo.
Questo cambio avvenne non in un solo giorno e, per la sua delicatezza di coscienza, a prezzo di dolorosissime crisi, che alcune pagine delle sue note intime ci lasciano intravedere. Ma i suoi direttori (successivamente, Pagano, Falcoia e Cafaro), i suoi consiglieri e i suoi collaboratori (Torni, Iorio, Villani, Muscari) lo incatenarono in qualche modo a questa opzione a livello della sua stessa esperienza personale.
Per fermarci solo al testo più significativo per il suo contenuto e per le sue date, è possibile decifrare a p. 227 del suo secondo diario frasi tormentate, con sottolineature dello stesso Alfonso, che ritornano poi a p . 233:
“Ubbidienze particolari. A 24 ottobre 1721. M. Falcoia: che mi
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serva della probabile, come fanno tanti. Di più D. Paolo (Cafaro) mi ha dato l’ubbidienza di non pensarci più per scrupolo, scrupolizzando. Ho fatto voto di far questa ubbidienza. Oggi 13 luglio 1748”. Qualche anno dopo, aggiungeva: “Di più, se scrupolo in confessione, D. Paolo: cacciarlo come tentazione. Vedi Muscari p. 223. Lo stesso D Andrea”. Cosa avevano detto Muscari e gli altri a Alfonso, mentre la sua coscienza delicata diventava come il récinto di un torneo nel quale si giostrava sempre in favore dell’opinione probabile? “Muscari. Sono obbligato a far l’ubbidienza, anche il confessore sia probabilista. Almeno è probabiliore che sono obbligato. Il contrario è tentazione. Onde discacciarlo come tentazione. Così anche Villani e il P. Cafaro. A 18 settembre 1751. Di più che io sono obbligato per l’ubbidienza, e voto a seguir la probabile. In dubio possidet l’ubbidienza. Possiamo seguir la probabile sul motivo riflesso, che la nostra è almeno probabiliore cum illa praeponderantia magna che basta a farla tuta, e certa”21.
Chiedo scusa al lettore per queste citazioni un po’ sibilline, ma esse mostrano con evidenza che se Alfonso per quasi trent’anni affermò i principi del probabilismo, lo fece in parte per forza di volontà e grazie all’ubbidienza, senza arrivare ancora a una convinzione personale tranquilla e sicura. Confessore, responsabile di una congregazione di missionari, professore di morale, scelse, commentò e ristampò il migliore probabilista del tempo (1748) e subito dopo (1749) spese tempo e fatica per convincersi - vi arriverà? - e per convincere gli altri della validità del sistema probabilista, in favore del quale il suo direttore e gli uomini di sua fiducia mettevano sul piatto della bilancia quel supplemento di peso ancora mancante al suo intimo convincimento. Pubblicò una rigorosa Dissertazione latina sull’interrogativo: è possibile seguire una opinione probabile in concorrenza con un’altra più probabile? La risposta fu: “constat” per due motivi:
1) “Chi segue un’opinione probabile, agisce secondo prudenza”.
2) Una legge obbliga solo quando è certa, invece “quando è dubbia, è in possesso la libertà”, cioè conserva la sua priorità.
Si è voluto minimizzare l’importanza della Dissertazione del 1749 considerandola un saggio anonimo e non “pubblicato”22 , ma nell’ultima pagina 47 dell’edizione originale, che abbiamo in mano, lo stampatore Pellecchia e il revisore Savastano nominano entrambi chiaramente Alfonso de Liguori nella domanda per la stampa indirizzata a Mons. Torni; il gesuita Francesco Antonio Zaccaria, amico e collaboratore di Alfonso, scrisse nella Storia letteraria (VI, 1754) che l’opuscolo contribuì ad accrescere la rinomanza teologica dell’autore 23 .
L’“operetta” si chiudeva con un appello missionario ai giovani moralisti “che tanto vogliono intraprendere l’ufficio di ricevere le confessioni, perché leggano prima attentamente i nostri autori (probabilisti).
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Solo dopo ognuno segua la sentenza o rigida o benigna che preferisce ”. E aggiungeva queste righe, eco del suo personale combattimento per la pace interiore secondo lo spirito del Cristo: “La nostra maggiore consolazione sta nel fatto che non dovremo comparire dinanzi al tribunale dei probabilioristi, ma dinanzi al tribunale di Cristo e aspettiamo il suo giudizio che condanna solo i trasgressori delle leggi di cui abbiamo una conoscenza certa”24.
Nelle successive dissertazioni del 1753 (nel tomo I della Teologia morale) e del 1755 riprese con qualche sfumatura la stessa dottrina e gli stessi argomenti con una differenza significativa nelle formulazioni, perché si poneva più come avversario del probabiliorismo che come partigiano del probabilismo.
Il successo della sua Morale fu tale che, appena uscito il secondo tomo dell’edizione napoletana (1755), Alfonso si mise in trattative con il grande editore veneziano Giuseppe Remondini per una terza edizione, scrivendogli tra l’altro il 15 febbraio 1756:
“Di nuovo vi raccomando di non dare a rivedere il libro a qualche teologo della sentenza rigida (come per lo più oggi sono i Domenicani); perché io non sono di questa sentenza, ma mi tengo alla via di mezzo. Se fosse qualche Padre Gesuita, sarebbe il migliore; perché questi in verità sono maestri di morale. Ed infatti, i Gesuiti in Napoli sono giunti a lodare anche in pubblico il mio libro. Solamente alcuni han detto che in certe cose io sono stato molto stretto. Ma come dico mi è piaciuta la via di mezzo”25.
Vi ritornò il 30 marzo scrivendo da Napoli, dove predicava al clero mentre inseguiva un impossibile exequatur:
“Io l’invio per ora solamente il primo tomo, ch’ella già può stampare in quel sesto, come meglio le parerà. E frattanto mi metterò ad aggiustare il secondo tomo, dovendosi aggiungere altre belle dottrine, che ho ricavate buona parte dal P. Zaccaria nell’opera di La Croix da lei ultimamente stampata...
Sento consolazione ancora in sentire che V. S. Io farà rivedere da un Padre Gesuita; perché se fosse un Padre de’ Domenicani, che oggidì seguitano il P. Concina, mi riproverebbe molte sentenze ch’io ho poste, come larghe; attenendomi io per lo più alle opinioni dei PP. Gesuiti (non già de’ Domenicani), essendo le loro opinioni né larghe né rigide, ma giuste.
E se io tengo qualche opinione stretta contro alcuno scrittore Gesuita, la tengo quasi sempre coll’autorità di altri scrittori Gesuiti, da’ quali confesso avere imparato quel poco che ho scritto; perché essi (come dico sempre) sono stati e sono i maestri della morale.. E così io mi sono regolato, secondo meglio mi ha paruto secondo la coscienza... E così V. S. non dubiti ch’io non sono molto stretto, ma neppure molto largo.
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La prego di far leggere questa mia al revisore, acciò sappia il sistema che ho tenuto, mentre ho tenuto e tengo il sistema del probabilismo, non già del probabiliorismo, o sia rigorismo”26.
Dieci giorni dopo questa lettera (8 aprile), Alfonso di ritorno a Pagani fu assalito da febbre e da violenti dolori di testa, aggravandosi rapidamente: dalla vigilia della Domenica delle Palme fino al Sabato Santo (10-17 aprile) fu tra la vita e la morte. Lo si sentiva ripetere:
“Bel segno sarebbe morire in questa settimana santa! O bella cosa morire nella settimana santa!”.
Fece comunicare al P. Villani, che stava fondando a S. Angelo a Cupolo una nuova casa, di provvedere per l’interim del governo dell’Istituto alla sua morte.
Gli fu presentata una lettera delle suore di Scala:
- La leggerò nel giorno del giudizio...
Confidò all’infermiere:
- Io ho finito tutto: i libri di morale sono compiti; nella settimana santa me la sfilo!
- Fa’ un altro libro, acciò vivi un altro poco.
- E che debbo vivere, per far peccati?
- Si prega dovunque per la vostra guarigione, gli disse un padre.
- Oh quanto meglio avrebbero fatto, rispose, se pregato avessero il Signore, acciò mi facessi santo, e morissi in sua grazia.
Guarì e con la risurrezione del Signore la “sua” diffuse la gioia nella casa e in tutta Nocera.
Il giovane P. Giuseppe Melchionna, al quale dobbiamo tutte queste parole di Alfonso, ci ha trasmesso un’altra sua confidenza, ben più importante:
- Non sento angustie; ma una sola mi affligge, che è l’aver seguito la probabile. Ma io ho l’ubbidienza del mio Direttore, e voto di seguitarla. L’avessi da sgarrare per questa cosa? Ma per farvi il peccato vi vuole la volontà, io non lo voglio: questo tengo per moralmente certo. Il Signore mi ha perdonato il passato, anzi lo tengo per certo 27.
Dalla sua segreta insoddisfazione era sorta una nuvola, che però non velava il suo giudizio pratico. Ne è prova quanto il 30 aprile dettò per Remondini:
“Io, nella settimana di Passione, sono stato con un’infermità mortale; ma il Signore mi ha lasciato per pochi altri giorni in questa terra.
Se i PP. Gesuiti hanno qualche stima della mia opera, la prego a dir loro da mia parte che quel poco che so di morale (ch’è stato lo studio mio per lo spazio di più di 30 anni) da essi io l’ho imparato. Viva Gesù, e Maria!” 28 .
Due anni e mezzo dopo, il 12 ottobre 1758, scrisse al camaldolese
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Don Roberto una lettera che è doveroso sottolineare:
“È lecito e più che lecito seguire l’opinione probabile, soda, fondata in concursu probabilioris ex parte praecepti... E la ragione fondamentale di tutto ciò si è che essendo la legge sempre dubbia (come si suppone), non vi è motivo che strettamente obbliga a seguire la sentenza che favorisce alla legge ”29.
Così a piccoli passi ostinati, che non è qui il luogo di ripercorrere finalmente nel 1762 Alfonso arrivò a delineare il “suo sistema”: L’equiprobabilismo. Ricordiamo che esso non riguarda le situazioni per le quali il metodo prudenziale indica chiaramente la soluzione, ma quei casi, molto più rari, nei quali la coscienza è indecisa e non sa come risolvere il suo dubbio tra obbligo e libertà. Ecco le tre regole di Alfonso:
“1) Se l’opinione che sta per la legge appare certamente più probabile, siamo assolutamente tenuti a seguirla, né possiamo allora abbracciare la contraria che sta per la libertà”. Vogliono così il primato della verità, il rispetto di Dio e l’autenticità evangelica. Alfonso perciò ritornava su quanto aveva scritto nel 1758 a Don Roberto rinnegando il puro probabilismo.
“2) Se l’opinione che sta per la libertà è solo probabile o ugualmente probabile di quella che sta per la legge, non possiamo seguirla per il solo fatto che è probabile”. La prudenza infatti esige ancora qualcosa. Probabile, probabile? che cosa significa? una tenue probabilità o una probabilità solo esteriore per la libertà? un’idea corrente? una moda “professionalmente accettata” come si suol dire? No, la coscienza deve uscire da questo pantano e arrivare a una opinione personale certamente probabile. Se non vi riuscisse vale allora il terzo principio.
“3) Quando sono in conflitto due opinioni ugualmente probabili... dato che l’opinione che sta per la libertà gode della stessa probabilità di quella che sta per la legge, pone un grave dubbio sull’esistenza della legge che vieta l’atto. Non si può allora dire che la legge sia sufficientemente promulgata e quindi se essa non è promulgata non può obbligare, molto più perché una legge incerta non può indurre un’obbligazione, certa”. Ritroviamo qui perfezionato il principio riflesso invocato nella dissertazione del 1749: “Quando una legge è dubbia, è in possesso la libertà”. Liguori sottolineava così il valore dell’uomo e della sua libertà: Dio, il primo e l’infinitamente libero, ha voluto porre di fronte a sé l’uomo fatto a sua immagine, perciò libero; quindi l’uomo è libero fino a quando una determinata volontà di Dio non gli si manifesta chiaramente nella sua coscienza individuale. In altre parole, la volontà generale di Dio è che l’uomo, figlio suo, faccia ciò che gli sembra “buono” tranne quei casi in cui gli chiede di fare questo o di evitare quello. E’
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necessario inoltre che questo obbligo sia sottoposto “a prova”, cioè che la legge che lo riguarda sia veramente “probabile” nel senso forte del termine, prima di tutto perché per volontà di Dio la libertà è... libera, fino a prova contraria.
Così l’equiprobabilismo di Alfonso coglieva tre primati che invece di essere in concorrenza si equilibrano e si sostengono reciprocamente: quello della verità, cioè in ultima analisi di Dio, quello della coscienza personale secondo la quale ognuno verrà giudicato, quello della libertà, cioè dell’uomo. Insomma di fronte alla infinita dignità delle persone divine sta l’eminente dignità delle persone umane, L’ultima delle quali ha lo stesso valore di Pascal: “Ho versato questa goccia di sangue per te”.
Umanesimo illuminista e personalismo cristiano: Alfonso è tanto del suo tempo quanto del nostro 30.
Il successo fu superiore a qualsiasi previsione e la Teologia morale si diffuse ben presto anche in Europa, tanto che fin dalla terza edizione (1757) fu necessario tradurne in latino la pastorale (Pratica del confessore), che divenne Praxis confessarii. La monumentale opera continuamente ritoccata avrà 9 edizioni durante la vita dell’autore e 73 dopo la sua morte. Ma Alfonso, che pensava sempre ai più poveri (in questo caso ai parroci di campagna che avevano dimenticato il latino) redasse una sintesi in italiano, Istruzione e pratica per un confessore (1757), in tre piccoli volumi, che, richiesta anche fuori dell’Italia, dovette tradurre in latino aiutato da Ferrara e Caione con il titolo di Homo apostolicus. Questa è certamente l’opera più perfetta e più personale del nostro moralista e raggiungerà le 118 edizioni.
Lasciamo l’ultima parola a un eminente teologo domenicano, perito del Vaticano II e specialista in morale, M. Labourdette:
“Il probabilismo, ancora non ben distinto dagli eccessi lassisti e compromesso da questi, fu inizialmente una grave preoccupazione per il magistero della Chiesa, e lo è stato fino al giorno in cui dal seno stesso delle morali della coscienza non è sorto quel monumento che si chiama la Teologia morale di sant’Alfonso.
Si costituì così nel pullulare di opinioni probabili, più probabili, meno probabili, certe, più certe o meno certe, le une chiaramente rigoriste le altre evidentemente lasse, una raccolta di opinioni morali veramente sicure, ugualmente lontane dagli estremismi, scrupolosamente pesate dalla coscienza di un santo, che rendeva alla Chiesa un servizio luminoso. Più volte lodato e raccomandato dai Sommi Pontefici... sant’Alfonso resta un maestro omni exceptione major..
Nella soluzione di un caso concreto, nessun teologo ha più il diritto di ignorare quello che ne ha pensato sant’Alfonso, la cui autorità è tanto grande, tanto autenticamente consacrata
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che, per ritornare a considerazioni da noi fatte in precedenza, costituisce uno di quei “principi comuni” cui è sempre lecito a un confessore rifarsi per la soluzione di un dubbio”31.
Secondo la mentalità del suo tempo, una cosa era la morale e un’altra la santità, non così per il P. de Liguori moralista, che non si limitava a navigare a vista tra gli scogli dei peccati mortali. Al suo grande commentario di Busembaum aggiunse la Praxis confessarii, senza della quale, scriveva, la sua Morale sarebbe “manca ed imperfetta”32. Perché ?
“Quello che il Signore, si spiegava nel n. 121, ha detto una volta a Geremia: Ecco, oggi ti costituisco sopra i popoli. per sradicare.. e abbattere, per edificare e piantare (1, 10), lo dice ora a tutti i confessori, che non solo devono strappare i vizi dai loro penitenti, ma piantare in loro le virtù... coltivare le anime spirituali perché si donino e si votino totalmente al Signore. E più accetta ai suoi occhi un’anima perfetta che mille imperfette. Perciò, quando un confessore vede che un penitente vive lontano dalle colpe mortali, deve far di tutto per introdurlo nella via della perfezione e del divino amore”.
Alfonso sviluppava poi come “il confessore prudente” poteva introdurre e far progredire i suoi penitenti nell’orazione, nella trasformazione del cuore, nell’uniformità alla volontà di Dio, nei propositi generosi.
Un terzo di questo suo “manuale per confessori” era consacrato all’ascensione verso la santità, passo dopo passo.
Contemporaneamente e quasi come contrappeso alla sua grande Teologia, pubblicava per la gente di poca cultura e di borsa vuota succosi opuscoli, che erano tanti piccoli trattati di morale della perfezione battesimale.
Del 1754 fu il Modo di conversare continuamente ed alla familiare con Dio 33: “Dio vi ama? Amatelo... Il vostro Dio sta sempre appresso di voi, anzi dentro di voi... Si trova ancora la mattina per udire da voi qualche parola d’affetto o di confidenza, e per essere depositario de’ vostri primi pensieri e di tutte le opere che in quel giorno voi prometterete di fare per compiacerlo, come anche di tutte le pene che offerirete di patir volentieri per sua gloria ed amore.
Ma siccome egli non manca di presentarvisi innanzi in quel momento che vi svegliate, voi non mancate dal canto vostro di dargli subito uno sguardo amoroso, e di rallegrarvi in udire annunziarvi dal vostro Dio la felice nuova ch’egli non è lontano da voi... che v’ama e vuol’essere amato da voi, con intimarvi in quello stesso momento l’amabile precetto: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo..
Fra il giorno offeritevi spesso a Dio, come faceva santa Teresa, dicendo: Signore, eccomi, fatene di me quel che vi piace; ditemi che volete ch’io faccia per voi, ch’io tutto lo voglio fare”.
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Dello stesso anno furono le Regole per ben vivere (1754), sviluppate poi in Regolamento di vita d’un Cristiano (1759), che fanno avanzare il fedele attraverso le tentazioni, i sacramenti, la vita di preghiera fino alle virtù dell’umiltà, mortificazione, carità fraterna, pazienza, adesione alla volontà di Dio, dato che “ tutta la nostra perfezione consiste nell’amare il nostro amabilissimo Dio... Ma tutta poi la perfezione dell’amore a Dio consiste nell’unire la nostra alla sua santissima volontà”.
Questa Uniformità alla volontà di Dio (1755) venne spiegata nelle trenta pagine dell’aureo opuscolo ispirato ai gesuiti Rodriguez e Saint-Jure. E il “tutto a Dio”, il vertice della morale cristiana, “perché quegli che dà la sua volontà a Dio, gli dà tutto; chi gli dà le robe colle limosine, il sangue col flagellarsi, i cibi co’ digiuni, dona a Dio parte di ciò che tiene; ma chi gli dona la sua volontà, gli dona tutto; onde può dirgli: Signore, io son povero, ma vi dono tutto quel che posso: dandovi la mia volontà, non ho più che darvi”.
Ognuno di questi tre opuscoli ha conosciuto più di 500 edizioni e insieme preparavano il capolavoro della morale popolare della santità, la Pratica di amar Gesù Cristo (1768).
Un aneddoto di questo tempo illustra gustosamente questa morale della perfezione.
Ammesso su istanze di Mons. Nicolai, un fratello faceva poco onore al suo padrino spirituale e, accortosi che stava per essere licenziato, precorrendo i tempi, se ne fuggì; poi, spinto forse anche da qualche diavolo, corse a Napoli presso l’appaltatore regio del tabacco denunziando i padri di Pagani, Ciorani e Caposele di tenere in deposito per il contrabbando quintali e quintali di quelle preziose solanacee.
Ah, che preti trafficoni! Il concessionario statale per coglierli sul fatto lo stesso giorno, senza alcun preavviso, inviò tre squadre di polizia a perquisire le case, ma un’indiscrezione permise a un amico di avvertire i rettori, perché facessero sparire le balle delittuose. I padri non poterono far altro che sorridere e aspettare in pace, perché se la polvere da fiuto, stimata rimedio supremo contro le emicranie e gli “umori del cervello”, riempiva le tabacchiere di Alfonso e dei suoi confratelli, non si trovava una sola foglia di tabacco sotto i tetti dei Redentoristi; o meglio ve n’era nel giardino di Pagani l’una o l’altra pianta e il padre ministro, preso dal timore, ordinò subito di sradicarla.
- No, intervenne il rettore maggiore, il denunziante ha asserito la verità almeno in una piccola parte; non si può in coscienza farlo ritrovare del tutto bugiardo, e metterlo al pericolo di essere punito come calunniatore.
Infatti i soldati, furiosi, presero l’ex-fratello decisi a gettarlo in prigione e a fargli pagare care le spese di missione, ma Alfonso insi-
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stette tanto presso l’appaltatore regio che il poveraccio se la cavò con una piccola multa.
Che avrebbe detto Pascal di questa casistica alfonsiana?34.
Con questa morale personalista della responsabilità, dell’“ uomo in piedi ”, della santità per tutti, stiamo navigando tra i problemi della libertà e della grazia, della predestinazione di pochi o della chiamata di tutti. Il sistema morale e la dottrina della grazia infatti sono rigorosamente legati tra loro, dipendendo entrambi dall’idea che ci si fa di Dio e della sua liberalità, dell’uomo e della sua libertà, dei rapporti stabiliti tra loro da un amore divino altero o generoso.
Come in cento altri, anche in questo campo eminentemente sperimentale le “scuole” dai due lati avevano ingombrato il cammino con i cavalli di frisia delle loro idee a priori e delle deduzioni logiche mostrando poca fiducia nella rivelazione e nell’esperienza. Bergson farà giustizia della pretesa dell’“intelligenza” riguardo alla comprensione della vita, cioè delle persone, dell’unicità delle loro esistenze, delle loro relazioni e con ragione dirà che appartiene all’“intuizione”.
Familiare ai Vangeli, intimo di Gesù e di Maria, servo delle masse umane, Liguori non fu preso dal gioco delle ideologie della teologia naturale uscita già armata dal cervello dei filosofi, e la sua dottrina sulla grazia, come il suo sistema morale, non discese da astratti ragionamenti, ma salì dalla sua lunga familiarità con Dio, con la sua parola e col suo popolo. Espose il suo pensiero in un Breve trattato della necessità della preghiera (una ventina di pagine apparse nel 1757) e più diffusamente in una importantissima opera spirituale e dommatica Del gran mezzo della preghiera per conseguire la salute eterna, e tutte le grazie che desideriamo da Dio (1759).
“Dio è amore - diceva citando san Giovanni - per amore ha creato l’uomo a sua immagine... E Dio vide che era buono (Gen. 1, 263 1). Ma poi è sopravvenuto il peccato ! Non ha però distrutto né l’amore di Dio, né la natura dell’uomo”. Alfonso passava la vita a sondare e a guarire il peccato e le sue rovine, proprio perché non avevano distrutto in nessun uomo l’immagine di Dio. Dio trascende i nostri poveri peccati, il suo progetto di amore non è cambiato: Dio vuole la salvezza di tutti (1 Tim. 2, 4), il Cristo è morto per tutti (2 Cor. 5, 14-15), anche per coloro che, uomini liberi, avrebbero rifiutato ostinatamente la redenzione.
Dio quindi concede a tutti gli uomini le grazie (i suoi aiuti) necessarie alla salvezza; ma, volendoli liberi, lascia compiere agli adulti il passo di chiederle. Sant’Agostino, che i giansenisti avevano letto male, scriveva: “Dio non comanda niente che sia impossibile, ma ogni volta che comanda ti esorta a fare ciò che tu puoi e a chiedere ciò
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che tu non puoi”. “E aiuta perché tu possa”, aggiungeva il concilio di Trento. Ciò che tu puoi, spiegava Alfonso, lo puoi per la “grazia efficace” del Signore senza di cui non puoi far niente (Gv. 15, 5) e che nel suo disegno di amore dà il volere e l’agire (Fil. 2, 13) a coloro che liberamente acconsentono. E quello che tu non puoi? Tu puoi sempre almeno chiedere di poterlo. La preghiera elementare, il grido verso Dio, verso Maria è un atto facile. Se Dio non desse sempre e a tutti la “grazia sufficiente” per questo atto facile, comanderebbe l’impossibile, paralizzerebbe la libertà, distruggerebbe l’esperienza cristiana, non sarebbe più padre ma tiranno, rinnegando la sua Parola: Bisogna pregare sempre e mai stancarsi (Lc. 18, I ); Domandate e riceverete Mt. 7, 7; Lc. 11, 19; Gv. 16, 24)35.
- Ma lo stesso Alfonso non afferma forse che, superato un certo numero di peccati, sperperata una certa misura di grazie, l’ostinato comincia ad essere abbandonato da Dio?
- Alfonso non parla dalla parte di Dio di una misura di grazie, perché Dio è amore e “la misura dell’amore è amare senza misura”, ma parla dalla parte del peccatore di un cumulo di peccati, spiegando:
“Se voi avete un territorio e l’avete circondato di siepe, l’avete coltivato per più anni, e vi avete fatte molte spese, e vedete che ‘l territorio con tutto ciò non vi rende alcun frutto, voi che fate? ne togliete la siepe, e lo lasciate in abbandono”36.
È la legge del rispetto: non si assilla indefinitamente chi non vuol sentir niente; è la legge dell’amore: non si insiste in assiduità quando si è stati a lungo messi alla porta. Alfonso lo diceva dopo Basilio, Girolamo, Ambrogio, Cirillo d’Alessandria, Giovanni Crisostomo, Agostino e tanti altri: oltrepassata una certa soglia di ingratitudine, si deve temere che Dio ritiri ogni grazia speciale ed “efficace” per limitarsi alla concessione delle sole grazie comuni e “sufficienti” però anche agli induriti dà sempre la grazia di poter attualmente pregare 37. Ma chi da lungo tempo ha resistito alle grazie speciali, cederà a quelle semplicemente comuni, a quella almeno della preghiera? Caduta la bilancia da un lato, chi non si è piegato sotto il piombo, si piegherà sotto la piuma? Di chi la colpa?38.
“Chi prega, certamente si salva; chi non prega, certamente si danna - (è lo slogan alfonsiano dieci volte scritto, mille e mille volte predicato) - . Tutti i Santi si sono salvati, e fatti santi col pregare.
Tutti i dannati si son dannati per non pregare; se pregavano, certamente non si sarebbero perduti. E questa sarà la maggior loro disperazione nell’inferno, L’aversi potuto salvare con tanta facilità, con chiedere a Dio il di lui aiuto, ed ora non esser più a tempo di cercarlo... Chi mai ha invocato Dio, e Dio l’ha disprezzato, non dando orecchio alle sue preghiere?”39.