Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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Parte Quarta “IO SONO IL BUON PASTORE” (1762-1775)

41 - “IDDIO CI PRENDERA’ A FAME” (1763-1764)

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41 - “IDDIO CI PRENDERA’ A FAME

(1763-1764)

 

Una disgrazia non viene mai sola Il 31 ottobre 1762, Don Ercole de Liguori a 55 anni vedeva morire la moglie e cugina Donna Rachele, che lo lasciava senza figli, ma, spegnendosi, gli dava anche la possibilità di convolare a seconde nozze e di sperare in un erede I passi in questo senso non tardarono e il 5 novembre il fratello vescovo gli scriveva:

“Quello che la prego è di stare attento a prendere qualche giovane, che sia di buoni costumi e che non sia capo all’erta, perché V S è avanzato di età: se quella è giovinetta e vuole stare in Napoli ed andare ogni sera alla conversazione, facilmente troverà qualche cicisbeo alla moda che, secondo l’uso presente, verrà spesso in casa a trovare la signora, la quale poco vi potrà vedere; ed allora o l’avrà da far mettere presto in monastero, o avrà da stare sempre inquieto e, quel che è peggio, inquieto di coscienza. E così è meglio che sia di meno nascita e di meno dote che mettersi sopra qualche lotano

Io, per grazia di Dio, sto bene di salute, ma pieno di angustie per questa benedetta Sposa che mi è toccata1 .

Tra le altre, “angustie” di denaro Fraternamente in marzo Ercole gli aveva prestato circa 4000 ducati per le spese del “matrimonio” con la sua Chiesa di S Agata, ora in novembre li reclamava per festeggiare le proprie, ricevendo questa risposta datata 12 novembre:

“Mi rallegro di tante belle offerte di casamento; ma torno a dire: badate principalmente a scegliere quella che meno potrà inquietarvi, specialmente ne’ tempi presenti che le dame sogliono tenere più mariti. E persuadetevi che le giovani pigliano più affetto agli uomini di età giovanile, che di età avanzata, come siete voi. Il praticare è quello che le fa svoltare il cervello...

Veniamo ora alla conclusione de’ denari, che sarà dolorosa. Voi mi cercate denari; ed io vorrei che quest’anno forse mi prestaste qualche altra cosa, mentre qui ho fatto più di 400 altri ducati di debito,

 

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e gli ho presi dal denaro destinato per la fabbrica del Seminario, la quale ora già è cominciata...

È vero che ho certo grano da vendere, ma questo si venderà verso la fine di dicembre, e mi dicono che bisognerà aspettare sino a marzo e maggio per cavarne qualche più di profitto

In questo primo anno è stata una ruina di spese, che ho dovuto fare per accomodare due case, quella di Sant’Agata e quella di Arienzo con fare solo le cose necessarie e nel modo il più miserabile; ho dovuto pagare lo spoglio al Capitolo, ed altri 400 ducati al Nunzio per la transazione

Pertanto voglio vedere, quando venderò il grano, di darvi quel che posso, ma per ora bisognerebbe che mandaste a mettermi in carcere per cacciare qualche carlino..

Io vi compatisco perché ora non pigliate dote, e sottosopra avete da spendere Ma la disgrazia è stata che si è unito vescovado e matrimonio

Io pure mi sono sposato, ma con una Sposa che non mi fa stare un momento quieto

L’abbraccio e prego Dio, che vi mandi provvidenza2 .

Con l’aiuto della provvidenza, il 10 marzo 1763, Don Ercole sposò la giovane e seria Donna Marianna Capano Orsini, principessa di Pollica, che ricevette come regalo, tanto atteso, dal cognato vescovo una piccola immagine della Madonna con cornice in legno del valore di pochi carlini Indispettito, Ercole rimandò il quadretto

- Esso si ha preso collera, disse Alfonso, ed io più di lui Che credevasi di avere? Tengo tanti pezzenti che si muojono per la fame, tanti pezzenti, e tanti, e voleva fare complimenti!3 .

Dal 1759 infatti il Regno sprofondava in una economia di miseria, ma Ercole, garantito dai suoi tre palazzi in città e dai suoi due terreni a Marianella, non ne percepiva ancora niente, benché sedesse al consiglio di Piazza di Portanova, al pari dei suoi colleghi, dei ministri, dei reggenti Alfonso invece, che viveva in provincia e a livello dei poveri, vi si trovava immerso

 

Durante la prima metà del secolo XVIII una lenta evoluzione economica e sociale aveva permesso una netta crescita della società rurale napoletana In numerose regioni, la distribuzione a censo di terre nobiliari ed ecclesiastiche aveva aperto a molti fittavoli l’accesso alla proprietà e favorito l’aumento delle superfici coltivate. Inoltre la stabilità, meglio l’abbassamento del costo della vita assicurava ai braccianti una condizione soddisfacente. Da questo duplice fatto gli artigiani, che avevano visto sorgere una clientela capace di pagare, si erano specializzati a tempo pieno e avevano abbandonato la terra ad altri.

 

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Sfortunatamente negli anni 1750 questa crescita agricola si era arrestata alle soglie della bottega o dell’officina artigianale. Le superfici coltivabili avevano raggiunto i loro limiti, mentre il numero dei braccianti continuava ad aumentare e la routine artigianale non si preoccupava di una creatività o di uno studio di mercato, che avrebbe potuto aumentare la domanda e di conseguenza il lavoro al servizio di una produzione agricola più redditizia. Solo un avviamento dell’artigianato verso la manifattura, preludio di una crescita industriale, avrebbe permesso di decollare dalla terra indivisibile; in mancanza di ciò la situazione non poteva che degradarsi e sarebbe bastato un semplice incidente di percorso perché sfociasse in catastrofe

Nel 1759 la curva della produzione agricola era crollata, attestandosi a un livello inferiore per più anni, perché un abbassamento prolungato della temperatura aveva causato una serie di cattivi raccolti. Il paese sottosviluppato e per di più sottoamministrato non resistette alla prova 4.

Sarebbe stato sopportato da una regione che avesse accumulato scorte notevoli e aperto un mercato esteso e attivo. Ma fino al 1860 l’Italia non ebbe un mercato nazionale, bensì molteplici mercati regionali, tramezzati da dogane interne con diritti eccessivi, taglieggiati da concessionari con tasche capaci, paralizzati da diverse regolamentazioni, da insicurezza e da un cattivo stato delle strade.

Mentre autorità municipali e reggenti mangiavano e dormivano tranquilli, il P. de Liguori si faceva una reputazione di profeta di sventure. Nel 1761, dando gli esercizi alla Misericordiella nel suo quartiere dei Vergini, aveva esclamato in tre diverse prediche: “Badate, badate, che Iddio ci prenderà a fame”; identico l’avvertimento da vescovo nel luglio 1762 durante la missione di S. Agata: “Figli miei, levate il peccato, perché ci aspetta un gran castigo; ci sta sopra una grossa carestia”; nella primavera 1763 nel corso della visita pastorale ad Arienzo, predicando nella collegiale di S. Andrea, una sera annunziò: “Iddio ci castigherà con una grossa penuria, e sarà tale che, mancando il pane, si mangeranno anche le erbe delle siepi”; pochi giorni dopo precisò: “In quest’anno venturo saremo mortificati con una somma scarsezza”. Profezie e perspicacia di un uomo che viveva rasoterra, osservava con cuore e intelligenza e prevedeva.

- Questo Vescovo, mormorava il popolo indispettito, da che e venuto, non sa predicar altro, che fame e malannata 5.

I malanni per il momento sembrarono piuttosto scatenarsi su Alfonso, prostrato in giugno da una crisi del suo catarro polmonare, che fece paura ai medici. Malgrado ciò, il 24 luglio cominciò la visita pastorale ad Airola, dove il barone del luogo, Bartolomeo de Capua, principe della Riccia, a lui profondamente devoto, come aveva fatto per i

 

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missionari, mise a sua disposizione il palazzo, facendogli preparare un letto superbo nella stessa sua camera. Il vescovo ammirò, ringrazio, chiese di vedere l’alloggio del vicario generale, poi quello, piccolo e scomodo, di Alessio Pollio:

- Qui sto bene, perché patisco di petto; le stanze grandi, perché ariose, mi fanno male...

Che rispondere? Si fece promettere di venire ospitato in quello stanzino ogni volta che sarebbe ritornato; Pollio avrebbe occupato il letto del vicario generale e questi sarebbe salito su quello del vescovo.

Proprio Alfonso contrasse una congestione polmonare aggravata da un’asma tenace e violenta; i rimedi furono vani e lo si credette perduto: presto, bisogna chiamare qualche celebrità napoletana!

- Mi bastano, protestò il morente, quelli che ho in Airola: forse quei di Napoli non leggono i medesimi libri di questi? né la vita mia merita tanto!

Fatto venire il segretario Verzella, suo confessore dopo la partenza del P. Maione, chiese l’estrema unzione e si mise in gioiosa attesa della morte. Frattanto, mentre Rubini continuava la visita delle parrocchie, riceveva a letto i sacerdoti, esaminandoli sulla morale e le cerimonie della messa 6, volendo adempiere il suo ufficio fino in fondo, fino alle ultime forze, fino all’ultimo istante: non perdere neppure un minuto .

Superò la crisi ancora una volta ma, ritornato a S. Agata, si sentì nuovamente male. Allora, per ordine dei medici e del P. Villani, suo direttore di coscienza, dovette cambiare aria - era in quel tempo il rimedio supremo - e passare due mesi di convalescenza a Pagani, dove, incorreggibile, lavorò “otto o nove ore il giorno” con tre padri a riformulare per la sua Morale il trattato sulla coscienza. Vi si assorbì talmente da dimenticare la carestia che pure aveva annunziato per l’anno 1763: fatte le provviste per il vescovato e per i poveri, fece vendere i 5-600 tomoli del raccolto di grano; ma aveva anche tanti debiti da tutte le parti 7 .

Di ritorno a S. Agata verso il 10 settembre, alla vista della lunga fila di mendicanti, sembrò risvegliarsi improvvisamente e, una mattina, chiamato il segretario, tutto agitato e come in preda alla febbre, gli ordinò di fare grandi compere di fave, piselli e altri legumi secchi (senz’altro lenticchie, ma soprattutto granoturco, abbondantemente coltivato e mangiato dai contadini, perché esente da imposta). Nessuno capì il motivo e tutti risero discretamente, cominciando con Don Felice, dell’improvviso grillo saltato in testa a monsignore. Verzella tuttavia su sue nuove insistenze, tra settembre e ottobre, riempì i depositi dell’episcopio 8. Dove trovò il denaro per pagare?

Il 1763 era iniziato con un inverno molto dolce, seguito da una

 

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primavera fredda, tutta piogge e tempeste, con inondazioni e frane... Le notizie arrivavano certo ai vertici del governo, ma allora non v’era alcun ministero dell’agricoltura, per cui la campagna provvedeva bene o male al suo autarchico approvvigionamento e la Città, cioè i deputati delle Piazze, pensava a quello della metropoli. Se nel 1759 il disastroso raccolto del napoletano era stato compensato dalla Sicilia ora tutto il Regno delle Due Sicilie condivise la stessa triste sorte: frutti rari e cattivi, vendemmia distrutta, pochi legumi per gli uomini poco foraggio per le bestie.

La Reggenza, che riceveva sul grano solo notizie confuse, in agosto, pur proibendone l’esportazione, restava ancora tranquilla. Ma già la fame attanagliava il popolo minuto della capitale, mentre alti personaggi accumulavano stocks scandalosi con l’intenzione di speculare e gli “eletti” della Città discutevano, invece di agire. Il Consiglio di Reggenza attese metà settembre per suggerire di importare grano dalL’Inghilterra, ma non si fece niente; così in ottobre. Il 3 novembre il governo, pur riconoscendo l’insufficienza del raccolto, ritenne che la situazione non fosse così estrema e accusò proprietari e commercianti di speculare sulla fame del popolo. In dicembre le province erano affamate, mentre a Napoli, diventata incontrollabile, si arrivava a parlare di lapidare e massacrare i reggenti, soprattutto San Nicandro. In una lettera del 20 dicembre al re Carlo III a Madrid, Tanucci stigmatizzava “le scelleraggini moltissime degli avari coll’ascondere li grani e farne salire li prezzi fino all’enormità”.

Per difendersi e sotto la spinta della minaccia popolare, il governo, per provare che il grano non mancava, inviò un agente, Gennaro Pallante, a scoprire i depositi clandestini, portare grano nella capitale e castigare “gli usurai dei poveri”.

Munito di poteri sovrani, Pallante si mise in moto con una forte scorta di commissari e di soldati, due boia, due forche e... un confessore. Nel primo villaggio sulla strada per Aversa, piantate le forche fece annunziare che bisognava dichiarare tutto il grano in giacenza, sotto pena di impiccagione, nell’arco di due ore, stessa manovra a Aversa, Capua, Caserta, Maddaloni, Cervinara, Montesarchio, Frasso raziando così sinistramente anche Arienzo, Airola, S. Agata.

L’intimidazioneriuscì”… Riuscì a svuotare queste località del poco grano di un raccolto miserabile (fortunato Alfonso, che aveva venduto il suo, perché non gliene sarebbe rimasto un chicco!), per portare nella capitale dopo un mese solo 66.062 tomoli di grano. Ma il furore crebbe ovunque in Terra di Lavoro e i reggenti dovettero metter fine a questa missione devastatrice per rivolgersi fuori delle frontiere, cercando grano sotto tutti gli orizzonti, a Barcellona, Marsiglia perfino Odessa.

 

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Era troppo tardi. Nei primi mesi del 1764 periranno più di 300.000 affamati, 27.000 famiglie lasceranno il Regno in cerca di un tozzo di pane negli Stati Pontifici e alcune fuggiranno perfino sulle coste barbaresche. Nel Regno molta gente delle province si era precipitata verso la capitale, seguendo le carrette che le strappavano dallo stomaco il poco grano della propria terra ingrata, aggravandovi la fame e ingrossandovi durevolmente il mondo dei lazzaroni. Ben presto non si poté fare cento passi nella strada senza incontrare moribondi; scene drammatiche di saccheggio e di violenza scoppiarono in tutto il paese, rivolte a Napoli, rivolte a Marianella, a Nola... S. Agata sarebbe stata risparmiata ?

 

In realtà come andavano le cose a S. Agata? Vi si sarebbero contati i quasi 3.000 morti della vicina diocesi di Cerreto?

Dal novembre 1763, non vendendosi più pane, gente povera e agiata cominciò a rivolgersi al vescovo, tanto che nel salone dell’episcopio si videro sfilare fino a 500 persone al giorno, imploranti in ginocchio e con le lagrime agli occhi.

- Date, diceva Alfonso ai suoi, non fate, che taluno se ne vada scontento, quello che cercano, è roba loro!

Aveva scritto nelle sue Riflessioni: Deve considerare il vescovo che la chiesa non lo provvede di rendite per ispenderle a quel che gli piace, ma per soccorrere i poveri” e nella Istruzione e pratica: “In estrema necessità... i beni son comuni” e il povero ha “il diritto di potersi servire” di quelli del ricco 9 .

Nello stesso tempo Liguori rinnovava le sue scorte, facendo appello a benefattori per comprare, anche se a prezzo elevato, legumi secchi e grano, il fratello Ercole, allora uno degli “eletti della Città”, gliene inviò, non sappiamo come, una grossa quantità prima che Napoli fosse allo stremo, ma a 6 ducati il tomolo.

Desiderando riservare i soccorsi ai veri bisognosi, organizzò un sistema di informazione, di distribuzione e di controllo degno di una moderna agenzia: catalogate per ordine alfabetico, le famiglie veramente sprovviste ricevevano legumi secchi e un po’ di denaro con regolarità annotata sulla tabella dei “clienti”.

Liguori fu sempre pieno di delicatezza per i decaduti poveri, ai quali la vergogna impediva di tendere la mano, ordinando ai parroci di farglieli conoscere. Se in tempi ordinari li provvedeva con discrezione e regolarità di cibo, vesti e denaro in misura dei loro bisogni, secondo una “contabilitàtenuta dal fratello Romito 10, continuò a fare lo stesso, con delicatezza e segretezza, anche nel corso della carestia.

S. Agata quindi soffriva meno dei paesi vicini, grazie a Dio senza

 

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dubbio, ma che avrebbe fatto Dio senza l’intelligenza e la sovrumana carità del vescovo? “ Dio ha bisogno degli uomini ”.

Il popolo lo sapeva bene, tuttavia “è impossibile contentare tutti e il proprio padre” come ha scritto, credo, La Fontaine. Così un giorno, mentre Alfonso esortava il popolo a ringraziare il Signore perché nessuno moriva di fame, una megera gli troncò la parola in piena cattedrale rimproverandogli, con toni forti, di aver venduto il suo grano! Il vescovo restò senza parola, il cuore serrato, quasi alle lagrime, pensando a tutta la sofferenza sottesa a quel grido, ma l’uditorio si indignò per lui e l’impudente dovette prendere velocemente la porta per evitare di morire ma non di fame

Tuttavia le riserve si consumavano e bisognava comprare, anche se il prezzo cresceva sempre. Liguori cercò un prestito, invano: nessuno volle prestare a un vegliardo asmatico, senza beni al sole, spesso vicino agli artigli della morte. Allora fu costretto a vendere: i tre gioielli di gran valore ricevuti in dono per la sua consacrazione (un anello del defunto cugino Francesco Cavalieri, l’anello vescovile dello zio vescovo di Troia, una croce pettorale in oro), le posate d’argento della tavola episcopale, rimpiazzate con altre di ottone comprate dal fratello Tartaglione per un carlino e mezzo in una bottega di Napoli... Ci volle tutta la fatica del mondo per impedirgli di vendere il suo rocchetto - per il merletto - e il suo orologio, mentre vicario, canonici e notabili, benché coalizzati, non riuscirono a trattenerlo dall’incaricare Don Ercole perché trovasse un buon acquirente per la sua carrozza e le sue mule.

- S. Pietro era Papa, rispondeva, e non andava in carrozza, ed io non sono da più di S. Pietro!

Ma Ercole si oppose e Alfonso insistette:

“ Io sono vecchio col piede nella fossa, sono carico di debiti, avrei da fare molte spese necessarie per la gloria di Dio, e mi sento morire di non poterle fare, perché bisogna prima levarmi i debiti che tengo con voi e col seminario. E così vi prego a non inquietarmi più sopra questo affare, perché altrimenti io più non vi risponderò.

Io speravo che la mia prima lettera vi avesse posto in pace. Già sapete che io, quando fo qualche risoluzione dopo averla considerata non mi rimuovo più; onde vi prego a non inquietarmi più su questo affare.

 

Se poi non mi volete fare il piacere di trovare quando è tempo (perché le mule e la carrozza non le vorrei buttare) di trovare, dico a vendermi le mule e la carrozza, ne darò l’incombenza ad altri, e finalmente le darò a quanto ne trovo.

Questa vostra lettera mi ha dato disgusto...

Soggiungo che io non mi fido di sopportare la pena di vedere

 

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quasi tutto l’anno star a veder le mule a spasso dentro la stalla, e ‘l cocchiero dentro la taverna, e li poveri che gridano pietà, e me che non ho che darli ”.

Pur acconsentendo a contrattare la vettura e il tiro, Ercole, che venerava il fratello, tentò un’ultima carta: “E quando dovrete venire a Napoli?”. Alfonso la prese al volo per vincere la partita:

Fratello mio, la ringrazio delle mele. Ora non mi ritrovo altri dolci che questa scatoletta venutami da DonnAlvina. Siccome m’è venuta, ve la mando.

In quanto alla carrozza, ho a caro che V. S. se la lo prezzo fate come volete.

Del resto sappiate che difficilmente io ci vengo a Napoli. Avrebbe da essere la disgrazia di qualche chiamata regia, e pure, in tal caso, facilmente ci manderei il mio vicario o qualche canonico; giacché ho pronta la scusa che sono vecchio, malato e non esco di casa11.

Fu un bel dire e un bel fare: il 5 gennaio 1764 Alfonso inviò a Napoli la sua carrozza e le sue mule per essere vendute al miglior offerente, ma il fratello Don Gaetano, non volendo che finissero in mani estranee, pagò un prezzo molto elevato, così che lo stesso giorno Don Ercole indirizzò al vescovo questo biglietto pieno di tenerezza:

“Mi lusingava, che aveste mutato pensiero: non mutando pensiero fate capitale, che la carrozza è vostra, e volendola ve la donerò io di mio denaro. Voi siete, e sarete sempre, come sempre lo siete stato l’assoluto padrone di tutta questa vostra casa, che propriamente è vostra”.

Ma subito il denaro scompariva nella voragine di una fame che ingigantiva. Ogni giorno il vescovo riuniva come un consiglio di guerra - gentiluomini, canonici, funzionari - alla ricerca di qualcosa di nuovo per non far morire di fame i poveri: molti rifiutarono il loro denaro, molti si lasciarono strappare generose elemosine, altri prestarono, senza illudersi, a fondo perduto e il padre adottivo resisteva un’altra settimana, poi un’altra ancora... Ma l’inverno non finiva mai e la fame generava collera e follia.

Una sera il vescovo, dopo aver richiamato, durante la visita al SS. Sacramento, alla penitenza, alla conversione (forse lo faceva troppo spesso per tempi tanto duri) usciva dalla cattedrale appoggiato al braccio del sagrista, Don Michele d’Apruzzo, quando una certa Girolama Razzano gli gridò col pugno alzato:

- Non ci fossi mai venuto: da che sei venuto altro non ci hai predicato, che malannata, ed ora ci fai mangiare il pane a grana sette il rotolo (0,89 kg)! Te lo possi mangiar tu...

Alfonso senza una parola benedì quella povera donna, mentre il sagrista, con gesto meno dolce, le diede “un colpo di mano alla spalla

 

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allontanandola. Allora il vescovo molto dispiaciuto lo riprese vivamente:

- Poveretti, meritano compassione; sono effetti non del cuore, ma della fame.

E gli impose quattro giorni di carcere per quella “brutalità” e per quello scandalo. Aveva scritto: “Bisogna che il vescovo in tutte le cose dia buon esempio... esempio di mansuetudine, sopportando la rozzezza de’ sudditi, e trattando con tutto l’amore possibile gl’insolenti, i suoi detrattori, gl’ingrati12.

“Con tutto l’amore possibile...”: egli non poteva amare di più in quella carestia che affamava sempre più, tanto da essere già al momento in cui, come aveva predetto, si vedevano sventurati prendere “le erbe delle siepi”. Sentendosi morire di pena di fronte a tanti spettri stravolti, non voleva più mangiare per alleviare le sofferenze dei figli; chiamò il segretario:

- D. Felice mio, gli disse, vedete che la gente sen muore per la fame, bisogna che scarseggiamo tutti, e dovete anche voi e gli altri pazientare.

Stesso discorso fece al vicario generale e da quel momento a tavola si servì solo la minestra con un poco, appena un poco di bollito, mentre egli si limitò alla minestra e al pane.

Convocati tutti i superiori religiosi della diocesi, chiese anche a loro di ridurre il cibo ordinario delle comunità per nutrire i bisognosi.

- Sono io in obbligo, rispose uno di essi, mantenere la propria mia Famiglia, ed il soverchio, e non altro darlo ai poveri.

Questa crudele indifferenza trapassò il cuore di Alfonso, che, balzato dalla sedia, gli disse in tono grave:

- Sapete voi, cosa vuol significare mantenere? vuol dire, che devi mangiar tanto, che non muori, ed il di più sei tenuto ai poveri. Quando ti facesti Monaco, dicesti supplicando, che volevi menar vita povera, e penitente, non già che volevi empirti la pancia e saziarti. Credi tu al Vangelo, o sei un turco?

La sfuriata cambiò il nostro uomo e ci fu un po’ di gioia per gli affamati del luogo.

I poveri non avevano mai atteso alle porte del vescovato, ma durante l’atroce carestia Alfonso stesso andò a bussare alle porte, assicurandosi che non fosse stato dimenticato nessuno, visitando i malati moltiplicati dalle privazioni. Faceva il giro della città portando rimedi, viveri e piccoli regali chiesti ai monasteri di Napoli, alle sue penitenti, ai suoi parenti.

Che vendere ancora per nutrire i figli?... Ah! l’argento della sagrestia vescovile: pastorale, bacile, acquamanile, bugia e la pietra

 

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preziosa che ornava il fermaglio del piviale. Ahimè! il capitolo, custode del tesoro della cattedrale, si oppose, obiettando:

- Come facciamo, dovendo voi tenere i Pontificali?

- Mi servirò del bacile, e bocale di creta. Forse l’argento è precettato?

Voleva almeno impegnare quegli oggetti ma, per il rifiuto dei canonici, non andò oltre, non essendone il proprietario. Allora fu visto andare e venire con gli occhi pieni di lagrime attraverso il palazzo nell’amarezza dell’abbattimento: tutta la diocesi ricorreva a lui, nutriva anche la sua baronia di Bagnoli, ma ora non aveva niente più, niente più, mentre sentiva ribollire il furore popolare.

Furore più che legittimo, perché di grano ve n’era ancora, ma i proprietari, cominciando dal duca di Maddaloni, aspettavano un incremento ulteriore del prezzo già intollerabile. A torto il popolo ne addossò la responsabilità alle autorità municipali, insorgendo domenica 19 febbraio contro il sindaco, Don Domenico Cervo: è lui, non può essere che lui ad affamare il paese! La folla s’ammassò, suonò le campane, attaccò la sua porta a colpi di accetta... Don Domenico, riuscito a fuggire per un’uscita segreta, si rifugiò in... episcopio. “Tutti all’episcopiogridarono i forsennati e si precipitarono verso il palazzo. Il vescovo, nascosto il sindaco “nel luogo più sporco del palazzo che serviva alle comuni necessità” (come precisa Verzella), si fece incontro al furore del popolo scatenato.

- Uccidete me, se volete il sangue, ma non toccate il sindaco che non é per niente responsabile...

Pancia vuota non ha orecchie e la folla urlò: “Vita per vita!”.

- Mangiate, azzardò allora il vescovo, mangiate!

E fece loro distribuire tutte le provviste che si trovavano in vescovato e in seminario. Di colpo il furore si smorzò e le accette si abbassarono; da parte sua il governatore mise in vendita, per forza, 200 tomoli di grano del duca di Maddaloni, ristabilendo così una calma precaria .

Perché Carlo Carafa aggiunse imprevidenza alla rapacità? Inviò infatti sul posto uno squadrone per prevenire nuovi tumulti: “ sessanta bocche in più ” pensò il popolo furioso pronto a venire alle mani. Il vescovo si sfibrò nel prevenire i colpi di sciabola degli uni e quelli di forca degli altri, mentre negoziava il richiamo immediato degli intempestivi cavalieri: “In questi giorni passati, scrisse, Dio sa in qual confusione sono stato, che per più notti m’ha levato il sonno”. In seguito penerà molto per scongiurare una inchiesta e rappresaglie da parte di Maddaloni e un sopralluogo dei magistrati di Montefusco 13.

Il 7 marzo 1764 i primi carichi di cereali gettarono le ancore nella

 

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darsena di Napoli. Era la fine dell’incubo? Per la provincia sì, ma per la capitale fu l’inizio di ciò che l’accumularsi di miserabili e di morti lasciava prevedere, la peste. Da maggio a settembre, gli ospedali traboccarono di malati, ammucchiati tre per letto, e le tombe di morti: 50 al giorno solo agl’lncurabili. Alfonso soffrì e tremò per la sua città, per la sua famiglia, per i suoi fratelli del piccolo ospizio napoletano. Infatti l’11 agosto si spense il P. Margotta, procuratore generale dell’Istituto, assistito prima dal P. Salvatore Gallo e poi dal P. Geronimo Ferrara, inviati dal rettore maggiore impossibilitato ad accorrere al suo fianco.

Accompagnava così, teneramente, i fratelli e figli che raggiungevano la congregazione del cielo, senza però dire una parola sulla propria pena, benché uomo di fremente sensibilità: sarebbe stato un perdere tempo e poi la fede e la speranza dominavano la tristezza. In 18 mesi perse cinque giovani, tutti per tisi. All’inizio di aprile 1764, a uno di essi, Donato Melaccio, che al termine di una predica aveva avuto un’emottisi, scriveva:

Figlio mio caro, Dio sa la pena che mi ha cagionata la vostra infermità sin dal principio; ma mi rassegno alla volontà di Dio che così dispone.

E così rassegnatevi ancora voi, abbandonandovi tutto nelle braccia del vostro buon Dio che vi vorrà togliere da questo mare così pericoloso del mondo, perché vi vuole salvo.

Consolatevi e statevi sicuro della vostra salute eterna, perché morite in Congregazione. Poveri coloro che sono stati nostri, e muoiono fuori della Congregazione! Che serve la vita, se non per fare una buona morte in grazia di Dio?

Della vostra buona morte io ve ne assicuro, e così che andate più cercando? Che più bella cosa, finire il tempo di fare più peccati ed uscire dal pericolo di perdere più Dio?

Quando dunque vi affliggerà il pensiero della morte, ravvivate la confidenza e la rassegnazione, e dite: Mentre ora Dio vuole che io lasci il mondo, questo è il meglio per me. Chi sa, se foste campato, che non vi si fosse svoltato il cervello, come si è svoltato a tanti, e sareste morto fuori della Congregazione, e Dio sa in quale stato?

Allegramente! Dio vi vuole salvo. Se egli vi chiama all’altra vita, non lasciate di raccomandarmi alla Madonna, alla quale io vi raccomando prima e dopo la vostra morte, se la vostra sarà prima della mia. Ma se voi andate prima di me all’eternità, poco potrò io tirare a seguitarvi. E così spero tra poco di rivederci in luogo di salute ad amare Dio, senza pericolo d’esserne più separati...

In fine vi mando mille benedizioni. A rivederci in Paradiso tra breve! Siate benedetto! Amen, amen.

 

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Di nuovo vi abbraccio e vi benedico. A rivederci nell’eternità beata! Viva Gesù e Maria!

Fratello Alfonso del SS. Redentore, vescovo di Sant’Agata14.

 

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p. 668
1 Lettere, I, p. 477



p. 669
2 Ibid., pp. 477-479.



3 TANNOIA, II, pp. 75-78



p. 670
4 Cf. G. DELILLE, Croissance d’une société rurale. Montesarchio et la Vallée Caudine aux XVII et

XVIII siècles, pp. 165-222; R. VILLARI, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna, Bari 1977, pp.

5-53.



5 TANNOIA, II, p. 92.



p. 671
6 Ibid., pp. 63-64, 69-70; ;il resoconto della visita ad Airola manca nei voll. 21 e 22 di santa visita,

certo a causa del trambusto provocato dalla malattia mortale di Alfonso.



7 Lettere, III, pp. 173, 176-177, 185; I, p. 507; Contributi, p 244; SH 9 (1961), p. 421, n. 201.



8 Su questo episodio e il seguito del capitolo cf. SH 9 (1961), pp. 421-424; TANNOIA, II, pp. 93-

100; F. VENTURI, in“Rivista storica italiana”, 85 (1973), pp. 394-409.



p. 673
9 Opere, Marietti, III, p. 872; IX, pp. 184, 186.



10 TANNOIA, II, p. 354



p. 675
11 Lettere, I, pp. 510-512; SH 9 (1961), pp. 318-319.



p. 676
12 Riflessioni utili ai vescovi: Opere, Marietti, III, pp. 871-872.



p. 677
13 Lettere, I, pp. 515-516, 519-520, 524, 527; SH 11 (1963), p. 120; TELLERIA, II, pp. 127-133;

E. VIVIANI, Bernardo Tanucci, II, pp. 73-81.



p. 679
14 Lettere, I, pp. 513-514; cf. BERTHE, op. cit, II, pp. 168-171.



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