IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
Parte Quarta “IO SONO IL BUON PASTORE” (1762-1775) 40 - “MONSIGNORE SI AMMAZZA DA SE STESSO!” (1762-1763) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
40 - “MONSIGNORE SI AMMAZZA DA SE STESSO!”
“Quante anime conta la vostra diocesi di S. Agata?”, chiese al novello vescovo il suo vicino di Caserta, Mons. Albertini, mentre un giorno mangiavano insieme.
- Da quarantamila, rispose Alfonso.
- E altrettanto fa la mia, disse Albertini.
Allora Alfonso, pensieroso, “crollando e ricrollando il capo”:
- Monsignore mio, abbiamo ognuno quaranta mila cantaja di peso sopra la bocca dello stomaco. Poveri noi, se, per nostra negligenza, si perde una di queste 1.
Vedeva questo peso pastorale della coscienza simbolicamente nel Monte Taburno, la cui mole a est della diocesi dominava S. Agata con i suoi 1.394 metri.
Non era un problema che interessasse il novello vescovo sapere da quando e in seguito a quali migrazioni la Saticula di Tito Livio era diventata S. Agata dei Goti. Attualmente parte della provincia di Benevento, la città occupava il centro di una diocesi allora a cavallo su due province con due zone geografiche molto diverse.
La zona nord, dal clima umido e piuttosto rude, situata nella provincia del Principato Ultra, ne costituiva i tre quarti, con il suo cerchio di montagne le cui cime spoglie si incatenavano tra i 700 e i 1.300 metri di altezza, con la massa del Taburno come vertice a est.
Attraverso boschi e pascoli, questo anfiteatro discendeva verso una conca di culture molto irrigate: vigneti e campi, frutteti e giardini, a sud della quale, su uno zoccolo roccioso, si rinserrava S. Agata (156 m).
Da ogni parte, ruscelli e torrenti confluivano in due corsi d’acqua - l’Isclero e il Martorano - che, dopo aver circondato la città come fossati, si riunivano in direzione ovest lungo una depressione che li gettava nel Volturno. Qui sorgevano tre villaggi: Valle, Dugenta e Bagnoli, il più piccolo, che aveva l’onore e la fortuna di essere baronia vescovile: “Fa bene vivere sotto il pastorale”, soprattutto sotto
- 649 -
quello di Mons. de Liguori. L’interno del bacino “saticolare” era ripartito in tre città estese, tutte con villaggi in montagna: a nord, a metà pendici, Frasso Telesino; a sud-est, al termine di un vallone, Durazzano; tra i due, la piccola capitale, S. Agata. Infine a sud-est l’insieme si apriva verso Moiano, raggiungendo Airola e l’alta Valle Caudina.
Sul “risvolto” delle montagne, cioè sulle facce che guardavano a nord, boschi di frassini, alte e dense fustaie di faggi e di castagni, picchettate di qualche pino, si arrampicavano fin quasi alle cime, sul “diritto” invece le colture asciutte - vigne e oliveti - si estendevano non troppo in su, dal fondo delle facce sud, gessose e cotte dal sole.
Questo bacino montagnoso, con l’alta Valle Caudina (Airola), costituisce i 178 Kmq dell’attuale diocesi (1982) di S. Agata dei Goti ma era solo la zona nord di quella di Mons. de Liguori.
Essa infatti comprendeva anche una zona sud, di tre quarti più piccola ma molto più amena, nella “Campania felix”: la valle dell’antica Suessola, costeggiata e servita dal troncone della Via Appia che da Roma e Napoli correva verso Benevento, la Puglia e l’Abruzzo. Suessola (o Suessula) era stata una fiorente città medievale, incendiata e rasa al suolo dai Saraceni nell’879-880; gli scampati allora, portando con sé vescovo, armi e bagagli, si stabilirono 10 km più a est, ad Arienzo, che, Nuova Suessola, fu sede vescovile fin verso il 1050, con il titolo sempre di Suessola, e nel secolo XVIII era la città più importante della diocesi con un piccolo palazzo attiguo alla collegiata di S. Andrea, residenza secondaria del vescovo. Mons. de Liguori aveva il titolo ufficiale di “Vescovo di Sant’Agata de’ Goti e Suessula, barone del castello di Bagnoli, e Rettor Maggiore della Congregazione del SS.mo Redentore”2 .
Da S. Agata e Airola, per il “passo” di Arpaia e di Forchia (le famose Forche Caudine, dove i sanniti umiliarono i Romani nel 321 a.C.), si accedeva alla dolce e fertile valle di Arienzo (99 m d’altezza), un paradiso terrestre facente parte della Terra di Lavoro e di... ricchezza, che si estendeva dal nord di Napoli fino alle “delizie di Capua”.
In paragone alle morene spoglie ed erose al di là d’Eboli, L’insieme di questa diocesi di circa 240 kmq era fertile: alberi a nocciolo o a seme e agrumeti producevano frutti squisiti, mentre proteggevano ortoculture le più diverse; pioppi e olmi, faggi e castagni davano legno abbondante e di qualità; il grano, L’olio e il vino, la canapa e il lino erano generosi. Ma la terra indivisibile era sempre troppo avara per le famiglie numerose, pesanti erano i canoni prelevati dai governatori per i baroni, infine le città attraversate dai viaggiatori facevano dimenticare i villaggi sperduti tra le pieghe e i ripiani delle montagne. Quanto alle strade, tranne l’Appia, la longarum regina viarum (Stazio), che attra-
- 650 -
versava la valle di Suessola, non potevano essere che scabrose in montagna, spesso fangose in pianura, erose quasi torrenti sulle pendici, in un paese in cui pioveva molto e l’acqua sgorgava dappertutto.
Questo il quadro geografico e climatico, economico e sociale, in cui andava a vivere il vescovo con il suo popolo di contadini e di allevatori, di artigiani e di commercianti, di pastori e di mendicanti, sotto il dominio di un signore fuori della diocesi, Don Carlo Carafa, duca di Maddaloni.
Quanti erano? Al suo arrivo, basandosi sul sentito dire, Alfonso li aveva stimati in 40.000, ma poi verifiche più precise lo porteranno, nel suo primo rapporto alla S. Sede (1765), a ridurre di un quarto questa cifra.
- Cifra irrisoria! penserà oggi un grande parroco di città o un missionario delle nuove frontiere.
30.000 per un parroco oggi è solo una cifra, invece in un paese “ cristiano ” erano allora persone e l’Italia meridionale aveva un’idea diversa dalla nostra della presenza del vescovo, idea del resto riscoperta da importanti teologi contemporanei.
Per i quattro milioni e mezzo della sola popolazione continentale, il Regno di Napoli contava 131 diocesi, 50 prelature nullius (cioè autonome) e 5 territori sottomessi a vescovi degli Stati Pontifici; di queste 186 diocesi o prelature, 81 non raggiungevano i 10.000 abitanti e la media per diocesi era di 27.000 “ anime ”. per cui S. Agata si presentava come una diocesi importante e “ troppo pesante per le mie spalle! ” pensava Alfonso, che aveva scritto nelle Riflessioni utili ai vescovi:
“Ciascuno nel tribunale di Gesù Cristo sarà tenuto a render conto dell’anima sua, il vescovo sarà tenuto a render conto di tante anime quanti sono i suoi sudditi”3.
Non perda la testa, monsignore! Non può forse contare su un clero di almeno 400 membri 4, di cui circa l’80% sacerdoti? (Facevano infatti parte del “ clero ” propriamente detto una quindicina di diaconi e una cinquantina di suddiaconi, chierici minori o tonsurati, ma non i 30 o 40 aspiranti non ancora tonsurati). Più di un sacerdote per ogni cento fedeli! Bisognava aggiungere tredici conventi di religiosi: Conventuali e Fatebenefratelli a S. Agata (5.200 ab.); Agostiniani, Benedettini di Montevergine, Domenicani, Carmelitani e Cappuccini ad Arienzo (10.000 ab.); Olivetani, Benedettini di Montevergine, Domenicani, Francescani ad Airola (6.200 ab.); Domenicani della provincia lombarda a Durazzano (2.000 ab.); Frati Minori infine ad Arpaia (600 ab.).
Tra i centri importanti solo Frasso (2.600 ab.) e Valle (1.100 ab.) non avevano comunità di sacerdoti “regolari”.
- 651 -
Di fronte a questa pletora di monaci di ogni specie di tonaca, soltanto quattro conventi di monache: ad Arienzo le Canonichesse dell’Annunziata e un conservatorio tenuto dalle Servite, ad Airola le Terziarie di S. Elisabetta; a Frasso un conservatorio inquadrato dalle Carmelitane di Serafina di Dio; a S. Agata niente, per mancanza di risorse e perché la città vescovile aveva una cattiva reputazione: “Una ragione in più per stabilirvi un monastero o un conservatorio” pensò Alfonso e questa idea farà il suo cammino.
Vi erano invece sufficienti risorse per mantenere, oltre quello della cattedrale, altri tre “ collegi ” di canonici: 30 a Frasso, 20 ad Arienzo e 5 ad Arpaia. Queste chiese erano quindi “collegiate” con capitoli che assicuravano la salmodia delle ore “canoniche”.
Preoccupato degli abbandonati, Alfonso avrebbe pagato qualsiasi prezzo per decentralizzare queste colonie presbiterali - 80 sacerdoti a S. Agata, altrettanti ad Airola, 120 ad Arienzo ecc. - mettendo vicari parrocchiali in ogni villaggio della campagna e soprattutto della montagna, ma il clero si reclutava nelle famiglie del luogo, per il servizio del luogo (se si poteva ancora parlare di “ servizio ” dal momento che spesso non si faceva altro che approfittare delle rendite di un beneficio creato dalla comunità locale o da una famiglia del territorio) e lo spirato borghese non generava certo l’abnegazione missionaria. Sarà questa una delle lotte più dure del Redentorista vescovo suo malgrado: erigere parrocchie nelle località lontane, per assicurarvi la parola di Dio, l’Eucaristia, il catechismo, l’assistenza ai malati e ai poveri; ma non riuscirà a spuntarla sulle leggi canoniche ed economiche del tempo, perché sarebbe stato necessario che quei poveri villaggi avessero costruite chiese e assicurato benefici e questo era lo stesso che voler sollevare il Taburno!
“Quanto a un congruo mantenimento del vescovo, scriverà a Roma, la mensa di S. Agata non ha niente da invidiare alle altre”. Gli assicurava circa 2.500 ducati all’anno, con l’onore di fornire una pensione di 60 scudi romani all’abate Biagio Fioravanti e di coprire le spese della cattedrale e della sua sagrestia. In quel tempo si riteneva comunemente che 1.500 ducati senza oneri fossero il minimo decente per un vescovo, ma il nostro prelato nuovo stile aveva la mano chiusa per ricevere e aperta per dare: rimandava i regali, rifiutava la sua parte di diritti di cancelleria e al contrario aveva l’elemosina facile e abbondante. Come meravigliarsi allora se spesso si ritrovò subissato da debiti?5.
Eppure la sua famiglia vescovile era ridotta al minimo con tre soli sacerdoti viventi con lui ma del loro patrimonio, delle offerte per le messe e dei diritti di cancelleria: il vicario generale Nicola Rubini,
- 652 -
il segretario Felice Verzella (anche maggiordomo ed elemosiniere) e il P. Angelo Maione, che con il fratello Romito costituivano la sua comunità di preghiera e di mensa. Il cancelliere Giuseppe lermieri non risiederà né mangerà con il vescovo, a carico del quale invece saranno tre laici: il redentorista Francescantonio Romito, vicepadrone di casa, economo, segretario aggiunto, infermiere; Alessio Pollio, cameriere, portiere, cocchiere, caposcuderia, accompagnatore e, quando sarà necessario guardia del corpo del vescovo; il cuoco.
Non sappiamo niente sui cuochi di Mons. de Liguori, se non che il primo fu inviato a insegnare al suo collega del seminario a preparare dei buoni piatti per i seminaristi, e che altri due furono licenziati perché facevano i dongiovanni. Alfonso non volle più personale non sposato e non ebbe pace fin quando il buon Alessio Pollio, pure tanto saggio, non convolò a giuste nozze con Fortunata Leone nelL’ottobre 1766 6 .
Con la sua nuova “comunità” nel vasto palazzo vescovile Alfonso cambiò quadro di vita e centri di interesse, ma non ordine del giorno, che, tra la flagellazione del mattino e quella della sera spesso fino a sangue, continuò rigorosamente quello di Pagani.
Vescovo, restò sempre il religioso missionario di ieri, anche nell’abito, portando fino alla morte la sottana senza bottoni incrociata sul petto dei semplici sacerdoti napoletani, con il collo bianco della camicia ripiegato su quello della sottana e con alla cintura la corona di quindici poste, data ai suoi figli come segno distintivo di fedeltà mariana.
Sotto l’abito portava, per amore alla Madonna, il semplice rosario conservato anche la notte come collana al collo. Al suo abituale abbigliamento aggiunse solo la croce pettorale - la sua pesante croce! - e l’anello da quattro soldi, che non lasciava baciare a nessuno, né uomo né donna, soprattutto a donne, per estrema modestia.
Dopo la meditazione e l’ufficio in comune, le sue lunghe ore di lavoro cominciavano con le udienze: prima i suoi collaboratori per regolare gli affari correnti, poi i sacerdoti e i fedeli della diocesi.
“Non aveva Egli portiera, né anticamera per chiunque.
Ordinato aveva, ed incaricato ai suoi, che subito qualunque persona introdotta si fosse, ancorché miserabile.
Tra il povero, ed il ricco non eravi eccezione con Alfonso: anzi fu osservato, che quanto più erano dozzinali, e meschini, tanto maggiormente ascoltavali con amore, e con piena soddisfazione Per li Parochi, e loro Sostituti, e per li Confessori, e Vicarj foranei non eravi bisogno si prevenisse; ma in qualunque tempo, voleva che con tutta confidenza entrassero: Questi, diceva Monsignore, sono li miei privilegiati, e patir non devono veruna soggezione.
Non essendoci persona da sbrigarsi... impiegavasi subito o nel
- 653 -
comporre, o nel dettare... Trattandosi di udienza, così attesta con tutti il Primicerio Carfora, vi era ordine, che subito introdotta si fosse qualunque persona, ancorché miserabile. Soddisfatto, ripigliava di nuovo l’occupazione. Bisogna dire, che nel tavolino restringevasi tutta la sua stanza. Ivi inchiodavasi levato da letto; ivi orava, avendo sopra di quello, coll’immagine del Crocefisso, una tavola della Madonna del buon Consiglio; ivi sbrigava gli affari, e dava udienza ad ognuno... eccetto le donne. Esser voleva prevenuto per queste, e non sentivale per lo più, che fuori di stanza, e sempre con persona a vista. Una Gentildonna, ma invecchiata, volendo parlargli da solo a solo, non importa, le disse Monsignore, che sia presente questo fratello (era il fratello Francesc’Antonio) questo è segreto, non dubitate... Avendo fatto capire, che non godeva complimenti e visite inutili, ognuno non vi si portava che per cose interessanti. Se soddisfatto, non licenziavasi taluno, egli con un Orsù non perdiamo tempo, sbrigavasene, o dir soleva: Raccomandatemi a Gesù Cristo, ed a Maria Santissima”.
La sera prima di cena, come una volta a Pagani insieme ai fratelli, recitava il rosario e le litanie della Madonna con tutta la famiglia vescovile e con gli ospiti di qualsiasi rango e qualità, cominciando solo quando erano presenti tutti, arcivescovi, duchi o cocchieri 7.
Il programma del pomeriggio prevedeva invece una novità. La missione predicata in cattedrale nelle prime settimane introdusse, come altrove, la vita divota permanente con meditazione quotidiana al mattino e alla fine della giornata visita al SS. Sacramento e alla Madonna. A sera, perciò, monsignore usciva da solo o con il domestico Alessio per visitare il Signore, prima negli ammalati della città, poi nel SS. Sacramento in cattedrale con i parrocchiani raccolti dal suono della campana.
Dinanzi all’Ostia santa, Alfonso s’inginocchiava sul pavimento in preghiera, alzandosi solo per comunicare ai presenti i suoi sentimenti brucianti di adorazione, di riconoscenza, d’amore, d’invocazione e d’impegno, o per insegnare le sue canzoncine eucaristiche (Partendo dal mondo l’amante Pastore, O Pane del cielo, Fiori felici voi) o mariane. Così il vescovo ogni giorno per mezz’ora in cattedrale garantiva di persona quello che si aspettava da ogni gruppo pastorale dopo le missioni, perché queste non fossero un fuoco di paglia.
Tutto cominciò con la missione in duomo dall’11 al 18 luglio 1762 8. Benché più breve della “classica” missione alfonsiana, per l’urgenza dei problemi e per la limitatezza delle forze del padre, il suo shock fu tale da far sentire subito al clero e al popolo il tono dell’episcopato missionario che iniziava. Il P. Maione vi si impegnò con tutto il suo ardore giovanile; il P. Margotta fu incaricato dell’istruzione agli adulti: alcuni canonici scelti da Alfonso assicurarono i “sentimenti di
- 654 -
notte”, portandosi la sera nelle piazze e nei crocicchi per esortare il popolo a partecipare alla missione; il vescovo prese su di sé gli esercizi ai sacerdoti il mattino, ai notabili il pomeriggio e la “predica grande” al popolo la sera: c’era da ammazzare un giovane! Al clero dichiarò “che esso non avea conto de’ delitti e scandali antecedenti, ma voleva, che ognuno si fosse emendato in meglio da quel tempo in poi... che avrebbe amati tutti...”.
La cattedrale non fu sufficiente a contenere la folla accorsa e, per liberare le coscienze, Alfonso, pregati i sacerdoti della città di astenersi dal confessare, convocò, alloggiandoli presso di sé, i migliori parroci e confessori della diocesi.
A metà settimana, L’intenso lavoro del vescovo rischiò d’essere compromesso da un violento mal di denti, tanto che Verzella e i canonici parlarono di chiamare urgentemente “il Moretto”, una cima della capitale, ma monsignore non volle saperne, dicendo:
- I cavamole di qui forse non sono come quelli di Napoli? Polso vi vuole al barbiere, e pazienza a chi vi sta sotto? Io debbo avvalermi di quelli, che sono in Diocesi, perché Iddio questi mi ha dato, e di questi mi devo servire.
Allora l’arcidiacono Rainone suggerì:
- Uno ce n’è in S. Maria a Vico (grosso abitato vicino ad Arienzo), ma questi sta in senso la mattina, perché il giorno è ubriaco.
La stessa sera fu mandato a cercare questo mastro Nicodemo per averlo fresco l’indomani mattina. Giunta l’ora, Don Felice Verzella si avvicinò a monsignore, seduto per terra su un cuscino, per tenergli le spalle, ma Alfonso, levando da sotto la sottana il piccolo crocifisso portato sul petto, gli disse:
- Che volete tenere, quale meglio legame di questo, che ha sofferto tanti dolori per me!
E, incrociate le braccia sul crocifisso, “si fé fare la operazione senza dare nemmeno un Oimé”.
Il furbo Verzella riuscì a impadronirsi della “reliquia”, facendosi rilasciare dal notaio Agostino Ciardullo 9 un’attestazione di autenticità firmata dai sacerdoti presenti.
Ad Alfonso restava un solo dente, un fastidio ormai benché sano perciò se lo fece cavare due giorni dopo e l’uomo di polso dovette “dare tre strappate”, mentre il paziente diceva semplicemente:
- Oh Dio, e quanto teneva questo benedetto dente!
Poi sorridente, versandogli 12 carlini per operazione, aggiunse:
- Mastro Nicodemo, ora non vedrai più i denari miei.
Verzella non dice se riuscì a far sparire anche l’ultimo molare del suo santo vescovo, ma rileva i frutti spettacolari della missione con una testimonianza interessante perché, benché non - specialista e probabilmente alla prima esperienza, riporta gli stessi avvenimenti sottolineati
- 655 -
ad ogni passo dagli storiografi della missione, Tannoia in testa: “Grande fu il frutto in ogni ceto di persone Innumerabili furono le riconciliazioni d’inimicizie invecchiate. Per ogni dove si videro delle grosse restituzioni capitate in mano de’ confessori, e specialmente si videro riuniti nel vincolo matrimoniale tanti mariti e moglie, che stavano scissi e divisi. Molte furono ancora le conversioni de’ peccatori e male donne infangate nel peccato, che da anni ed anni scandalizzavano il pubblico, e ridotte si videro ad una sincera penitenza”. Come si vede, non processioni, confessioni e devozioni, ma restaurazione dei valori umani e cristiani fondamentali.
Ancora una volta bene informato, Tannoia annotava che “troppo imbarazzata ritrovavasi Sant’Agata nell’arrivo di Monsignor Liguori. Sembrava questa città quel mistico lenzuolo rappresentato da Cristo a S. Pietro, tutto ripieno di animali immondi, ed Alfonso invitato, mangiar ne doveva, e satollarsene”. L’immagine era forte, ma vera, soprattutto nei riguardi della città vescovile. Non già che Mons. Danza non fosse stato un buon vescovo, ma 26 anni di episcopato abituano a non vedere più, creano legami paralizzanti, costringono a compromessi e poi 10 anni di gotta logorano le energie di un uomo, a meno che non si tratti di un santo. Così i due fratelli dell’arcidiacono e vicario generale Rainone, Don Giacomo e Don Giuseppe, gentiluomini in vista nella città, sfoggiavano una vita scandalosa. Alfonso aveva avuto le sue buone ragioni a portare con sé un vicario generale e un segretario forestieri, creando così le condizioni per una libertà apostolica senza compromessi, necessaria fin dalle prime settimane.
Alcuni noti recalcitranti infatti che boicottarono la missione, continuando a ostentare i loro scandali, conobbero prima la tenerezza, la pazienza, gli avvisi ripetuti del nuovo pastore, poi la sua determinazione e la sua fermezza.
Il concilio di Trento nella sessione 24 ordinava ai vescovi che dopo tre avvisi cacciassero i concubinari dalla città e dalla diocesi, ricorrendo se necessario al braccio secolare.
Dopo aver moltiplicato gli avvisi, le preghiere e le penitenze, Mons. de Liguori si attenne alle disposizioni conciliari, facendo appello alle leggi del Regno e ai magistrati 10.
Giacomo Rainone, tra l’ammirazione di tutti, si convertì e divenne anche un animatore zelante, invece il fratello Giuseppe, arrogante e minaccioso, sfuggì alla prigione solo con la fuga e un lungo esilio, mentre la concubina espiò per qualche mese le sue libertà tra quattro mura. Il canonico Marco Petti - sì, un canonico dalla vita irregolare con tre figli illegittimi - , che aveva precedentemente fatto legge per la diocesi in genere e per il vecchio vescovo in particolare, sordo agli appelli della missione e agli scongiuri di Alfonso, rimase del tutto stupito, quando si vide arrestare in piena piazza a S. Agata e imprigionare, come un qualunque altro napoletano che si fosse
- 657 -
permesso di trattenere sotto il proprio tetto la donna del prossimo. L’indomani fu raggiunto sotto i ceppi di Montefusco - sede del tribunale zonale - da un chierico di Moiano, Giuseppe de Luca, frequentatore più delle bettole che delle chiese e maneggiatore più dell’archibugio che del breviario, da due anni convivente con una donna sottratta al proprio marito. Il vescovo scrisse al suo parroco Don Tommaso Aceto:
“Grazie a Dio sono riusciti felicissimi i due servizj. Dite, e predicate da per tutto, che sono stato io, e non altri, che dal Re ho ottenuto la carcerazione. Voglio si sappia, che sono stato io”.
Questa “predica” su qualche sacerdote e qualche gentiluomo fece più effetto di quelle della missione. Quanto ai religiosi scandalosi, sette furono pregati - pardon: ebbero l’ingiunzione - di lasciare la diocesi. Infine un giovane galeotto, che si riposava dalle fatiche del remo in dolce concubinato, invano avvertito, tentò di resistere con le armi, mentre stava per essere tradotto a Montefusco, ma fu ucciso dai poliziotti. Alfonso pianse sinceramente quest’anima, ma ordinò che il suo cadavere, caricato su un asino e accompagnato da quattro torce, fosse sepolto fuori della terra benedetta (in realtà fu scaraventato nel Martorano ).
Fu la sensazione di incontrare maggiori resistenze o l’accresciuta coscienza delle proprie responsabilità a ispirare al missionario di S. Agata una messinscena terribile, mai permessa ai propri figli? Nella predica sul giudizio, rivestito di stola nera, con in mano una torcia, annunziò:
- Ora maledirò non i peccatori che si pentono, ma gli ostinati: gli usurai, i bestemmiatori e specialmente i concubinari impenitenti...
E cominciò:
- Tutti gli ostinati nel vizio dell’usura sono maledetti da Dio e io li maledico da parte di Dio...
Mentre scagliava queste parole fulminatorie, un noto usuraio di S. Agata fu talmente preso dal terrore che, assalito dalla febbre, morì nell’arco di pochi giorni. Questo epilogo non impressionò il vescovo, che volle un tale trattamento in quasi tutte le missioni in diocesi nei tredici anni del suo episcopato. Cambiamento di metodo? Non sembra, piuttosto cambiamento di terreno.
Nel 1775 raccomanderà questa messinscena ai Redentoristi chiamati a evangelizzare la diocesi di Capua: come una terapia corrente? assolutamente no, ma solo “in qualche paese corrotto ”, come dirà, aggiungendo: “come sono per lo più i paesi di Terra di Lavoro”11.
La vallata di Arienzo ne faceva parte e, per tornare al severo giudizio raccolto da Tannoia, le Forche Caudine non erano una barriera insormontabile da non permettere al bacino di S. Agata di partecipare largamente alle “delizie” di Capua.
- 657 -
La domenica di chiusura della breve ma intensa missione, 18 luglio 1762, fu come un nuovo battesimo per tutta la città vescovile. Alfonso, racconta Tannoia, “ottenuto avea dal Papa, con particolar Breve, il guadagnarsi da ognuno l’indulgenza plenaria. Tutti d’ogni ceto vi si apparecchiarono. Somma fu la consolazione di Alfonso, vedendo famelico un Popolo immenso del pane Eucaristico, e tra questo, persone che da tanti e più anni non sapevano cosa voleva dire questo Divin Sacramento. Egli medesimo per apparecchio, e ringraziamento vi fece il fervorino, ma con sensi così teneri, che non che il Popolo, anche i Canonici, e quanti vi assistevano, si disfacevano in lacrime. Vi fu ancora tra tutti il bacio di pace. Con questa Missione santificata restò S. Agata. Specialmente prese piede tra tutti la frequenza de’ Sacramenti, ed una singolar divozione verso Maria Santissima, cosiché il Popolo vedevasi in folla ogni sera alla Visita del Sacramento, e della gran Madre di Dio”.
Una sola ombra in questo quadro: “Monsignore non resisterà a tali fatiche”.
- Abbiamo pregato Iddio, esclamò un giorno il decano Buonanno, che ci avesse mandato un buon Vescovo: Iddio ci ha consolati; ma Monsignore si ammazza da se stesso!
E il venerabile tesoriere, Don Luca Cacciapuoti, rettore del seminario, non poté trattenersi di apostrofare il vicario generale:
- Voi che fate? non vedete che Monsignore si abbrevia la vita? né sapete le lacrime, che si sono sparse, e come l’abbiamo avuto? Mettete freno al suo zelo: non sono queste fatiche per esso; parlatene al Confessore, affinché lo precetti, e moderi !
“Monsignore si ammazza da se stesso! ” era il grido di tutta S. Agata, ma Alfonso, benché molto toccato, lasciò dire e continuò ad abusare delle sue forze.
Toccò proprio al confessore, il redentorista Angelo Maione, giovane di 29 anni, non farcela più nell’arco di tre mesi e il 2 agosto scriveva al P. Gaspare Caione:
“Desiderate sapere qualche cosa del nostro Padre. Sappiate, che sono più gli atti di virtù che fa fare a noi di casa, che quegli che fa egli. Non si mangia, non si dorme, e non si ha un momento di respiro. Tutto è fatica per noi, né si sa come contentarlo. Ognuno ammira la sua instancabilità, e la sua somma pazienza in soffrire schiamazzi, e ricorsi; e la sua gran carità nel dar udienza in ogni tempo a qualunque femminuccia, né ha riparo calare in Chiesa per sentirli, uscire alla sala, e portarsi in qualsivoglia luogo per soddisfare chiunque. È indefesso nel predicare. Mostra tanto zelo per riordinare questa Diocesi così sconcertata, che non ha né quiete, né riposo. Chi si chiama da solo a solo; chi raccomanda alla vigilanza de’ Parrochi, ed a chi scrive lettere
- 658 -
correggendoli paternamente. La sua mansuetudine e carità incanta ognuno. Non piglia regali: anche i canestri di fichi ha fatto ritornare indietro. È così profuso nella limosina, che non bastando le rendite per un suo congruo, ma misero sostentamento, era per levare la carrozza, ed applicar voleva a’ poveri ciocché devesi spendere per mantenerla. Fatto l’avrebbe, se da noi petolantemente non si fosse dissuaso. Non potete credere, Padre mio, la povertà somma che vi è in Città, ed in tutta la Diocesi. Sparsa la voce che Monsignore fa limosina, tutti i poveri concorrono in folla da tutti i paesi. A fasci vengono i memoriali, esponendo ognuno le proprie miserie. Mi dice questo Canonico Teologo (Evangelista D’Addio) che la Città insieme con la Diocesi, senza che Monsignore l’ha veduta, abbia mutata faccia, tanto è grande il concetto, che se ne ha. Questo è quanto posso in breve significarvi”.
Una lettera nella quale si legge l’ammirazione e il disaccordo, forse anche un pizzico di ironia o di gelosia?... Maione non era uomo per Alfonso, tanto che nel marzo 1763, anche se l’aveva scelto e lo apprezzava, chiederà al P. Villani di richiamarlo:
“Mi piace, sta ritirato, dà edificazione, non s’intriga, m’aiuta ne’ consigli, m’aiuta nelle prediche, negli esami. Difficilmente trovo un altro così... Dico di buona volontà; perché se ci sta di mala voglia, è meglio che se ne vada, perché, stando di mala voglia, mi dà più angustie che aiuto”12 .
Se ne andò a fine marzo e la loro “convivenza” di otto mesi fu il preludio del dramma più atroce della vita del fondatore.
Subito dopo il colpo di gong della missione di S. Agata, anticipo di quelle in tutta la diocesi, Alfonso si rivolse ai suoi sacerdoti. “I buoni sacerdoti sono il braccio del vescovo” aveva annotato nelle sue Riflessioni.
Da Roma il 15 giugno aveva già scritto al suo clero la “vera stima ben dovuta al loro merito, e siccome desidero farlo sperimentare a ciascuno cogl’effetti, mi auguro anticipatamente l’opportunità di servirle”13. Il primo servizio reso loro fu di fronteggiare con urgenza, mediante una lettera circolare, tre abusi insopportabili: le messe abborracciate, le “ raccomandazioni ” e la predicazione sciatta o pedante:
“ Ognuno sa la gran riverenza che merita il sacrosanto sacrificio della Messa...
Sappia dunque ciascun sacerdote che, sopra questa materia, sarà continua ed esatta la nostra attenzione in osservare e spiare il modo come si celebrano le messe. E ciò, così in quanto a’ sacerdoti secolari come regolari; mentre lo stesso concilio di Trento ha costituito i vescovi suoi delegati apostolici circa la celebrazione della messa...
E perciò siano intesi tutti i sacerdoti, alla nostra giurisdizione
- 659 -
soggetti, che, a suo tempo, saranno da noi rigorosamente esaminati sopra le cerimonie della messa; e frattanto facciamo avvisato, esser nostra intenzione che tutti i sacerdoti, in ogni mattina almeno, vadano vestiti di lungo; e quelli che saranno addetti al servizio del coro debbono andare di lungo parimente ne’ giorni festivi, allorché interverranno al vespero, durante tal tempo; arbitrando loro, nei giorni feriali, il poter vestire decentemente di corto, e servirsi per assistere al detto vespero della sola veste lunga senza maniche”.
E’ interessante sottolineare che per i preti portare la sottana era essenzialmente riservato alla celebrazione eucaristica e alla liturgia corale, mentre “in quanto ai chierici poi, ordiniamo che tutti, mattina e sera, vadano di lungo”, come stimolo al controllo e protezione per neofiti durante i primi anni di formazione.
“Inoltre, proseguiva il vescovo, sia a tutti di avviso, che, nel tempo del nostro governo, ognuno si astenga dal procurarsi raccomandazioni presso di noi, così circa le ordinazioni come circa le collazioni de’ benefici, o curati o semplici che siano; perché il merito di ciascheduno sarà presso di noi la raccomandazione che solamente gli gioverà. Sappiano pertanto tutti che coloro, i quali si procureranno raccomandazioni, per lo stesso capo si renderanno indegni dell’ordinazione o del beneficio.
Inoltre raccomandiamo ai RR. arcipreti e parrochi il loro obbligo di predicare in tutte le domeniche e feste solenni, come impone il concilio di Trento... e di predicare con discorsi facili e popolari, secondo la capacità della gente, la quale essendo per lo più di campagna, poco o niun profitto ricava dalle prediche di stile alto anzi più presto ne riceve danno: poiché, stentando a capire quello che si dice, prende abominio alle prediche ed indi in poi cercherà di sfuggirle quando può... Ed infatti l’esperienza fa vedere che, colle prediche di stile e dicitura pomposa, le anime non mutano vita; e la ragione principale si è, perché Iddio colla vanità non ci concorre...
Quanto da noi viene prescritto nel presente editto, siamo persuasi che da tutti alla nostra giurisdizione soggetti, e ciascheduno di essi, vogliasi fedelmente eseguire, per non dare a noi motivo, altrimenti, di procedere con essi loro con quel rigore, dettato dalla disposizione de’ canoni...”14.
Il vescovo, non ne dubitiamo, s’era bene informato e reagiva in termini chiari, forse troppo chiari, penserà qualche lettore “delicato”. Sappia però che a quei tempi e in quei luoghi le formule addolcite restavano lettera morta e, quando l’amabile Liguori credeva di dover prendere la penna, non lo faceva per tracciare lettere morte, avendo fatto voto di non perdere un solo minuto.
Il clero in attività, come il pane già cotto, è quello che è: eccellente mediocre, o cattivo; un vescovo che arriva può in qualche modo
- 660 -
migliorarlo ma non rimetterlo nella madia o nel forno. Invece nel seminario si trebbia, si macina, si ammassa e si cuoce il clero di domani.
“Da’ seminarj si torma il buon clero, e dal clero poi dipende il profitto comune del popolo. Ma devesi insieme ben avvertire che se il seminario sarà ben regolato, sarà la santificazione della diocesi: altrimenti ne sarà la rovina. Giacché ivi i giovani non vi portano lo spirito, ma ve l’hanno da acquistare; ed essi vengono dalle loro case o pieni di vizj, o facilissimi in quell’età a prendere tutti i vizj. Quanti ne’ seminarj entrano angeli, e tra breve diventano demonj!”.
Era una delle prime Riflessioni utili ai vescovi, stese da Alfonso nel 1745 15 e ne era tanto convinto che nel 1756 aveva osato dire al vescovo di Nola, Mons. Troiano Caracciolo del Sole:
- Monsignor mio, sapete, quanti Vescovi vanno dannati per causa de’ Seminari? Questo accaderà anche a voi, se non mutate sistema e col rigore non date riparo anche al vostro.
È vero che, come riporta Tannoia, per quegli aspiranti al sacerdozio “non vi era né legge divina, né umana”, tanto che avevano pensato né più né meno di assassinare il vicerettore, Don Nicola Crisci, che aveva tentato di opporsi ai loro disordini: un “caso” risolto da Alfonso più che con le prediche con le penitenze e le preghiere, perché gli arrotini di pugnali, presi dal terrore, si erano dati alla fuga, seguiti da molti altri 16. Ma poco dopo, probabilmente proprio per i pentiti rigenerati e ancor più per il loro vescovo, il padre aveva scritto e pubblicato il Regolamento per li Seminarj (1756).
Ora, vescovo a sua volta, avrebbe realizzato quanto aveva scritto 17.
La sua prima visita, lunedì 12 luglio, malgrado il superlavoro della missione appena iniziata, fu per il seminario, attiguo all’episcopio. Pur ascoltando le felicitazioni e le poesie di benvenuto, osservava: troppi seminaristi, troppo poco spazio, locali piccoli, soffitte basse, finestre poche e strette, un forno, un paradiso per gli insetti, una prigione soffocante per i giovani e i loro maestri 18 ; si informò sui seminaristi, i professori, gli studi, lo spirito; prese consiglio; poi passò alle decisioni rapide e radicali. Prescrisse un esame generale al quale assistette di persona, quindi anticipò le vacanze, verso la fine delle quali, genitori e alunni furono avvertiti che coloro che volevano essere riammessi dovevano fare domanda in scritto al vescovo e aspettare la sua risposta. Così, mentre gli incapaci e gli indesiderati furono pregati di restare a casa, gli altri vennero accolti non nel nido di pulci nel quale avevano sofferto fino ad allora, ma in due ale del palazzo vescovile, provvisoriamente adattate dagli architetti Pietro e Salvatore Cimafonte, fin quando, abbattuto il vecchio seminario, non se ne fosse costruito uno nuovo, spazioso e aerato, testimone ancora oggi delL’umanità del vescovo e della larghezza delle sue vedute.
- 661 -
Il rettore, Don Luca Cacciapuoti, era vetusto quanto gli edifici: ottuagenario, occupava quel posto da cinquant’anni e, per colmo, era ormai debole di vista. Liguori si affrettò a promuoverlo tesoriere del capitolo per allontanarlo dal seminario, ma si trovò di fronte a una levata di scudi da parte di tutti i canonici e notabili di S. Agata:
- Lo ammazzerete, monsignore! E’ un uomo tanto meritevole e più capace, malgrado la sua età, di quanto voi pensate! Vedrete...
Era, reputo, vero. “La vecchiaia è un naufragio” ha scritto qualcuno, ma Cacciapuoti restava a galla in maniera stupefacente. Delicato Alfonso gli lasciò il titolo di rettore, pur dandogli una valida spalla nel professore Fra Tommaso Maria Caputo, un domenicano pieno di saggezza, di sapere e di santità, e nominando a prefetti sacerdoti esemplari e di fiducia.
Non volle esterni, propagatori di pettegolezzi e di bigliettini, ma creo all’interno una vita familiare calorosa, che veniva spesso a incrementare con le tasche piene di dolci e, nei giorni di feste, con torte. Sapendo che la buona atmosfera comincia in cucina, si preoccupò prima di tutto dello stomaco, dicendo - proprio lui che si avvelenava di erbe amare - : “Quel poco che si dà, voglio, che si mangi con piacere”. Perciò incaricò l’abile suo cuoco di insegnare i segreti del mestiere allo sguattero del seminario, andando poi spesso ad assaporare i piatti, il pane, il vino, per assicurarsi che fossero appetitosi e sopprimendo “L’abuso detestabile” - sono sue parole - delle differenze nel regime alimentare tra maestri e alunni. Per lui era un problema di amore e di rispetto.
Il rispetto... Per non so quale sgarbo nelle sagrestia della cattedrale, un canonico perse il controllo fino a dare uno schiaffo a un chierico. Il vescovo prese la cosa molto male:
- I Padri, disse, li hanno affidati a me, ed io far debbo le veci di Padre: L’offesa è mia, e non del giovine.
Chiamò il canonico e lo rimproverò con severità, infliggendogli una sanzione, ma diede anche al seminarista - prudenza e forse anche giustizia- la sua piccola penitenza.
Quando passò all’esame della contabilità, Alfonso scorse che alle famiglie dei ragazzi assenti per lungo tempo, a causa di malattia o altro, non veniva rimborsato niente delle rette pagate all’inizio del semestre. “È un’evidente ingiustizia” disse e, malgrado l’opposizione del consiglio di amministrazione, abolì tale prassi. Dietro le istanze dello stesso consiglio, concesse invece un mese di ferie estive in famiglia, tranne nel 1763 quando i seminaristi rimasero a divertirsi in seminario, lontani dalla caccia e dalla vendemmia. “Quanto si guadagna in un anno, così nel morale, che nelle lettere, tutto si perde in un
- 662 -
mese” gemeva tra la battuta e l’iperbole Alfonso, che a S. Agata fu facile all’una e all’altra.
Allora in Italia non si distingueva, come in Francia, il seminario minore da quello maggiore e gli studi e gli anni restavano assieme dai rudimenti di grammatica all’esame finale di teologia.
Liguori, che da 30 anni aveva costatato come la maggior parte dei sacerdoti di campagna ignorasse il latino e il greco, da vescovo rurale realista, utilizzatore esclusivo della traduzione ufficiale latina della Bibbia (la Vulgata), decise di insistere sul latino anche a costo di ridurre il greco, dicendo al rettore:
- Si stiano bene i Greci nell’Oriente, che a noi Occidentali necessita il latino, e non il greco. Io in Diocesi ho bisogno di buoni Confessori, che mi ajutano le Anime in questi tanti Casalotti, e non di uomini eruditi, che forse non capiscono se medesimi.
“Ho bisogno di buoni Confessori...”. Ma i corsi di morale erano sconosciuti in seminario! Vi introdusse allora il suo “ manuale ” sintesi della grande Morale, L’Istruzione e pratica dei confessori, ma nella versione latina Homo Apostolicus, perché volle così formare dei latinisti. Lo si vide perciò fin dall’elezione episcopale pungolare Giambattista Remondini:
“Quello che ora la prego è che V. S. Ill.ma procuri, quanto più presto, faccia stampare l’Istruzione latina; perché, subito che arrivo al vescovado, voglio farla comprare a tutti i miei preti e seminaristi. Ma le raccomando la buona carta, ed alzi qualche cosa di più il prezzo”19.
Proibì ai professori di dettare le lezioni, stimando faticosa perdita di tempo: se i vostri fogli valgono più dei libri, stampateli, altrimenti prendete un buon manuale.
Per la filosofia abbandonò le Institutiones di Pourchot ancora raccomandate nel Regolamento del 1757. Il suo cartesianesimo non gli aveva impedito dopo il sacerdozio di cercare nell’esperienza la sintesi tra morale e grazia, da uomo dei Lumi come, nei rispettivi campi, Vico e Newton. Perciò, consigliato certo dal domenicano Caputo, che fungeva da professore di filosofia e di teologia, abbandonò l’enciclopedico Pourchot per un manuale più sobrio, la Philosophia mentis (1749) del cappuccino Fortunato da Brescia (Girolamo Ferrari), che, nella linea del Traité des études monastiques (1691) di Mabillon, si limitava alla logica formale e critica e alla metafisica (L’essere, lo spirito, Dio) inoltre, tomista nel linguaggio ma lontano dalle oziose sottilità della scolastica, aveva il vantaggio di dare agli alunni le categorie mentali e il linguaggio in cui si sarebbe espressa la teologia quasi fino al Vaticano II.
Manuale di dommatica fu il Compendium di Honoré Tournely, professore alla Sorbona, apparso in 16 volumi nel tempo in cui Alfonso era stato ordinato sacerdote (1725-1729). Il vescovo, pur non condivi-
- 663 -
dendone il gallicanesimo, apprezzava talmente l’opera, specialmente il suo anti-giansenismo e la sua dottrina della grazia, da curarne un’edizione presso Remondini.
Per stimolare e valorizzare il lavoro del seminario, Alfonso istituì accademie di belle lettere e tesi mensili di filosofia e di teologia, cui invitava canonici e laici colti, animandole con la sua vivace partecipazione. Molto di più ancora teneva all’accademia di predicazione per i seminaristi teologi e per tutti i sacerdoti della città, nella quale commentava la sua Retorica (la III parte della Selva) e organizzava esercizi pratici di prediche, esortazioni e catechismi. La lingua era l’italiano, cioè il toscano popolare con tutta la ricchezza aggiuntagli dal dialetto napoletano, perché Alfonso proscriveva il toscano colto degli scrittori e dei salotti letterari.
- Io non voglio, ripeteva, che si predichi con termini toscani, ma voglio, che li figli miei, e specialmente la gente rozza, ed ignorante sentano, e capiscano la parola di Dio.
Malizioso e un po’ birichino, come ogni giovane, qualche seminarista, per il gusto di vederlo protestare, si divertiva a scantonare all’improvviso in qualche pretenziosa parola toscana. Alfonso subito reagiva:
- Termini toscani, no, no, no!... Oh! L’avete inteso mo’?20.
Nel dicembre 1756 il P. de Liguori aveva stampato il Regolamento per li Seminarj, di cui quasi la metà dettagliava i doveri del vescovo. In numerose biografie e riviste viene confuso con le sue Regole per lo Seminario di S. Agata de’ Goti, rimaste manoscritte fino al 1979 21 .
Dello stesso spirito del precedente, il Regolamento di S. Agata era di fattura diversa, non avendo una parola sul vescovo (era lo stesso autore) e articolandosi in tre capitoli, invece di passare in rassegna i diversi doveri dei responsabili del seminario: 1) Degli Esercizj ordinarj de’ Seminaristi per tutto l’anno, con molto spazio per la meditazione (mezz’ora), il SS. Sacramento (messa con comunione libera, visita) e la Madonna (piccolo ufficio, rosario, litanie, visita, letture); ritiro mensile e annuale; proibizione delle flagellazioni. 2) Dell’osservanza de’ seminaristi circa le virtù: modestia, silenzio, cortesia e sostegno fraterno, studio, ubbidienza, vita ritirata, devozione alla Vergine. 3) Delle incombenze particolari degli Officiali del Seminario: rettore, prefetto generale, prefetti particolari. La vita era tanto umana quanto fervorosa, con otto ore di sonno, quattro ricreazioni quotidiane e un giorno di vacanza la settimana; ricordiamo infine la lettura a tavola (vite di santi e storia della Chiesa).
Gli anziani di una volta vi si ritroveranno, benché non avessero Mons. de Liguori ogni sabato a infiammarli nell’amore per il Signore, la Vergine, le anime, prima di andare a predicare la Madonna in cattedrale.
- 664 -
- Il seminario, diceva, è la pupilla degli occhi miei
Perciò era inflessibile nell’allontanare gli incorreggibili e gli scandalosi, tanto che gli intercessori, baroni o vescovi, zii canonici o padri abati, si infrangevano contro una roccia tranquilla. Così, quando un professore del seminario per un nipote cercò di ricattarlo, mettendo sulla bilancia la cattedra, licenziò zio e nipote: la sua coscienza non si intaccava .
Al posto degli indesiderati, si impegnò a ricercare e a ricevere gratuitamente ragazzi poveri, sani moralmente e ricchi di talenti, dei villaggi in cui nessun sacerdote voleva andare con il pretesto che non era del luogo. Diede così eccellenti vicari a Dugenta, a Bagnoli, a Cancello e a tanti altri villaggi che ne erano sprovvisti, malgrado le proteste dei canonici amministratori.
- L’istituzione de’ Seminarj non fu fatta, che per ajuto delle Diocesi, ed altro fine non potettero avere le persone pie, testando i loro averi in favore de’ Seminarj, che il bene delle Diocesi, e specialmente de’ poveretti. Il Seminario è in obbligo sostener il peso degl’impotenti, se costumati sono, e di talento, e sollevar possono i proprj paesi.
Questa precoce coscienza dei bisogni della propria diocesi indica che Alfonso non tardò a farne un giro rapido ma perspicace, come sostiene Tannoia sulla base di testimoni che gli riferirono anche queste parole di chi, sentendo l’urgenza del Regno, si dava dovunque allo stesso tempo:
- Quello, che si può rimediare oggi, perché differirlo al dimani: gli abusi non soffrono dilazione 22.
Il suo primo passaggio lampo fu il preludio della missione generale di tutta la sua Chiesa. Infatti da Pagani aveva già preso contatto con i superiori delle principali società missionarie per ottenere gruppi di apostoli: Giuseppe Sparano delle Apostoliche Missioni, Giuseppe Pace dei Padri della Conferenza o del P. Pavone, Stefano Longobardi dei Pii Operai, Pasquale De Matteis dei Gesuiti, il cugino Tommaso Cavalieri dei Domenicani, facendo poi appello per i villaggi sperduti anche a missionari diocesani di Caserta e di Cerreto. Non mobilitò per il momento i suoi Redentoristi, perché all’inizio sarebbero potuti passare come spie del vescovo.
Da metà novembre 1762 alla fine dell’inverno, a gruppi da 10 a 25, i missionari si sparsero per i centri e i villaggi: i Pii Operai ad Arienzo, il P. Giuseppe Jorio e i suoi confratelli della Conferenza ad Airola e poi a Frasso, i Gesuiti a Durazzano, i Domenicani a S. Maria a Vico, grossa frazione di Arienzo sulla Via Appia. Alfonso stesso fu ad Arienzo dal 12 novembre a Natale per gli esercizi ai gentiluomini
- 665 -
nella chiesa dei Carmelitani, dove fu visto, mentre parlava della Vergine, raggiante di un fuoco soprannaturale che illuminò la chiesa, mentre ripeteva in estasi:
- Ecco la Vergine, venuta a dispensarvi grazie, cercateli grazie, che è tutta pronta a consolarvi.
A S. Maria a Vico, essendo la chiesa parrocchiale di S. Nicola troppo piccola, Alfonso ottenne dal maestro generale dei Domenicani, L’amico Rev.mo P. Boxadors, la grande chiesa e dieci figli di S. Domenico per la missione, alla quale egli stesso assicurò la direzione e la predica grande. Una sera si flagellò con tale violenza che il priore di slancio gli strappò le corde di mano. La missione gli fece anche maturare la decisione di costruire a S. Maria a Vico un’ampia chiesa parrocchiale. Per la messa di mezzanotte di Natale fu di nuovo a S. Andrea di Arienzo dove, dopo aver preso il sangue prezioso, fu visto da tutto il popolo in estasi, raggiante di luce d’altro mondo 23: non si dimentichi che era mezzanotte e la chiesa rischiarata solo da candele.
Questi “rapimenti” portarono al colmo la venerazione popolare, anche perché già correvano voci di miracoli. A settembre il giovane canonico Carlo de Bruno era andato a trovare il vescovo ammalato a S. Agata, portando, per non presentarsi con le solite arance, alcune beccacce da lui cacciate in un paniere orgogliosamente tenuto in mano da un nipote di 4 o 5 anni. Il bimbo lo offrì al malato senza una parola, ricevendo da Alfonso e da Francescantonio delle caramelle.
- Come ti chiami? gli chiese il vescovo. Ma fu lo zio a rispondere:
- Si chiama Tommaso, è muto. Non ha mai detto papà, mamma. Mio fratello e la moglie sono angosciati.
Alfonso allora da un pacchetto accanto al suo letto prese un’immagine della Madonna onnipotente e, fatto avvicinare il bimbo, gli tracciò sulla fronte il segno di croce, dandogli poi da baciare l’immagine .
- Vediamo, gli chiese, come si chiama?
- La Madonna, rispose subito il piccolo.
- Non è vero ch’è muto, fece il vescovo, questo ha una lingua bovina, statevi allegramente, e non dubitate.
Da quel momento Tommasino parlò come un libro. Pensate poi se anche le altre lingue non si sciolsero! Chi non conosceva il piccolo muto del dottore Pasquale de Bruno?24.
“Monsignore si ammazza da se stesso”, ma fa parlare i muti!
una visita “pastorale”, che non lasciò tracce nei volumi di santa visita, ebbe luogo dopo l’arrivo di alfonso e prima della campagna missionaria, cf. SH 9 (1961). pp. 396-397, 105; sembra però che nelle memorie si sia confusa con le prime visite “canoniche” del 1763-1764.