Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
Lettura del testo

Parte Quarta “IO SONO IL BUON PASTORE” (1762-1775)

42 - VESCOVO PER S. AGATA DEI GOTI (1763-1767)

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

- 680 -

42 - VESCOVO PER S. AGATA DEI GOTI

(1763-1767)

 

Durante la visita pastorale, Don Giovanni Manco, vicario episcopale e gentiluomo d’Airola, aveva scelto le due migliori forme di ricotta e le aveva inviate in casa del principe della Riccia per il vescovo. Questi, incontrato il portatore, gli aveva detto tra il serio e il faceto: “O prenditi il costo, o riceviti le ricotte”.

Il decano incollerito si presentò ad Alfonso con la bocca piena di rimproveri, ma questi si scusò:

- Non posso, ecco qua Monsignor Crispino, che ci vieta qualunque regalo.

E Don Giovanni, fuori di sé, rispose con la famosa maledizione dei morti che precedentemente aveva fatto scorrere l’inchiostro del P. de Liguori:

- Mannaja li morti di Monsignor Crispino, e di chi l’ha consacrato 1.

Da quarant’anni Giuseppe Crispino (1639-1721) aveva raggiunto i suoi morti nell’eternità, lasciando però in questo mondo un libro divenuto il classico delle visite pastorali. Segretario a Napoli dal 16671685 del santo cardinale Innico Caracciolo tutto saggezza e sensibilità pastorale, aveva imparato molto alla sua scuola e si era largamente ispirato ai decreti dell’amico domenicano Pietro Francesco Orsini di Gravina (in religione Vincenzo Maria), giovane vescovo di Manfredonia, poi cardinale di Benevento, infine papa Benedetto XIII, oltre che a san Carlo Borromeo, nel suo trattato sul Buon Vescovo, apparso nel 1682 e coronato da una mitra meritata nel 1685. In questo stesso anno, Crispino ne estrasse e pubblicò separatamente il Trattato della Visita Pastorale. Alfonso lo portava sempre con sé e, sotto gli occhi di Don Giovanni Manco, nel tentativo di calmare la sua collera l’aveva aperto a p. 238: “Quanto alla Visita... né mediatamente, né immediatamente si possono ricevere regali, o donativi, anche di cose commestibili”.

Fedele al concilio di Trento e al suo Crispino, Mons. de Liguori

 

- 681 -


si propose di visitare integralmente la diocesi ogni due anni, nel corso della stagione estiva (cioè da maggio a settembre) per la sua salute: negli anni pari l’anfiteatro montagnoso costituito da S. Agata, Durazzano e Frasso con i loro villaggi, negli anni dispari la periferia sud e ovest, cioè le città e i casali di Arienzo, Airola e Valle di Maddaloni.

Cominciò quindi il 21 maggio 1763 con la Campania: ad Arienzo fino al 29, quindi a Valle, Bagnoli e Dugenta fino al 4 giugno, ritornando a metà mese ad Arienzo per poi iniziare ad Airola il 24 luglio. Qui cadde ammalato, come abbiamo detto, nello stanzino del domestico Pollio in casa del principe della Riccia e il suo vicario generale continuò la visita nelle chiese di Airola e dintorni e poi iniziò quella a Valle, mentre il vescovo, costretto dall’ubbidienza, andava a riposarsi per due mesi a Nocera lavorando “otto o nove ore il giorno”.

Nel 1764 passò all’altra metà della diocesi, la conca della quale S. Agata era il centro-sud: consacrato l’intero mese di maggio alla città, alle sue chiese e ai suoi villaggi, i “visitatori” furono dal 9 al 19 giugno nel settore di Durazzano e dal 20 giugno al 5 luglio in quello di Frasso 2.

 

L’equipaggiamento del vescovo era modesto: aveva viaggiato in carrozza solo per le visite nella pianura da maggio a giugno 1763 prima della carestia, poi a dorso d’asino con un seguito (su cavalli o asini o muli) composto dal vicario generale Rubini in qualità di con-visitatore e giudice, dal cancelliere Jermieri in qualità di notaio, da un canonico della cattedrale, dal fratello Francescantonio Romito in qualità di segretario e da un solo servitore per tutto il gruppo, dal momento che monsignore non voleva alcun valletto personale, pensando da sé, come a S. Agata, alla sua camera e al suo letto.

Sul somaro almeno non doveva temere incidenti di viaggio, mentre in vettura... A proposito, il 20 giugno 1764, mentre lasciava Durazzano per aprire la visita a Frasso - per lo stato delle strade, la cattiveria dei muli o l’ubriachezza del cocchiere?, il calesse si rovesciò due volte prima di raggiungere S. Agata e, mentre Rubini si era rialzato di pessimo umore ma sano, il vescovo lo aveva fatto sorridendo ma con un polso slogato. Malgrado i tentativi dei canonici di trattenerlo per apprestargli qualche cura, il vescovo volle continuare subito per Frasso, dove era atteso per la sera, a dorso d’asino. Lungo la strada, a Verroni, un amico devoto, il mercante Angelo Cervo, lo costrinse a fare una sosta in casa sua, e Alfonso, mentre un “conciaossa” gli rimetteva a posto il polso, fu messo a parte del dramma della famiglia: nella stanza accanto si spegneva un figlio, ormai abbandonato dai medici. Il vescovo gli andò accanto, gli fece un segno di croce sulla fronte e disse ai genitori affranti:

 

- 682 -


- Statevi di buon animo, non dubitate, che il figliuolo starà bene.

Il ragazzo immediatamente migliorato fu in piedi nell’arco di pochi giorni.

Il vescovo e il seguito ripresero il cammino e arrivarono a Frasso dove erano attesi ma non su quei ronzini:

- Che cosa è Monsignore, esclamò una distinta dama, a cavallo, e sopra un asino!

- A chi i carri, a chi i cavalli, le rispose faceto Alfonso citando il salmo 20, ma a noi il nome del Signore!

L’anno seguente ad Arpaia, dove arrivò sotto il sole di mezzogiorno, toccò ai canonici recriminare:

- Come ! ed in questo caldo sopra un somaro !

Monsignore indicò un venditore di polli che sopraggiungeva sudato, con uno sportone sul capo:

- Vedete quel poveretto: chi è venuto più comodo, io a cavallo, o quello a piedi, e con quello sportone in testa?

Ma torniamo a Frasso, dove “nel nome del Signore” si aprì la Santa Visita tra la gioia di tutti, tranne del vicario Rubini, il quale non essendosi ancora ripreso dalle disavventure del viaggio, vedeva tutto nero e il giorno dopo, alzatosi ancora storto, continuava a riempire la casa con le sue geremiadi:

- Che camera mi è stata data! umida, con finestre sconnesse! e questo e quello...

Si era in giugno e nessuno poteva prendere sul serio questa umidità e queste correnti d’aria. Quale mosca gli era saltata al naso?

- Non è niente, disse monsignore, ora ci rimedio io.

Appena il vicario si recò in chiesa, fece cambiare i letti nelle camere, istallandosi con il suo inseparabile saccone in quella di Rubini che al ritorno fece finta di niente, e la visita continuò in pace.

La guida era Crispino, ma semplificato alla Liguori. Prima d’iniziare la visita, il vescovo aveva ricevuto e studiato le risposte scritte degli arcipreti e dei parroci alle 20 domande sulle chiese, il loro regime, la loro suppellettile e le loro rendite, sui chierici, sui ministeri e i sacramenti, sui costumi, sulle confraternite, sulle scuole e sulle istituzioni caritative 3. Ma i verbali in sei capitoli previsti dal “manuale” furono sostituiti da un semplice rapporto sull’esame dei luoghi o lo stato delle cose, con via via le decisioni prese dal vescovo o dal suo vicario.

Il cerimoniale era dovunque lo stesso. Dopo l’accoglienza del pastore alla porta della chiesa principale, l’ubbidienza del clero, la predica ai fedeli accorsi, la santa visita cominciava dal tabernacolo e dalla pisside, dai cibori e dai calici (“Si compri al più presto un ostensorio

 

- 683 -


per l’adorazione del Santissimo”); continuava, attenta, nella chiesa, dal pavimento alla volta (“Oh! quelle ragnatele!... E la volta è più malridotta di due anni fa, quando già minacciava di cadere! Se non farete niente nei prossimi quattro mesi per ripararla, sequestreremo i frutti del vostro beneficio”). Il visitatore ispezionava poi il battistero, gli oli santi, gli altari (“Che fine han fatto i candelieri?”), i confessionali (“Mettere una grande immagine del crocifisso... e perché questa grata non è fissata?”), le vesti e i lini sacri (“Al fuoco questo vecchiume, alla lasciva questa sporcizia!”), passando al vaglio anche i resoconti, soprattutto il libro delle messe. Premuroso per i suoi sacerdoti, Alfonso fece riparare alcuni presbiteri inabitabili e in sette parrocchie rimpinguò benefici insufficienti a far vivere decentemente i loro preti 4.

Non fa meraviglia che, a partire dal 1764, l’ingiunzione più frequente negli atti delle visite è di porre in esecuzione nell’arco di due o sei mesi, sotto pena di sequestro dei benefici, i decreti frutto della visita precedente.

Queste ispezioni ai luoghi e alle cose, che si ripetevano in ogni chiesa o cappella, erano necessarie come il corpo allo spirito. Dal 1763 al 1767 Liguori le cominciò personalmente nella chiesa principale della città il primo giorno, lasciandole poi continuare al vicario generale (tranne a Valle nel 1763) nelle altre chiese della borgata e dei villaggi. I due volumi di Santa Visita ci danno perciò un’idea precisa della regolarità delle visite, delle loro date, delle ispezioni giornaliere fatte da Rubini e delle sue decisioni, dello stato dei luoghi, mobilio e chierici, ma tacciono sull’azione di Mons. de Liguori che frattanto era tutto per le persone e i loro bisogni spirituali. Fortunatamente Tannoia, a volte a S. Agata per informarsi direttamente e abbondantemente, sui 13 anni di episcopato del suo superiore e amico dice più che sui 66 anni che li precedettero.

 

Nelle Riflessioni utili ai vescovi Alfonso aveva scritto: “La principal mira delle visite ha da essere la riforma de’ parrochi5.

Sua prima preoccupazione era esaminare i sacerdoti sulla loro attitudine alla celebrazione dei sacramenti. Fatto innalzare un altare nell’anticamera della sua residenza, esaminava ognuno sulle cerimonie della messa e, accortosi subito con chi aveva a che fare, affidava i meno abili a un cerimoniere, sospendendo anche molte volte il diritto di celebrare ai massacratori dell’essenziale. Nel 1758 aveva stampato un gustoso opuscolo Apparecchio e ringraziamento per i sacerdoti nel celebrare la Messa e nel 1769 “per utile de’ Preti della sua Diocesipubblicherà il trattato Delle cerimonie della Messa, un lavoro scientifico e insieme semplice sui riti e sull’Eucaristia, con una “settimana” di apparecchi e ringraziamenti ispirati al sacrificio della croce: i riti

 

- 684 -


certo, ma prima il fervore, perché Alfonso non era un rubricista stretto. A tale proposito è interessante quanto scrisse al P. Villani, avvertito dal P. Ferrara, dopo un soggiorno a S. Agata, che il suo “direttoometteva il Gloria e il Credo nella messa:

“In quanto al P. Ferrara della Gloria e Credo, le dica che io non sono obbligato a quel che è conveniente, e se mai la Congregazione ha risposto a questa convenienza, forse ha creduto per coloro che celebrano in pubblico ed in tempo di concorso, ma io che celebro in camera non sono obbligato a tal convenienza, perché non vi può essere ammirazione; quando poi celebro in Chiesa allora dico messa corrente6

Alfonso era ugualmente preoccupato del sapere e del saper fare dei confessori. Per non sottomettere tutti ad esame (avrebbe sollevato una rivoluzione), informatosi presso l’arcidiacono Rainone, il teologo D’Addio e il venerabile rettore del seminario per le mani del quale erano passati tutti, volle farsi un giudizio personale su coloro dei quali a buon diritto si sospettava l’ignoranza. Abbiamo ancora il libretto tascabile che si era fatto per non dimenticare niente d’importante: 21 pagine di Compendio (di teologia morale) e 15 di Examen Confessariorum (esame dei confessori)7. Ai più ignoranti - non ne mancavano mai - ritirò la giurisdizione per le confessioni, impiegando tutta la sua dolcezza per addolcire la pillola amara; così di fronte a casi di incapacità irrimediabile di certi parroci, fu dell’avviso, per non far perdere loro la faccia, di nominarli canonici man mano che gli stalli si facevano vacanti, affiancando loro frattanto validi coadiutori. Occorreva però riorganizzare su questo punto la formazione permanente, totalmente abbandonata dal suo predecessore e Alfonso ristabilì dovunque la conferenza settimanale di morale, fissandone egli stesso i temi per tutto l’anno. Quando venne a sapere che un parroco vi era mancato due volte, lo fece chiamare e, accoltolo con freddezza, lo rimproverò severamente, lasciandolo in piedi: “Il maggior dolore, che io posso assaggiare si è, quando vedo attrassato il caso morale e la predica di Maria SS. il sabato8.

Pensando ai confessoripoveri” in latino e in carlini, Liguori aveva riassunto la sua grande Morale in 3 piccoli volumi in italiano, l’Istruzione e Pratica. Ma era ancora troppo per i bisogni e le capacità di alcuni vicari, per cui semplificò ancora e riassunse questo riassunto in 400 pagine in-8, Il Confessore diretto per le confessioni della gente di campagna (1764), annunziato in questi termini a Remondini il 26 agosto 1763:

“Nel libro mio, oltre quel che sia pratica del confessore, vi ho poste, in breve, ed in volgare, una bastante notizia di tutte le cose più principali della Morale. Chi sa questo libretto mio, benché breve, ben

 

- 685 -


può confessare ne’ paesi di fuori; e perciò io l’ho fatto per utile della mia diocesi... derubando il tempo...”9.

Liguori stimava che il corredo del sacerdote andava posto nella santità e nel sapere teologico, perciò era un impietoso iconoclasta dei chierici vanitosi in parrucca e nastrini, galloni d’oro e orli di pizzo.

I teatri di provincia e le compagnie di ambulanti, che si moltiplicarono nella seconda metà del Settecento, suscitavano licenziosità al pari di riso e soprattutto l’opera buffa in dialetto, fortemente burlesca e a volte geniale, era spesso spinta: tali rappresentazioniinspirano alle donne la lubricità, scrisse severamente Galanti, alla gioventù la scurrilità, e corrompono i cittadini nell’infanzia medesima”. Tanucci rimproverava che “dovunque s’è permesso teatro, sono occorsi disordini”. Le “diaboliche seduttrici canterine” facevano tremare le spose e... i vescovi. Quello di S. Agata espulse i teatri volanti e interdisse ai sacerdoti, sotto pena di sospensione a divinis (cioè di non poter celebrare i sacramenti), di frequentarli 10 lo stesso fece per il gioco d’azzardo.

Convocava quelli che conducevano una vita scandalosa (ubriachezza o dissolutezze), parlando loro con una bontà tutta speranza e perdono: era, se lo volevano, oblio del passato con il “Va’e non peccare più” di Gesù all’adultera. Se acconsentivano li inviava per un ritiro di 10 o 20 giorni tra i Lazzaristi di Napoli o in una casa della sua congregazione: “In questo fuoco così vivo, diceva, qualunque ferro, irruginito che sia, rendesi molle, e purificato11. Solo dinanzi all’ostinazione ricorreva alla relegazione in qualche lontano monastero o perfino all’incarcerazione o all’esilio, anche a costo di assicurare agli sventurati una pensione di tasca propria. Bisognava assolutamente far cessare lo scandalo.

 

Se si trattava di religiosi, i loro superiori compresero ben presto che avevano a che fare con un fratello umile e fiducioso che però si aspettava da loro un irradiamento di fervore, di zelo e di carità, perciò pronto a ricorrere al superiore provinciale e, se necessario, al generale, o, in mancanza di provvedimenti da parte di questi, al re stesso, pur di rimuovere qualsiasi scandalo.

Non fu precipitoso lasciando ai colpevoli il tempo di ravvedersi e ai superiori quello di avvisare, ma dopo quattro anni di informazioni, visite e richiami, nel 1768 procedette a una vera epurazione, facendone allontanare ben 52.

Da allora, se un religioso si permetteva qualche “leggerezza”, i superiori non aspettavano che monsignore aprisse la bocca o prendesse la penna, ma lo trasferivano lontano dalla diocesi, senza possibilità di ritorno, per quanto alti o minacciosi fossero i loro intercessori, finché Liguori fu a S. Agata. Il fratello di uno di questi religiosigiubilatiarrivò un giorno a insultarlo e a minacciarlo di prenderlo a calci.

 

- 686 -


- Via , via , gli rispose tranquillamente il prelato.

Il vescovo pero amava di più ]e comunità religiose purgate dagli elementi turbolenti: prendeva da esse confessori e esaminatori sinodali, domandava loro consiglio, affidava loro le cappellanie delle religiose, sceglieva predicatori per la quaresima e le missioni. Portò particolarmente nel cuore i Cappuccini di Arienzo e i Domenicani di Durazzano 12.

Quest’ultimi, quando era in visita nel loro settore, gli davano un’ospitalità generosa, usando per lui - e suo malgrado - la biancheria più bella, dal momento che Alfonso e il suo seguito sedevano alla loro tavola, tavola troppo ricca a suo giudizio. All’osservazione fattagli dal vescovo, il P. Franzolini rispose un giorno con ammirevole franchezza:

- Se non vuol mangiare V. S. Illustrissima, vogliamo mangiare noi, e vogliono mangiare anche gli altri.

Identica scena una sera di digiuno quando Alfonso si accorse che veniva preparata la cena solita:

- Padre Priore, non sapete, che oggi è vigilia?

- Lo so benissimo, ma tanto si deve, ed ognuno si serve colla sua coscienza .

Ricevuto con tale generosità dai Frati Predicatori di Durazzano il vescovo testimoniò loro la sua riconoscenza inviando poi luce per lo spirito e per il culto: ai padri esemplari dei suoi libri e al monastero una quantità di cera proporzionata alle sue spese.

 

Le monache, tre volte meno numerose dei religiosi, non sfuggivano all’interesse del pastore e ancor meno al suo irradiamento. Aveva scritto 20 anni prima ai vescovi:

“Le vergini consacrate a Dio sono già la più illustre porzione del gregge di Gesù Cristo, se vivono però da vere religiose. Perciò il vescovo deve primieramente invigilare che le giovani non s’impegnino a prender l’abito religioso, se non conosce che abbiano vero spirito e vocazione; giacché per mala sorte de’ giorni nostri la maggior parte si fanno monache più per volontà de’ parenti o per altri fini, che per darsi a Dio... Oh! se i vescovi usassero questa diligenza e questa fortezza, quale altro spirito e perfezione si vedrebbe ne’ monasterj. E che mai serve alla chiesa di Dio l’ammettere tante giovani ai monasterj senza vocazione? Serve ad altro che a far serragli di donne chiuse, che poi vivono, come si vede, poco esemplari, inquiete, e inquietano in tutta la loro vita i monasterj e i vescovi13.

Con il termineserraglioAlfonso non voleva certo evocare intrighi da harem orientale, ma, con un richiamo ricco di humour agli animali rari chiusi dentro gabbie per i visitatori, combattere l’ecces-

 

- 687 -


siva assiduità alle grate delle religiose: “Raccomando, scriveva alle suore di Frasso, tener il velo calato avanti agli uomini, secondo a quello che dice la Regola. Questa regola più edificazione, che il vedere le monache in estasi14. Radiò dal coro l’uso del canto figurato, teatrale cinguettio per gli ascoltatori più che lode per Dio, esigendo che ci si limitasse al gregoriano: “La Chiesa non è teatro, diceva, né le Monache sono cantatrici da scena15.

La visita del padre nei monasteri era perciò ispezione, correzione, a volte anche espulsione d’autorità, ma prima di tutto trasfusione del suo amore per Gesù e Maria con un ritiro tutto fuoco, che non ometteva mai di predicare.

 

Ma come faceva a trovare ancora forza sufficiente, dal momento che ogni visita pastorale era anche per la parrocchia una missione breve ma intensa? Predicava il ritiro al clero, anzi a S. Agata, Durazzano e Frasso costituì per i migliori sacerdoti congregazioni missionarie diocesane, fucine di perfezione, di formazione e di apostolato, come quelle create precedentemente nelle missioni. Trovava anche il tempo per rivolgersi separatamente ai notabili, ai giovani e alle giovani, riunendoli, per confermarli, in confraternite, affidate ognuna a un sacerdote zelante che le avrebbe raccolte la domenica e le altre feste. Dopo vespro, faceva il catechismo ai ragazzi per rendersi conto di ciò che sapevano e prepararli alla cresima, perché considerava il vescovo come il primo catechista della diocesi. Quindi, dopo aver animato con ardenti parole la visita al SS. Sacramento, alla quale convocava tutto il popolo, teneva la predica grande serale. Per la perseveranza dopo la missione lampo della visita, instaurava dovunque la predica del sabato sulla Madonna e la vita divota quotidiana: meditazione al mattino in chiesa per il popolo minuto analfabeta, visita al Signore e alla sua madre a sera. Miracolo della vita di Alfonso fu il vigore che rinasceva inesauribile in un uomo avanti negli anni, consunto, asmatico, che faceva un solo pasto il giorno - e quale! - , dormiva poco e male e si estenuava nelle penitenze.

Trovava ancora il tempo di preoccuparsi dei poveri, delle vedove, delle ragazze in pericolo, fornendo qua letti, vesti o denaro. Tutti i malati ricevevano la sua visita e spesso le sue elemosine, recandosi a cresimare in casa i ragazzi ammalati. Ad uno di questi ad Airola disse:

- Pasqualino mio, consolati, che in tre giorni sarai in paradiso.

Gli amministrò il sacramento della confermazione, il ragazzo migliorò... e morì inopinatamente la sera del terzo giorno 16.

Il vescovovisitatoreera dunque prima di tutto, come il Cristo, parola di Dio, ma come lui mettevamano al ventilabro per ripulire la sua aia” (Lc. 3, 17). Molti suoi diocesani non si avvicinavano

 

- 688 -


all’Eucaristia neppure a Pasqua: Alfonso pregò i parroci di incontrarli, invitando i renitenti a venire da lui o indirizzando loro una lettera paterna. Dopo il fidanzamento, la coabitazione prematrimoniale del fidanzato in casa della promessa era pratica corrente: Alfonso comminò la scomunica non ai due piccioncini, ma ai genitori che proteggevano i loro impazienti amori 17 . Ai bestemmiatori risparmiava le galere (cui erano condannati dal codice) per riguardo alle loro anime e alle loro famiglie, anche se gli inveterati finivano in prigione.

Altra pesante miseria: un’economia agricola di piccole proprietà mirava all’ideale del figlio unico, ma il limitare e il ritardare le nozze facevano rinascere incessantemente la prostituzione nei piccoli centri. Perciò il vescovo era sulle spine: chiamava quelle povere donne, le ammoniva, le supplicava, le minacciava; a quante non assicurò una mezza pensione, quando erano costrette a vendersi per povertà? Ma dovevano scegliere tra l’emendarsi e la prigione, dal momento che spesso i governatori ricevevano lettere come questa datata 25 luglio 1764, durante la sua prima visita a Frasso:

Ill.mo Sig. P.ne col.mo Prego V. S. Ill.ma aver la bontà di riparare all’eccessivo scandalo, che apporta colla sua mala vita Sabella Garofano di qui, che abita sovra il castello di Ducenta, e colle sue lascivie incita una gran quantità di gente d’ogni parte a seco sfogare.

Stando questa nel suo tenimento, non posso io prendere quei dovuti provvedimenti per riparare che la gente non corra al precipizio.

D. Federico mio, veda farla carcerare, e così incuterle timore, sapendo bene V. S. Ill.ma che nei luoghi piccoli non è permesso stare donne pubbliche18.

Ma il disordine di base non era forse l’ignoranza religiosa? Una delle prime preoccupazioni di Mons. de Liguori era stata redigere in cinque paginette un richiamo semplice sulle verità essenziali della fede - Breve dottrina cristiana (1762) - , ordinando che i giorni festivi venisse letta da tutti i celebranti durante le due messe. Avendo constatato nelle visite che i chierici facevano il catechismo ai ragazzi solo in quaresima, lo prescrisse con severe misure per tutte le domeniche e feste, ingiungendo il rifiuto dell’assoluzione per i genitori e tutori che non vi inviassero i figli 19.

Il vescovo missionario non lasciava una parrocchia se non dopo aver soppresso gli abusi e attuato le riforme. Accolto dovunque come un santo, lasciava spesso qualche reliquia strappatagli con un sotterfugio: si tagliavano i fanoni della sua mitra e perfino un giorno pezzetti del suo mantello, per applicarli sui malati e dovunque correva la voce di guarigioni verificatesi al loro contatto.

 

Il vescovo dimenticava che era fondatore e rettore maggiore dei

 

- 689 -


Redentoristi? Certo no, ma aveva un vicario generale del quale si fidava pienamente. Nel 1764, appena terminata la carestia e le visite pastorali nel nord della diocesi essendo passati nove anni dal capitolo del 1755, doveva convocare il terzo capitolo generale, riguardo al quale scrisse il 4 luglio a Villani:

“Bisogna che sia prima di Ottobre, perché poi cominciano i freddi, ed allora bisogna che io cominci a raccomandarmi l’Anima, perché mi vedo troppo indebolito col petto, e so quello che ho passato in quest’inverno...

Pregate Iddio per me povero vecchio esinanito, che ho da contrastare, e combattere continuamente in un officio così scabroso e tedioso di un Vescovo, e Vescovo di S. Agata, dove vi si trovano molti mali e mali invecchiati20.

Alfonso non faceva scena, perché a S. Agata il clima e la carestia avevano aggravato le sue infermità, tanto da farsi scrupolo dopo solo due anni di portare ancora una Chiesa così pesante. Affidò perciò a Mons. Antonio Puoti, suo diocesano di Arienzo eletto vescovo di Amalfi, venuto a salutarlo mentre era in viaggio per Roma, una lettera di dimissioni per il Santo Padre, pensando così di recarsi al capitolo per non più ritornare.

Dove si sarebbe tenuta la riunione? Villani aveva proposto Nocera dei Pagani, da 12 anni casa generalizia, ma Alfonso, fine conoscitore del suo mondo, temendo che qualche testa giovane imbevuta di idee regaliste avrebbe potuto contestare la validità di una assemblea tenuta nel Regno senza previa autorizzazione del re - chi poteva saperlo? - , scrisse il 21 luglio:

Don Andrea mio, per lo Capitolo io son pronto a venire a Nocera, perché, come dite, Nocera è più comodo per i Padri.

Ma ora mi sovviene quel che si è detto più volte, ch’era bene questo Capitolo farlo nello Stato papale in Sant’Angelo, per togliere ogni vano pretesto a qualche Padre della validità de’ voti e degli atti del Capitolo.

Onde io non dico altro che questa cosa: consideratelo bene e decidetelo voi altri, e poi avvisatemi21 .

Presieduto da Alfonso, il capitolo si aprì il 3 settembre a Nocera e durò sei settimane con 20 membri, la cui età media era di 44 anni. I due più giovani, Fabrizio Cimino di 30 anni e Francesco De Paola di 28, dovevano l’elezione alla loro forte personalità. Sarà per il meglio? Un caso da seguire, come dicono i giornalisti.

Compito essenziale del capitolo era definire e rendere ufficiali le Costituzioni, cioè i decreti di applicazione della legge fondamentale costituita dalle Regole approvate da Benedetto XIV. Avendo le assemblee precedenti preso alcune decisioni, era indispensabile una loro

 

- 690 -

 

compilazione organica, quale testo base per il lavoro del capitolo. Il P. Cafaro, che ne aveva ricevuto l’incarico nel 1752 per la riunione del 1755 22, era morto nel 1753 e il fondatore, poco propenso a moltiplicare i testi in una congregazione che aveva conservato lo slancio dell’osservanza fervorosamente vissuta sotto una legge non scritta, non gli aveva dato un successore; del resto egli stesso, dopo l’assemblea del 1747, aveva operato tagli profondi nei testi di Falcoia, prima di presentarli al re e poi a Spinelli e alla Santa Sede. Aborriva la prolissità, come la minuziosità. Rimase celebre l’aneddoto del P. Alessandro Di Meo, che, assorbito dalle sue ricerche storiche, dimenticò un giorno l’esame particolare e il pasto di mezzogiorno, alla seconda tavola Alfonso ne fu avvertito e, chiamato un fratello, gli disse:

- Per favore, portate una tazza di cioccolata a Don Alessandro, che è in biblioteca con i morti 23.

Un “osservante” per il fondatore era un Redentorista tutto per il Signore e il suo lavoro, però voleva anche una organizzazione precisa che canalizzasse le “ stelle vaganti ” e occupasse i pigri.

Alfonso, per raccogliere, ordinare e mettere in forma i decreti sparsi delle assemblee precedenti, aveva pensato alla bella penna di chi era incaricato proprio di iniziare i giovani agli usi e costumi dell’Istituto, il maestro dei novizi Antonio Tannoia, al quale aveva ingiunto l’11 maggio 1756, preoccupato da un nascente lasciarsi andare:

“Prima di tutto vi prego, subito e sempre che potete, date di mano alle Costituzioni; perché bisogna farle leggere per le case, e le case poco ne sanno, ed alcuno dice che non è obbligato a quelle, perché non sono pubblicate. Sbrigatele subito che potete coll’assistenza del P. Ferrara, come si ordinò dal Capitolo (del 1755). E conservate con tutta la diligenza gli originali per confrontarli, se mai vi cade difficoltà24.

Si trattava di una compilazione che Alfonso avrebbe condensato in dieci pagine. Tannoia invece, prolisso e meticoloso come testimoniano spesso felicemente i 3 volumi delle sue memorie Della Vita et Istituto del... Liguori, non finì prima del 1764 e, anziché limitarsi a ordinare le usanze e le decisioni precedenti, le di lui in più di 200 pagine in-4, spesso più da trattato morale o spirituale, che codificarono un nugolo di dettagli, certo “inconfrontabili con gli originali”. Liguori, legislatore stringato e preoccupato dell’essenziale, non dovette essere molto entusiasta di questa massa di prescrizioni e di commenti, ma, proprio perché giurista di formazione, aveva un totale rispetto delle assemblee generali, come aveva mostrato nel 1743 e nel 1747, raccogliendo e ordinando testi falcoiani che certo non amava.

Il 3 settembre 1764 dunque, dopo la messa dello Spirito Santo cantata dal P. Villani, il capitolo si aprì giuridicamente sotto la pre-

 

- 691 -


sidenza di monsignore. Nel pomeriggio, non si sa chi sollevò un problema inatteso: i consultori generali, rimasti in carica al momento della consacrazione episcopale di Alfonso, erano “legittimi” per sedere di diritto in capitolo? L’assemblea rispose che era cosa evidente e quindi non bisognosa di essere messa ai voti. Era vero, tuttavia si era aperta la strada ai sospetti e alle audacie. L’indomani si volle vedere il documento pontificio del 1762 che aveva conservato rettore maggiore il novello vescovo di S. Agata; prodotto, “letto e riletto d’ognuno”, fu inserito negli Atti del capitolo e l’“opposizione” all’unanimità riconobbe Mons. de Liguori quale vero e legittimo superiore dell’Istituto. Poi, sentendo odor di bruciato, i consultorivolontariamente ed anche per bene della comune pace e concordiapresentarono le dimissioni, ma furono rieletti tutti al primo scrutinio con maggioranza superiore ai tre quarti, tranne i due sostituti del defunto Margotta: Stefano Liguori quale consultore e Lorenzo D’Antonio quale procuratore generale. Giuridicamente e apparentemente i problemi preliminari erano chiusi l’assemblea poteva passare all’ordine del giorno, anche se lampi avevano solcato un cielo a prima vista sereno. Il capitolo, annunziatosi burrascoso, lo fu di fatto?

Ci troviamo qui dinanzi a un enigma tanto più paradossale perché il capitolo lasciò degli atti - ma limitati ai soli fatti giuridici - e vide la partecipazione dei due storiografi della congregazione, Giuseppe Landi quale rettore di Ciorani e Antonio Tannoia quale delegato di Agrigento.

Quest’ultimo si sbrigherà dell’avvenimento con 8 righe e 4 errori: contraddicendo gli Atti, che sarebbe stato sufficiente leggere, sposta l’apertura dell’assemblea alla fine di settembre; ne limita la durata a un mese invece delle sei settimane; afferma che Alfonso ne fu l’anima, mentre fu assente per ben due terzi dei lavori, non alcun dettaglio, benché abitualmente tanto prolisso, di questa benedizione globale: “Tutto sortì con consolazione, e soddisfazione di tutto il Corpo”.

Il nostro buon Tannoia perderà per questo la sua riputazione di storico? Sarebbe ingiusto, perché implicato nei fatti come compilatore di uno schema che suscitò molte più contestazioni di quante egli non si sognava di dire. Inoltre scrivendo nel 1800 quando la maggior parte dei protagonisti era ancora in vita (Cimino era vescovo di Oria e De Paola superiore regionale), non voleva sparlare di nessuno né screditare l’Istituto agli occhi del grande pubblico.

Ma che dicono gli Atti? Mancò un capitolare il 18 settembre per l’elezione di un supplente e il 15 ottobre per la chiusura dei lavori, in quest’ultima occasione l’assente fu lo stesso fondatore, dal momento che la sua presenza non viene menzionata in nessuna parte e gli Atti sono firmati da Villani come “Presidente sostituto” del rettore maggiore.

 

- 692 -


Se su di essi figura anche la firma di Alfonso, lo si deve al fatto che gli furono portati più tardi a S. Agata o ad Arienzo per la conferma 25.

 

Aveva infatti lasciato il capitolo ritornando in diocesi a metà settembre, come testimoniano un rescritto e cinque lettere datate da Arienzo e firmate di proprio pugno, dal 19 settembre al 9 ottobre 26. Per quanto incredibile possa sembrare, bisogna concluderne che il rettore maggiore fu assente dal capitolo almeno dal 16 settembre fino al termine, cioè un intero mese. I fatti sono i fatti.

Resta da chiedere la chiave dell’enigma alla Storia del P. Landi, scritta quasi 20 anni più tardi (1782) senza intenzione di pubblicazione. Nel manoscritto si legge:

“Quando si credeva che il detto capitolo dovesse riuscire con pace e quiete comune, e si dovessero stabilire cose di bene e vantaggio della Congregazione, tanto più che c’era l’assistenza d’un vescovo Mons. Liguori, che n’era anche il rettore maggiore e superiore generale, allora più che mai si videro tutte le cose mutate, e molti Padri avevano diversi sentimenti, se bene in qualche parte fondati... E vero che si lessero le Regole, si fecero molte Costituzioni nuove, e si diedero altri Regolamenti, ma sempre con disturbi, tanto che Monsignore nostro non ci volle più assistere negli ultimi giorni del detto capitolo - Landi non osa dire che era stato assente almeno dal 16 ottobre, mentre conferma l’assenza" negli ultimi giorni” . Poi continua: - e ci lasciò un altro in luogo suo; e so benissimo che il medesimo partì assai disgustato da Nocera dei Pagani, e disse che vivendo lui non avrebbe fatto più capitoli generali; come infatti s’è verificato - (almeno fino al 1782, data in cui Landi scriveva) - ... Si finì finalmente detto capitolo generale alli 15 ottobre dello stesso anno 1764, si firmarono tutti i vocali sotto gli atti del capitolo ”, tranne beninteso Alfonso, del quale lo stesso Landi ha sottolineato l’assenza “negli ultimi giorni27 .

Si può accusare Landi di esagerazione solo se non si pesa adeguatamente il fatto enorme di un fondatore che abbandonava il timone dell’assemblea, mentre veniva redatto per la prima volta il corpo delle costituzioni del suo Istituto, per ritirarsi in diocesi. Per quale impelIente necessità? “Terminare le visite pastorali a Durazzano e Forchiadice Telleria. Ma la visita in qualche villaggio non era paragonabile con la posta in gioco di Nocera, soprattutto per un fondatore e per di più non si trattava di anno dispari, in cui il vescovo vedeva il settore di Durazzano, visitato poi nel giugno 1765. Impossibile anche appellarsi al dovere della residenza, perché, mantenendolo rettore maggiore, il papa gli riconosceva l’obbligo di dividersi tra la sua Chiesa e il suo Istituto e del resto, per quanto scrupoloso su questo punto, Alfonso

 

- 693 -


non si era fatto un caso di coscienza nell’estate 1763 il passare due mesi di convalescenza a Pagani.

Tannoia inoltre si tradì facendo precedere le 8 righe dedicate a questa assemblea da una riflessione che non avrebbe avuto verità storica se non in seguito a questo burrascoso capitolo:

“Le unioni da lui furono sempre temute, e per quanto poteva non mancava impedire che vi fosse. Chi fuori di Capitolo, diceva, non sa che dire, e non merita essere inteso, in Capitolo diventa Salomone, e con una palla nera rovinar può mezzo mondo.

In realtà questo capitolo del 1764 codificò le costituzioni redentoriste, caratterizzate di regionalismo napoletano, che avrebbero retto una congregazione ben presto mondiale per i 200 anni della sua esistenza .

Non facciamo qui la storia né di questa assemblea né dell’Istituto, resta pero che per AlfonsoPagani 1764” fu personalmente non solo un episodio drammatico, ma manifestazione e allargamento delle prime scissioni, che avrebbero poi provocato la rottura degli anni 1780. Era una conseguenza della sua “partenza” per S. Agata nel 1762? Clemente XIII, Villani e gli altri non si erano resi conto che non si può servire a due padroni, anche se si trattava di Alfonso de Liguori. E questo spiacevole dualismo sarebbe continuato, dal momento che il 25 settembre, in pieno capitolo, il vescovo scriveva da Arienzo a Villani:

“Il Papa mi ha scritto, che io non pensi a lasciare la Diocesi e vuole che quando sto ammalato, la governi dal letto; e che questo li basta”.

 

Clemente XIII aveva un buon servizio di informazione, ma la sua risposta, invece di tranquillizzare il vescovo di S. Agata, ne accrebbe le inquietudini: conservare il suo ufficio malgrado la declinante salute? Espose le sue perplessità al suo direttore il febbraio 1765.

“D. Andrea mio, io voglio star quieto di coscienza...

Io sto certo che, tre anni sono, Dio mi ha voluto vescovo; ora, per liberarmene, ho da stare ancor certo (moralmente parlando) che Dio non mi voglia più vescovo...

È vero che son vecchio, mentre a settembre venturo compisco 69 anni; è vero anche la mala salute, specialmente per li catarri che nel verno mi assaltano; ma, con tutto ciò mi pare che non manco di niente all’officio mio, circa gli esami de’ confessori e degli ordinandi, così circa la scienza, come circa i costumi; anzi circa la scienza fo soverchio assai più degli altri. Circa poi gli scandali, non ne lascio alcuno di perseguitarlo sino alla fine, senza riguardo. In quanto alle provviste, non

 

- 694 -


preferisco se non chi ha maggior merito, anche ne’ benefici semplici; e perciò mi fo più nemici che amici. È vero che nel verno non posso usciregirare, ma poi non lascio nell’estate di girar la diocesi per quattro o cinque mesi. Nel verno non esco; ma sbrigo i negozi, gli esami e le lettere segrete, perché la testa mi sta sempre bene. Scrivere non posso molto, ma nelle cose segrete mi servo di Francesco Antonio, di cui non ho timore ”.

Questo non significa che non avesse piena fiducia in Verzella, ma il segretario conosceva i destinatari delle lettere.

Aggiungo: conosco per altro che quest’aria di S. Agata in verità, nel verno, è perniciosa per me, sì per il paese che è così umido, sì per questa casa che è mal situata. Ma per rimediare a ciò penserei, se ho da restare nell’anno venturo, di stare nel verno in Arienzo, a S. Maria a Vico, luogo più caldo ed asciutto.

Vorrei scappare da tante angustie di coscienza e da tanti contrasti e dissapori; ma mi sento dire: Si diliges me, pasce oves meas, e non importa che ci muori e crepi. E questa perplessità, se fo la volontà di Dio o no, rinunziando, mi è un’angustia maggiore dell’altra”28.

Questo il suo bilancio, fatto in coscienza e per essere tenuto segreto, tranne che per pochi uomini di fiducia che Villani avrebbe dovuto consultare. La risposta, pesata e discussa, fu un franco “ sì ” per il diritto a presentare le dimissioni, anche perché il vescovo era quasi in fin di vita, come emerge dalla sua lettera del 3 aprile a Remondini:

V. S. Ill.ma mi dimanda della mia salute in primo luogo, e le rispondo che appunto poco tempo fa ho passata una gran tempesta col mio solito male di petto; mentre se una gran febbre, che ho avuta, non avesse sciolto un eccesso di umori antichi fatto nel petto, a quest’ora forse starei nell’altro mondo. Ma grazie a Dio, ho espurgato l’eccesso ed ora già sto senza febbre e fuori di letto, benché ancora sto esinanito29 .

Alla sua lettera di rinunzia il Santo Padre rispose il 18 giugno che “può e potrà senza meno operarvi col solo suo credito, direzione ed esempio, quando anche maggiore si rendesse l’infermità ”. Doveva quindi deporre non il suo ufficio, pastorale, ma piuttosto ogni scrupolo di attendervi ancora, perché tale era la “certissima sua vocazione30 . “Mi basta la sua ombra, diceva Clemente XIII, per essere di giovamento a tutta la Diocesi”.

 

Il suo rapporto triennale 31 dell’8 luglio 1765 confermerà le autorità romane nella convinzione dell’efficacia di questa “ ombra ” sul punto di sparire.

Aveva creato, non senza opposizioni da parte dell’arciprete, una

 

- 695 -


seconda parrocchia in fondo al borgo di Frasso, un’altra nella città e due nella montagna di S. Agata per villaggi troppo distanti. A S. Maria a Vico aveva sostituito la piccola e vetusta chiesa di S. Nicola con un grande edificio proporzionato alla popolazione. Alfonso non accennava però alla bella diceria che si era diffusa tra la gente: “ Monsignore costruisce tanto grande, perché vorrebbe poter predicare nello stesso tempo a metà mondo ”, né all’ardore con il quale aveva spinto e seguito I lavori e il loro finanziamento: i padri Oblati, che hanno sostituito i Domenicani a S. Maria a Vico, conservano un grosso registro di conti con “ Bene. Vistoscritto di proprio pugno e firmato da parte a parte.

Aveva già profuso 500 luigi d’oro nella costruzione del seminario e 70 seminaristi interni, accuratamente selezionati, abitavano ancora in un’ala del suo palazzo. Ora stava adattando il conservatorio di S. Maria di Costantinopoli per accogliere le sue care monache di Scala approvate da Roma nel 1750 con il titolo del SS. Redentore, “cosa in verità aspettata con ansia da tutto il popolo, cosicché, appena possibile come si spera con l’aiuto di Dio, saranno accolte da tutti con altrettanta gioia e ardore”. Con due compagne, suor Maria Raffaella della Carità entrerà solennemente in S. Agata esultante domenica 29 giugno dell’anno seguente.

Che diceva ancora il vescovo? “Abusi, deviazioni e pratiche superstiziose sono sconosciute nella città e nella diocesi e se capita che qualcuno vi si dedica è più per ignoranza e semplicità, ma si interviene gli abusi vengono eliminati ”.

Questa la luce, ma non mancavano le ombre:

“Vi sono ancora in tutta l’estensione della diocesi innumerevoli confraternite erette soprattutto sotto il nome di santi, che è inutile enumerare in dettaglio. Essendo quasi tutte sotto la protezione reale, pur sottomettendosi alla visita pastorale, fanno poco conto per il resto dell’autorità dell’Ordinario e forti delle pretese regie a stento possono essere contenute nella dovuta disciplina. Tuttavia non ho mancato di resistere loro frontalmente quando è stato necessario ”.

Il clero invece era molto docile, ma lasciava desiderare quanto a costumi e soprattutto a scienza teologica e morale, però, grazie ai ritiri, alle accademie e alle conferenze settimanali di morale e di liturgia, progrediva in integrità, pietà e sapere. Alfonso ricordava che il governo regalista proibiva ai vescovi qualsiasi promulgazione di leggi sinodali, per questo non aveva creato alcuna officialità dottrinalecelebrato sinodo. A questo stato di cose si adattava senza drammi, perché vedeva dovunque rivivere il popolo di Dio con le missioni, lo zelo dei parroci, lo spirito di preghiera e di orazione della “vita

 

- 696 -


divota” e i catechismi dove perfino “ i ragazzi vengono formati all’orazione mentale”.

Il vescovo univa visite e missioni, come aveva fatto nella periferia napoletana per il cardinale Spinelli:

“Ogni anno con il mio vicario generale faccio anche la visita pastorale in metà della mia diocesi e, secondo il desiderio del concilio di Trento, ripeto questa santa visita prima che siano terminati i due anni, non omettendo far chiamare e invitare in aiuto del ministero pastorale operai della mia congregazione, i missionari del SS. Redentore, che già più volte hanno molto coltivato la pietà nella città e soprattutto nella diocesi maggiormente ricca di docilità di costumi”.

 

Il ritratto pastorale del vescovo di S. Agata deve essere completato con alcune pennellate realistiche, tratte dai consigli che scriverà il 12 marzo 1772 a Mons. Carlo Pergamo, novello vescovo di Gaeta:

Colle religiose? “Si armi di pazienza; e stia forte a non concedere cose nuove che possono portare abuso... Il prendere il vescovo ad avere monache penitenti non so sia spediente. A’ monasteri di monache, quanto più si usa di confidenza, più se ne pigliano...”.

Gli ordinandi? “Non ordinare se non quelli che vengono al seminario” e tenere gli occhi dieci volte aperti: “ Certi seminaristi fanno le gatte morte, e quando escono poi ordinati, fanno mala riuscita... e quando qualcuno ha fatto qualche difetto notabile, ancorché in sacris, vi bisogna la sperienza di molti anni; e con tutta la esperienza te la fanno, come è succeduto a me.

In quanto all’esame, vi bisogna tutto il rigore; perché, se non studiano prima del sacerdozio, appresso non vedono più libri. Io non approvo sacerdoti, se non sanno tutta la Morale...

Per quelli poi che hanno da prendere la confessione, vi bisogna un esame lungo e serio: ché nella sua diocesi troverà molti confessori ignoranti: bisogna esaminarli da capo, ancorché fossero parrochi. Stia attento specialmente a’ monaci che vogliono la confessione; perché i monaci non studiano Morale. A tutti i quaresimalisti che vengono alla mia diocesi, io non do la confessione senza esame; né mi fanno specie tutte le pagelle che portano degli altri vescovi, che sogliono dar la confessione a’ predicatori ad occhi”.

La prima pastorale però è la parola di Dio e la parola di Dio annunziata dal vescovo:

“Non occorre raccomandarle le missioni, mentre so quanto V. S. Ill.ma le stima. Il maggior bene che può fare un vescovo alla sua diocesi è di non farle mancare le missioni ogni tre anni. Quello che in ciò la prego di procurare, quando vengono i missionari, è di pregarli a

 

- 697 -


far le missioni per ogni paese, piccolo che sia. L’uso delle Congregazioni e di fare la missione in un paese di mezzo, sperando che vi vengono tutti i paesi d’intorno: speranza falsa! Ci verranno alcuni divoti; ma quelli che son pieni di peccati e che pesano, non ci vengono, e quel paese resta senza missione: perché la missione serve per quelli che stanno imbrogliati di coscienza. Io, nella mia diocesi, ho fatto fare le missioni a tutti i paesi, anche di 200 anime.

Le raccomando poi a non isparambiarsi di predicare di persona a tutti i paesi della diocesi. La voce del Pastore fa altro profitto che la voce degli altri... Procuri di fare ella la predica grande in tutti i paesi, almeno più grandi, e se non può avere missionari, si porti i confessori della diocesi, che siano di altri paesi. Specialmente può fare ciò quando fa la Visita. Non lasci almeno di fare un triduo di prediche in ogni paese.

È bene ancora che ella faccia gli esercizi formali ai cleri più grandi della diocesi, e nelle Visite almeno i tridui32.

 

Ahimè ! quando tracciava queste righe, Mons . de Liguori non poteva più da cinque anni effettuare personalmente la visita pastorale nella sua diocesi, dopo averne fatto due volte il giro completo nel 1763-1764 e nel 1765-1766. Trascorso quest’ultimo inverno (ottobre 1765 - maggio 1766) nel clima più dolce del suo piccolo palazzo di Arienzo attiguo alla collegiale di S. Andrea, ritornò a S. Agata nei quattro mesi estivi per le visite della zona nord; poi fu di nuovo ad Arienzo per l’inverno 1766-1767... o meglio - lo sapeva? - per il resto del suo episcopato. In maggio e giugno 1767 presiedette ancora alle visite nei settori di Arienzo e di Airola, ma non ce la fece ad andare fino a Valle: erano finiti per lui i giri pastorali, per i quali da quel momento il suo uomo di fiducia, Don Nicola Rubini, andrà solo con la stessa regolarità, mentre il vescovo si contenterà nel 1769 1771, e 1773 di scendere i pochi metri che lo separavano dalla collegiale di Arienzo, vicino alla quale era confinato, per aprirvi la santa visita.

 

Bisogna rimpiangere questa progressiva clausura che, sempre più d’anno in anno, incatenò il vescovo di S. Agata al suo tavolo di lavoro, dinanzi al crocifisso e all’immagine della Madonna del Buon Consiglio, tra l’altare della messa e la sedia di paglia dove accoglieva chiunque volesse parlargli? La penna renderà il suo pensiero e il suo cuore presenti a tutta la diocesi, anche se non aveva aspettato d’essere immobilizzato per consacrare molto tempo allo scrivere pensando ai suoi preti e, per essi, ai suoi fedeli.

 

- 698 -


Nel 1766 pubblicò in beneficio, diceva, del suo clero una grossa raccolta di meditazioni intitolata Via della salute, un capolavoro che esploderà al di della sua diocesi: apparso nel 1766 a Bassano e a Napoli, stampato 4 volte in meno di due anni, 7 durante la vita dell’autore, 35 in Italia dopo la sua morte, raggiungerà le 639 edizioni in 44 lingue, di cui 301 in francese.

La prima parte dell’opera comprendeva 97 meditazioni in tre punti brevi e incisivi sulle verità eterne: Alfonso piantava solidi pali di fondazione sui quali fissare la leggerezza umana. Queste massime di saggezza sempre attuali sanno di Pascal con in più il mistero di Gesù e la dolcezza della Vergine Maria. Basterà leggerne pochi frammenti:

Stimano gli uomini un gran negozio il vincere una lite, l’ottenere un posto, l’acquistare un podere. Ma non merita nome di grande ogni cosa, che col tempo finisce. Tutti i beni di questa terra un giorno han da finire per noi: o noi lasceremo essi o essi lasceranno noi. Solo dunque dee chiamarsi grande quel negozio, che importa una felicità o infelicità eterna”.

“ Se patisce danno una casa, che non si fa per presto ripararla? Se si perde una gemma, che non si fa per ritrovarla? Si perde l’anima, si perde la grazia di Dio, e si dorme e si ride?”.

“Dunque non v’è cosa più preziosa del tempo; ma come poi dagli uomini non v’è cosa più disprezzata del tempo? Quegli si trattiene cinque o sei ore a giocare, quell’altro se ne sta ad una finestra o in mezzo ad una via per molto tempo a guardare chi passa; se dimandate loro che fanno? rispondono che ne fanno passare il tempo. O tempo disprezzato, tu sarai la cosa più desiderata da costoro in morte. Quanto pagherebbero una sola ora di tanto tempo perduto!”.

“Com’è possibile credere un Dio che vuol essere schiaffeggiato, flagellato, coronato di spine, e finalmente morire per nostro amore e non amarlo? San Francesco d’Assisi andava piangendo per la campagna, in pensare all’ingratitudine degli uomini: L’Amore non è amato, l’Amore non è amato! ”.

Gesù è mediatore di giustizia, Maria è mediatrice di grazia.... Iddio vuole che per mano di Maria si dispensino a noi tutte le grazie, ch’egli vuol farci. Le preghiere de’ santi presso Dio son preghiere di amici, ma le preghiere di Maria son preghiere di madre. Beati coloro che con confidenza ricorrono sempre a questa divina Madre!”33 .

Sempre con paragrafi efficaci e indimenticabili, la seconda parte della Via della salute percorreva le tappe dell’anno liturgico: Avvento e tempo di Natale Quaresima e Passione di Gesù Cristo, Pasqua e novena dello Spirito Santo, Eucaristia, feste della Vergine e di alcuni santi La terza e la quarta parte sviluppavano un “regolamento di vita

 

- 699 -


d’un cristiano”, sacerdote o laico, e 38 “saette di fuoco” sull’amore per noi del Signore.

“Quel mio libro chiamato la Via della salute, scriveva Alfonso a Remondini il 14 settembre 1767, che già le mandai nell’anno scorso, in Napoli i librari già l’han tornato a ristampare.

Quello, a mio parere, è un libro utilissimo ad ogni stato di persone, a preti, a monache ed a’ secolari; ed io continuamente me ne servo per me stesso, e continuamente lo tengo avanti”34 .

Santificatore dei suoi sacerdoti e dei suoi fedeli, il vescovo è il primo catechista della diocesi, l’abbiamo detto, e Liguori, che nella linea di Vincenzo de’ Paoli dava pari importanza nelle missioni all’istruzione e alla predica grande, pubblicava nel 1767 la “Istruzione al popolo sovra i Precetti del Decalogo per bene osservarli e sovra i Sagramenti per ben riceverli per uso de’ parochi e missionari e di tutti gli ecclesiastici che s’impiegano ad insegnare la dottrina cristiana”. Rispecchiava il più autentico Liguori: condensato, semplice, preciso, sostanziale; l’introduzione pedagogica ci trasmette ancora oggi l’esperienza del grande missionario. Remondini ne fu tanto entusiasta che ne volle per l’esportazione una traduzione latina, apparsa nel 1768 a Bassano e due anni dopo a Vienna.

Veramente un tale vescovo, per quanto ammalato e spesso quasi moribondo - ricevette due volte l’estrema unzione nell’inverno 1766-1767 - , non poteva abbandonare la sua diocesi: era il parere di tutti da Clemente XIII fino al domestico Alessio Pollio. Quest’ultimo un giorno del 1767 scoprì una lettera di rinunzia non datata, preparata da monsignore per il Santo Padre, nascosta nell’armadio dove teneva i suoi strumenti di penitenza. Alessio la lesse e: “No, monsignore, si disse, non ci dovete abbandonare!”. La fece sparire, conservandola come una preziosa reliquia, per poi esibirla, tutto fiero, al processo di beatificazione 35 .

Un buon servitore della Chiesa, Alessio Pollio, e non solo della Chiesa di S. Agata dei Goti!...

 

- 700 -


 

 

 

 





p. 680
1 TANNOIA, II, pp. 74-75. Per le pagine seguenti riguardanti le visite pastorali mi fondo

principalmente su TANNOIA, II, pp. 56-75 e sui resoconti manoscritti AVS, Santa Visita, voll. 22 e

21 (sic), rilegati senza tener conto della cronologia e impaginati fantasiosamente, per cui seguo

l’impaginazione corretta a matita fatta forse dal prof. Eugenio Massa, che ne aveva progettato la

pubblicazione, mancano alcune pagine, alcuni resoconti sono interamente persi o omessi (Airola

1763, Arienzo 1765, s. agata 1766), quello di Frasso è stato pubblicato in SH 15 (1967), pp. 197-

207; cf. anche SH 9 (1961) pp. 396-400, 521-524. una sintesi dei due volumi è in Summarium

additionale, n. 3, pp. 2-7.



p. 681
2 AVS, Santa Visita, 22, foll. 511, 467, 443 per il 1763; foll. 387, 297, 395, 249 per il 1764;

cf. S. ALFONSO, Lettere, I, p. 451.



p. 682
3 Questo questionario è in SH 9 (1961), pp. 521-524.



p. 683
4 Decreti originali in AVS, Santa Visita, 22, foll. 357-370.



5 Opere, Marietti, III, p. 873.



p. 684
6 SH 10 (1962), p. 14



7 AGR, SAM, 9a, pp. 115-152 (vi sono numerose pagine bianche numerate) e 163-179, cf. a p. 141

la parola Esame. Sono gli schizzi dei due questionari pubblicati nel 1764.



8 SH 9 (1961), p. 397 (95, 96); TANNOIA, II, p. 65.



p. 685
9 Lettere, III, p. 179.



10 GALANTI, op. cit., I, pp. 362-363; B. CROCE, I teatri di Napoli, Bari 1947, pp. 258-263;

TANNOIA, II, pp. 321-322.



11 TANNOIA, II p. 171; cf. pp. 286-293.



p. 686
12 Cf. Ibid.. pp. 293-297; SH 9 (1961). pp. 382-383; BERRUTI, op. cit., pp. 240-241,



13 Riflessioni utili ai vescovi: Opere, Marietti, III, p. 870.



p. 687
14 Lettere, I, p. 536



15 TANNOIA, II, p. 175.



16 Ibid., p. 424.



p. 688
17 SH 9 (1961), pp. 312-313, 522, n. 48; Cf. Dizionario delle Leggi, IV, pp. 210-211.



18 Lettere, I, pp. 541-542, 475, 497, 519; II, pp. 7, 140; cf. DELILLE, op cit., pp. 164-165;

TANNOIA, II, pp. 306-314; SH 12 (1964), p. 266.



19 Lettere, III, pp. 555, 654, 665.



p. 689
20 TANNOIA, II, pp. 101-102; per il capitolo generale del 1764 cf. LANDI, op. cit., II, pp. 254-

260; DILGSKRON, II, pp. 159-160; TELLERIA, II, pp. 240-246; SH 1 (1953), pp. 122-168; Acta

integra Capitulorum generalium, pp. 27-47 (solo sugli avvenimenti giuridici).



21 Lettere, I, p. 540.



p. 690
22 CAFARO, Epistolae, p. 57



23 L’episodio mi è stato narrato, a 15 anni di distanza, da due storici di professione, i padri Louis

Vereecke e Francesco Chiovaro.



24 Lettere, I, pp. 336-357.



p. 692
25 Così KUNTZ, VII p. 222; TELLERIA, II, p. 245.



26 Cf. Lettere, III, pp. 218-223; TANNOIA, II, pp. 101-102 (Tannoia, citando questa lettera del 25

Settembre a Villani, non poteva far iniziare prima il capitolo); SH 9 (1961), pp. 231 e 513, n. 40.



27 L’originale degli Atti è andato perduto; delle 24 copie che possediamo la più antica - ufficiale - è

quella del notaio Antonio Grossi, terminata l’8 ottobre 1765, conservata a Pagani.



p. 694
28 Lettere, I, pp. 556-558; cf. TANNOIA, II, pp. 133-138.



29 Lettere, III, p. 242.



30 SH 9 (1961), pp. 367-368; la lettera di dimissione data da TANNOIA a p. 136 è dell’inverno

1766-1767; CF. Lettere, I, p. 621.



31 Lettere, III, pp. 602-622.



p. 697
32 Ibid., pp. 650-652.



p. 698
33 Opere ascetiche, X, pp. 7, 48, 38, 46-47, 26-27.



p. 699
34 Lettere, III, p. 308; cf. TANNOIA, II, p. 211.



35 Lettere, I, p. 621; SH 9 (1961), pp. 325-329; 10 (1962), p. 262.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License