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Parte Quarta “IO SONO IL BUON PASTORE” (1762-1775) 39 - “ABBIAMO UN VESCOVO SANTO ” (aprile-luglio 1762) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
39 - “ABBIAMO UN VESCOVO SANTO ”
In seguito alla morte della regina il 27 agosto 1758, il re di Spagna Ferdinando VI il Savio aveva perso il senno, senza trovare - alcun rimedio, né nella voce di Farinelli, né nel latte d’asina, la china o il gelo delle corna di cervo e neppure nelle vipere fresche, e si era spento pazzo furioso li 10 agosto 1759. In mancanza di eredi diretti, la corona passò al fratellastro, il re di Napoli Carlo di Borbone, da quel momento Carlo III di Spagna. Principe pio, onesto e di buona volontà, non ritornò nella sua natale Madrid senza aver provveduto al trono delle Due Sicilie. Essendo ufficialmente fuori gioco il primogenito Filippo perché ritardato mentale, portò con sé il secondogenito Carlo Antonio (il futuro Carlo IV) per assicurare la dinastia spagnola. Abdicò perciò alla corona napoletana in favore del terzogenito Ferdinando di soli otto anni, affidandolo a un precettore, lo scialbo Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro, e a un Consiglio di Reggenza di nove membri, tra i quali, con San Nicandro, Bernardo Tanucci, confidente e uomo di fiducia di Carlo III.
In questo consiglio, che per il momento incarnava l’autorità, Tanucci non era onnipotente, perché il suo voto contava, come quello degli altri otto, solo per uno, mentre le decisioni venivano sempre prese a maggioranza. A parte un “indipendente”, il marchese Giovanni Fogliani d’Aragona, i nove della Reggenza si dividevano in due campi uguali: i “nicandristi”, tradizionalisti, e i “tanucciani”, anticlericali e antifeudali; il marchese Tanucci vi dominava solo per il valore della sua ragione - la ragion di Stato - e l’astuzia dei suoi stratagemmi.
Al contrario poteva contare assolutamente su Nicola Fraggianni presidente del Consiglio di S. Chiara, e sui tre colleghi segretari di Stato, che con lui formavano il Governo 1, in cui, morto Brancone il 9 maggio 1758, gli affari ecclesiastici erano stati affidati a un amico ancora più grande del P. Liguori, il marchese Carlo De Marco, religio-
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so, probo e attivo. Benché fosse totalmente devoto a Tanucci la sua nomina aveva rallegrato Alfonso, che aveva scritto al P. Caione:
“Ringraziate tutti il Signore di questo buono Segretario fatto da cui spero più che da Brancone. Dio l’ha fatto fare a posta per noi”2.
A tutto questo bel mondo e prima al Nunzio, al Cardinale e al Cappellano Maggiore, il vescovo nominato di S. Agata dovette compiere le visite di protocollo nella settimana santa del 1762: dagli scaloni d’onore ai saloni sontuosi, attraverso specchi e divani, affrontò da signore di razza le riverenze e i baciamani, le parrucche arricciate e le acconciature ricercate; ma soffocava, come già mercoledì 14 aprile scrisse al P. Mazzini:
“Raccomandatemi e fatemi raccomandare più specialmente a Gesù Cristo. Se non vado in pazzia ora, non ci vado più... Povero me! Ho lasciato il mondo da giovane, ed ora vecchio ho da ricominciare a trattare col mondo”3.
Senza che lo sospettasse, la sua notorietà e la sua santità soggiogavano gli alti magistrati, che, reggenti, consiglieri, ministri, senza eccezioni o reticenze, gli prodigavano attestazioni di profondo rispetto e assicurazioni di sincera buona volontà.
- Per carità, supplicava il futuro vescovo, aiutatemi, perché non perda l’anima.
- Contate su di noi, gli rispondevano commossi, andate avanti con fiducia, perché vi aiuteremo in ogni modo e nessuno riuscirà a influenzarci contro di voi.
Infatti, assicura Tannoia, “il Marchese Tanucci favorì Alfonso in ogni riscontro, e l’ebbe sempre in somma venerazione”4.
Oltre le visite ufficiali, Alfonso vide qualche amico, anche se con la morte della madre, di Pagano e di Torni, Napoli s’era vuotata dei migliori, tra i quali Olivieri, il “turco” diventato santo, spentosi il 7 maggio 1759, dopo aver fatto avvertire il padre che, subito accorso, Io aveva assistito a lungo, dicendogli:
- Se il cardinale mi avesse chiamato, non ci sarei venuto: solo per te l’ho fatto 5.
Restava il fratello di cuore e di aspirazione missionaria Gennaro Fatigati, succeduto a Matteo Ripa come superiore del Collegio dei Cinesi. Nominato dieci anni prima vescovo di Cassano, Fatigati aveva ricevuto “ben di notte una mattina” una visita di Alfonso, che con esagerazione spontanea dettata dall’amicizia gli aveva ingiunto “fattosi di fuoco”:
- P. D. Gennaro, non accettare il Vescovado, che sei certo dannato !
Più fortunato di Liguori, il superiore della Sagra Famiglia aveva
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potuto schivare il colpo e ora, in un incontro pieno di silenzio, compatì la croce dello sfortunato fratello
Ercole invece, degno erede di Don Giuseppe, era trionfante, vedendo il fratello finalmente promosso all’episcopato. Contravvenendo all’esplicita volontà di Alfonso, che aveva scelto il grigio cenere della penitenza e della modestia, aveva rivestito il cocchiere del nuovo prelato con una vistosa livrea rosso cardinale. Per nulla stimando tale trionfalismo, Alfonso gli disse:
- Voi non siete per dar consolazione a carne battezzata. Voi non sapete che cosa sia Vescovado, e cosa vuol dire dar conto a Dio delle Anime degli altri.
Ritrovava il sorriso e il gusto della battuta in qualche monastero amico, dove si era tanto pregato perché Dio gli desse pace e salute:
- Ora mi spetta l’Illustrissimo, perché son Vescovo, disse lepidamente a suor Maria Graziano; ma che! quando il Papa mi vedrà così storpio, e scontrafatto: via di qua, mi dirà da sé, non fa per te il Vescovado: così mi vedrò licenziato, e svergognato. Pregate assai, che tutto può fare Iddio.
Tuttavia spese, per provvedersi del minimo di insegne episcopali. pochi carlini in un anello incastonato da un’“ametista” di “misero vetro” colorato e in una croce pettorale senza valore con qualche pietra falsa. Quando il gioielliere Domenico Porpora venne a consegnargliela, Alfonso esclamò:
- Oh che Croce pesante mi avete portata!
- Come, pesante?
- Sì, è pesante, e più che pesa non può pesare.
“In Napoli fu di nuovo complimentato, racconta Tannoia (che citeremo spesso in questo capitolo ), dai Signori Santagatesi . Subito che si seppe il di lui arrivo, quantità di Gentiluomini secolari, ed Ecclesiastici furono a ritrovarlo. L’umiltà di Alfonso li confuse, anzi sorpresi si videro della sua umanità, e somma piacevolezza. Non avendo ravvisato in esso né sostenutezza, né aria d’imperio, ma un uomo tutto cuore per essi, ed alieno da ogni fasto, candido e senza fiele. Ritornati in S. Agata, altro non fecero, che decantarlo per santo. Tale lo spacciarono in tutta la Diocesi; ed Alfonso non ancora conosciuto. per santo veniva da tutti acclamato, e desiderato”.
Il padre non s’attardò in visite e ricevimenti e il 13 aprile, martedì di Pasqua, aveva già scritto a Don Giovanni Bruni, segretario di Spinelli: Io per togliermi dalla sospensione e confusione, in cui mi vedo, ho deliberato di partirmi fra giorni e portarmi a’ piedi suoi (di Spinelli) in Velletri e ivi mi regolerò secondo il Sig.re Cardinale stimerà
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più espediente, tanto più che intendo coll’aiuto del Signore far anche il viaggio della Santa Casa di Loreto”6.
Prima di partire però il vescovo si preoccupò di costituire la sua famiglia episcopale nel caso che il papa mantenesse la scelta: come domestico assunse quello del suo predecessore, il giovane Antonio Jannella, 24 anni, che conosceva bene la diocesi; come segretario gli fu inviato dal P. Ferrara Don Felice Verzella, un eccellente sacerdote di Nusco, 33 anni. In ritiro a S. Angelo a Cupolo, Don Felice si era lasciato persuadere anche perché, dieci anni prima, passando per Pagani dopo la sua ordinazione a chiedere benedizione e consigli a colui che tutti dicevano santo, si era sentito dire tra l’altro, mentre riceveva in dono un opuscolo delle Massime eterne:
- Figlio mio, Dio vi guardi di celebrare in peccato mortale una volta, perché ci farai l’abito, disprezzerai tutto, e sarai sicuramente dannato come Giuda, attendi allo studio, ed all’Orazione 7.
Infine chiese e ottenne come vicario generale Don Giovanni Nicola Rubini, 47 anni, da 10 vicario generale della diocesi di Conza, incontrato nel corso delle missioni, uomo di “dottrina, prudenza, buon costume e moderazione”. La scelta fu felice, perché 6 anni dopo, lo avrebbe proposto (senza successo però) per la mitra di Sora, ritrovando “in esso quelle qualità che formano il buon vescovo”8.
I due sacerdoti, tanto preziosi in seguito, lo avrebbero preceduto di qualche giorno a S. Agata, dopo la presa di possesso canonica della sede, mentre Domenico Jannella entrò immediatamente in servizio per il viaggio a Roma e a Loreto.
Lunedì 19 aprile, Domenico vestito di rosso, frustava i due muli conducendo Liguori e Villani verso la Città Eterna lungo la Via Appia, che per Capua, Formia, Terracina e Velletri attraversa la storia e la letteratura romana. Il tragitto veniva ricoperto in tre giorni, con due tappe in osterie i cui letti - tre tavole su due cavalletti - (identici a quello di Mons. de Liguori, come è possibile vedere ancora oggi a Pagani) faranno gemere Goethe.
I tranquilli mercenari corsi di guardia alla frontiera pontificia senz’altro si meravigliarono di un vescovo in così umile equipaggiamento, anche se una vettura decapottabile era in qualche maniera un lusso in primavera nel paradiso della campagna laziale. Ma che contemplava il nostro futuro vescovo tra il breviario e il rosario, tra Pagani e Roma?
La sera di mercoledì 21 aprile il calesse si arrestò a Velletri, dove i viaggiatori, ospitati in seminario, attesero per due giorni il cardinale Spinelli in visita pastorale a Cisterna. Poi sabato si mossero per incontrarlo e le prime parole di Alfonso furono di sofferto rimprovero:
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- Eminenza, già me l’avete fatta!
- Monsignore, stia certissimo del Divino aiuto, rispose il decano del sacro collegio, essendo più che certa la Divina chiamata.
Dopo un’intera giornata trascorsa insieme, Spinelli avrebbe voluto trattenere l’amico venerato da tempo, del quale ora ammirava il rifiuto e molto più l’ubbidienza, ma Alfonso, che aveva fretta di mettersi al servizio della sua carica pastorale, l’indomani, 25 aprile, con la sua umile vettura si portò a Roma. La sua prima visita fu alla basilica vaticana, dove passò un’ora come in estasi dinanzi all’altare della confessione e poi in ginocchio dinanzi alla statua del principe degli apostoli.
Dal duca di Sora, Don Gaetano Buoncompagni, che gli aveva offerto per il soggiorno romano un appartamento e una carrozza, accettò la seconda per guadagnar tempo, dal momento che Domenico, che conosceva bene S. Agata, si sarebbe perso cento volte dentro Roma; lo ringraziò invece per l’appartamento, preferendo fermarsi in casa dei Pii Operai, a S. Maria ai Monti. Accolto sulla porta dal rettore, Michele Massetti, e da tutta la comunità, vi ritrovò un amico, il P. Francesco Longobardi, e un antico suo novizio e studente, il P. Francesco Sanseverino, ora consultore della S. Congregazione dei Riti. Per due mesi, con Villani, vivrà come in una casa del suo Istituto, ma senza il suo misero saccone: il domestico Jannela, meravigliato di trovare ogni mattina il letto intatto, spiando per le fessure della porta, lo vedrà appisolarsi in ginocchio, a volte appoggiato al letto, a volte seduto sui talloni 9.
Dopo il pellegrinaggio a S. Pietro, prima preoccupazione di Alfonso fu presentare gli omaggi al suo successore, tentando ancora una volta di perorare per la propria causa, ma Clemente XIII, lo stesso giorno in cui egli arrivava da sud, era partito per il nord a respirare l’aria marina di Civitavecchia. “Non perdiamo tempo, si disse allora Alfonso, andiamo a venerare la santa casa di Loreto”. Era un viaggio di quattro giorni, più lungo di quello Napoli - Roma, per strade più montagnose, più tortuose, più dissestate.
- Siete appena arrivato, fece Villani, non aggiungete strapazzi a strapazzi.
- Mamma mi ajuterà, rispose, quando sarò per ricevere un’altra volta occasione così bella? Tutto è poco, se ho consolazione di visitare quella Casa, ove il Verbo Eterno si fe’ Uomo per me.
Quattro anni prima nella Novena di Natale aveva scritto:
“O casetta fortunata di Nazaret, io ti saluto e ti adoro. Verrà un tempo che sarete visitata dai primi grandi della terra; ritrovandosi i pellegrini entro di te non si sazieranno di piangere per tenerezza, in
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pensare che dentro le tue povere mura menò quasi tutta la sua vita il re del paradiso.
ln questa casa dunque il Verbo incarnato visse pel resto della sua fanciullezza e della sua gioventù. E come visse? visse povero e disprezzato dagli uomini, facendo l’ufficio di semplice garzone ed ubbidendo a Maria e Giuseppe... Oh Dio qual tenerezza è il pensare che in questa povera casa il Figlio di Dio vive da servo! ora va a prender l’acqua, ora apre o serra la bottega, ora scopa la stanza, or raccoglie i frantumi de’ legnami per lo fuoco, ora fatica in aiutar Giuseppe ne’ suoi lavori. - O Stupore! vedere un Dio che scopa, un Dio che serve da garzone! Oh pensiero che dovrebbe farci ardere tutti di santo amore verso un tal Redentore che si è ridotto a tali bassezze per farsi amare da noi! Adoriamo sopra tutto la vita nascosta e negletta che fe’ Gesù Cristo nella casa di Nazaret. O uomini superbi, come potete ambir di comparire e d’essere onorati vedendo il vostro Dio che spende trent’anni di vita vivendo povero, nascosto e sconosciuto, per insegnarci il ritiramento e la vita umile e nascosta?”10 .
Ricorrendo questa volta ai servizi di un vetturino, i nostri pellegrini - Liguori, Villani e Domenico - si misero in viaggio mercoledì 28 aprile sulla strada ufficiale delle poste, l’antica Via Flaminia verso Civita Castellana, Terni, Spoleto, Macerata 11. Tannoia raccolse i ricordi di Villani e di Domenico Jannella:
“Questo viaggio, e così fu quello da Napoli a Roma, fu una continua unione con Dio. Precedeva la mattina una lunga meditazione con altre preci: indi le ore canoniche, visita a Gesù Sagramentato, e visita. Rosario, e Litanie a Maria Santissima; e voleva che il servitore, ed anche il vettorino recitato avessero il Rosario a capo scoperto. Suffragava ancora con varie orazioni le Anime de’ Defonti; e non consumavasi tutto il tempo di più fino a mezzo giorno, che in canzoni divote, ed in discorsi santi col P. Villani. Ogni mattina non lasciò celebrare, e come l’ora si avanzava, così apparecchiavasi, prima che si arrivasse al destinato luogo. Ripigliato il camino, recitava Vespro, e Compieta. Susseguiva una lunga meditazione, visita a Gesù Sacramentato, e visita, e Rosario a Maria Santissima. Pervenuto all’osteria recitava il Matutino, e le Laudi per dì susseguente.
Umiltà, e povertà era il suo corredo. Zimarra, e sottana nostra era il suo vestire. Non si mangiava la mattina; e la sera non vi era particolarità nel pranzo; anzi, come se fosse stato il più meschino tra passeggeri, mettevasi a tavola co’ medesimi vettorini.
Tre giorni stiede in Loreto, ma non è da esprimersi la consolazione che provò, visitando la S. Casa. Non osservava, ma meditava le più minute circostanze. Estatico sentivasi ripetere: qui il Verbo Eterno si è fatto Uomo qui Maria Santissima avevalo tra le braccia. Una
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mattina, avendo fatto appartare il P. Villani volle restar solo, e buona pezza di tempo si trattenne orando dietro del focolajo...
Mi attesta Domenico Antonio Zannelli (Jannella), che stavalo servendo, che in tutte le notti, che stiede in Loreto non prese mai letto, e che come osservò dalle fessure della porta, o stavasene ginocchioni poggiato a letto, o a terra abbandonato sulle gambe. La sera passavala incenata con un decotto di salvia. Che anche la mattina poco mangiava, e spronato a gustare di qualche piatto dal Cameriere della locanda, con destrezza se ne sbrigava. Non uscì mai di casa per osservare la Città. Solo n’usciva per celebrare la mattina, e di sera per visitare Gesù Sacramentato, e Maria Santissima.
Accerchiato da Peregrini, che ivi non mancano, sovveniva largamente ognuno. Essendosi presentato uno di questi mezz’ignudo, Alfonso, avendo aperto il baulle, diedegli la miglior camicia, che aveva, e competente somma di denaro.
Bisogna dire, che se col corpo partì Alfonso dalla S. Casa, ci lasciò il cuore. Per strada non saziavasi parlare d’altro che, del gran mistero operato tra quelle sante mura”.
Sabato 8 maggio, mentre i nostri pellegrini rientravano a Roma, le salve di Castel Sant’Angelo annunziarono il ritorno di Clemente XIII e, “non perdendo tempo”, scrive Tannoia, certo l’indomani mattina, Liguori fu ai suoi piedi. Il Papa si affrettò ad abbracciarlo per farlo alzare e sedere, ma Alfonso si gettò di nuovo in ginocchio implorando di non essere vescovo, per i suoi malanni, la sua età, la sua incapacità. Il Santo Padre, commosso, ma non smosso, lo fece nuovamente sedere, ripetendogli le classiche parole di moda anche se non di fede:
- L’ubbidienza fa far miracoli; confidate in Dio, che Dio vi ajuterà .
Lo trattenne un’ora e mezza, parlando del Regno di Napoli, della sua congregazione, della Chiesa. Volle rivederlo a lungo sei o sette volte durante il suo soggiorno romano, un giorno per ben tre ore, mentre negli ambienti curiali cominciava a correre la voce: “ Mons. de Liguori sarà nominato cardinale!”.
A Roma Alfonso fu considerato un grande personaggio: visite da fare e da ricevere; gli eminentissimi Orsini, Galli, Antonelli, Spinelli e altri porporati vennero più volte a intrattenersi con lui, tre volte il P. Lorenzo Ricci, generale dei Gesuiti, la cui Compagnia, già espulsa dal Portogallo (1759), era minacciata in tutta l’Europa, nelle Filippine e nell’America del Sud dall’accanito regalismo dei Borboni e dei loro ministri.
Assediato da visitatori, L’uomo di Dio era anche molto pressato da inviti: “Girato avrebbe tutta Roma, se avesse voluto accettare l’invito della tavola. Graziosamente se ne scusò con tutti, non mancando
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pretesti alla sua santità” - e alla sua mortificazione - “Avendolo invitato una mattina a pranzo i PP. della Missione di san Vincenzo, il pranzo mio, confidentemente lor disse Alfonso, datelo per me ai poverelli di Gesù Cristo, azinché il Signore mi faccia accertare in Roma la sua divina volontà”.
Non poté però rifiutarsi al cardinale Orsini, perché il gentiluomo venuto a invitarlo gli fece osservare che Sua Eminenza attendeva una platea di signori e di prelati convocati precisamente in suo onore. Stava per avviarsi, quando gli fu detto:
- Monsignore, avete poche possibilità di essere ammesso con l’abito che portate, dal momento che Matteo Testa (recentemente promosso a vescovo di Reggio Calabria), essendosi presentato in sottana, è stato pregato dal maggiordomo del cardinale di andarsi a vestire in abito corto.
A Roma, anche se preti o vescovi, non si poteva essere ammessi al ricevimento di un cardinale se non in calzoni e giubba, oggi diremmo in abito completo. Ma Alfonso, che per povertà possedeva solo la sottana di missionario redentorista, si presentò così al palazzo del cardinale, superò gli sbarramenti del personale e, avvicinandosi all’alto prelato:
- Eminenza, gli disse, come mi trovo così vengo... Conosco che vi svergogno...
- Voglio che mi svergognate, rispose Orsini sorridendo e “strettamente abbracciandolo, con ammirazione di ognuno, se l’introduce nel suo gabinetto”.
Tranne le quattro basiliche maggiori e la biblioteca vaticana dove volle vedere e venerare i manoscritti dell’antichità cristiana, Alfonso non visitò altro della Roma antica, avendo fretta di riprendere la sua vita di preghiera e di lavoro, come scriveva al fratello:
“Mi sembrano mille anni scappare di Roma, e liberarmi da tante cerimonie, benché mi trattano con finezze immense... qui le mancie mangiano vive le genti; grandi cerimonie, e grandi denari”.
Tuttavia era necessario aspettare l’esame di un “ dottorato ” che dovette ricordargli l’altro... di cinquant’anni prima, triste giubileo.
Il “candidato” Liguori affrontò con onestà la prova, del tutto accademica e tanto poco pastorale, presentandosi il mattino dell’11 giugno con la sua scienza e la sua emicrania al Quirinale, dinanzi al papa assistito dai cardinali Orsini e Antonelli. Fu interrogato da tre esaminatori su De mutuo, De legibus e il problema: È permesso desiderare l’episcopato? A quest’ultima domanda Alfonso dapprima fece il sordo, pregando il Maestro dei Sacri Palazzi, il domenicano Tommaso Ricchini, di parlare a voce più alta.
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- Beatissimo Padre, fece allora il cardinale penitenziere Galli presidente della commissione, non ci sente, perché non ci vuol sentire.
Tutti sorrisero, tranne Alfonso.
Al termine un cardinale gli suggerì di ringraziare il papa, ma Alfonso, ancora più sordo, non si mosse; il cardinale tornò alla carica, allora Liguori disse:
- Beatissimo Padre, giacché vi siete degnato di farmi Vescovo, pregate Iddio, che non mi perda l’Anima.
Lunedì 14 giugno, nel concistoro cui parteciparono 24 cardinali, Clemente XIII preconizzò il P. Alfonso de Liguori a vescovo di S. Agata dei Goti. La domenica seguente, nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, nella cappella del SS. Salvatore, il cardinale Ferdinando Rossi (che si firmò in latino: De Rubeis), prefetto della S. Congregazione del Concilio, assistito da Mons. Domenico Giordani, vicario di Roma, e Innocenzo Gorgoni, arcivescovo titolare d’Emeso (oggi Homs) in Siria, gli conferì il sacramento dell’episcopato 12.
“Giornata per lui non vi fu di questa più mesta, e dolorosa. Egli stesso confidò in seguito al proprio Confessore, che due grandi sforzi sofferto aveva in sua vita: uno, quando lasciando il Mondo, abbracciato si vide strettamente dal Padre: L’altro, quando in Roma fu consacrato Vescovo contro sua voglia.
Nel primo, disse, combattetti colla passione verso un Padre, che mi amava: e nel secondo, mi viddi abbattuto, essendo obbligato ad accettare ciò che non voleva, spaventato dal peso e dai giudizj di Dio”.
Traffichini a caccia di nuovi vescovi gli suggerirono che i prelati, sborsando certo qualcosa, ottenevano il breve che permetteva loro di conservare lo zucchetto durante la messa, al fine di nascondere la calvizie e evitare raffreddori di testa.
- Oh bella, esclamò, ho da pagar danaro per fare una mala creanza a Gesù Cristo!
Benché non si coprisse mai la testa per rispetto alla presenza di Dio malgrado le violente emicranie, a Roma fu visto proteggersi dal sole di giugno, sotto il quale dovette tanto girare, con un cappello dalle larghe falde che non aveva niente di episcopale.
Il 21 giugno, l’indomani della sua ordinazione, Mons. de Liguori andò a congedarsi dal papa, che molto colpito non solo ordinò di spedirgli le bolle gratuitamente, ma continuò anche a parlarne spesso, arrivando fino a questa riflessione con qualche cardinale:
- Nella morte di Monsignor Liguori avremo un altro Santo nella Chiesa di Gesù Cristo.
Nel pomeriggio il novello vescovo lasciò Roma e, passata la notte a Frascati in casa del duca di Sora, riprese la strada di Napoli. Vi giunse la sera del 25.
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Il vescovo, ora confermato e ordinato, si sottomise nuovamente al giro obbligato dei notabili religiosi e civili della capitale: da San Nicandro, il precettore del re, al marchese De Marco, segretario di Stato per gli affari ecclesiastici, tutti fecero a gara nel rispetto e nella benevolenza.
- Io vado, disse Liguori a De Marco, in una Diocesi un poco imbrogliata; ed ognuno giustificar vorrà la propria condotta. Prega Iddio, che così sia; ma prègo farvi carico dell’onore di Dio, e del bene delle Anime.
- Non vi sgomentate, rispose De Marco, e bisognando il braccio del re, siatene sicurissimo.
Questo dialogo oggi può solo meravigliare gli spiriti, ma allora - altri tempi, altri costumi - non si pensava in termini di separazione tra Chiesa e Stato, di distinzione tra il potere spirituale e quello temporale.
Essendo la società civile, per principio e per diritto, una comunità cristiana, corrompere la fede o i costumi ufficiali era più grave del battere moneta falsa o dell’avvelenare i corpi, per cui il “braccio secolare” interveniva in entrambi i campi. Si applicava l’insegnamento della Summa di san Tommaso (II-II , q. 11 , a. 3 ) sulla repressione degli eretici:
“La Chiesa non condanna subito, ma dopo una prima e una seconda correzione, come dice l’Apostolo. Dopo di questo però se (l’eretico) permane ostinato, la Chiesa, non sperando più nella sua conversione e preoccupandosi della salvezza degli altri, lo separa da sé con una sentenza di scomunica e ulteriormente l’abbandona al giudizio secolare, perché sia tolto dal mondo con la morte. Dice infatti S. Girolamo: Vanno amputate le putride carni e cacciata dall’ovile la pecora scabbiosa, perché tutta la casa, la massa, il corpo e il gregge non arda, si corrompa, imputridisca, perisca. Ario fu una semplice scintilla in Alessandria, ma, perché non fu subito soffocata, la sua fiamma si diffuse in tutto il mondo”.
Vedremo pertanto il vescovo rivolgersi a volte al “braccio del re”, ma non senza esser prima ricorso alle risorse della dolcezza, che erano larghe ed efficaci in lui, i cui primi mezzi di pressione erano la preghiera e la penitenza.
Un sacerdote di Arienzo ne fece ben presto l’esperienza. Trovandosi di passaggio per Napoli, si affrettò a porgere i dovuti omaggi al suo nuovo pastore e, per onorarlo, non trovò di meglio che presentarsi in parrucca incipriata e arricciata e con ai piedi scarpe ricoperte completamente da borchie d’argento. Alfonso, vedendolo “di testa così svanito”, ne ebbe compassione e gli disse con tutto il cuore:
- Figlio mio, queste non sono fibbie da prete, e questa chioma
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non vi conviene. Se voi così, che dovete essere di esempio a Secolari, un Secolare cosa di più dovrebbe fare?
L’ingenuo damerino era di buona volontà, per cui abbassò la testa, facendo tesoro della lezione. E la voce si diffuse veloce attraverso tutta la diocesi, per la gioia degli uni e il timore degli altri: “Abbiamo per vescovo un santo!”.
Non era una cosa che andava da sé, perché allora v’erano vescovi e vescovi e non tutti si facevano la stessa idea della perfezione episcopale. Tre anni prima, dopo la missione di Nola, Alfonso s’era presentato un mattino in casa di Mons. Gentile, vescovo di Cerreto pregando il cameriere di annunziare il P. de Liguori. Pensando che quei “romito” mal vestito e con barbaccia avesse tutto il tempo di aspettare, il domestico continuò le pulizie dell’anticamera e, quando il padre richiamò nuovamente la sua attenzione, rispose sgarbatamente senza interrompere il lavoro: “Adesso, adesso!”. Arrivato al banco dove Alfonso stava seduto, certo immerso nella preghiera:
- Lo vedete, gli disse, e nemmeno vi volete alzare.
Liguori si affrettò ad alzarsi, andandosene ad aspettare in un altro angolo. Quando finalmente il nostro uomo ebbe finito con la polvere, il missionario ripeté la sua richiesta e il domestico, che frattanto aveva dimenticato il suo nome, entrò a dire al vescovo:
- C’è uno straccione di prete che vuol vedervi.
- Dimandate chi è, e che vuole.
Mons. Gentile era in veste da camera e, sentendo quel nome, fu sottosopra:
- Presto, il mio abito... le mie scarpe... la mia parrucca... Ia mia croce pettorale !
E corse ad accogliere Alfonso, mentre il servitore scappava a nascondersi 13.
Il P. de Liguori, ritornato da vescovo in una Napoli dove si cercava di rubargli qualche pezzo dei suoi cenci per farsene reliquie, durante la settimana che fu costretto a passarvi, fu invitato a celebrare un pontificale nei principali monasteri femminili: aveva tanto predicato e confessato per sfruttare fino in fondo i soggiorni napoletani ai quali era stato condannato dagli affari del suo Istituto e da due anni e mezzo era il prestigioso autore di La monaca santa (1760), che, come scrive Romeo De Maio, “fu avvenimento straordinario nella storia delle claustrali non solo di Napoli ma di tutta la Chiesa... insigne per successo e per entusiasmo”14. L’unico partito possibile al novello vescovo era un amabile rifiuto; fece eccezione solo per le Francescane di S. Girolamo, per la gioia delle due sorelle Barbara e Annella, in religione Maria Luisa e Marianna. Il 2 luglio fu ai Girolamini per i
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“fratelli” della confraternita dei dottori, di cui la Visitazione era la festa patronale.
L’indomani, sabato, il vescovo riprese la strada di Pagani molto presto in maniera da giungervi in tempo per tenere la predica del suo cuore sulla Vergine Maria.
Erano quasi tre mesi che quel popolo e i suoi confratelli non l’avevano rivisto.
Ma in realtà che ne sarebbe stato della sua congregazione?
Era partito senza prendere la minima disposizione, contando contro ogni speranza che il papa lo avrebbe rimandato nella sua celletta di Redentorista.
I suoi figli, meno sicuri di questo, anche se felici per l’affermazione e il credito dato all’Istituto dalla nomina del fondatore a vescovo, erano desolati per il pensiero di perderlo e, a sua insaputa, avevano cercato di parare il colpo. Appena conosciuta la sua elezione alla sede di S. Agata, i sei consiglieri generali - Villani, Margotta, Mazzini, Fiocchi, Ferrara, Caione e D’Antonio (quest’ultimo aveva preso il posto dell’incomparabile animatore di Ciorani, Saverio Rossi, deceduto nel 1758)15 - avevano promosso nelle cinque comunità una consultazione democratica con voto segreto, che raccolse quasi dovunque l’unanimità, sulla seguente postulazione per il S. Padre, affidata a Villani:
“...essendo degnata la S. V. eleggere Vescovo di S. Agata de’ Goti il P. D. Alfonso de’ Liguori, ch’era Rettore Maggiore perpetuo, come Fondatore - (sottolineiamo questo titolo) - e sostegno principale dell’anzidetta Congregazione, si è dovuto perciò procedere all’elezione di un nuovo Rettore Maggiore, e siccome dal governo del sopraccennato P. D. Alfonso de’ Liguori, per tanti anni che è stato di carità, di zelo ed esempio, n’è risultato utile e vantaggio grandissimo per la detta Congregazione, così nello spirito, come nel temporale, perciò unanimiter et nemine discrepante, hanno stimato confermarlo per loro Rettore Maggiore, non solo perché la stessa Congregazione avesse lo stesso felice progresso colla direzione del medesimo, ma anche per dimostrargli un atto ben dovuto di subordinazione, gratitudine ed ossequio, colla facoltà però di eliggere e deputare un Vicario generale, vita durante, di esso P. D. Alfonso, eletto Vescovo, dal corpo di detta Comunità, colla stessa piena ed egual facoltà che adesso tiene l’istesso Rettore Maggiore, coll’obbligo di dipendere e consigliarsi col medesimo in tutte le cose di rilievo e conseguenza, come sarebbe nella fondazione di nuove case e dimissione di qualcheduna di esse, o di espulsione di qualche Padre della stessa Congregazione”.
Questa domanda, rivolta al papa “ in nome di tutti i Padri Consultori e Comunità”, fu accettata il 25 maggio 1762 dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari in nome del S. Padre.
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- No, no, disse Clemente XIII al P. Villani, voglio che la vostra Congregazione non soffra alcun danno dalla partenza di Monsignore. Il mio desiderio invece è che essa si affermi e si arricchisca di buoni soggetti, e mi consolo del gran bene che opera nella Chiesa e nel Regno.
Alfonso apprese quindi a Roma, pochi giorni prima della sua ordinazione episcopale, che avrebbe dovuto portare il duplice peso della diocesi e dell’Istituto. Questa decisione del papa, invece di prostrarlo del tutto, lo rasserenò, togliendogli il più acuto dei suoi dolori.
- Resto nella Congregazione, esclamò, Dio malgrado i miei peccati non mi ha voluto cacciare!
Scelse come vicario generale il P. Villani, tra la gioia di tutto l’Istituto 16 .
Durante i quattro giorni trascorsi a Pagani (4-7 luglio), per regolare gli affari rimandati, fare le consegne, organizzare il suo trasloco, fu costretto dai confratelli, per la sua nuova dignità e per le visite dei prelati vicini, ad alloggiare in due vani più grandi. Una sera passando con un gruppo di suoi figli dinanzi alla cameretta occupata per dieci anni, esclamò:
- Oh camera, quando ti vedeva, mi consolavi, ora mi dai pena!
E non potendo contenere la sua emozione, dovette tornare indietro.
Un’altra volta, come raccontò lo studente Giuseppe Messina “suonando... il cembalo venuto da Roma, io gli cercai alcune carte da sé composte, come la Salve Regina e ‘I duetto di Gesù e l’anima, poi gli domandai se si portava il cembalo in S. Agata.
- Cembalo, rispose, bella cosa! Il vescovo ha tempo di suonare! e ben, che si dice poi: il vescovo se la spassa al cembalo. Tre cose ha da far sentire di sé il vescovo, quando si domanda cosa faccia: o fa orazione, o dà udienza, o predica”17.
Con il suo segretario e il domestico Domenico aveva inviato a S. Agata il 5 luglio, i fratelli Francescantonio Romito e Leonardo Cicchetti a preparare l’alloggio, affidando a quest’ultimo le sue istruzioni e la tela del suo saccone.
Giovedì 8 luglio, al mattino, prese congedo dalla comunità in lacrime, dicendo sulla porta:
- Fratelli miei, non vi dimenticate di me: io vado in esilio lontano da voi, e dalla mia Congregazione.
A cassetta aveva preso posto un calzolaio di 20 anni, reclutato da Alfonso nel suo Borgo dei Vergini, Alessio Pollio, che non l’avrebbe lasciato fino alla morte. Accompagnato questa volta dai padri Francesco Margotta e Angelo Maione, Mons. de Liguori si allontanò verso Napoli 18.
Il vescovo aveva già preso possesso canonico della diocesi per procura fatta al vicario generale, Don Francesco Rainone. Domenica
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11 luglio, al mattino, su due vetture, Alfonso e Margotta, Ercole e Maione, lasciata Napoli, trottarono verso S. Agata, attesi per il pranzo dai Conventuali di Maddaloni, ultima città della diocesi di Caserta, quasi ai confini di quella di S. Agata. Ecclesiastici e notabili di S. Agata, Arienzo, Frasso, Airola, Durazzano. ecc. vennero in massa incontro al loro pastore; il vescovo di Caserta, Mons. Albertini, lo attendeva con il suo clero per salutarne il passaggio sul suo territorio e lo accompagnò fino al grande acquedotto regio costruito da Vanvitelli. Il canonico Giuseppe Jemieri, cancelliere vescovile di S. Agata, fermò allora il corteo, dicendo solennemente :
- Siamo in Diocesi, degnateci della vostra benedizione!
Per ricevere questa prima benedizione, erano accorsi in folla: non solamente i ricchi, che a cavallo o in carrozza lo scortavano da Maddaloni, ma anche i poveri, venuti a piedi. A Valle, prima parrocchia della diocesi, e a Bagnoli, feudo della mensa vescovile, fu salutato da salve di mortaio e da fuochi d’artificio.
Tutto questo accadeva per ogni vescovo, nuovo invece, come dice Verzella era il fatto che Alfonso “si avviò in mezzo ad una prodigiosa moltitudine di popolo verso S. Agata, e tutti facevano a gara per ricevere la benedizione”, acclamandolo “santo” come sottolinea Tannoia.
Ed ecco finalmente S. Agata, le cui strade di pietra bianca contrastavano singolarmente con il selciato nero di Napoli; ma chi poteva accorgersene con tutta la città e l’entroterra che si erano ammassate, acclamavano, s’inginocchiavano e si segnavano, gridavano e cantavano, tra il rumore dei mortai e il suono delle campane di tutte le chiese? Il clero secolare e regolare e numerosi laici accolsero e si complimentarono con il prelato, quando mise piede a terra nel vasto cortile dell’episcopio. Dopo una mezz’ora, in cui s’intrattenne con la famiglia vescovile e i canonici nel salone del palazzo, si avviò in corteo verso la vicina cattedrale.
- No, no, gridò puntiglioso il cerimoniere, aspettate! Monsignore deve portare il galero vescovile con il nastro largo e le ghiande verdi !
- Monsignore non ha cappello...
Inaudito! Eppure bisognava inaugurare l’episcopato con un corteo “valido”!... Qualcuno fu dell’avviso di andare a prendere sulla tomba il copricapo impolverato del vescovo precedente, Mons. Flaminio Danza, e Alfonso, che dovette divertirsi con discrezione e lasciar fare con bonomia, portando bravamente sul capo il galero del morto, si avviò dietro il capitolo verso il duomo, mentre le campane suonavano nel vento della sera dato che tra poco sarebbero state le 23 (le 18 per noi).
Accolto dai pieno dell’organo e, sulla porta, dal clero, Mons. de Liguori entrò nella sua chiesa madre, le cui tre navi capaci di ben
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3.000 persone, non riuscivano a contenere tutta la folla, costringendola a restare in parte sulla piazza o nelle vie adiacenti. Dopo essersi prostrato dinanzi al SS. Sacramento esposto solennemente in intensa adorazione, rivestite le insegne episcopali, Alfonso salì sul trono, mentre il clero cantava il Te Deum.
Dopo gli ultimi accenti - Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno - portatosi sul lato destro della predella dell’altare maggiore (la sua arte oratoria fatta di immediatezza non si adattava agli abbaini dei pulpiti), per un’ora e mezza tenne avvinto il suo uditorio con parole tutto amore e zelo, “ora mostrandosi persuaso che Dio lo aveva mandato nella diocesi di S. Agata de’ Goti non perché attendesse a pigliarsi gusti e spassi, ma acciò procurasse con i suoi sudori e colle sue fatiche di agevolare alle anime della diocesi di S. Agata de’ Goti il conseguimento della salute eterna, ora protestandosi che esso era venuto nella diocesi di S. Agata de’ Goti non con volontà di comandare ad alcuno, ma con volontà di servire a tutti; ora pregando specialmente il clero che non mancasse di ajutarlo, per quanto poteva, a portare il gran peso che Dio avevagli posto sulle spalle”.
Quindi proclamò aperta la santa missione: il mattino per il clero secolare e regolare, la sera per i fedeli.
Lasciando la cattedrale dopo la solenne benedizione con il Santissimo, tutti, pieni di gioia, ripetevano: “Abbiamo un Vescovo santo... Un santo vivente abbiamo in S. Agata!”.
Nel mezzo della predica Alfonso era stato scosso da un violento attacco di tosse e un canonico si era fatto bello mormorando alle orecchie dei vicini:
- Signori miei, apparecchiamoci per ricevere l’altro vescovo perché, se verrà a Monsignor D. Alfonso Maria di Liguori un’altra tosse simile a questa, lo perderemo certamente.
La battuta fu riferita a Alfonso, che, sorridendo, fece questa riflessione:
- Ah! ah! che badi costui a se stesso. Ma non sa che cascano più volentieri le pere acerbe, che le mature ? Io ho da vedere rinnovato tutto il capitolo di S. Agata de’ Goti.
Profezia o coincidenza, il primo canonico a passare a miglior vita sarà proprio il nostro umorista, benché ancora giovane.
Rientrato nel palazzo vescovile dopo la cerimonia, monsignore vide arrivare i commessi di numerosi signori del luogo con, quale benvenuto, cibarie le une più squisite delle altre: dolci, vini stranieri, liquori. Espressa viva riconoscenza a tutti e distribuite mance ai portatori, rifiutò ogni cosa, ordinando a Verzella di far comprare in Città quanto bisognava per la cena. Nei giorni seguenti farà lo stesso
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con i doni inviatigli dai Domenicani di S. Maria a Vico e di Durazzano, dai Conventuali di S. Agata, dalle monache e dall’arciprete di Frasso Telesino, con cortesi parole di scusa come:
“Ho ricevuto il vostro dono e ve ne ringrazio, ma non dispiacetevi se ve lo rimando, perché non ho voluto accettare niente da nessuno Considero il regalo come fatto e vi prego di conservarlo per voi stessi ”.
Per non aver rifiutato il dono di un ecclesiastico, il povero Domenico Jannella dovrà riportarglielo di persona e sarà licenziato 19.
Poco prima della cena, monsignore apprese che Don Verzella, da maggiordomo all’altezza della situazione, aveva ordinato un banchetto d’intronizzazione e, dinanzi a questo irrimediabile festino, fattolo chiamare, gli disse:
- D. Felice, Dio vel perdoni! cosa avete fatto! Io non sono venuto qui per dar tavola, né voglio farvi patire, ma nemmeno voglio, che si eccede. Vi saranno tanti poveretti, che muojonsi di fame, e noi vogliamo banchettare.
Finita la cena, presolo da parte fissò per l’avvenire il menu ordinario del pranzo: minestra e lessò, con qualcosa in più per i suoi commensali .
Ma le sorprese non erano ancora finite, perché in una bella camera gli era stato preparato un magnifico letto. Chiamò allora Cicchetti:
- Fratello, dove sta il mio saccone?
- Monsignore, i canonici vi hanno fatto preparare questo letto e del resto non sono riuscito a trovare la paglia, perché sarebbe stato necessario andare a cercarla molto lontano.
- Si procuri, e si compri ad ogni costo.
Seduta stante, fece togliere i materassi e mettere il saccone vuoto sulle tavole, poi, prima di stendersi su questa croce, si amministrò - lo si sentì - una rude e lunga flagellazione.
L’indomani, facendo un giro di presa di possesso del grande palazzo, assegnò le camere migliori al vicario generale Rubini, al segretario Verzella e al confratello Angelo Maione che doveva restare con lui. Passato in giardino, lo trovò in abbandono, senza alberi e senza ortaggi .
- Fratel Leonardo, piantate aranci, limoni e mandarini.
- Non ora, Monsignore, non siamo a febbraio.
“Questi teologi non capiscono niente!” dovette pensare Cicchetti, ma ubbidì e anche il giardino, perché nessun piede di quella piantagione sotto la canicola seccò.
Sacerdoti e fedeli che avevano riso garbatamente, dovettero dirsi ancora una volta: “Veramente a S. Agata abbiamo un Vescovo santo!”.