Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
Lettura del testo

PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762)

37 - NON UN MINUTO DA PERDERE. (1754-1762)

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37 - NON UN MINUTO DA PERDERE.

(1754-1762)

 

- P. Latessa, vi è Ubbidienza del Padre Rettore Maggiore, che stassivo bene, e non pensassivo a morire.

E tutti rimasero frustrati: Don Angelo che dovette aggiornare la sua impazienza di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (Fil. 1, 23) e la buona gente di Caposele accorsa intorno al suo capezzale dicendo: “Andiamo a vedere come muore un Santo!”1.

Tre anni più tardi (1754) toccò al P. Rossi, in fin di vita a Ciorani, sentirsi leggere dal P. Villani queste parole di Alfonso: “ P. Saverio caro, io voglio che saniate, e vi mando l’ubbidienza, e per amore di Gesù Cristo e Maria SS.ma ve lo comando”. Rossi baciò il biglietto, lo mise sotto il cuscino e “ cominciò a passare meglio, e fra poco tempo s’alzò sano da letto2.

Non andarono così le cose per Paolo Cafaro, che si andava spegnendo a Caposele nell’agosto 1753, al quale il padre ministro Giovenale lesse la lettera del superiore generale: “Vi l’ubbidienza, da parte del nostro SS. Redentore, di star bene e presto guarir da questa infermità, se ciò è di maggior gloria di Dio”. Non potendo più parlare il moribondo fece segno che non era di gloria di Dio e spirò il 13 agosto, a 47 anni: una colonna dell’Istituto, un santo, del quale Alfonso si affretterà a scrivere la biografia con la speranza di vederlo sugli altari .

Il giorno dell’Assunta scrisse al P. Margotta, procuratore della congregazione, da poco fatto istallare a Napoli in un appartamento del palazzo Liguori al Supportico Lopez:

Ieri ebbi la nuova da Caposele per corriere apposta che D. Paolo passò all’altra vita lunedì a 19 ore. Così ha voluto Iddio, così vogliamo anche noi. Non abbiamo da affliggerci di quel che ha piaciuto a Dio. D. Paolo ci aiuterà meglio dal Cielo.

Veniamo a noi; per fratello Mattia (Fazzano), se avesse da tornare costà tra pochi giorni, potreste tenervi fratello Franco: ma se no, D. Andrea, che appunto sta qui, dice che fratello Franco serve a’ Giovani. Vedete come meglio si può fare.

 

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Già ho destinato il Rettore per Caposele, il P. Mazzini, che tra giorni partirà. V. R. compisca perfettamente il negozio costì.

Mi scrive D. Giovanni Oliviero che v’è un’ottima occasione d’impiegare 10 mila ducati al 3 per cento presso l’Arrendamento del Tabacco, ora forse il migliore ”.

Fatto un rapido paragone con altri titoli, concludeva: “Basta, siasi come si voglia, io direi che preferiste l’Arrendamento a tutte le altre compre; e direi che presto parlaste ad Oliviero. Viva Gesù, Maria, Giuseppe e Teresa. F. Alfonso del SS. Redentore3.

È una lettera tipica del P. de Liguori, dove come in tante altre tutto viene comunicato in modo stringato: Cafaro non è più, per lui è un dramma straziante, ma “ Così ha voluto Iddio, così vogliamo anche noi”; Dio però vuole anche che fratello Franco Fiore rientri a Ciorani, che Caposele abbia un rettore, che il patrimonio dei confratelli sia investito nel modo migliore. Ogni notizia è data con poche parole, perché questo capo ha lo spirito chiaro e vivo, questo scrittore aborre qualsiasi inutile verbosità, questo sacerdote ha fatto voto di non perdere un solo minuto. E tutto è sullo stesso piano, perché tutto nella sua vita è volontà di Dio. Così allora in un amen straziato gettava sulla carta le strofe e la melodia che avrebbero fatto andare in estasi san Gerardo Maiella:

 

“Il tuo gusto e non il mio

Amo solo in te, mio Dio.

Voglio solo, o mio Signore,

Ciò che vuol la tua Bontà.

 

Quanto degna sei d’amore

O Divina Volontà!”.

 

Cafaro si era spento consumato dallo zelo, ma quando si apriva l’anno di grazia 1754, lo stesso Alfonso si sentiva allo stremo, come scriveva a una carmelitana di Ripacandida:

“ In quanto al rivederci in questa terra, non so se avverrà, potrà essere e potrà non essere. Son vecchio ed infermo; onde difficilmente faro più viaggi così lontani. Ed ora quasi non esco più di casa, e la febbre non di rado mi visita; bisogna che mi apparecchi meglio, perché la morte mi starà vicina; e così aiutatemi ad apparecchiarmi al giorno de’ conti.

Vi prego di fare questa preghiera speciale per me, cioè che Gesù Cristo mi faccia conoscere in quell’ultimo, che ho da fare per compiacerlo, e mi dia forza di farlo”4 .

In realtà le campagne missionarie non terminarono con lo sfibrante superlavoro del giubileo 1750-1751 e, malgrado il suo coraggio

 

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sovrumano, lo lasciarono prostrato, fragile per i rigori dell’inverno indifeso dalle malattie. Gli anni 1752-1755 erano stati in buona parte divorati dalla sua Teologia morale, la cui terza e quarta edizione (1757 e l760) lo affaticarono molto (portarono alla tomba il P. Pasquale Amendolara, spentosi di tubercolosi a 35 anni il maggio 1758, tre anni dopo e quasi lo stesso giorno di Aniello Ruscigno) 5. E poi c’era sempre la sua congregazione in crescita da amare, servire e governare era la prima volontà di Dio per lui, la prima preoccupazione del suo cuore .

Così fino alla nomina episcopale nel 1762 fece solo quattro missioni: Benevento, novembre-dicembre 1755; Amalfi, novembre 1756, dove durante la predica sulla Madonna, dinanzi a tutto il popolo e il clero, fu di nuovo strappato dall’estasi alla pesantezza umana 6; Salerno, gennaio 1758; Nola, febbraio 1759, dove “troppo strutto... e defatigato” per la prima volta “non corrispondendo la voce alla grandezza del Duomo, costretto si vide surrogare per pochi giorni il P. Amarante 7 .

Era ora - oserei dirlo - che mettesse fine a tanto lavoro! In realtà quest’uomo, del quale Dio si divertiva a eludere l’umiltà, era prigioniero del suo successo: leggeva nei cuori e nel futuro; lasciava sfuggirsi di mano miracoli che la voce popolare ingrandiva e moltiplicava; il suo mantello veniva ridotto in brandelli per disputarsene i pezzetti; si faceva la posta a qualsiasi oggetto di cui si fosse servito per farsene una reliquia; quando non si riusciva a entrare, ci si ammassava intorno alle chiese dove predicava.

Nel 1755, quando il P. Rossi ebbe l’“imprudenza” di chiedergli di animare a Ciorani i ritiri della settimana di Passione, sacerdoti e laici accorsero in così gran numero che Don Saverio si vide costretto a inviare quattro emissari sulle strade per fermare le carrozze e farle tornare indietro.

Malgrado ciò, i partecipanti al ritiro furono ben 214 e bisognò metterli quattro per camera e farli dormire su pagliericci nei corridoi 8. A Napoli nel ritiro agli ordinandi in marzo aveva avuto più di mille uditori con numerose conversioni spettacolari (sì, proprio nel clero!) 9 .

 

Napoli infatti non era più Napoli.

Nel 1747 si era prodotta una grave frattura tra la corte e il cardinale Spinelli. Questi, mancando forse di prudenza, aveva inquisito e infierito contro i sacerdoti sedotti dai miraggi razionalistici provenienti dalla Francia e dall’Inghilterra e il re Carlo di Borbone, mal consigliato dal seguito regalista, con il pretesto di estirpare ogni rimasuglio di Inquisizione, aveva preteso interdire al cardinale e a qualsiasi vescovo di procedere in materia di fede contro i sacerdoti ritenuti gravemente infedeli Nella visione regalista del potere il re era anche ministro di

 

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Dio, pastore del suo popolo, protettore della Chiesa e quindi, incaricato di vegliare sull’integrità della dottrina come sulla purezza dei costumi . . .

Spinelli, dallo zelo fiero e ambizioso più che umile e tenace, era rimasto psicologicamente prostrato e, interrotta la sua grande visita pastorale, era piombato nell’inesistenza.

Nel dicembre 1749, profittando dell’apertura dell’anno santo, era partito per Roma senza più ritornare, lasciando praticamente senza pastore la Diocesi fino al 1751. Il degrado fu rapido, come Alfonso stesso poté costatare.

Il 16 febbraio 1754 venne nominato il successore di Spinelli dimissionario, Antonino Sersale, un vecchio confratello del Liguori alle Apostoliche Missioni, che aveva già governato le Chiese di Brindisi e di Taranto. Le cattive lingue dissero che si trattò di una scelta dello stesso Spinelli, per far rimpiangere con il contrasto di un uomo scialbo la sua incontestabile classe 10.

Alfonso si sentì in dovere di una lettera all’amico diventato suo arcivescovo:

Padre mio e Signore, sono con questa, giacché la salute per ora non mi permette altrimenti, a baciare i piedi di V. Em., come servo antico, ed al presente come suddito e figlio.

Non occorre che io le spieghi la consolazione da me intesa nelL’essere stata eletta la sua degnissima persona al governo della Chiesa di Napoli. V. Em. se lo può immaginare ”.

Si tratta di espressioni volute dalla buona educazione, che non vengono prese per argento colato dal destinatario, a meno che non si tratti di un ingenuo. Sappiamo però che Alfonso aveva amaramente sofferto per l’“abbandono” di Spinelli, cui niente era sopravvissuto, nemmeno le tre grandi congregazioni missionarie diocesane, che costituivano la spina dorsale del clero napoletano.

“Ma V. Em. non trova più il clero di Napoli come lo lasciò: trova un clero rovinato, e da ciò conseguentemente rovinato anche il popolo; trova specialmente decaduto lo spirito negli ordinandi e, quel ch’è peggio, anche nelle tre Congregazioni de’ preti, per mezzo di cui in tanti anni già prima si è conservato lo spirito del clero napoletano, ch’è stato l’esempio di tutto il Regno e potrei dire di tutto il mondo, ma ora bisognerebbe piangere, al vedere come si trova ridotto”.

Quali i rimedi auspicati dall’autore delle Riflessioni utili ai vescovi? La predicazione personale del pastore prolungata dalle missioni, la selezione degli ordinandi, L’ascolto di uomini disinteressati:

Spero che Gesù Cristo ha mandato V. Em. per rimediare a tutto; e spero ancora vedere rinnovato il tempo di san Carlo Borromeo, che predicava al popolo di Milano con tanto frutto, e così spero di vedere V. Em. che predichi al popolo di Napoli.

 

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Oh che profitto maggiore fanno le parole del Pastore! V. Em. ha predicato così bene prima, da missionario; ora spero, dico, di avere questa consolazione, che predichi in Napoli da Pastore.

Perdoni l’ardire, intendo di dire ciò solo per la gloria di Gesù Cristo: quanto bene farebbe V. Em., se facesse fare la missione in diversi luoghi di Napoli e predicasse ella almeno in due o tre luoghi, almeno per questi primi anni, ed anche desse gli esercizi a tutto il clero, ed in questi esortasse fortemente alla frequenza delle congregazioni e all’osservanza delle loro regole, e precisamente all’attendere alle missioni: giacché colle missioni, da Napoli, si soccorso a tutto il Regno.

Ed agli ordinandi facesse intendere che, o diano segno di vera vocazione, o che si spoglino: giacché la Chiesa piange le sue rovine, perché sono ammessi molti senza vocazione; con far loro insieme intendere che V. Em. non ammetterà agli Ordini, se non coloro che saranno ben provati, non solo nella dottrina, che è il meno, ma ne’ costumi e nello spirito ecclesiastico, ch’è il più necessario.

Prego anche V. Em. a sentire D. Giuseppe Iorio e D. Giov. Battista Fusco, che sono due sacerdoti veramente di Dio e di vero zelo, senza interesse proprio, onde le rappresenteranno la verità delle cose, e l’apriranno la mente a molte altre cose buone per lo bene di cotesto popolo rovinato; almeno prego V. Em. a sentirli.

Resto baciando l’orlo della sua sacra veste, e cercandole la santa benedizione, mi dichiaro per sempre...”11.

L’apostolo delle campagne era forse il miglior conoscitore della Napoliinteriore”. Costretto a farvi frequenti soggiorni per scorrere le biblioteche, i censori, gli stampatori e soprattutto le cancellerie in difesa della sua congregazione, veniva accolto dal P. Margotta e dal fratello Tartaglione nell’ospizio concessogli dal fratello Ercole al Supportico Lopez: “uno scomodo quartino” su un basso che serviva da taverna. Quando più tardi Ercole, avendo sposato la cugina Rachele de Liguori, diverrà per essa erede del cugino D. Domenico de Liguori e emigrerà nel palazzo di via S. Maria Antesaecula, a qualche passo dal Supportico, sotto lo stesso tetto che sessant’anni prima aveva verosimilmente accolto il fresco focolare Liguori-Cavalieri, “un semplice quartino di poche stanze” di questo stesso palazzo diverrà con atto notarile del 30 ottobre 1760 l’ospizio redentorista e la residenza momentanea del rettore maggiore 12.

Ora, durante questi soggiorni di affari, arcivescovo parroci, rettori di chiese e di confraternite, monache, superiori di seminari gli chiedevano predicazioni su predicazioni, che naturalmente portavano con sé confessioni su confessioni. La sera in casa si faceva lunga la fila di cavalieri, magistrati, sacerdoti, religiosi, vescovi, arcivescovi, venuti

 

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a confidargli le loro coscienze o le loro preoccupazioni. Alfonso non si rifiutava a nessuno e la venerazione non cessava di crescere: le persone anche più in vista si mettevano volentieri in coda alla sua porta per baciargli la mano, mentre lui, non sapendo dove sparire, si tirava sul viso un lembo del mantello per passare inosservato.

Subito, appena gli era possibile, fuggiva da tutte queste manifestazioni e da questa capitale dove sentiva crescere il libertinaggio dei costumi e il libertinaggio dello spirito. Un giorno gli fu detto che uno studente desiderava tanto vedere Napoli.

- Ed io, rispose, quando sento che ho da andare in Napoli, mi sento inorridire. Vale più il bosco d’Iliceto che mille Napoli 13.

 

Per il momento aveva solo il giardino di Pagani, dove continuava a coltivare i fiori per il SS. Sacramento. “Quasi non esco più di casa” aveva scritto alla fine del 1753 e per dieci anni non conobbe più il ritmo annuo di otto mesi di missioni, interrotti da due soggiorni in casa: dal 1752 al 1762 i giorni si susseguirono con la stessa costante monotonia . Ma che giorni!

La regola concedeva sei ore e mezzo di sonno la notte e un’ora il pomeriggio 14, ma Alfonso se ne accordava solo cinque. Era perciò in piedi un’ora e mezza prima degli altri e, dopo aver completato la sveglia con una disciplina, si affrettava in coro, raggiunto più tardi dalla comunità per la mezz’ora di orazione in comune.

Celebrate senza canto le ore minori dell’ufficio divino (prima, terza, sesta e nona), riguadagnava la sua cameretta al primo piano (io palmi per 12, cioè non più di m. 2,5 per 3, come quella di tutti gli altri) per cinque ore di lavoro: faccende dell’Istituto, ascolto dei confratelli, lettere scritte o dettate in piccole frasi chiare e nervose, in cui si passava da un argomento all’altro e... “Viva Gesù, Maria, Giuseppe e Teresa”, libri da sfogliare o da scrivere.

Sul suo piccolo tavolo di legno bianco un grande crocifisso, ai piedi del quale aveva scritto con il sangue: “Gesù mio, tutto per te”, L’immagine della Madonna del Buon Consiglio e una pietra di marmo che poggiava sulla fronte quando il dolore di testa si faceva più violento. Se un importuno si attardava in discorsi inutili, il padre alzandosi gli lanciava il suo celebre: “Orsù, voi pregate Dio per me, ed io pregherò per voi!” e il chiacchierone con un buon sorriso si ritrovava nel corridoio. Solo o in compagnia, Alfonso era sempre se stesso: sguardi, preghiere, parole di amore partivano spontaneamente verso Gesù o Maria e, ogni quarto d’ora al suono dell’orologio, diceva un’Ave Maria piena di fervore.

Non aveva ancora celebrato l’Eucaristia perché preferiva prepararvisi a lungo, prender tempo per sentirne maggiormente la fame, arrivare ad essa con il lavoro, le preoccupazioni e le intenzioni di una

 

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mezza giornata tanto intensa. Verso mezzogiorno perciò si avviava verso l’oratorio e, dopo mezz’ora di preparazione immediata, celebrava la santa messa, poi, durante il pasto della comunità, faceva il suo ringraziamento in ginocchio, immobile, viso di fuoco. Alla “seconda tavola”, cioè dopo gli altri e insieme al cuoco e a chi era stato trattenuto dal lavoro, si limitava a prendere in silenzio una semplice minestra, copiosamente cosparsa di aloe o di genziana o di ruta o di assenzio (variava per non abituarsi) e un po’ di frutta su cui stendeva abbondantemente il sale per non gustarne il sapore: “ Così digerisco megliospiegava a chi se ne meravigliava. Il mercoledì, venerdì e sabato consumava questo banchetto in ginocchio. Beveva solo acqua, ma non la toccava mai lontano dai pasti, anche quando la calura si faceva particolarmente sentire .

Se non lavava i piatti, si univa poi alla comunità per gli ultimi venti minuti della ricreazione comunitaria, parlando di Dio, delle missioni, di morale, senza che questo impedisse al suo umore allegro e faceto di rallegrare tutti. Villani ce lo rappresenta con in “volto un’aria di paradiso... sì soave, e mansueto, così lieto, e gentile15 .

Spesso sedeva al clavicembalo per insegnare ai confratelli una delle sue canzoncine spirituali, con cui incantare il popolo nelle missioni. Si arrivava così all’ora della siesta, che Alfonso voleva per la salute e il riposo degli altri, ma quanto a lui, scarpe in mano per non disturbare il sonno dei confratelli, se ne andava in chiesa a tenere compagnia al suo Signore sacramentato per un’ora, troppo breve per il suo amore. Al suono della campana ritornava nella celletta per la lettura spirituale e la meditazione prescritte dalla regola (una mezz’ora per l’una e per l’altra).

Un giorno del settembre 1759, racconterà il suo vicino di camera, lo studente Luca Michele De Michelis, “in tempo dell’orazione del giorno, invece di andare alla stanza assegnatami, aprii la sua, e lo vidi col volto scintillante e splendido. Intimoritomi, mi sopragiunse il palpito, ritirai la porta della stanza, né lui mi domandò dell’apertura e chiusura della stanza. Onde deduco che non se ne avvide, quantunque stava col sembiante rivolto verso di lui”.

Dopo la recita di vespro e compieta, il padre riprendeva il lavoro in camera fino all’Angelus della sera, mezz’ora dopo il tramonto del sole, che per l’Italia del secolo XVIII segnava le 24 e l’inizio del nuovo giorno, celebrato da Alfonso e da tutta la Comunità con la meditazione e l’ufficio di mattutino e lodi. La sua cena era presto fatta: un bicchiere d’acqua, raramente di più.

Trovava così ancora un ora di lavoro prima di andare a condividere con gli altri venti minuti di ricreazione, poi le preghiere della sera e infine, con i fratelli coadiutori, il rosario, prolungato nella visita alla Madonna, nella Via Crucis e in una lunga veglia di preghiera e di lavoro. Non andava a letto senza prima scari-

 

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carsi sulle spalle una severa grandinata di colpi di disciplina (due o tre volte la settimana spinta fino al sangue). Per cercare di dormire, si toglieva almeno il corsetto di crine munito di punte e le croci armate di chiodi, suo quotidiano scapolare? Di fronte a questa costante crocifissione, giorno e notte, non è possibile non pensare alla parola di san Paolo: Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa (Col. 1, 24).

Questa la giornata del rettore maggiore: 10 ore di lavoro, 8 di preghiera, 5 di sonno, 1 per i pasti e le ricreazioni... O terribile santità 16.

Eppure era tanto dolce e umile. Quando a Nocera nel 1761 cadde gravemente ammalato, leggeva o si faceva leggere libri spirituali, ma l’infermiere, il P. Pasquale Caprioli, si assunse la responsabilità di ammonirlo gentilmente, per evitargli uno sforzo che aggravava il suo stato:

- Padre, noi siamo obbligati di ubbidire a V. Paternità quando ci comandate qualche cosa. Io sono prefetto degli infermi e V. Paternità, in questo stato, deve anche ubbidire a me. So che avete voto di non perder tempo; ma io vi prego di non leggere più, né di più far leggere ora che state così incomodato.

Il padre generale abbassò la testa senza dire una parola e la smise con i libri finché non ebbe nuovamente il permesso di riaprirli 17.

Aveva anche fatto voto di compiere il più perfetto e questo per lui era l’ubbidire.

 

Questo spirito di santità fece dettare ad Alfonso l’8 agosto 1754 - una data memorabile per la loro storia - un appello ai suoi figli nel quale è ancora tutto lui, come nel primo giorno 18 .

Prego tutti voi, Fratelli miei in Gesù Cristo, prima di sentir questa mia, di dire il Veni, Creator Spiritus, e domandare luce a Dio per ben intendere e mettere in esecuzione quel che, da parte di Gesù Cristo, io scrivo a tutti ed a ciascuno in particolare.

Padri e Fratelli miei, non sono ancora ventidue anni ch’è cominciata la Congregazione, e da cinque anni è stata approvata dalla santa Chiesa; onde dovrebbe a quest’ora, non solo mantenersi nel primo fervore, ma di più esser cresciuta.

È vero che molti si portano bene; ma in altri, in vece di avanzarsi, manca lo spirito. Questi, io non so a che andranno a parare; perché Dio ci ha chiamati in questa Congregazione (specialmente in questi principi) a farci santi ed a salvarci da santi. Chi vorrà nella Congregazione salvarsi, ma non da santo, io non so se si salverà

Se questa mancanza di spirito si diffonde, povera Congregazione! che ne sarà di lei fra cinquant’anni? Bisognerebbe piangere e dire:

 

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Povero Gesù Cristo! Se non è amato da un Fratello della Congregazione, che ne ha ricevuto tante grazie e lumi così speciali, da chi sarà amato? Dio mio, ed a che servono tante comunioni? E che ci siamo venuti a fare nella Congregazione e che ci stiamo a fare, se non ci facciamo santi? Stiamo a gabbare il mondo, che ci stima tutti per santi, ed a far ridere, nel giorno del giudizio, quelli che allora sapranno le nostre imperfezioni?

Ora vi sono tanti buoni novizi; ma questi, e quelli che verranno appresso, faranno peggio di noi col nostro esempio, e fra non molto tempo la Congregazione si rilasserà in tutto, perché dalle imperfezioni si passerà agli scandali; e se ciò ha da succedere, è meglio, Fratelli miei, che preghiamo il Signore che da ora la faccia dimettere.

Ora io son vecchio già e di mala salute, e già mi si va accostando il giorno de’ conti. Io voglio servirvi quanto posso, e Dio sa quanto amo più ciascuno di voi che i miei fratelli e madre, ma non vuole Dio che io metta a pericolo la mia salute eterna, per amore (ma amore disordinato) verso alcuno di voi.

Tutti siamo miserabili e tutti commettiamo difetti; ma io non mi accoro de’ difetti che non si fermano, ma di quelli che fanno nido, e di certe debolezze che fanno danno a tutta la Comunità: se alcuno volesse queste sposarle ad occhi aperti e difenderle, o almeno scusarle come compatibili, queste mi dichiaro che non posso né devo sopportarle.

Tali debolezze sarebbero, per esempio, o contro l’ubbidienza, contro la povertà, contro l’umiltà o carità del prossimo. Io spero a Dio di conservare sino alla morte questo sentimento e di osservarlo puntualmente, come ho promesso a Dio, di non farmi vincere dal rispetto umano di vedere i Fratelli in cose notabili e di pregiudizio agli altri, senza correggerli. Voi già sapete che forse il mio maggior debole è il troppo condiscendere; ma spero a Dio che mi dia fortezza di non sopportare gli imperfetti, che non si vogliono emendare è che vogliono difendere le loro imperfezioni. E prego voi, che siete giovani e restate a governare la Congregazione, di non sopportare mai un imperfetto di simil fatta, che dopo il difetto non se ne umilia e lo difende. Io mi protesto che, nel giorno del giudizio, accuserò nel tribunale di Gesù Cristo quel Superiore che, per non disgustare alcuno, sopporterà i difetti pregiudiziali e sarà cagione del rilassamento della Congregazione...

Per venire a qualche cosa più speciale, prego ciascuno di attendere alle cose che qui soggiungo. Prego dunque ciascuno:

A far conto della vocazione, ch’è il maggior beneficio che Iddio ha potuto fargli dopo il beneficio della creazione e redenzione. Ne ringrazii ogni giorno il Signore e tremi di perderla...”, per due motivi, il primo dei quali da collocare nel suo tempo: “Salverà più anime un sacerdote della Congregazione in un anno, che in tutta la sua vita fuori della

 

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Congregazione. E parlando del profitto proprio, guadagnerà un Fratello più in un anno col far l’ubbidienza, che in dieci anni vivendo fuori a capriccio suo...

Questo avverto: non pensi alcuno forse di mettere timore, col dire che se ne vuole andare. Per la grazia di Dio, la Congregazione ora è fornita di molti e buoni soggetti, e tuttavia ogni giorno vengono giovani di spirito e di talento, come vedete: giacché è sparso per tutto il Regno il nome della Congregazione ed anche fuori, e credono che nella Congregazione vi è un grande spirito e perfezione (volesse Dio e fosse vera la metà!); e così ci resteranno i buoni, che ancora faranno le missioni e gli esercizi. Ed ancorché avesse da farsi qualche missione meno, sempre sarà meglio conservare lo spirito di osservanza con pochi, che vedere la Congregazione rilassata. Daranno più gusto a Dio quei pochi, che cammineranno dritto, che mille altri che vivranno imperfetti . . .

Prego ciascuno ad ubbidire e non resistere all’ubbidienze de’ Superiori locali. Se alcuno vuole esporre qualche difficoltà, ciò gli è permesso; ma prego costui che, prima di replicare, si rassegni a far l’ubbidienza, se mai la sua replica non gli è fatta buona... ”.

Ubbidienza: per Alfonso si trattava di volontà di Dio, ma allo stesso tempo di efficacia apostolica, come dall’esperienza soleva dire: “Una nave guidata da più piloti non può evitare il naufragio, o non farà, che un viaggio molto infelice ” e “Taluni non sono buoni per superiori neppure per un’ora19. Proseguiva poi:

Prego ciascuno a cercar sempre a Gesù Cristo il suo santo amore, perché altrimenti poco serviranno tutti i propositi. E per ottenere questo santo amore, procuriamo d’innamorarci assai della Passione di Gesù Cristo... Noi, nelle missioni, non insinuiamo altro maggiormente, che questo amore a Gesù Cristo appassionato: che vergogna sarà poi, nel giorno del giudizio, comparire uno di noi, che avrà amato Gesù Cristo meno di una femminella!

E con ciò prego ciascuno ad amare la stanza e non dissiparsi nella giornata, andando di qua e di . Siamo avari col tempo, per impiegarlo nell’orazione, visite al santissimo Sacramento (che apposta sta con noi) ed anche allo studio, perché questo a noi ancora è assolutamente necessario .

E con ciò raccomando a’ confessori lo studio della Morale, e di non seguitare alla cieca alcune opinioni de’ Dottori, senza prima considerare le ragioni intrinseche, e specialmente quelle che, nel mio secondo libro, non sono state da me ammesse più per probabili... Io non pretendo che le mie opinioni si abbiano da osservare necessariamente, ma prego, prima di ributtarle, a leggere il mio libro e considerare quello che ho scritto con tanta fatica, discorso e studio. E questa fatica, Fratelli

 

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miei, io non l’ho fatta per gli altri né per acquistar lode; ne avrei fatto volentieri di meno, se altro non avessi avuto a ricavare che un poco di fumo: Dio sa il tedio e pena che ci ho sopportato. L’ho fatta solamente per voi, Fratelli miei, acciocché si seguiti una dottrina soda, almeno acciocché si proceda con riflessione. Io confesso che tante opinioni prima io le tenea per sode, ma poi ho veduto che erano improbabili: onde prego tutti, e giovani e confessori, a leggere il mio libro, mentre a questo fine l’ho fatto; e poi seguitino quel che loro pare davanti a Dio...

Raccomando, per ultimo, ai Superiori presenti e futuri l’osservanza delle Regole. In mano loro sta questa osservanza... E perciò è necessario che i Superiori non solamente predichino l’osservanza, ma siano i primi a praticarla. Più muove quel che si vede che quel che si sente. Raccomando insieme a’ Superiori la carità coi soggetti, acciò li confortino nelle tentazioni e cerchino, quanto si può, di sollevarli ne’ loro bisogni: dimandando, specialmente nel conto di coscienza, se loro bisogna qualche cosa... Raccomando specialmente l’attenzione e carità coglinfermi, con visitarli e provvederli de’ remedii necessarii, quanto si può, con dimandare loro se bisogna qualche cosa; e quando la povertà non lo comporta, almeno consolarli, quanto è possibile. Raccomando ancora a’ Superiori di fare le correzioni in segreto, perché in pubblico poco giovano; se pure il difetto non sia pubblico, mentre allora servono per gli altri: ma per lo soggetto, anche allora, è meglio correggerlo prima in segreto, e poi in pubblico”.

Dopo i superiori Alfonso passava ai sudditi, raccomandando loro L’umiltà nei difetti, la calma nei disaccordi, il distacco dai parenti (allora nemici giurati delle vocazioni anche più sicure) e poi, e poi. . Ah! quello sventurato che un giorno, umiliato, aveva osato dire: “ E la stima mia! ”. Il sabato seguente, nel corso del capitolo, Alfonso aveva rischiato di perdere il fiato nell’inveire contro “ una tal bestemmia20, ma gli era rimasta di traverso sul cuore:

“Si guardi ognuno di neppure nominare nella Congregazione stima propria. La maggior stima, che deve amare un Fratello della Congregazione, è l’amare l’ubbidienza, e l’essere disprezzato e tenuto in poco conto. Ciò è quello che hanno desiderato i Santi: d’essere disprezzati, come è stato disprezzato Gesù Cristo.

E chi non si vuol far santo non ci può durare nella Congregazione: Gesù Cristo medesimo, che ama assai questa Congregazione, ne lo caccerà. Non vuole il Signore che le prime pietre di questo suo edificio sieno così deboli...

Raccomando ancora l’amore alla povertà: e ciascuno intenda che specialmente i difetti contro queste due virtù, cioè contro la povertà e contro l’ubbidienza, dalla Congregazione non si sopportano, né pos-

 

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sono sopportarsi; perché, caduta l’osservanza circa queste due virtù, è ruinato in tutto e finito lo spirito delle Comunità...

Sappiano finalmente i Fratelli miei, che ciascuno in questa terra dopo Dio, è l’unico mio amore, e per ognuno di loro io da ora offerisco a Dio il sangue e la vita; perché la vita di voi, che siete giovani, può molto servire alla gloria di Dio, e la vita di me, che sono vecchio, malato ed inabile, a che può servire più?...

Dunque finisco, Fratelli miei: in questa vita che ci resta, o poca o molta, il che non lo sappiamo... facciamoci santi ed amiamo Gesù Cristo assai, perché se lo merita, e specialmente da noi, avendoci amati più degli altri... Offeriamoci sempre a Gesù Cristo, acciocché faccia di noi quel che vuole, e preghiamo sempre Maria santissima che ci ottenga il gran tesoro dell’amore di Gesù Cristo. E quando il demonio tenta alcuno nella vocazione, ch’è il maggiore impegno che ha il demonio verso ciascuno di noi, si raccomandi a questa Madre della perseveranza ché certamente non perderà la vocazione.

Benedico ed abbraccio tutti nel cuore di Gesù Cristo, acciocché l’amiamo assai in questa terra, per andare poi a stare uniti ad amarlo nella patria del Paradiso.

Non ci perdiamo la gran corona, che vedo apparecchiata ad ognuno che vive con osservanza e muore nella Congregazione”.

La stessa voce, lo stesso uomo - “Siate buono, formate dei santi!” - si sentono in questi bigliettini inviati l’estate seguente (1755) al maestro dei novizi 21:

Fate loro (ai novizi) far gli esercizi; ma fateli venire alla ricreazione, ed a tutti moderate gli esercizi di spirito e l’applicazione in questi tempi caldi, e fateli uscire spesso e moderate le catenelle in questi caldi”.

“Sì, signore, a N. date sollievo e libertà; ma assistetelo perché è molto combattuto. Vedete per qualche rimedio, latte o altro. Ditegli da parte mia che stia allegramente, ché non è niente. Benedico tutti”.

“Vostra Riv. seguiti con animo grande e confidenza in Dio, e non v’inquietate di niente, né v’angustiate che alcuno si raffreddi e se ne vada. Aiutateli per quel che si può; ma chi è difettoso e non dimostra spirito sodo, avvisatemi, ché lo licenzierò. E chi resta, resta Resti solo chi vuol patir tutto e vuol farsi veramente santo. E dite questo che scrivo, e che chi non ha questo spirito non è buono per la Congregazione.

Ora siamo assai. La Congregazione non ha bisogno spiriti freddi”.

Ogni sabato pomeriggio Alfonso presiedeva il capitolo delle colpe, tenendo una conversazione sulla virtù del mese. Andava sempre all’essenziale:

 

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“Ancorché noi avessimo 30 case nel Regno, 50 nello Stato Pontificio, 200 nelle Indie, e poi non fossimo santi, a che ci gioverebbe?”22.

“Il nostro impiego è quell’istesso che esercitò Gesù Cristo, e dopo di lui i SS. Apostoli. Chi non ha lo spirito di Gesù Cristo, e lo zelo de’ SS. Apostoli, non è atto per questo ministero”.

“Così - scrive Tannoia - per non distogliere i soggetti dalL’esercizio delle Missioni, anche proibì qualunque impiego al di fuori della Congregazione. Non volle Rettorie di Seminari. - I Seminarj, diceva, richieggono i migliori soggetti. Questi affezionandosi al Seminario, perdono l’affetto alla Congregazione, e colla perdita della vocazione si affezionano al comodo, ed alla propria libertà. Così ne anche volle direzione di Monache, siano di clausura, o conservatorio, né in comune, né in particolare. Una Monaca in senso suo è capace tener occupato tutto l’uomo, e non la soddisfa”.

Priorità ai più abbandonatiPadri, e Fratelli miei, giacché il nostro santo Istituto ci obbliga in applicarci nell’ajuto delle anime più abbandonate, procuriamo di avere nel cuore un amor tenero, ed un affetto particolare per le anime più bisognose, ed abbandonate. Padri, e Fratelli miei, se si avesse da fare una Missione in Napoli, e si stesse in strettezza tale, che nel medesimo tempo non si potesse fare nelle Procoje di Salerno; si deve fare quella delle Procoje prima, e differire quella di Napoli, e la ragione, perché questo è il fine del nostro Istituto”.

Ma la redenzione non è stata fatta con le rose. “Continuare Gesù Cristo” presso coloro che sono messi da parte era praticamente votarsi alle spine, ai flagelli, agli sputi, alla passione. “L’amore alla croce” non era perciò un secondo fine dell’Istituto, ma la concretizzazione realistica della sequela del Cristo per la salvezza degli abbandonati: “ Il fine della nostra Congregazione è di renderci simili a Gesù - Cristo, umiliato, povero, e disprezzato. A questo tendono tutte le Regole; e questo è stato il fine principale. Onde chi non si mettesse in capo questo, non solo non anderà mai avanti, ma anderà sempre addietro, addietro”.

Questa “ sequela del redentoredoveva unificare tutta la vita del Redentorista “Se fuori di casa - scrive ancora Tannoia - voleva Alfonso i suoi Missionarj altrettanti Apostoli, in casa li voleva tanti romiti - Fuori, diceva egli, dovete uscire per santificare gli altri: in casa dovete trattenervi per santificare voi medesimi. Prescrisse per tutti, come fine essenziale, l’imitazione di Gesù Cristo capo di Missionarj ”.

Tanto in casa che in missione, perché lo stesso santificarsi in casa - contemplazione, studio - era sempre per la missione. Diceva: “Voi tutti siete uomini di orazione, mentre la fate tre volte il giorno: vediamo, se vivete una vita perfetta. Vi sono tre classi di uomini, i quali fanno orazione alcuni si rassomigliano alle mosche, che girano di qua

 

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e di sopra i fiori del giardino; altri alle caterelle, che si gettano sopra una rosa, e tanto ne mangiano, quanto basta al loro alimento, altri finalmente alle api, le quali succhiano il miele, e prendono la cera dai fiori per riporla nell’alveare. Noi dobbiamo rassomigliarci alle api, perché chiamati da Dio alla Congregazione non solo per la propria santificazione, ma per santificare le anime dei fedeli”.

Ora nessuno ciò che non ha. Così il Rettore Maggiore era esigente, tranne il caso di malattia, per la vita comunitaria e, benché assorto in Dio, non mancava di osservare, come attesta Tannoia, le assenze dei confratelli alla meditazione del mattino, scorgendovi più una mancanza di coraggio che un reale bisogno. Una volta, alla fine della meditazione, comandò al fratello infermiere di portare agli assenti una tazza di ogni ora, proibendo agli “ infermi ” di alzarsi dal letto finché non fosse venuto il dottore. L’unico dottore a venire fu... Ia dieta, che si rivelò efficace e non cara.

Al contrario per i veri ammalati Alfonso aveva una sollecitudine materna: faceva condurre a Napoli dai medici più stimati padri, studenti o fratelli laici e non considerava perdita di tempo visitarli o preparare loro con le sue mani i rimedi necessari. Chiedeva spesso

- Come va la salute? State contento nella Congregazione? Avete bisogno di qualcosa?

Un giorno scorse il P. Margotta “ molto oppresso da malinconia ed afflizione di spirito”:

- Non mi dite niente, Don Francesco? Che cosa vi rende triste?

- Padre, mettetevi al clavicembalo e cantatemi una delle vostre canzoncine della Madonna.

Il padre generale sedette allo strumento e con la sua splendida voce incominciò:

 

“Quanto è dolce, o Madre mia,

Il tuo nome di Maria!

Mi pace,

E tanto piace

Che ‘l vorrei sempre cantar”.

 

Margotta ritrovò la serenità, che per Alfonso era più importante di un capitolo della sua morale.

Padri e Fratelli miei, disse un giorno commentando Giob. 16, 22 finisce la nostra vita... Dilettissimi miei non perdiamo il tempo, doniamo al Signore il prezioso, ed il vile, cioè le cose piccole e grandi... Che ci siamo venuti a fare in Congregazione? Per farci santi. Ma quando cominciamo? Quando?”.

 

Questa conversazione capitolare sul valore del tempo fu forse ispirata

 

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al P. de Liguori dalla partenza quasi contemporanea per il cielo di persone tra le più care: il 25 agosto 1755 il P. Pagano, il 14 settembre suor Maria Celeste Crostarosa, il 28 novembre la madre Donna Anna, il 12 aprile 1756 L’amico e maestro Mons. Giulio Torni.

Un giorno Alfonso aveva detto: “ Quando morì mio padre, feci il sacrificio di non andare in casa; ma quando saprò mia madre in fine di vita, se non mi sarà assolutamente impedito, non avrò il coraggio di non volare al suo letto, per assisterla nei suoi estremi momenti23. Le fu infatti accanto per tre giorni, verso il 10 novembre, amministrandole egli stesso i sacramenti, poi dovette lasciarla all’assistenza spirituale del fratello Don Gaetano e di Francesco Tartaglione con un “addio” tutto di speranza, dovendo aprire il 16 novembre la grande missione di Benevento insieme a venti suoi padri e due ausiliari.

 

Questa missione fu il tempo forte di una nuova fondazione delL’Istituto, ma negli Stati Pontifici, fuori della portata quindi delle minacce napoletane.

Alfonso non volle mai una casa a Roma e se nel 1751 aveva deciso una procura nella Città Eterna, era stato solo per allontanare con un pretesto onorevole Muscari, senza venire a una rottura completa. L’idea invece di una fondazione negli Stati Pontifici gli fu suggerita alla fine del 1754 da un meraviglioso amico dell’Istituto, Don Nicola Borgia, antico superiore delle Apostoliche Missioni, dal 1751 vescovo di Cava dei Tirreni a due leghe da Nocera.

Il vicino ducato di Benevento, pur essendo incuneato nel Regno, faceva parte da sette secoli del dominio papale e poteva perciò, in caso di soppressione regia, dar rifugio ai missionari senza sottrarli al loro campo di apostolato.

Alfonso inviò al vicario generale di Benevento, Don Giuseppe Fusco, originario di Caiazzo e suo caro amico, Villani e Margotta con la preghiera di sondare le disposizioni dell’arcivescovo, Mons. Francesco Pacca, che fu trovato molto favorevole. Il fondatore doveva solo lasciar fare e benedire. Nella settimana di Passione del 1755 il giovane vescovo di Montemarano, Mons. Giuseppe M. Passante, a Benevento per predicare al clero, si recò con Mons. Borgia e con il P. Villani dall’arcivescovo Pacca per cercare di accelerare la fondazione. Così il 6 aprile 1755 Villani, su incarico del Liguori, poteva dare il via alla prima casa redentorista fuori del Regno, a S. Angelo a Cupolo.

A soli otto chilometri da Benevento, su una collina di 475 metri, il borgo e i suoi tre villaggi (211 focolari di poveri, 1013 anime) dominavano superbamente la città e la valle del fiume Sabato: “da , scriveva Landi, si scopre mezzo mondo per dir così”. Ai piedi passava la Via Appia e si incrociavano le strade per la Puglia, l’Irpinia, la Campania e

 

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il Molise. Inoltre fortunatamente non aveva nessun barone molesto, essendo feudo della mensa episcopale.

- In attesa del vostro convento e della vostra chiesa, decise Mons. Pacca, il mio “casino” farà per voi da casa e la parrocchia da chiesa; ecco anche 3.000 ducati per coprire una parte delle spese di costruzione.

Ben presto Liguori aggiunse al nuovo rettore il P. de Robertis e il novizio fratello Gennaro Nola. I lavori iniziarono in agosto. Prima di un anno la nuova comunità avrebbe contato cinque sacerdoti, tre fratelli e due servitori, ma nella chiesa parrocchiale fu subito missione permanente con la “visita” che vedeva tutte le sere “ la chiesa... piena d’uomini e donne con una tenerezza incredibile24.

Impaziente di conoscere e venerare il famoso fondatore, Mons. Pacca si era messo in viaggio fino a Nocera. La missione di Benevento da metà novembre a metà dicembre sarebbe stata il sigillo alla loro collaborazione apostolica.

Frattanto dal 13 al 15 ottobre Alfonso aveva convocato a Pagani il secondo capitolo generale, anticipato di tre anni in seguito alla decisione del 1749, con la partecipazione di 18 padri.

“Il nostro P. Rettore Maggiore, scrive Landi, ordinò che primieramente si leggessero da capo a voce alta tutte le Regole e Costituzioni stampate e già approvate da sei anni addietro nel 1749 dal Sommo Pontefice Benedetto XIV e da tutto il primo Capitolo generale e da tutta la Congregazione accettate ed abbracciate... dopo questa lettura che si faceva passo passo e da capitolo a capitolo, si leggeva la nuova costituzione fatta sulla spiega di detto Capitolo della Regola ed allora domandava egli stesso in giro, se mai quella Regola e quella nuova Costituzione fatta nel primo Capitolo stava in piedi e s’osservava in tutte le case della nostra Congregazione e dove ci stava qualche difficoltà si fermava e si discorreva su tale punto e si facevano da vocali in giro delle riflessioni e delle difficoltà e quando c’erano pareri diversi e se c’era qualche cosa importante e non si fusse convenuto tra di loro, ordinava il Nostro P. Rettore Maggiore D. Alfonso che si fusse stabilito per voti secreti... ma sempre esortava il detto P. Nostro Rettore Maggiore, che avessero avuto avanti gli occhi prima la gloria di Dio e poi il bene della Congregazione...

In questo secondo Capitolo poche nuove cose si fecero... perché allora la Congregazione si ritrovava in una perfetta osservanza di tutte le Regole e ci regnava nei soggetti il primiero spirito dell’Istituto. Onde essendosi lette tutte le Regole e Costituzioni... e vedendosi da tutti i Padri vocali che poche cose si potevano aggiungere al buon regolamento della Congregazione, le stabilirono in pochi giorni con somma pace ed unione. E considerando il detto nostro P. D. Alfonso che le cose

 

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andavano perfettamente bene e che c’era l’osservanza nell’Istituto, specialmente in materia di povertà ed ubbidienza, stimò di dire a tutti i Padri, che per levare la spesa ed incomodo e per non fare stare più le case sole senza Rettori locali, di potersi finire il detto Capitolo in nome di Dio e di Maria SS.ma e tutti risposero comunemente che questo era ancora il loro sentimento e perciò firmatisi tutti i vocali... si diede fine al secondo Capitolo Generale col solenne Te Deum... e così ognuno... partì per la sua residenza25.

L’indomani 16 ottobre 1755 moriva a Caposele il santo fratello Gerardo Maiella e il sagrestano Carmine Santoriello fece risuonate a lungo le campane a festa.

Le innovazioni del capitolo si riducevano a due, riguardanti entrambe il noviziato: potranno essere accettati i giovani anche di 16 anni e la sede da Ciorani, sempre zeppa di esercitanti, passerà nel deserto e tra i boschi di Deliceto. Questo trasferimento fu “strappato” dal padre maestro, Tannoia, malgrado lo spettro della fame fatto presente da Alfonso, che un mese dopo, il 17 novembre, doveva da Benevento rispondere alle prime geremiadi:

“Ho intese le miserie, e per ora io non vedo come costì possiate vivere... Andiamo, andiamo ad lliceto. Ma ora che si mangia? ”.

La fame fa uscire i lupi e... i novizi dai boschi: il 18 luglio 1756 si dovrà trasferire il noviziato a Nocera dei Pagani. Durante questi nove mesi di fame, i biglietti si erano succeduti, carichi di compassione e di qualche ducato, che Alfonso elemosinava dalle altre case... che non avevano niente. Ma i napoletani sono maestri nel vivere il loro bel proverbio: in casa del povero c’è sempre un tozzo di pane per chi ha fame.

Così a Caposele i 4 grani per confratello (20 grani erano la paga giornaliera di un operaio), ricevuti quotidianamente dalla comunità erano stati caricati di un’imposta dal “ consiglio municipale ” contro tutte le leggi. Il P. Caione, presentatosi a fare le sue rimostranze, era dovuto ripartire quasi sotto i fischi. Ne informò il rettore maggiore ricevendo questa “ vendicativarisposta:

Sento le belle cortesie che ci ha fatto la plebe di Caposele Orsù, bisogna vendicarsi. Procurate ora di accrescere alquanto le limosine alla porta ed a chi le domanda di questa plebe. E di più attendete con maggior attenzione alla congregazione di quegl’ingrati.

Quel che mi dispiace è che i tumultuanti lasceranno la congregazione e non avran faccia d’accostarvisi; e ne avviene questo danno spirituale, che mi dispiace più del temporale. Onde procurate di accattivarli e farli accattivare con buone parole a non lasciar la congregazione, e mandarli a chiamare se bisogna: senza nominar mai (specialmen-

 

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te nelle prediche) ciò che han fatto. E, nella Novena, dal predicatore fate sempre infervorare alla congregazione...

Che si ha da fare? Questo è il mondo. Viva Gesù, Maria, Giuseppe e Teresa! ” 26.

Questo era il mondo, versatile e pecorone. Ieri quella popolazione non aveva braccia sufficienti per portare le pietre e costruire Materdomini, oggi non aveva mani bastanti per spremere i padri. La Rupe Tarpea è vicina al Campidoglio e il venerdì santo alla domenica delle palme. Ma Alfonso ripeteva dovunque: “ Rendete bene per male. Date, date... ”.

Allora Caposele dava e... stendeva la mano presso il padre generale. Risposta:

“ Ho letta la vostra ed ho detto: quest’altro violino ci mancava, e mo’ ci siamo tutti.

V. R. mi cerca la messa di Petrella. - Primieramente Petrella è andato ad Iliceto. Per secondo, bisogna sapere che D. Saverio (Rossi) voleva gridare, quando venne qui, per avere più messe; perché tiene da 40 soggetti e da due mila ducati di debiti, e quello che esige dalla vigna, L’ha da pagare al Barone, ma vedendo le miserie di questa casa, non ebbe animo di parlare: sicché levargli, a Ciorani, la messa di Petrella, non è cosa da pensarci, tanto più che questa messa già la tiene.

Dunque, per darvi qualche altra messa, L’avrei da levare da questa casa di Pagani. Or, sentite voi, come sta bella questa casa!

Vi sono da duecento ducati di debiti, che si devono a chianchieri, nevaioli ed altri simili, che vogliono esser pagati. Onde il P. Mazzini s’è protestato che non si fida di mantenere il noviziato, con tutto ciò che io gli ho assegnato un’altra messa, che io aveva assegnata alla sconquassata casa d’Iliceto. In modo che, se non riesce una certa speranza di limosina, bisognerà che si levi il noviziato da qui.

Ora pensate a chi voglio levare questa messa? Io vi compatisco e dico che tutti avete ragione. Ma io vorrei che ognuno mi dicesse come ho da far io, per farvi ragione? Io già vi ho lodato che voi non parlavate, e vedo che ora parlate costretto dalla necessità; ma bisogna abbracciarsi colla nostra sorella, la pazienza, ch’è sorella carnale della povertà. .

Non ho ricevuto lettere da Benevento (cioè da S. Angelo a Cupolo). Benedico tutti, e prego Dio che vi mandi pazienza27 .

Pazienza, Don Alfonso! La “lettera da Beneventoarrivò: Villani chiedeva anche lui denaro. Ricevette questa risposta datata 1 ottobre 1756.

“O D. Andrea mio... bisogna togliersi di capo che questo non può riuscire mai, mai, mai che una casa campi l’altra; perché tutte, in qualsivoglia stato, sono ospedali: e come viene un carlino, se ne va.

 

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Qui ci vorrebbe un discorso lungo per farvelo toccar colle mani. Se qui non avessero giuocato di soppiatto con fare stalle, legnami per lo quarto di sopra ecc., non ci troveremmo in queste angustie. Ma, ora che le cose son fatte, bisogna che taccia e crepi.

Compito che sarà il contratto della masseria in Napoli, spero in questo novembre farvi avere i denari da Grazioli per far le compere...”.

Villani gli aveva chiesto anche altri uomini.

“ Circa qualche altro soggetto per le missioni, son guai; perché gli appletti qui sono infiniti...

Finisco, perché non posso più colla testa. Missioni, debiti, uscita per Amalfi, ecc. Viva Gesù, Maria, Giuseppe e Teresa!” 28.

Il suo “son guaiera un grido di gioia. Giudicate voi stessi! Dal dicembre 1732 Alfonso pensava alla Calabria, la terra dei più poveri perché “la più lontana”, dove era stato chiamato dal vescovo di Cassano, uno dei professori del suo seminario, Mons. Gennaro Fortunato. Ora nel novembre 1756 ebbe la gioia di inviarvi per sette mesi un primo drappello formato dai padri Lorenzo D’Antonio superiore, Francesco Pentimalli, Pietro Paolo Blasucci, fratello dello studente Domenico morto nel 1752 e venerato come santo, e altri dei quali non conosciamo né il numero né il nome.

Non dovette però trattarsi di “un grosso distaccamento”, come vorrebbe Tannoia, dato che nello stesso tempo i figli di Alfonso erano impegnati nel beneventano, nella Lucania, nella Campania e lo stesso fondatore stava per partire per Amalfi con 14 padri. Ad ogni modo la campagna calabrese verrà ripresa più volte in seguito a partire dal 1757. L’amore missionario toccava un nuovo popolo di poveri e Alfonso esultava 29.

 

Ma - umorismo di Dio o combinazione degli uomini? - si apriva anche un altro campo di apostolato per i diseredati, molto diverso dalla Calabria. Spinelli, che aveva fatto espungere dalle Regole redentoriste il voto di andare tra gli infedeli, diventato prefetto della S. Congregazione di Propaganda Fide, fece ricorso, per portare la pienezza della fede cattolica ai nestoriani dell’Asia, proprio a coloro ai quali anni prima aveva tentato di restringere gli orizzonti. Alfonso con la circolare del 18 luglio 1758 lanciò un caldo appello e si ebbe un “ sì ” entusiasta a quasi unanime: 25 novizi e studenti si offrirono per la missione .

Fratelli miei, rispose Alfonso, mi son consolato nel ricevere le vostre lettere di richiesta, e non pensate che io finga. Io ho tutto il desiderio di vedere andare più giovani de’ nostri agli infedeli, a dar la vita per Gesù Cristo; ma bisogna che io mi assicuri dello spirito e della perseveranza di ciascuno: perciò vi prego ora di attendere allo studio (perché si han da terminare gli studi, mentre, prima di andare,

 

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avete da essere esaminati in Roma) e prima di tutto ad unirvi con Gesù Cristo. Chi non va agl’infedeli ben provveduto d’amore a Gesù Cristo e di desiderio di patire, sta in pericolo di perdere l’anima e la fede30.

Ahimè! Tutti questi generosi e il loro fondatore dovettero quasi subito gettare acqua sul fuoco del loro entusiasmo, perché Roma esigeva che i missionari lasciassero la congregazione per passare alla dipendenza esclusiva di Propaganda. Sarebbe stato decimare l’Istituto e massacrare le persone, per cui di colpo il progetto morì, ma non l’ansia di Alfonso e dei suoi figli. Le Cronache inedite del P. Savastano hanno raccolto questa tradizione orale: nel porto di Napoli il P. de Liguori vide un giorno una nave che si preparava per New Orleans e: “ In quelle lontane regioni, disse, approderanno ancora i miei figli ”.

Non aspetteranno molto tempo però per prendere il mare e sbarcare in Sicilia. L’occasione fu data da un ecclesiastico furbo e imbroglione, che, approfittando della venerazione ispirata da Alfonso, ne imitava la grafia per questuare presso diversi vescovi del Regno “in favore dell’opera delle missioni”. Ogni mattina si precipitava alla posta, prelevavadevotamente” la corrispondenza del padre e se ne andava velocemente con “centinaia di ducati”. Fortunatamente una mattina fratello Tartaglione arrivò alla posta prima dello scroccone, prese le lettere del padre e le inviò a Pagani. Si scoprirono così la frode e, ben presto, lo stesso falsario; Alfonso avrebbe potuto farlo perseguire dalla giustizia, ma si contentò di inserire negli Avvisi una messa in guardia nei suoi riguardi.

Si trovò così tra le mani 20 ducati e una calorosa lettera di Mons. Andrea Lucchesi, vescovo di Agrigento (allora si diceva Girgenti). Stabilitosi il contatto, si decise ben presto una fondazione. Una fondazione? Sì e no. La Sicilia faceva parte del Regno di Napoli e il re tollerava solo quattro case, perciò i missionari avrebbero avuto agli occhi del potere lo status di ausiliari del vescovo e abitato in una residenza di sua proprietà.

Per questa missionelontana” - ma allora era vero - Alfonso scelse tra i migliori quattro padri (Apice, Pentimalli, Caputo e Perrotti) e due fratelli (Pasquale e Nunzio) sotto la guida di Pietro Paolo Blasucci non ancora di 32 anni. Si congedarono dalla commossa comunità di Pagani sabato 19 settembre 1761 e raggiunsero Agrigento l’11 dicembre. Questo movimentato viaggio, nel corso del quale tutti rischiarono la vita e di fatto Pentimalli morì, appartiene alla storia personale di Alfonso per l’ansia con cui seguì i confratelli, la preghiera con cui forse li salvò, la pena per la perdita di un fratello e la gioia di aprire per i poveri un nuovo centro di luce e di santità 31.

 

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Egli però non andrà in Sicilia, come già nel corso della missione a Benevento non era salito a vedere S. Angelo a Cupolo, certo per mortificazione della sua “paternacuriosità e fiducia nei suoi figli, ma soprattutto, credo, per orrore di ogni perdita di tempo. Fino al 1751 si era consumato nei cantieri missionari, ma ora non aveva più né la salute né le forze. Questo addio quasi totale alle missioni, dal 1752 al 1762, fece soffrire la sua anima missionaria? Se dovette constatare non senza tristezza che la sua voce non era più capace di riempire la cattedrale di Nola, non gli sfuggiva certo che i suoi libri, tutti sostanziosi e tutti per il popolo, riempivano l’Italia e invadevano già I ‘Europa .

“ Avendo di mira il bene universale dell’anime - scrive Tannoia - anche tra questo tempo diede alle stampe varie opere di gloria di Dio, in salute del prossimo. Troppo ristretta conosceva la sfera del suo zelo ne’ soli luoghi, ove operava. In senso suo, non potendo distender la voce ne’ più lontani angoli della terra, supplir voleva con la penna, ove predicando, giunger non poteva”32 .

La Teologia morale, che tanto l’aveva “mangiato” dal 1750 al 1758, restava un cantiere sempre aperto e sempre molto attivo: riedizioni, dissertazioni, insegnamento ai suoi futuri missionari... Ma si affrettò a raccogliere in volumi anche quello che aveva tanto predicato ai fedeli, ai sacerdoti, ai religiosi.

Il suo Apparecchio alla morte (1758) non è “il libro della paura”, come vorrebbero far credere coloro che non l’hanno mai sfogliato. Contiene, è vero, una meditazione macabra, ma una sola, la prima. Invece la brevità della vita, la morte, il valore del tempo, il peccato, il giudizio, l’inferno sono realtà che ogni uomo serio ama richiamare a se stesso. E un vero peccato che oggi non se ne parli più. La morte dei giusti, la misericordia di Dio, lo stato di grazia, il paradiso, la preghiera, la confidenza in Maria, l’amore di Dio, l’uniformità alla sua volontà, l’Eucaristia sono le altre meditazioni di questa “missione scritta”. Mancava solo la passione di Gesù Cristo, ma solo perché Alfonso stava preparando le sue Considerazioni ed affetti sovra la Passione di Gesù Cristo pubblicate nel 1761. Amava ripetere: “Nelle missioni sono buone le prediche del Giudizio, dell’Inferno... queste cose impauriscono, e fanno rumore, ma le conversioni, che provengono dal timore, poco durano, sono cose che si scordano, perché poco dopo si fanno una scotolata di spalle, e finisce tutto... Chi si converte per via d’amore di Gesù Cristo Crocifisso, la conversione è più forte e durevole, quello, che non fa l’amore, non lo fa il timore, e quando uno si affeziona a Gesù Crocifisso, non ha paura33.

Tannoia assicura che l’apparizione dell’Apparecchio alla morte fu di fatto per il Regno di Napoli come una missione generale 34 . Le ri-

 

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cerche attuali indicano che a partire dagli anni 1760 i libri del P. de Liguori si trovavano in tutte le biblioteche dei sacerdoti del Mezzogiorno italiano e che non vi mancava mai l’Apparecchio alla morte. Più interessante ancora è interrogare i vecchi (il popolo è il primo archivio) secondo i quali l’opuscolo si trovava anche in quasi tutte le famiglie, non da solo ma insieme con le Visite al SS. Sacramento, Le Glorie di Maria e la Pratica di amar Gesù Cristo.

Quindi lApparecchio, “il libro delle verità eterneterribili e meravigliose, libro indispensabile, ma con esso quelli della preghiera ardente (Visite), della fiducia totale (Glorie) e della morale dell’amore (Pratica): l’insieme di questi quattro libri costituiva il menu di quasi tutte le famiglie cristiane.

Nella gara tra queste opere l’Apparecchio alla morte non è “medaglia d’oro”, perché si contano 253 edizioni italiane delle Visite al SS. Sacramento, 167 della Pratica, 139 dell’Apparecchio e 125 delle Glorie; quanto alle edizioni mondiali in tante e tante lingue, L’Apparecchio è con distacco buon ultimo, perché le Visite hanno 2.017 edizioni, le Glorie più di un migliaio, la Pratica 535, L’Apparecchio 319.

Se qualche Redentorista ha fatto del fondatore un “terrorista”, non può essere stato che a prezzo di un tradimento.

 

L’Apparecchio alla morte era destinato non solo ai fedeli ma anche ai sacerdoti per la meditazione personale e per la predicazione; a questi ultimi invece pensava esplicitamente quando raccolse e organizzò ciò che aveva predicato loro da trent’anni nella Selva di materie predicabili ed istruttive per dare gli esercizi a’ preti, ed anche per uso di lezione privata (1760). Si tratta non di discorsi, ma di una selezione di materiale predicabile, quasi una foresta, “la più fedele e la più potente eco della tradizione nei tempi moderni ” come ha scritto il cardinale Dechamps; ma una tradizione scelta e organizzata da un pensiero vivo e che fa vivere 35.

La terza parte presenta il metodo alfonsiano delle missioni e un trattato tecnico di oratoria pastorale che metteva al bando i predicatori fioriti, ampollosi, veleggianti nelle alte sfere. L’eloquenza barocca non era certo morta con il P. Giacco, da Alfonso collocato in purgatorio fino alla fine del mondo! È noto quanto accadde al P. Alessandro Di Meo, erudito fino alla punta delle dita, un sabato in cui dovette sostituire il padre ammalato nella predica sulla Vergine. Lo sfortunato predicatore si inoltrò nella storia antica con i Druidi, gli Argonauti, gli Egiziani e le Sibille.

Alfonso, che per la Madonna aveva trascinato in chiesa la sua febbre, credette dapprima che si trattasse di una digressione momentanea, ma poi, sentendo che Alessandro non ne veniva più fuori, mandò un fratello

 

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a ingiungergli di scendere dal pulpito e gli inflisse tre giorni di ritiro con la proibizione di celebrare la messa. Di Meo prese tutto con bella umiltà: diventerà uno dei più grandi missionari della congregazione, senza per questo perdere la sua vocazione di storico 36.

Nella Selva il capitolo sulla predicazione contiene una preghiera molto più espressiva delle tante pagine di citazioni:

Signor mio Gesù Cristo, voi che per salvare le anime avete data la vita, date voi luce e spirito a tanti sacerdoti che potrebbero convertire molti peccatori e santificare il mondo, se predicassero la vostra parola senza vanità ed alla semplice, come l’avete predicata voi e i vostri discepoli; ma non lo fanno e predicano se stessi, e così il mondo è pieno di predicatori, e frattanto l’inferno si riempie d’anime. Signore, rimediate voi a questa gran ruina che nella vostra Chiesa avviene per colpa de’ predicatori37.

Alfonso completò quest’opera per i sacerdoti con una ammirevole Lettera... ove si tratta del modo di predicare all’apostolica (1761) e un opuscolo La Messa e l’Officio strapazzati (1760), un quadro impietoso delle irriverenze di un certo clero, con ricche aperture sulL’eccellenza e la necessità della preghiera liturgica.

Oltre quelli al clero, ogni missione comportava gli esercizi spirituali ai monasteri e ai conservatori del luogo e numerosi soggiorni nella capitale avevano permesso al P. de Liguori di evangelizzare tutta la Napoli claustrale. La sapeva lunga perciò sulle vergini consacrate e aveva molte cose da dire loro.

Non aveva niente contro il matrimonio, ma sapeva che al suo tempo e nell’ambito dell’aristocrazia napoletana la vita per le donne sposate era densa di pericoli e la salvezza difficile.

“Al presente, scriverà, poche sono le dame che vivono nel mondo e si salvano”, spiegandosi: “Oggidì le maritate difficilmente si salvano; perché ordinariamente tutte le dame maritate per lo più vivono in peccato, per li molti cicisbei che le tentano38 .

Parlava dell’ambiente aristocratico e per l’assiduità al confessionale era molto meglio informato dei viaggiatori o degli storici secondo i quali il cicisbeismo era poco diffuso a Napoli.

Non troppo sicuro della salvezza delle dame sposate del suo tempo, Alfonso mandava a decine le giovani in convento, ma non qualsiasi giovane né in qualsiasi convento. Infatti nelle sue lettere e nella sua grande opera in due tomi allora pubblicata - La vera sposa di Gesù Cristo cioè la monaca santa (1760-1761) - non era più adulatore dello stato delle monache di quanto non lo fosse di quello delle Sposate:

Rispondo alla vostra, scriveva a suor Chiara Gaiano, e dico primieramente che affatto non pensiate a mutar monastero... sappiate

 

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che, tolti pochi monasteri, tutti gli altri, per quel che so, sono come il vostro, con poca osservanza, pieni d’inquietudini e contrasti ”. E confidava a una superiora: “ Io piango, vedendo tanti monasteri cominciati con tanto spirito, e poi rilassati... a poco a poco, si sono rilassati e poi son diventati fondachi, senza spirito e senza amore di Dio; e perciò, nel giorno del giudizio, vedremo molte monache dannate, specialmente quelle che hanno introdotto gli abusi e, potendo rimediarvi, hanno trascurato di farlo”39.

Alfonso non si stancava di ripetere che i monasteri decadevano per le claustrate a forza, ma nello stesso tempo era certo che le autentiche vocazioni erano numerose. A queste consacrò La monaca santa, un’opera oggi fuori moda per il contesto evocato, ma potente e sempre ristampata, perché ricco sviluppo della sua spiritualità teresiana, delineata venti anni prima nel piccolo libro sulla prima donna Dottore della Chiesa.

Scrivere un libro di tale densità gli appariva molto più importante che perdersi in lettere-fiume, come appare dalla corrispondenza di questo periodo con una dozzina di religiose:

Scrivete poco, solo il necessario. - Conservatevi questa lettera... perché io non ho tempo di rispondere. - È impossibile che possa regolarvi da lontano; e poi non ho un momento di tempo, ecc.”40

 

Gli restava ancora un momento per i suoi religiosi? Il 13 agosto 1758 scrisse loro:

Dico poi in quanto a me e torno a dire che, quando alcuno vuole, mi scriva liberamente. E si tolga l’apprensione che mi tedia e che m’impedisce la stampa. Io sono obbligato, come Superiore, a sentire e leggere le lettere del minimo Fratello della Congregazione; a ciò sono obbligato, ma non sono obbligato a stampare. Alla stampa di qualche operetta non posso impiegarci altro tempo, se non quello che mi avanza dall’attenzione che devo mettere a sentire e rispondere alle lettere...

Io mi protesto che sopra questo punto, se ora stessi per morire, non vi ho scrupolo alcuno. Quando occorre che alcuno viene a parlarmi, o mi scrive di cose appartenenti a sé o alla Congregazione, io lascio tutto. Non rispondo di mano propria; perché ora, dopo l’ultima infermità, non mi regge la testa a scrivere. Ma quando il soggetto non vorrebbe essere scoperto, io procuro di non farlo sapere neppure a chi scrive, facendo io la soprascritta. E quando bisogna, mi sforzo io, almeno a poco a poco, di scrivere tutto di mano propria”41 .

Il suo tempo e il suo cuore erano prima di tutto per i 91 padri e studenti, per i 40 fratelli e per gli 8-10 novizi, che contava il suo Istituto il gennaio 1762. Questi ultimi erano i preferiti e per loro fu la prima lettera dell’anno: per loro e per le migliaia e

 

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migliaia di successori; una lunga lettera di chi aveva fatto voto di non perdere un minuto:

Fratelli miei carissimi, Dio sa quanto v’invidio. Avessi avuto io la sorte di star ritirato nella mia gioventù nella casa di Dio, unito con tanti buoni compagni, de’ quali ognuno tira l’altro a più amare il Signore, e lontano dal mondo maledetto, dove tanti si perdono!...

Tenete per certo che chi muore nella Congregazione non solo si salverà, ma si salverà da santo ed avrà un gran posto in Paradiso. Stringetevi dunque con l’amore sempre più a Gesù Cristo.

“L’amore è quel laccio d’oro che lega le anime con Dio, e le stringe tanto che par non si possano più separare da Dio...”.

Il padre moltiplicava affettuosamente i consigli per la custodia della vocazione: “Specialmente ricorrete a Maria SS.ma, che si chiama la Madre della perseveranza. Chi ricorre e seguita a ricorrere alla Madonna, non è possibile che perda mai la vocazione”. E terminava:

Orsù io vi benedico da parte di tutta la SS. Trinità, e specialmente da parte di Gesù Cristo, che vi ha meritata, colla sua morte, la somma ed inapprezzabile grazia della vocazione.

Vi benedico ancora da parte di Maria Vergine, acciò vi ottenga la santa perseveranza.

Vi prego di amar assai la Madonna e di chiamarla sempre in aiuto, se volete farvi santi.

Animo, allegramente! fatevi santi ed amate assai Gesù Cristo che, per amore di ognuno di voi, ha dato il sangue e la vita.

Fatevi santi e pregate Dio per me, povero vecchio, che son vicino alla morte, e non mi trovo fatto niente per Dio. Restate almeno voi ad amarlo per me...

V’abbraccio nel cuore di Gesù Cristo e di nuovo vi benedico. Viva Gesù, Maria, Giuseppe e Teresa!”.

 

 

 

 





p. 592
1 TANNOIA, Vite dei Padri..., pp. 77-78.



2 S. ALFONSO, Lettere, I, pp. 251-252, N. 2.



p. 593
3 Ibid., p. 224; nel secondo centenario della nascita di S. Alfonso M.de Liguori, p. 64; cf. TANNOIA, I, pp. 250-251.



4 Lettere, I, p. 343.



p. 594
5 LANDI, op. cit., pp. 200-201.



6 Summarium, pp. 288-289, 299, 307; il solo TANNOIA (I, p. 284) collega il fatto con la novena dell’Assunta del 1758, forse un “ritornomissionario.



7 TANNOIA, I, p. 292.



8 Ibid., p 261; Summarium, p. 709.



9 TANNOIA, I, pp. 266-267.



p. 595
10 TELLERIA, I, pp. 506-507; DE MAIO, op. cit., pp. 206-211, 217-220.



p. 596
11 Lettere, I, pp. 252-254.



12 SH 13 (1965), pp. 112-120.



p. 597
13 TANNOIA, I, pp. 267-268, 302-303; KUNTZ, VI, p. 238.



14 Acta capitulorum generalium, p. 18, N. 47.



p. 598
15 Summarium, p. 381.



p. 599
16 BERRUTI, op. cit., pp. 26-29, 84-85, 87, 125, 281-285; Summarium, pp. 349-350.



17 KUNTZ, VI, p. 324.



18 Lettere, I, pp. 256-265.



p. 601
19 TANNOIA, I, pp. 318-319.



p. 602
20 Ivi, p. 335.



p. 603
21 Lettere, I, pp. 290-291; sono indirizzati al P. Carmine Picone, sostituto del P. Tannoia,

ammalato.



p. 604
22 Per queste parole di Alfonso e quelle che seguono, cf. nell’ordine BERRUTI, op., cit p. 23;

TANNOIA. I. pp. 317, 339; SH 9 (1961), p. 449, n. 15; ibid., p 456, n 65; TANNOIA, I, p. 334;

BERRUTI, p. 292; TANNOIA, I, p. 349; BERRUTI, pp. 180-182; SH 9 (1961), pp. 472-473, n. 98.



p. 606
23 “S. Alfonso”, 8 (1937) p. 51



p. 607
24 SH 3 (1955), pp. 391-406; cf. Lettere I, pp. 283-287; II, p. 37; KUNTZ, V, pp. 257-265;

LANDI, II, pp. 172-174.



p. 608
25 LANDI, op. cit., II, pp. 183-189; gli Atti di questa assemblea capitolare non ci sono pervenuti.



p. 609
26 Lettere, I, p. 304; Summarium, p. 401.



27 Lettere, I, pp. 356-357.



p. 610
28 Ibid., pp. 360-361.



29 SH 27 (1979), pp. 299-318; TANNOIA, I, pp. 272-273. 30 Lettere, I, pp. 395, 404;



p. 611
30 Lettere, I, pp. 395, 404; cf. TELLERIA, I, pp. 617-620; “S. ALFONSO” 23 (1952), p. 167-170



31 SH 5 (1957), pp. 70 ss.; TELLERIA, I, pp. 621-630; LANDI, op. cit., II, p. 195.



p. 612
32 TANNOIA, I, p. 292



33 Summarium, p. 270.



34 TANNOIA, I, p. 285.



p. 613
35 Cf. DE MEULEMEESTER, Bibliographie, I, pp. 109-110.



p. 614
36 TANNOIA, Vite dei Padri..., pp. 2-13.



37 Opere, Marietti, III, P. 242.



38 Lettere, II, pp. 448 e 568.



p. 615
39 Lettere, I, p. 559; II, 488; cf. I, p. 159.



40 Lettere, I, pp. 385, 450, 370, 384, 182, 208, ecc.



41 Lettere, I, pp. 400-401.



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