Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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Parte Quarta “IO SONO IL BUON PASTORE” (1762-1775)

38 - “IDDIO MI CACCIA DI CONGREGAZIONE” (marzo-aprile 1762)

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38 - “IDDIO MI CACCIA DI CONGREGAZIONE

(marzo-aprile 1762)

 

Il P. de Liguori dal 1756 era in costante contatto epistolare con la casa editrice di Giuseppe e Giambattista Remondini, padre e figlio, i più grandi stampatori di Venezia, di cui era l'autore più venduto. Tra il 1760 e il 1762 lo scrittore, stanco, invecchiato, parlava di distruggere la sua penna e quasi martellava i propri rintocchi funebri.

19 giugno 1760: “Ma o niente o molto poco io stamperò per l'avvenire, mentre son vecchio e la testa mi si è molto indebolita”.

4 giugno 1761: “Se mai darò alla luce altre opere, sì signore subito ce le invierò; ma amico mio caro, son vecchio ed ho perduta la testa: onde sto aspettando da giorno in giorno la morte”.

13 luglio 1761: “Mi avvisi poi, secondo l'idea che tiene di unire in un sol corpo tutte le opere mie, eccettuate le morali; m'avvisi, dico, quando risolutamente stabilirà di far quest'edizione; perché in tal caso mi metterei a faticare per aggiustarle tutte: giacché vi si avrebbero da accomodare meglio molte cose. Dico ciò, perché ad aggiustare tutte le suddette opere, vi vuole qualche tempo; ed all'incontro io son vecchio e di mala salute, e quasi ogni anno ho un'infermità mortale: onde aspetto la morte da giorno in giorno”.

Poi il 26 marzo 1762 colpo di scena: “Avviso a V. S. Ill.ma come il Papa mi fece vescovo, qui nel nostro Regno, in Sant'Agata de' Goti. Io rinunciai già, mandando a dire al Papa che non potevo accettare, per esser vecchio e di mala sanità; ma il Papa m'ha mandato il precetto espresso di accettare, cosa che ha fatto stordire Napoli e Roma1.

Il più “storditoera stato lo stesso Alfonso quella mattina del 9 marzo 1762, quando una staffetta in livrea della nunziatura apostolica di Napoli mise i piedi a terra e suonò alla porta del convento di S. Michele a Pagani, chiedendo di vedere il P. de Liguori. Il fratello portinaio non aveva alcuna ragione per emozionarsi, abituato com'era a introdurre presso il rettore maggiore i più alti personaggi - principi e ministri, vescovi e arcivescovi - desiderosi di incontrare e consul-

 

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tare colui che tutto il Regno e la stessa Roma veneravano come un santo ricco di doni soprannaturali 2 .

Tuttavia una visita del cardinale Domenico Orsini circa otto anni prima era rimasta memorabile per due iniziati e soprattutto per Alfonso che l'avrebbe d'allora portata nella carne. Si ricorderà che i Liguori e gli Orsini erano molto legati. Questo Domenico, figlio del duca Filippo Orsini di Gravina del quale l'avvocato Alfonso de Liguori aveva difeso la causa contro il granduca di Toscana nel 1723, sposato, padre di famiglia e ben presto vedovo giovanissimo, era stato creato cardinale diacono nel 1743 da Benedetto XIV e nel 1749 aveva aiutato Villani con amicizia smisurata per l'approvazione dell'Istituto. Verso il 1754era venuto a posta per vedere” il P. de Liguori, che dopo la sua partenza, contrariamente al solito, si era subito arrampicato per la scala che portava in soffitta, ingiungendo a un fratello che l'aveva casualmente scorto di non parlarne ad alcuno. Ma il fratello non aveva saputo trattenersi dal farne parola, sotto segreto, ai padri Corsano e Vacca, che si misero a spiare il ritorno del superiore nella sua cella per portarsi subito sul luogo del “misfatto”: scoprirono un solaioallagato di sangue” come se si fosse commesso un omicidio.

Alfonso poi fu visto sedersi alla meditazione comune per un intero mese e da allora zoppicare leggermente: la crudele - bisogna ben chiamarla così - flagellazione gli aveva intaccato un nervo della coscia. Aveva così voluto castigare un pensiero di vanagloria, implorare per qualche grande necessità della Chiesa o commuovere il cielo perché allontanasse dalla sua testa la minaccia della mitra? Nessuno seppe mai niente 3 .

Ma quel 9 marzo il povero padre rimase come colpito da un fulmine, quando, introdotto nella sua camera, l'inviato del Nunzio, fatta una riverenza da grandi circostanze, gli disse:

- Servo di Vostra Signoria Illustrissima. È promosso a vescovo di S. Agata dei Goti.

E gli porse un plico sigillato.

- Perché parlate di vescovo? fece Alfonso.

Preso il plico e fatta saltare la cera, non credette ai suoi occhi: la lettera di Mons. Andrea Negrone, uditore del Santo Padre, l'informava che Clemente XIII lo nominava vescovo di S. Agata dei Goti e lo invitava a Roma per l'esame richiesto; il Nunzio di Napoli, Mons. Giuseppe Locatelli, nel trasmettergli il messaggio, aggiungeva le sue felicitazioni.

Alfonso, stupito, sconvolto dal dolore nel cuore e nelle viscere, non disse una parola.

La comunità, avvertita dal P. Giuseppe Paravento, che si trovava nella sua camera, subito accorse trovandolo

 

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agitato e senza parola, con gli occhi pieni di lagrime. Riprendendosi poi a poco a poco finì col dire:

- Il Papa ha voluto darmi un segno di stima, non insisterà.

- Datevi pace, aggiunse il P. Ferrara, queste rinunce volentieri si accettano.

Immediatamente Alfonso redasse una lettera di rinunzia indirizzandola all'uditore Negrone, nella quale, ringraziato il Santo Padre della sua troppo grande bontà, lo pregava di aver presente la sua incapacità, i suoi 66 anni, la sua salute (sordo, quasi cieco zoppo da non poter percorrere una diocesi, sensibile all'aria aperta), la sua nascente congregazione tanto utile e tanto bisognosa ancora della sua presenza, il voto di “rinunciare a ogni dignità ecclesiasticafatto secondo la Regola redentorista approvata da Benedetto XIV: che scandalo per i suoi fratelli se per primo vi fosse venuto meno! 4.

Partito il messo del Nunzio non senza una mancia generosa, disse:

- Che non senta mai più quel "Servo di Vostra Signoria Illustrissima", perché ne morirei.

Poi rincuorato e quasi gaio aggiunse al P. Corsano:

- Or veda, ho dovuto perdere un'ora di tempo, e ducati quattro per questa freddura. Non cambierei la Congregazione con tutt'i Regni del Gran Turco!

Anche se la diocesi di S. Agata, paragonata all'impero ottomano era solo un granello di sabbia, alla sua mitra aspirava una sessantina di pretendenti proposti non solo da duchi o grandi dame in cerca di un trono e del viola per i propri cadetti, ma anche da vescovi e da arcivescovi. La sede infatti aveva un triplice prestigio: il denaro, perché la mensa episcopale era conveniente e i benefici ecclesiastici tra i più ricchi della regione, eccetto Capua; l'onore, perché la cattedrale dell'Assunta di S. Agata, come le basiliche patriarcali, contava 5 dignitari, 26 canonici, 14 cappellani, un sacrista e 4 chierici (una bella corte episcopale); la collocazione, a sole 7 leghe dalla capitale e dalla corte (era facile andarvi a bighellonare, a intrigare e a brillare), suffraganea e vicina a Benevento, parte degli Stati Pontifici.

Ma niente di tutto questo poteva allettare il P. de Liguori.

Sospettando che l'Eminentissimo Spinelli, allora prefetto di Propaganda e vescovo di Ostia e Velletri, avesse mosso qualche passo in questa “disgraziatanomina, gli scrisse le ragioni del suo rifiuto, insistendo sul voto di Redentorista:

“Se io vedessi che taluno de' Congregati accettasse un Vescovado, piangerei a lagrime di sangue. Se in me si desse un tal esempio quale scandalo non cagionerebbe, e quale danno non risulterebbe nello spirito di tutti i Congregati. Mi riputerei dannato; e permettendolo

 

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Iddio, per me lo stimerei come in pena de' miei peccati, ed in castigo della mia somma superbia”.

Per avere un alleato in più, Alfonso scrisse in questi stessi termini a D. Giovanni Bruni, segretario del cardinale. E si aprì un po' alla speranza.

Troppo presto, perché l'indomani venne a trovarlo Mons. Borgia con una lettera confidenziale di Spinellichiaro quindi che il cardinale aveva avuto a che fare nell'elezione) del tenore seguente: Clemente XIII, assediato da tanti pretendenti, voleva metter tutti a tacere designando un nome incontestabile; “avesse per allora accettato il Vescovado... restava poi in suo arbitrio, rassettate le cose, rinunciarlo, o ritenerlo, se voleva”.

È difficile capire bene il ragionamento del troppo sottile Spinelli: se Alfonso si fosse poi dimesso rapidamente, anche una peste selettiva non sarebbe riuscita in così poco tempo a purificare il Regno dalla muta di ambiziosi. Del resto non erano trucchi capaci di intrappolare l'ex-avvocato, che, nuovamente costernato e privo di qualsiasi aiuto terreno, si rivolse a Dio, mobilitando le preghiere dei suoi figli e del popolo di Pagani, moltiplicando le sue discipline, i suoi digiuni e le sue veglie “per veder calmata, com'ei diceva, una sì forte tempesta”.

- E se il Papa vi precetta, gli chiese un giorno il P. Mazzini, voi che potete fare?

Chinando il capo, rispose:

- Sia sempre fatta la volontà di Dio.

In preda alternativamente alla speranza o all'angoscia lo si sentiva ripetere: “Sia fatta la divina volontà”, ma il timore diventava sempre più forte... più volte disse a Ferrara e a Mazzini:

- Se viene la staffetta, non me Ia fate vedere, che mi pare veder il boja col capestro alla mano.

 

Intanto cosa accadeva a Roma? Clemente XIII, che inizialmente aveva preso male la rinunzia, influenzato poi dagli amici del povero padre, cominciò a inclinare verso la pietà, tanto che la sera del 14 marzo si mostrò deciso ad arrendersi alle ragioni di Alfonso.

La notte però porta consiglio e a volte lo Spirito. Il Papa l'indomani mattina ordinò subito allo stupito segretario Mons. Negrone di confermare la nomina.

- Ma Vostra Santità non mi ha detto ieri sera che avrebbe lasciato in pace il P. de Liguori?

- L'ho detto, ma durante la notte lo Spirito Santo mi ha ispirato il contrario, rispose Clemente XIII, aggiungendo “in aria papale” che non ammetteva repliche: Lo voglio!... che ubbidisca senza

 

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altre obiezioni e lo dispenso dal suo voto di rinunziare a tutte le dignità fuori della sua congregazione.

Il pomeriggio del 19 marzo, festa di san Giuseppe, si presentò nuovamente a Nocera la “staffetta di sventura”, che fu fatta fermare in parlatorio. I consultori generali Mazzini e Ferrara e il rettore Fabrizio Cimino, preso in consegna il plico indirizzato “ All'lll.mo e R.mo Mons. de Liguori eletto Vescovo di S. Agata de' Goti ”, con i giovani padri Adeodato Criscuoli e Giuseppe Paravento si recarono dal padre generale. La loro emozione era grande, ma più grande l'ansia di Alfonso vedendoli entrare.

- Padre, azzardò Mazzini, diciamo un'Ave a Maria Santissima.

- Forse è ritornato il corriere?

- Diciamo prima un'Ave.

Alfonso, in ginocchio, pronunziò la sua Ave Maria come l'ultima preghiera di un condannato. Poi Mazzini aggiunse:

- Il Papa vi vuole Vescovo, e vescovo di S. Agata.

- Dove sono le lettere, leggiamole e vediamo, se vi sia qualche interpretazione.

- Padre, non vi è nessuna interpretazione, concluse Mazzini dopo averle lette.

- Gloria Patri, fece allora Alfonso piegando la testa, Dio mi vuole Vescovo, ed io voglio essere Vescovo.

Poi, dopo un attimo di silenzio, ai confratelli:

- Iddio mi caccia di Congregazione per li peccati miei... Non vi scordate di me: ah, ci abbiamo da dividere, dopo esserci amati per trent'anni !

Le parole furono soffocate dalle grosse lacrime che gli vennero agli occhi. Per riempire l'insopportabile silenzio, Mazzini e Ferrara gli fecero presente che gli amici avrebbero potuto far valere a Roma le ragioni della sua rinunzia, ma Alfonso tagliò corto:

- Non ci cape interpretazione, il Papa si è dichiarato in termini di obbedienza: bisogna obbedire.

Fu subito prostrato da una crisi nervosa che gli tolse l'uso della parola per cinque o sei ore, ma a sera ebbe forza sufficiente per dettare le lettere di accettazione al Nunzio e a Mons. Negrone, delle quali sfortunatamente conosciamo il contenuto solo attraverso un messaggio cifrato dell'indomani, 20 marzo, spedito da Mons. Locatelli al cardinale Segretario di Stato Ludovico M. Torreggiani:

Attesa la Pontificia dispensa al consaputo voto, ed il nuovo eccitamento dato al P.re Alfonso di Liguoro per il vescovato di S. Agata, in ubbidienza alle ferme intenzioni di N.ro Sig.re, si è egli determinato d'uniformarvisi, e questa sera trasmetto a Mons. Uditore la risposta di esso Religioso coll'accettazione”.

 

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Mentre altri si ammalavano per non essere stati fatti vescovi questo “religioso” fu ben presto preso dalla febbre per avervi dovuto acconsentire. Però, senza perdere un minuto, già nel suo letto fu tutto per il suo nuovo progetto: “Dio mi vuole Vescovo, ed io voglio essere Vescovo”. Per il fratello Ercole, pronto ad offrirgli i suoi generosi servizi, dettò questa risposta datata 21 marzo:

Fratello mio caro, io sono restato così stordito da questo precetto che ho avuto dal Papa, ad accettare il vescovado per ubbidienza che sto come uno stolido, pensando che ho da lasciare la Congregazione dopo esservi stato trent'anni.

Del resto, vi ringrazio che volete improntarmi i danari per le spese. Se voi non volevate, io già aveva pensato di scrivere al Papa in ultimo caso, che io non aveva come fare per le Bolle e per tante altre spese che bisognano; e chi sa se forse questa impotenza m'avesse liberato dal vescovado?

Aveva scritto che il Cardinale Spinelli m'aiutasse a liberarmi ed esso ha fatto tutto il contrario. Che voglio dire? Mi sacrifico alla volontà di Dio.

Ma pensate che il denaro che bisognerà sarà molto. Aspetto per altro da Roma la notizia del quanto. Ma per tutte le spese di Roma e di Napoli, forse vi vorranno da quattro mila ducati, o almeno 3.500.

signore, s'intende che ho da restituire tutto il danaro, insieme con tutto l'interesse che patirete e avrete da pagare, ma vedete che non potrò restituirlo tutto insieme.

Se il vescovado rende 5.000 ducati, penso che potrò restituirne 1.500 ducati l'anno, coll'interesse che patite; perché non mancheranno pensioni sopra il vescovado, ed a principio che vi entro, vi bisogneranno molte spese.

Di più vi prego a far presto le diligenze; perché io voglio partire per Roma quanto più presto posso, perché ivi bisogna portare tutto il danaro per le Bolle ed altre spese, ed ivi avrò da trattenermi molto tempo, e voglio sbrigarmi prima che il Papa vada alla villeggiatura di maggio.

In quanto alla casa, io non vorrei caricarmi di spese. Penso che, quando vengo in Napoli, mi basterà una o due camere dentro lo stesso quarto vostro di basso, dove posso ricevere poi qualche nobile, che viene a trovarmi; perché il quarticello di sopra resterà per li compagni, e d'altra parte non è cosa per me e per le genti che verranno a trovarmi”.

Benché personalmente fosse contento di un pagliericcio in una soffitta, Alfonso non poteva da vescovo far arrampicare i visitatori sotto il tetto o accoglierli in una camera di servizio.

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Ercole, come del resto i confratelli, si preoccupava della carrozza, della livrea per la servitù, ma egli alzava le spalle:

- Se per ubbidienza ho accettato il Vescovado, debbo imitare li Santi Vescovi, e non mi state a dire carrozze, e livree. Che ho d'andare facendo il Bagascio per Napoli?

Tuttavia Volpe, Borgia e soprattutto Villani, suo direttore dalla morte di Cafaro, riuscirono a persuaderlo che non poteva fare a meno della carrozza. Acconsentì, ma secondo una sua idea che espose in questi termini nella lettera al fratello:

“In quanto poi alla carrozza, sì signore, l'avrò da comprare; ma voglio vedere se il vescovo passato avesse lasciato carrozza servibile, perché l'avrei a molto buon mercato. Per tanto, fate aspettare un poco a vendere la carrozza del marchese Valva, perché manderò a vedere alla diocesi, e se la carrozza del vescovo non serve, mi piglierò questa del marchese.

Io, in questa o nell'altra settimana, sarò in Napoli, e parleremo...

Voi vi siete rallegrato, ed io non fo altro che piangere. Dove mi stava apparecchiato il vescovado nella vecchiaia? Ma sia sempre fatta la divina volontà, che mi vuol martire in quest'ultimi anni di vita! Ho perduto il sonno, l'appetito, e son diventato stolido in pensare che il Papa non mai tali precetti, ed a me l'ha voluto dare.

Saluto Donna Rachele, e v'abbraccio.

Di V. S. Aff.mo fratello Alfonso, vescovo eletto di Sant'Agata.

Io oggi, domenica, sto poco bene; stamattina mi è venuta la febbre, e questa sera, quando scrivo, non mi è passata ancora”5.

Durerà nove giorni, portandolo a un passo dalla morte.

La diagnosi della malattia era in queste parole che, quasi un'ossessione, ritornavano spesso al suo spirito e alle sue labbra: “Giusti giudizj di Dio. Iddio mi caccia di Congregazione per li peccati miei”; ed era ancora di più, se possibile, nell'acuto senso che egli aveva, che la responsabilità è dei “responsabili”, specialmente dei vescovi. Diciassette anni prima l'esperienza missionaria gli aveva suggerito le Riflessioni utili ai vescovi, nelle quali aveva sottolineato “il gran pericolo che hanno i prelati di perdersi” e, citato san Giovanni Crisostomo che ne metteva in inferno più della metà, aveva aggiunto: “se in ciò il santo esageri troppo, io non lo so”. Passato ora dall'altra parte della barricata, sarebbe stato rassicurato dall'esercizio dell'episcopato? No, dieci anni dopo, perseverante, firmerà nel suo libro Storia delle eresie (1772): “Io tremo, ritrovandomi anch'io vescovo... Io prescindo qui dalla questione se chi pretende di esser vescovo, stia in istato di peccato mortale; ma non intendo come possa alcuno che desidera di assicurar la sua salute, pretendere di esser vescovo, e porsi volon-

 

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tariamente in tanti pericoli di perdersi, a' quali i vescovi son soggetti6.

Mons. Volpe e Mons. Borgia, suoi vicini e amici, non lasciavano mai il malato e Don Ercole accorse da Napoli con uno dei migliori medici della capitale, che lo interrogò:

- Come state, Monsignore?

- Sto sotto la mano di Dio.

Tutta la scienza del grande professore svanì di fronte a un tale genere di febbre e a metà settimana si ritenne necessario amministrare al morente il santo viatico. La notizia della sua mortale malattia si diffuse a Napoli e a Roma, senza incrinare la determinazione di Clemente XIII, che disse:

- Se muore, noi li diamo la nostra Apostolica Benedizione, ma se vive lo vogliamo a Roma.

Nella diocesi di S. Agata l'ondata di gioia e di fierezza suscitata dalla sua nomina, si trasformò in allarme e in desolazione.

Alfonso non pensava che al cielo:

- In questa camera non si parli più di vescovato, ma solo del paradiso.

Tuttavia la sua indomabile vitalità - sostenuta senz'altro dalla mano di Dio - ebbe ben presto il sopravvento, tanto che già venerdì 26, benché non ancora in grado di stare in piedi, rimetteva i piedi a terra affrontando la nuova situazione. Scriveva infatti a Remondini:

“Quando ora mi ha da scrivere, mi scriva a Roma, così per lo mese d'aprile come per maggio, ma sino alla metà di maggio, non più; perché poi mi scriverà in Napoli, non per Nocera...

Ora appunto dopo scritta questa mia, ho ricevuta l'ultima sua stimatissima in data de' 13 del corrente marzo, dove mi dice che io le spedisca l'opere mie già corrette, che si hanno da ponere nell'Opera unita de' libri spirituali.

Ed io, quando sarò a Roma (che sarà tra 20 giorni) di gliene spedirò il primo e secondo tomo, perché il terzo tomo poi glielo spedirò apposta da Napoli, perché ho da finire di copiare certe cose7.

Pur senza rinunziare del tutto all'apostolato del libro, nel quale credeva fortemente, aveva fretta di guadagnare Roma e la sua Chiesa:

- Io sto qui, diceva, e quanti peccati si faranno nella diocesi di S. Agata!

Avendo ormai cura d'anime, si sentiva responsabile, come il Cristo agonizzante, di tutti i peccati del suo popolo e non vedeva l'ora di essere in mezzo ad esso per allontanarlo dal male e prendere su di sé le sue colpe. Il 27 marzo si annunziò alla sua Chiesa con queste sobrie parole indirizzate al vicario capitolare, Don Francesco Rainone, arcidiacono della cattedrale:

 

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“Con questa mia umilissima le passo avviso della elezione fatta da N. S. di me per codesta Chiesa di S. Agata. Io l'ho rinunciata, non stimandomi valevole a tollerarne il peso.

Ma finalmente ho dovuto umiliarmi al volere divino, poiché S. S. non essendosi compiaciuta di esaudir le mie suppliche, anzi servendosi della sua autorità pontificia con formule troppo precise e di maggior peso, m'ha comandato che accettassi Già ho accettato, e questo pensiero m'ha cagionata una tal turbazione che da sei giorni mi tiene fitto con febbre in letto.

Penso di partire per Roma subito che le mie indisposizioni e 'I tempo me'l permettono. Frattanto imploro l'efficacia delle orazioni sue, di codesti signori canonici e miei stimatissimi confratelli, clero e popolo. E pregandola di trasmettermi in Napoli copia dell'inventario di tutte le cose lasciate dalla f.m. di Monsig. Danza, con piena stima mi dico... Quella copia farà grazia mandarmela nella casa del Sig. D. Ercole di Liguori, che abita dirimpetto al Palazzo di Sanfelice8 .

Umilmente il teologo di fama europea preparò il suo esame romano, con la segreta speranza di non essere giudicato all'altezza, come disse al P. Paravento:

- Almeno mi riprovassero, quando dovrò essere esaminato!

Così cadde dalle nuvole il giorno in cui il P. Mazzini fece questa riflessione:

- Avrei avuto piacere, se fosse stato fatto Cardinale, ciò per bene della Congregazione.

- Gesù Maria, Cardinale; dunque anche voi mi volete fuori della Congregazione!

La congregazione era il suo r rimpianto e la sua speranza, come disse a Mons. Volpe:

- Tengo per certo, e lo spero, che placato Iddio con me, almeno a capo di anni illuminar voglia il Papa ad elegger per S. Agata altro soggetto meritevole, e voglia per sua misericordia rimandarmi a morire in queste medesime mura di dove sono per uscire.

Sabato santo, 10 aprile, predicò come sempre sulla Madonna, accomiatandosi dal suo caro popolo di Nocera, mentre tutti i presenti erano in lagrime.

- Non vi rammaricate, disse, che io parto: vi do parola, che anche qui verrò a morire.

 

L'indomani mattina, la vettura dell'esilio lo attendeva davanti alla porta: non una carrozza, ma un umile mantice a due ruote, una carretta degna di un parroco di campagna, con cocchiere senza livrea. Cedendo alle pressioni degli amici Volpe e Borgia, soprattutto costretto dall'ubbidienza al suo direttore Villani, Alfonso s'era fatto radere e aveva acconsentito a vestirsi a nuovo dalla testa ai piedi

 

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con sottana e zimarra, mantello e calzature (un paio di scarpe con borchie di ferro che gli sarebbe durato il resto dei suoi giorni)9. Il fondatore abbracciò e benedisse i suoi missionari e i suoi studenti montò in vettura con Villani, che lo accompagnava conoscendo gli ambienti romani; e - frusta, cocchiere! - si allontanò al trotto dei muli in direzione del Vesuvio. Era la mattina di Pasqua del 1762.

 

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p. 618
1 Lettere, III, pp. 114-115, 125, 131, 150.



p. 621
2 Summarium, pp. 708-709.



3 Ibid., p. 632; TELLERIA I, pp. 864-865.



p. 622
4 Per tutto l'episodio, cf. TANNOIA, II, pp. 4-12; SH 9 (1961), pp. 288-289 (documenti pp. 269-

280); Summarium, pp. 134-135, 144-145, 150-151: TELLERIA II, pp. 8-19.



p. 626
5 Lettere, I, pp. 469-470.



p. 627
6 Opere, Marietti, III, p. 877 e VIII, p. 106.



7 Lettere, III, pp. 150-151.



p. 628
8 SH 25 (1977), p 309



p. 629
9 Summarium, pp. 544-545, 539, 642.



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