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Parte Quarta “IO SONO IL BUON PASTORE” (1762-1775) 43 - VESCOVO PER LA CHIESA UNIVERSALE (1762-1774) |
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43 - VESCOVO PER LA CHIESA UNIVERSALE
Nel monastero napoletano di S. Marcellino, che prevedeva due categorie di benedettine - le viventi in comune e le eremite - , suor Brianna Carafa, per essere autorizzata a passare tra le seconde, si credeva assalita da tentazioni degne di S. Antonio Abate nel deserto egiziano, dicendo di vedere e ascoltare - figuratevi - fantasmi che potevano ben essere dei demoni. Il 28 aprile 1767 da Arienzo, dove ormai risiedeva, il vescovo di S. Agata dettava per lei queste righe:
“Si rida poi dei monacelli, ecc. Ancorché fosse vero, i demoni non possono farci alcun male senza la permissione di Dio... ma credo certo che non è vero... Onde se ne rida: ché non vedrà e non sentirà mai niente; e poi chi ama Gesù Cristo, non ha paura di niente; e per dar gusto a Gesù Cristo soffre ogni cosa allegramente - (la sottolineatura è di Alfonso) - ... mi faccia raccomandare a Gesù Cristo dalle Romite per lo stato in cui mi trovo, e per il buon passaggio se piace a Dio: mi faccia questa carità” (la vigilia aveva ricevuto il viatico e l’olio santo)1.
Alfonso non aveva paura della morte, pur sfiorandola spesso; dettando questa lettera con la morte tra i denti, rideva e invitava a ridere. L’iconografia, che per altro lo tradirà sadicamente rappresentandolo soprattutto ottuagenario, contorto dall’artrosi, avrà almeno la sensibilità di non raffigurarlo mai con una testa di morto sul tavolo, come allora era di moda per i santi personaggi, ma con il Crocifisso e la Madonna. “Chi ama Gesù Cristo, non ha paura di niente” e ride dinanzi alla morte, dinanzi alla sua, dinanzi a quella degli altri. Giudicate voi.
Appena ne fu in grado, venne condotto dal giovane vescovo di Caserta che, ammalato, desiderava vederlo da mesi. All’arrivo di Alfonso il confratello teatino che lo assisteva disse a Mons. Albertini senza conoscenza:
- Mons. de Liguori è venuto a trovarvi.
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- Oh consolazione! disse il malato, aprendo gli occhi e baciando la mano del visitatore.
Alfonso, posta su un tavolo tra due ceri accesi l’immagine della Madonna che aveva portato con sé, in ginocchio, incominciò le litanie della santa Vergine insieme ai presenti, poi continuò a pregare da solo in silenzio. Nel frattempo quattro o cinque medici, tra i quali Vivenzio Serao e Francesco Dolce ed altri venuti da Napoli, s’erano riuniti a consulto in un vano vicino. Confrontate le diagnosi, concordarono su prospettive ottimistiche: il paziente aveva solo 52 anni e la malattia non era mortale. Il vescovo di S. Agata, uscito della sua preghiera, invece di benedire Dio della guarigione certa che gli veniva annunziata, sorridendo delle assicurazioni, si avvicinò al confratello:
- Monsignore, gli disse, preparatevi per l’eternità, perché non siete più di questo mondo, né vi fate lusingare da’ medici.
Poi mettendogli la sua Madonna tra le mani:
- Raccomandatevi a Maria.
- Non bisogna affaticarvi, perché Monsignore è morto.
E, recatosi in cappella, celebrò la messa votiva per i moribondi. Mons. Albertini peggiorò infatti rapidamente e morì nella notte 2 .
Mons. de Liguori, che contava quasi 20 anni di più, ritornato in diocesi, scrisse a Villani: “In quanto alla mia infermità, dopo tanti rimedi, sto dello stesso modo e forse più tormentato di prima dal dolore della sciatica. Onde i medici non hanno quasi più che pensare e perciò ho risoluto di lasciar fare a Dio, ed abbracciarmi il mio dolore per quanto Dio vuole. Tra giorni andrò a Sant’Agata per fare ivi la Visita e quella di Durazzano”3.
Ma non vi andrà, perché costretto a letto per 19 giorni dal suo fedele “catarro di petto” 4 , non vi andrà mai più e sarà sostituito d’ora in poi da Rubini nell’ispezione delle sagrestie e delle volte, perché imprigionato dal Signore nella sua camera o quasi, dal momento che andrà molto più lontano...
Sa di paradosso il fatto che Clemente XIII, che gli aveva ingiunto tre anni prima di governare la diocesi dal letto, gli scrisse il 4 agosto 1767 in risposta alla dedica del suo libro sulle Verità della fede: “Ti amiamo moltissimo, venerabile fratello, perché per nulla contento di essere utile alla tua Chiesa, non sopporti che vadano sciupate anche le briciole di tempo che restano ai tuoi impegni pastorali, ma le consumi tutte in simili lavori, la cui utilità non viene circoscritta nei confini della tua diocesi, ma si estende alla Chiesa universale”5.
Era veramente un prete, un vescovo, che non aveva aspettato il Vaticano II per prendere coscienza effettiva del fatto che per la sua ordinazione por-
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tava con Pietro e gli altri apostoli la preoccupazione per tutte le Chiese (2 Cor. 11, 28).
Questa gli aveva ispirato le Riflessioni utili ai vescovi, perché il missionario che anni prima aveva guardato verso la Cina, verso il Capo di Buona Speranza, non aveva mai chiuso le sue “ imposte ” e il suo cuore batteva di tutto ciò che palpitava nella Chiesa, per il suo bene e per il suo male. Il deismo franco-inglese, L’illuminismo austriaco, L’episcopalismo tedesco, il materialismo europeo, il giansenismo... “cattolico” (nel senso che allora parlava liberamente dovunque e dovunque faceva tacere i Gesuiti) si trovarono di fronte un vescovo vigile, rapido e preciso nelle risposte, inaccessibile all’usura.
Suo primo impegno ecclesiale era la grande Teologia morale da portare sempre avanti sul crinale tra lassismo e rigorismo. Dopo le due prime edizioni del 1748 e del 1753-1755, se ne succedettero altre cinque presso Remondini a Venezia, dal 1757 al 1772, incessantemente rimesse in cantiere e aumentate con nuove istruzioni, dissertazioni e apologie, perché “chi scrive di Morale, per quanto si tenga nella via di mezzo, ha d’avere contraddittori”6.
Fonte di queste contraddizioni era soprattutto il fatto che aveva costruito l’immensa sua opera intorno alla Medulla di Busembaum, uno di quei Gesuiti, che l’ostilità di Ordini in concorrenza, la gelosia del clero secolare, l’odio dei giansenisti e la coalizione familiare dei Borboni metteva allora alla berlina, perché non venivano loro perdonate l’influenza sui potenti, la presa sulla gioventù, L’azione in favore degli oppressi e la benignità in morale. Di qui per Alfonso un gravissimo problema, esposto il 12 giugno 1763 al suo editore-stampatore:
“Essendo che il nome di Busembaum si è renduto odioso quasi per tutto il mondo, ed io per la mia disgrazia mi ritrovo aver preso a commentare questo benedetto autore che, quando è nominato, fa orrore come fosse nominato Lutero: pertanto hanno pensato i miei compagni della Congregazione di togliere dalla mia Morale il testo di Busembaum, e fare che la Morale sia tutta mia... Quanto mi pento di aver preso a commentar Busembaum! Ma chi potea presagire la tempesta che dovea esservi contra il povero Busembaum?”.
Stava quindi per far scomparire questo autore dal titolo e dal corpo dell’opera: “ Io per altro non mi fiderei al presente di farlo solo; ma spero di farla coll’aiuto dÈ compagni... tra giorni mi manderò a chiamare due Padri della mia Congregazione, ed aggiusteremo tutto.. tolto Busembaum da mezzo, L’Opera mia avrebbe assai maggiore smaltimento ”, argomento irresistibile per ogni editore!
Il lavoro fu intrapreso dall’autore in forzato riposo a Nocera in agosto-settembre 1763, ma dovette ben presto dichiarare forfait:
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“ Io, per ristabilirmi dalla mia grave infermità patita, sono venuto qui a Nocera, dove ho fatto dar principio a componere la Teologia morale da capo, con togliervi Busembaum. Ma, come ho cominciato a vedere, per componere tutta l’Opera così e dargli nuovo ordine, com’è necessario... non vi bastano né sei mesi, né un anno. Si tratta che, quantunque vi ho tenuto impiegati tre Padri per più settimane, ed anch’io, benché infermo, vi ho faticato, ancora abbiamo da finire il solo trattato della Coscienza; e per finirlo non vi basteranno 20 altri giorni.
Da ciò fo il conto che, per componere e metter in ordine tutti gli altri trattati, dÈ quali ve ne sono molti assai più lunghi di quello della Coscienza, appena basteranno due altri anni...
All’incontro io son vecchio, di mala salute, e tengo sovra il vescovado che non mi dà tempo di respirare. Ora ho fatto qui qualche cosa, perché sto fuori del vescovado. Sicché il potervi mandare io l’Opera, compita e fatta veramente a mio genio, mi pare impossibile”.
Era l’ora in cui tra le quinte si preparava a entrare in scena un sapiente moralista domenicano, Vincenzo Patuzzi (1700-1769), che, deciso a fare a pezzi il “lassismo”, accumulava 200 pagine contro la Breve dissertazione liguoriana del 1762. In essa, si ricorderà, Alfonso, finalmente in possesso del suo sistema morale, metteva a punto il suo “equiprobabilismo” con questa affermazione fondamentale: essendo l’uomo creato libero, una legge incerta non poteva indurre un’obbligazione certa.
Nascosto dietro uno pseudonimo, “il molto reverendo professore Adelfo Dositeo”, Patuzzi esaltava il sapiente autore del recente Trattato della regola prossima delle azioni umane (cioè se stesso) e, Pascal italiano, prendeva dall’alto i quattro fogli del vescovo di S. Agata che pretendevano porsi da contrappeso ai volumi massicci e invincibili dei rigoristi . Se ancora quelle pagine potevano stare insieme ! No, Liguori non Capiva né il problema, né le obiezioni; capiva almeno se stesso? Eppure era sicuro di sé! Certezza illusoria, monsignore, ignoranza colpevole, scandalo da riparare ritrattando, diversamente la geenna il cui verme non muore e il fuoco non si spegne!
La sua argomentazione? Prima dell’uomo v’era il Legislatore sovrano, quindi prima della nostra libertà la sua legge. Per questo in ogni dubbio tra legge e libertà, bisognava sempre andare sul più sicuro (tuziorismo) optando per la legge, altrimenti si accettava la possibilità di infrangerla . Orrore ! Ecco il peccato !
L’editore di Patuzzi era... Remondini. Gli editori non facevano del lassismo o del rigorismo, ma libri che si vendevano. Però, man mano che tirava le bozze di Patuzzi, lo stampatore ne inviava segretamente
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i fogli a Liguori, che così poteva pesare, accogliere o già respingere il suo assalitore.
“Io ho promesso, aveva detto con lealtà, di rivocarmi, anche per pubblica scrittura, subito che resterò persuaso della sentenza contraria.
Del resto, sopra questo punto io ho consultato molti uomini dotti e spassionati, e della stessa Religione del P. Patuzzi e P. Berti i quali, avendo letta senza passione la mia Dissertazione, mi han risposto che quel che io dico è chiaro, anzi che la mia non è opinione, ma dimostrazione; e più di un dotto, che prima era di sentenza contraria leggendo la mia Dissertazione, si è rivocato dicendo che non v’è che rispondere.
Quando taluno, per altro, vuole rispondere solamente per rispondere, non gli mancherà che dire, appigliandosi a certe cose non sostanziali. Ma io ho scritto, nella mia Dichiarazione..., che voglio esser capacitato nÈ punti sostanziali; altrimenti, certamente non posso rivocarmi in coscienza, e se bisogna, di nuovo risponderò
Io molto stimo il P. Patuzzi e P. Berti; perché sono uomini veramente dotti, ma solamente Iddio e la Chiesa sono infallibili.
Il dire poi che io ho scritto per passione o per seguitare i Gesuiti, è un caricarmi d’un errore troppo grande; in volere dire che io conosco la verità, e per non lasciare i Gesuiti o il mio impegno, sono ostinato a difendere una sentenza falsa.
Questa sentenza io la difendo: perché questa tengo doversi seguire in coscienza; e tengo che non istà in buona coscienza chi vuole obbligare i penitenti a seguitare l’opinione più tuta, quando il penitente ha confessati i suoi peccati ed all’incontro le opinioni sono ugualmente probabili. Ed a questi tali che tenessero la rigida sentenza, io non mi fiderei, senza scrupolo di coscienza, dar loro la facoltà di sentir le confessioni. E questa è la verità che confesso avanti a Dio. Del resto, dicano quel che vogliano...”.
Quanto essi dicevano era “debole”, anche La causa del probabilismo richiamata all’esame da Mons. D. Alfonso de Liguori (1764) e Alfonso, pur non allontanandosi da una cortesia punteggiata a volte da un sorriso arnaro, non lasciò loro il campo, essendo troppo connessa con il dibattito la salvezza delle anime. Alle calcagna, per dir così, di Patuzzi, ecco Alfonso con le sue 199 pagine dell’Apologia contro “un molto rev. P. Lettore, che si nomina Adelfo Dositeo” (1764); quest’ultimo rispose e Alfonso nel 1765 aggiunse all’Apologia un’Appendice, la cui parte più interessante è per noi oggi questa solenne affermazione:
“Dicano poi quel che vogliono, ch’io parlo per impegno, e per passione. Io non so, donde ha da venirmi questa passione. Io da questo mondo non posso sperare più niente. L’età così avanzata, e le in-
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fermità che di continuo mi assaltano, mi annunziano già vicina la morte; onde troppo grande sarebbe la mia pazzia, se forse per mendicare applausi da taluni, o per acquistar nome, io persistessi a sostenere questa mia sentenza. Quel che ho scritto, l’ho scritto perché così la sento avanti a Dio, che presto mi ha da giudicare; ed avrei scrupolo grave a dire il contrario”.
Il duello continuò con alcune scaramucce. Sempre nel 1765 Alfonso rifuse le tre ultime sue pubblicazioni in una sintesi “completa e strutturata” di 360 pagine, Dell’uso moderato dell’opinione probabile, preceduta da una dedica all’amico Clemente XIII. Era la formulazione definitiva, arricchita e rifinita dalla controversia, della sua posizione equiprobabilista del 1762: figlio e immagine di Dio l’uomo è libero; dinanzi a un’obbligazione dubbia rimane la sua libertà, perché certa; è tenuto solo a una volontà di Dio presentatagli dalla sua coscienza come notevolmente più probabile. In quest’ultimo punto, già del 1762, si era separato dai Gesuiti, probabilisti, ai quali i suoi avversari tentavano di assimilarlo, per farlo perdere, con loro, insieme al suo Istituto.
Ben presto in Sicilia un certo Diodato Targianni, consigliere del viceré di Palermo, accusò i Redentoristi di professare la morale gesuitica e di avere l’assoluzione troppo facile. In Portogallo cominciava la caccia alle streghe. Del 30 giugno 1768 questa lettera di Alfonso a Remondini:
“ Ho letto, agli Avvisi di Napoli, che in Portogallo si è data l’incombenza ad un ecclesiastico di proibire le Morali di dottrina corrotta .
Per queste Morali di dottrina corrotta, intenderanno tutte le Morali dÈ Gesuiti; ma non tutte le Morali dÈ Gesuiti, in verità, sono di dottrina corrotta. I libri del Cardinal di Lugo, di Suarez, di Laiman, di Lessio, di Castropalao ed altri simili non sono di dottrina corrotta...
Il mio sistema poi della Probabile non è quello dÈ Gesuiti; perché io riprovo il poter seguire la meno probabile conosciuta, come dicono Busembaum, La Croix e quasi tutti i Gesuiti, che ammettono la meno probabile.
Ho voluto scrivere ciò, affinché V. S. Ill.ma possa informarne altri, quando bisogna; tanto più che in Francia han bruciati tanti libri dÈ Gesuiti, ma non han bruciato il mio.
Chi mai poteva immaginarsi che i Gesuiti avessero da essere stimati dappertutto per assassini e ribelli! ”.
Ancora un anno e sarà la volta di Liguori: nell’autunno 1769 la sua Morale fu proibita in Portogallo: “Che voglio dire? L’ho intesa con molta pena, scrisse a Remondini, e specialmente per lo danno di
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V. S. Ill.ma. Ma che si ha da fare? Pazienza!”. Del resto la sua congregazione non vi si era ancora impiantata.
Tuttavia la febbre antigesuitica era borbonica e saliva, saliva...
La Compagnia era stata successivamente espulsa da tutti gli Stati dominati dai Borboni in Europa, in America e in Asia: aveva iniziato nel 1759, il Portogallo, che non aveva loro perdonato la difesa dei Guaranì, seguito dalla Francia nel 1764, poi dalla Spagna nel 1767. Ora Carlo III di Borbone regnava a Madrid e governava ancora le Due Sicilie per l’interposta persona di Tanucci, a meno che non fosse lo stesso reggente a suggerire al Re Cattolico le decisioni che poi questi credeva di prendere da se stesso. Si scrivevano tre volte la settimana ma questo non era più rassicurante, perché difficilmente si potrebbe immaginare fino a qual punto il fantasma gesuita angosciasse i giorni, le notti e le preghiere di Bernardo Tanucci, uomo pieno di contraddizioni, oblato della Compagnia, che si confessava a un gesuita e la cui moglie e figlia avevano un gesuita per confessore. Confidava il 20 aprile 1767 all’amico Luigi Viviani della Robbia:
“Beato chi può, come Ella ha fatto nei giorni Santi, ritirarsi dal mondo a Dio, unico bene, unico amico, sicuro rifugio, sola luce delle nostre menti. Del mio disprezzo della fortuna della mia noncuranza degli onori” (facile a dirsi, quando si ha tutto!) “Dio solo è stato il mio Maestro, il mio ardire, il mio riposo...”. Ma 14 righe dopo questi versi mistici ci portano al seguente mercuriale: “Li Gesuiti assassini della Corte di Roma, sediziosi, intriganti, corruttori della morale, e della Religione sono la peste delli Stati, e li pubblici predicatori di massime infernali contro le finanze dei Sovrani, contro la Regalia, contro l’Episcopato, contro l’Evangelio, sono stati conosciuti anche in Spagna dopo le forti opere del Portogallo, dopo le ricerche, e li giudizi della Francia”7.
Il successivo 20 novembre, caduta la notte, le truppe occuparono le residenze e le opere dell’Ordine di sant’Ignazio in tutto il Regno, imbarcando i religiosi nei porti più vicini.
Il P. Pietro Paolo Blasucci, superiore di Agrigento, in una Sicilia nella quale i poteri civili e religiosi erano nelle mani di rigoristi, vedendosi già espulso con i suoi confratelli per probabilismo lassista iniziò una lunga corrispondenza con Alfonso per indurlo a cambiare sistema, dichiarandosi franco probabiliorista e purificandosi da ogni residuo sentore di probabilismo gesuita. Per il rettore maggiore v’erano due campi: quello della verità teologica, dove ormai aveva una sua posizione che non avrebbe più cambiata; quello dei rapporti con uno Stato intollerabilmente incompetente in settori che non lo riguardavano e qui, avvocato e diplomatico, era disposto a concessioni verbali e a giocare i maligni fino ai confini dell’onestà. L’abbiamo visto al mo-
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mento dei passi con Mannarini per una fusione fittizia delle loro due congregazioni. Nel novembre 1768 scriveva perciò a Blasucci:
“Il principio che la legge dubbia non obbliga, per grazia di Dio, mi pare di averlo dimostrato con evidenza... Quando dunque vi è l’equiprobabile, la legge, come dubbia, non obbliga.
Questo punto, prima del mio libro (Dell’uso moderato dell’opinione probabile), non era chiarito, ma ora confessano tutti ch’è fatto chiaro come il sole, siccome potete vedere nelle lettere che ho stampate...
Che importa poi che alcuni letterati alla moda dicono il contrario? Questi non intendono dove sta il punto e parlano a caso. Il P. Patuzzi mi ha confermato nella mia sentenza, vedendo che ha fatte tante risposte, ma non ha risposto a tuono, come han confessato gli stessi amici suoi...”.
Questo per la verità teologica e pastorale. Ma Blasucci voleva, per non essere espulso dalla Sicilia, etichettarlo da probabiliorista? Andasse pure per il probabiliorista, dal momento che contava non l’etichetta ma il contenuto e del resto non era menzogna:
“La regola mia mi pare chiarissima e certa: Quando la sentenza per la legge è certamente probabiliore, dico che non può eseguirsi la meno probabile; onde io sono il vero probabiliorista, tuziorista no... E qui son contrario al sistema dÈ Gesuiti”.
Il 5 agosto 1772 Alfonso scriverà ancora a Blasucci:
“A Targianni affatto non gli scriverò; costui è uno di quelli (come mi scrisse un letterato di Lucca) che parlano contro la probabile, ma non intendono che viene a dire né probabile, né probabiliore, né probabilissima.
Seguitate a dire che io e tutti siamo probabilioristi, e questa è la verità: mentre io dico che la probabile non può seguitarsi come probabile; giacché, per operar bene, vi bisogna la certezza morale: onde la sola probabilità non dà bastante fondamento di operar bene.
Ciò, sebbene io non l’ho scritto con queste parole, nondimeno l’ho spiegato in altri termini...
È vero che in Girgenti, come mi scrivete, neppure ciò può dirsi, seguendosi costì la tuziore. Ipsi videant! Mi dispiace che le povere anime ci vanno per sotto. Oh Dio, che tempi miserabili!”.
Nel 1773 l’abate Magli, canonico di Martina Franca nel tarantino, rese secco il suo calamaio per avvelenare col suo fanatismo Alfonso e il suo Istituto. Villani ne temette la rovina della congregazione, mentre Alfonso, che giudicava il libello pieno di insostenibili stravaganze, ne paventava molto più quella delle anime e nel 1774 pubblicava una Dichiarazione del sistema.
“Io di nuovo mi dichiaro in questa breve operetta, ch’io non sono probabilista, né seguito il probabilismo, anzi lo riprovo (n. 1)...
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Allora equiprobabilista? Ultimamente non però per questa sentenza mi vedo posto da alcuni fra ‘l numero degli equiprobabilisti, chiamati libertini e licenziosi, che voglion vivere in libertà e senza legge, per seguire le loro passioni, e gli appettiti della carne e del vizio; e perciò son essi riputati quasi non dissimili a’ manichei, agli epicurei, hobbesiani, e spinozisti (n. 7)... No, altro è il libertinaggio... altro è la libertà permessa, che importa essere esente da qualche legge non ancor manifestata (n. 44)... Non so come potrà persuadermi a rivocar la mia sentenza, la quale... parmi che un solo argomento basta a renderla certa come una dimostrazione. L’argomento è questo:
1. La legge non abbastanza promulgata, non obbliga.
2. La legge dubbia non è abbastanza promulgata.
3. Dunque la legge dubbia non obbliga (n. 55) ”.
Era, tranne nelle parole, l’equiprobabilismo alfonsiano del 1762 8.
Povero canonico Magli! doveva essere del tutto all’oscuro delle opere apologetiche di Alfonso per collocarlo, insieme agli equiprobabilisti, tra i seguaci di Hobbes, Spinoza, Epicuro e altri. Da venti anni, nei suoi passaggi per Napoli, osservava con sofferenza la marea nera di libri empi che invadeva le bancarelle di Via S. Biagio dei Librai e già nel 1753 aveva scritto alla carmelitana Maria di Gesù: “Specialmente pregate per Napoli, dove si sente esservi molti atei che negano Dio”9.
Il popolo minuto delle campagne, massicciamente analfabeta, era più incline alla superstizione che all’incredulità e faceva dimenticare al padre i filosofi; ma nel febbraio 1756, nel corso di un soggiorno forzato nella capitale, il missionario dei contadini aveva brutalmente preso coscienza dei disastri crescenti operati della letteratura venuta d’oltralpe o d’oltremanica: dall’Inghilterra, dalla Germania, dall’Austria e soprattutto dalla Francia i libri anticristiani scendevano in Italia seminandovi naturalismo, materialismo, razionalismo ateismo e altri “ismi” che, diversi nella forma, in fondo erano sinonimi. Predicavano a gara lo slancio vitale della natura, l’esperienza e lo spirito umano riducendo il soprannaturale, come dice Malraux, a “una provincia dell’immaginario” Alfonso aveva vivamente messo in allarme il cardinale Sersale e come racconterà il P. Corsano con lui in quel soggiorno napoletano dopo una notte in bianco lo si era sentito ripetere: “Povero Napoli, povero Napoli io ti piango”; aveva poi tenuto un incontro con i principali parroci e confessori della città su questa invasione d’incredulità: “ Queste piante (i giovani) debbonsi coltivare. Il maggior bene, ed il maggior male della Città e delle Province, non dipende che dalla gioventù”10 .
Alla società cristiana del secolo XVIII, unanime nella fede per
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principio, sembrava inutile, contro gli increduli, la controversia, pure viva contro i protestanti: quale seminario, ad esempio, studiava e criticava nel 1750 autori recenti o contemporanei come Spinoza, Hobbes, Leibniz, Berkeley, Wolff, Rousseau, Voltaire e Montesquieu? Certo quello dei giovani Redentoristi di Pagani, per i quali il P. de Liguori aveva condensato, riguardo a questi filosofi, delle esposizioni precise, delle risposte chiare e brevi, delle dimostrazioni vigorose. Per non dettare i suoi corsi e al tempo stesso per la formazione permanente del clero, aveva stampato presso Pellecchia a Napoli nel 1756 la Breve dissertazione contra gli errori dÈ moderni increduli oggidì nominati materialisti e deisti, equilibrata ben presto da un opuscolo positivo, Evidenza della fede ossia verità della fede fatta evidente per i contrassegni della sua credibilità (1762): un piccolo trattato sulla “ vera religione ”, che, santa nella dottrina, aveva conquistato il mondo, stabile nei dogmi e annunziata dai profeti, era confermata dai miracoli e dalla testimonianza dei martiri.
Certamente erano apparse già le opere, ampie e care, di Grotius, Segneri senior, Merati, Magalotti, Moniglia, Concina, Genovesi, Gotti, Gerdil... spesso vere enciclopedie, anche se per un secolo di enciclopedisti. Ma chi leggeva questi in folio di sapienti, scritti per i sapienti? Con la sua incredibile capacità di lavoro, Alfonso ne estrasse il “ succo ”, leggendo anche in francese Bayle, Voltaire e forse altri e le loro confutazioni. Nel 1773, inviando al suo editore veneziano 69 pagine di Riflessioni sulla verità della divina rivelazione in risposta soprattutto a Voltaire, scriverà:
“(L’opuscolo) contra i deisti... mi costa sei mesi di fatica, ed ho scrutinati molti libri francesi ed italiani per comporlo, e mi pare che sia venuta una operetta molto plausibile per li tempi correnti”11
Lo stile, da lui stesso inventato e perfezionato da tempo, era proprio quello ripudiato da tutti i grandi spiriti, il cui scopo inconfessato, forse inconscio, era di brillare di fronte ai propri pari. Alfonso invece, fedele alla scelta della sua vita, precisava nell’introduzione alla Breve dissertazione del 1756 che il lettore “troverà le cose più sostanziali dicifrate in breve, ed in un modo il più facile con cui ho potuto spiegarmi, acciocché tutti m’intendano”.
Con il sopraggiungere dell’episcopato nel 1762, non si rinchiuderà nelle piccole frontiere diocesane, ma al contrario, cosciente della responsabilità universale di pastore e di dottore della fede, salirà sui merli della Chiesa per far fronte all’aggressione dell’incredulità. Scrisse anche ad alcuni librai di Napoli, per richiamarli al loro dovere, e il 16 agosto 1765 all’amico Don Giuseppe Pappacoda, principe di Centola e membro (anti-tanucciano) del Consiglio di Reggenza:
“Prego V. Ecc. ad avere la pazienza di leggere tutta questa mia.
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Qui non tratto di qualche mio interesse ma parlo dell’onor di Dio e della Fede.
È troppo grande la rovina che cagiona in Napoli quel libraio francese (Gravier), che abita alla strada di S. Chiara. Costui si fa venire continuamente libri da Francia, dove al presente si piange da per tutto da quei buoni prelati, per tanti libri infetti di ateismo che escono ivi alla giornata e senza ritegno. Egli poi li vende a tutti in Napoli.
Dalla città passa indi la peste di questi libri ad infestare tutte le nostre diocesi del Regno. E il male cresce di giorno in giorno, per lo spaccio continuo che si fa di tali opere. Tanto più che oggidì, in Napoli, corre la massima di non bisognarvi più licenza per leggere qualunque libro proibito. Ultimamente, come ho saputo, questo libraio si ha fatto venire una balla di questi libri impestati
Io di ciò ne feci supplicare in Napoli l’Em.mo Arcivescovo, ma altro non mi fu risposto che esso ancor ne piangeva.
Sig. principe mio veneratissimo, a questo male V. Ecc., colla sua autorità e zelo, può rimediare. Io ho voluto scrivere a V. Ecc., sapendo quanto è zelante ed ama l’onor di Dio. È vero che la Francia è la sorgente di questi libri, ma pure in Francia dalla Corte si fa ricerca di tali libri e si bruciano. Ma il libraio in Napoli liberamente li vende a tutta passata. Perché non si ha da mandare a rivedere da quando in quando la bottega e la casa di questo libraio, e trovando libri infetti, bruciarli con rigore?
Perdoni se parlo così; così mi fa parlare la rovina che vedo di tutto il nostro Regno nella Fede, per cagione di questi maledetti libri. Io non pretendo risposta di questa mia, ma spero che la pietà di V. Ecc. abbia da rimediare a questo gran male”12.
Se Mons. de Liguori aveva amici a corte, ne aveva anche Jean Gravier, grande diffusore delle opere di Giannone, al quale il re e il suo reggente erano inclini a perdonare che battesse moneta falsa riguardo all’ateismo. Certo per questo il cardinale Sersale, istruito dalle delusioni di Spinelli, si limitava a “ piangere ”, senza far altro. Non è sicuro che “Mossieu Gravier” ebbe noie, malgrado Alfonso, come scrive Tannoia “ più volte fatto aveva egli carico il Marchese D. Bernardo Tanucci primo Ministro della Maestà del Sovrano, del danno non poco, che risultava alle Anime, ed allo Stato, per l’intromissione che in questo Regno facevasi dei libri empj, e che mancato non aveva il savio e religioso Ministro darvi delle opportune provvidenze. Replicatamente, con rigorosissime pene, interdetto si vide l’introduzione di questi libri, e castigati i trasgressori, che osavano introdurli, e venderli ad ognuno”13.
Ma con quale competenza si faceva il vaglio e con quali criteri?
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Non certo con quelli del Liguori! E poi il contrabbando ha sempre avuto i suoi canali di attiva circolazione.
Al vescovo di S. Agata restava almeno il poter lottare contro gli increduli ad armi pari: penna e stampatori. Non cessava mai di stare all’ascolto, leggere, analizzare i veleni distillati da Collins, Toland, Tindall, Saint-Evremont, ecc. e il suo tavolo di caccia si arricchiva. Ai due opuscoli già pubblicati aggiunse capitoli su capitoli, che faceva spiegare e dettare ai suoi studenti dal P. Caputo 14.
Dettare? Era contro tutti i suoi principi: “Se il vostro corso vale più del manuale, stampatelo”. Lo fece nel 1767 aggiornando e raddoppiando i due piccoli trattati precedenti per farne il suo monumento completo di apologetica, Verità della fede: 1) fede in Dio e nell’immortalità, contro i materialisti, 2 ) fede cristiana contro i deisti; 3) fede cattolica contro i credenti non cristiani e i “riformati”. È molto moderno quando, in questa terza parte, mette insieme tutti i credenti non cattolici (giudei, musulmani, riformati) eredi della fede di Abramo; consacra anche tre capitoli per dimostrare la perpetuità nella Chiesa del ministero di Pietro e l’infallibilità del papa quando definisce un dogma ex cathedra, cioè in quanto voce della Chiesa infallibile .
Benché il libro, come egli stesso disse, gli fosse costato sudori di sangue, la duplice approvazione ecclesiastica e regia tardava ad arrivare. In tempo di regalismo cavilloso era quasi altrettanto malagevole scrivere un libro quanto ottenerne l’approvazione; così la corte, che s’era rifiutata di tagliare le ali a Jean Gravier, poteva tagliare da un capo all’altro le sue pagine. Scrisse a Remondini:
“La mia opera... sta a buon porto: resta da stampare la terza parte, per la quale temo di trovare qualche intoppo con questi miei revisori di Napoli; perché in fine vi sono due capitoli, ove difendo la superiorità del Papa sovra i concili e la sua infallibilità in tutte le definizioni di Fede; ma perché oggi, secondo la moda, corrono le massime francesi, temo da qualche amico del partito che non mi si faccia qualche contraddizione...
Tempi miserabili! Non possiamo neppure difendere forse l’autorità del nostro comun Padre e Vicario di Cristo. Ora faccia Dio”15.
Invece no, i due revisori abbondarono tanto più di elogi quanto più si erano fatti attendere e un breve caloroso di Clemente XIII rispose alla dedica che gliene era stata fatta.
Quattro anni prima un vescovo tedesco, Nikolaus von Hontheim, aveva pubblicato, con lo pseudonimo di Febronius, 5 volumi di un trattato subito celebre: De statu praesenti Ecclesiae, nei quali non si limitava a reagire a ragione contro il monarchismo romano per ritrovare la collegialità (il Vaticano II ci ha messo su questa strada), ma,
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spingendosi decisamente oltre, arrivava ad elevare i vescovi e i re al di sopra del papa. Un dolce per i regalisti! Tradotto dal latino in tedesco, in francese, in portoghese, in italiano servì abbondantemente “il complesso antiromano” dei giansenisti della penisola.
Ma qualcuno vegliava ad Arienzo. Con lo pseudonimo un po’ caustico di Honorius de Honoriis - perché il suo Istituto non fosse annientato da Tanucci - e in latino - per essere letto al di là delle Alpi - Alfonso gli “andò addosso” con le 161 pagine delle Vindiciae (1768), nelle quali senza invettive lo strapazzò con colpi decisi dal primo all’ultimo rigo. Ignoriamo il successo del piccolo libro, ma sappiamo che La supremazia del Pontefice romano vendicata dagli attacchi di Giustino Febronio fu senz’altro l’opuscolo maggiormente letto al concilio Vaticano I.
“Il Concilio” ai tempi di Alfonso era, da due secoli, quello di Trento, che di fronte alle contestazioni dei protestanti era stato costretto a riformulare quasi tutto il dogma cristiano. Ne esistevano due storie: quella di Pietro Soave (1619), pseudonimo di Paolo Sarpi (15521623), servita veneziano, teologo e canonista ufficiale, largamente stipendiato, della Serenissima, perciò antiromano, cattivo spirito, ma informatissimo; e quella del cardinale gesuita Pietro Sforza Pallavicini (1607-1667) in risposta alla precedente, costituita da due in folio apparsi nel i656 e 1657. Per Liguori la prima distillava un sottile veleno, la seconda era un oceano in cui si annegava, però era necessario far passare la dottrina di Trento nelle teste e nella vita dei sacerdoti e del popolo.
Si mise all’opera nel 1764, ma dovette ben presto sospendere per l’urgenza delle battaglie apologetiche dirette. Liquidato Febronio, ritornò all’Opera dommatica contra gli eretici pretesi riformati (1769), apologetica nel senso in cui lo era stato lo stesso concilio nei riguardi dei riformatori e nelle sue puntualizzazioni di Paolo Sarpi, ma soprattutto manuale di dommatica, accanto a quello di morale (Homo Apostolicus), costruito intorno alle definizioni conciliari.
Non si lasciò sfuggire l’occasione per rimettere in luce le due verità, allora tanto contestate dai giansenisti, che da sole assicuravano la fede e la speranza, aggiungendo due discussioni: una sull’infallibilità della Chiesa e l’altra sulla grazia e la preghiera. In quest’ultima, esposte e rifiutate sei teorie sulla grazia (tomista, molinista, ecc.) riaffermava la sua con la Scrittura, i Padri, i teologi e... il buon senso:
“Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1 Tim. 2, 4) “Se non si ammette questa grazia sufficiente, colla quale senza bisogno di altra grazia non comune a tutti, possa ognuno pregare e pregando ottener la grazia efficace ed osservar la legge, io non so intendere
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come possono i sacri oratori esortare i popoli a convertirsi quando ad alcuni fosse negata anche la grazia di pregare; perché i popoli potrebbero rispondere: Questo che dite a noi, dite a Dio che lo faccia esso mentre noi non abbiamo né la grazia immediata efficace di attualmente convertirci, né la grazia sufficiente mediata per mezzo della preghiera per ottenerla”16.
Era il Leitmotiv appassionato di Alfonso: “Tanti si dannano, mentre è tanto facile salvarsi... Pregate! Pregate! Pregate!”.
Ma dove questo vescovo in attività trovava il piacere di tanto comporre? Si spiegava il 13 marzo 1769 con il pio operaio Stefano Longobardi:
“ Io sto stampando un’opera molto utile, il Compendio dell’Istoria del Concilio di Trento del Cardinal Pallavicino, la quale è confusissima.
Già so che vi è un’altro compendio di ciò, del P. Morelli Camaldolese, ma quello pure è confuso; oltreché Pallavicino e Morelli parlano di tutti i fatti, anche temporali, avvenuti nel tempo del Concilio. Io parlo solamente delli punti dogmatici di Fede che furono definiti dal Concilio; onde il mio libro contiene una buona Dogmatica... Già se ne sono stampati molti fogli...
Io seguito co’ miei dolori a star confinato in letto, ma sto senza febbre e colla testa fresca, ed ora ho più tempo di fare qualche opera per la gloria di Dio e per bene della Chiesa, a beneficio della quale ora poco si stampa, ma solo in contrario per vederla abbattuta”17.
A quest’opera dommatica i censori (Don Giulio Selvaggi per l’arcivescovo e il canonico Giuseppe Simioli per il re) diedero un lasciapassare franco e pieno di lodi, confermato dalla Real Camera il 2 settembre 1769. La notizia arrivò anche alle orecchie di Tanucci, che, sebbene amico di Simioli, sapeva troppo bene l’influenza di Liguori per non temerla, anche perché... di questo Honorius de Honoriis, postosi a vindice del papa contro Febronio, si sarebbe dovuto in alto luogo porre il problema dell’identità. Qualcuno riuscì ad avere una copia, per inviarla al Nunzio, del dispaccio segreto del primo ministro al suo uomo di fiducia, il cavaliere Francesco Vargas Maciucca:
“Essendo Mons.r Liguoro troppo sospetto di attaccamento alla setta Gesuitica, e perciò sospetta qualunque sua opera di essere infetta di sentimenti erronei e contrari al vero spirito della Chiesa ed alla sovranità, vuole il Re che V. S. Ill.ma con riserva ed attenzione veda un libro da lui ultimamente composto sul Concilio di Trento... e riferisca col suo parere, procurando intanto con prudenza l’impedirne e sospenderne la pubblicazione e la vendita. Glielo prevengo nel Real nome per l’adempimento. - Procida 17 settembre 1769 - Bernardo Tanucci”18.
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La corte non ebbe niente da ridire sulla teologia del vescovo e il volume apparve nel 1769, dedicato al nuovo papa, il francescano Ganganelli, diventato Clemente XIV.
Stessa commedia sospettosa da parte di un potere ossessionato, contro i Sermoni compendiati per tutte le domeniche dell’anno: stampati nel marzo 1771, attesero 7 mesi l’autorizzazione, perché l’autore veniva accusato di allusioni offensive al governo.
“Bisogna cedere al vento, scrisse il padre a Remondini, quando è tempesta. Per fare uscire questo libro, ho rivoltato Napoli, ed ho fatto tante lettere e memoriali che potrei empire un volume”, aggiungendo nel poscritto: “Ora sto passando altri imbarazzi per lo libro della Storia dell’Eresie. Non vi è rimedio: chi stampa, bisogna che si armi di pazienza, se non vuol morire crepato”19.
Questa Storia delle eresie, intitolata anche Trionfo della Chiesa. apparirà in 3 volumi (complessivamente un migliaio di pagine) a Napoli presso Paci (1772), poi a Bassano presso Remondini (1773). Dal 1770 il padre si era impegnato a questa impresa da gigante, come aveva scritto il 20 aprile a Remondini:
“Verrà ella una cosa singolare fra tutte quelle che vi sono... Mi bisogna però tempo e sanità, perché la fatica è grande il leggere tanti libri che bisogna leggere, e specialmente tutti gli autori moderni di buon nome e critici.
Molti autori parlano delle eresie a lungo, ma in diversi luoghi, come Natale Alessandro, Fleury, Orsi, Hermant, Baronio, Pagi ecc... secondo il progresso che ha avuto ciascuna eresia in diversi secoli. L’intento mio e la fatica è di raccogliere in un solo capo tutto il principio ed il progresso di ciascuna eresia; e ciò non trovo alcuno autore che l’abbia fatto, se non gli autori di certi libretti, come Berti, Van-Ranst, Danes ecc., che appena toccano e passano; e per questo dico che l’opera mia sarà singolare, se arrivo a finirla, perché in questi tempi ho da scrivere con tutta la cautela, acciocché il libro non sia proibito. Ella già m’intende”.
Allora, abituato a prendere il toro per le corna, ma con l’agilità del torero, Alfonso dedicò la Storia delle eresie a... “Bernardo Tanucci, Cavaliere dell’Ordine reale di S. Gennaro, primo Segretario di Stato ecc. ”.
“Eccellenza, scriveva, dovendo far fuori questa mia Opera dell’Istoria dell’Eresie, non ho saputo a chi meglio dedicarla che a V. E., la quale stando sempre a lato del nostro Augustissimo principe, ha mai sempre col medesimo zelato per gl’interessi della nostra santa Religione contra i Miscredenti, e contra gli errori da’ medesimi in tanti loro libri vomitati.
Son noti da per tutto i pregi della E. S. non solo per la vasta
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cognizione che ha della vera Giurisprudenza, e del buon modo di governare gli Stati, come anche dell’erudizione di tutte le altre scienze che costituiscono un vero Letterato; ma più per la rettitudine colla quale finora ha sostenuta la sublime carica di Primo Ministro del Re nostro Signore, col non essere stato mai accettator di persone, e non essersi mai fatto trasportare o dal proprio interesse o da rispetti umani, e con altre prerogative che adornano la degnissima persona di V. E., e l’han renduta e renderanno meritevole di ogni lode presso tutte le nazioni presenti e future.
Soprattutto sarà di eterna memoria l’ammirabil zelo, con cui si è sempre regolato in aver continua cura, che si conservasse illibata la nostra sagrosanta Religione in questo Regno, e specialmente in questa Capitale, che vantasi del titolo di Fedelissima. Di ciò è una pruova la somma premura avuta da V. E. di far proibire con rigorosissime pene l’introduzione de’ libri infetti di errori contra la Fede, e nel far castigare i trasgressori di tali sante leggi con introdurre e vendere in questa Città tai pestiferi libri.
Tutti questi motivi (tralasciando gli altri per non esserle più di tedio e più offender la sua modestia) questi, dico, uniti alla venerazione che le professo, mi hanno spinto a dedicarle questo mio libro; sperando che V. E. si degnerà per sua bontà di accettare il mio ossequio con proteggere così l’Opera, come l’Autore contra coloro, i quali non sentendo bene della nostra Fede si armeranno per discreditarla.
E con ciò imploro a V. E. dal Signore molti anni di vita, colmi di beni spirituali e temporali in rimunerazione del suo merito e per bene e vantaggio di questo Regno ”.
Questa dedica, certo del tutto inattesa, è stata la felicità dei panegiristi di Tanucci, la gioia dei detrattori di Liguori (“vile opportunista”, “vecchio decatizzato”) e la croce dei suoi biografi. Eppure invece di uno scarto era tutta nella linea di Alfonso.
Liguori e Tanucci erano due uomini grandi e ognuno misurava l’altro nella sua vera taglia. Inoltre Tanucci venerava Alfonso come un santo, ma sapeva che un santo era “dannoso”, soprattutto se influente e l’influenza del vescovo di S. Agata era enorme.
Del resto Tanucci, che apparteneva a quella famiglia di regalisti e di anticurialisti dalla fede tanto viva quanto feroce l’anticlericalismo, non era per una secolarizazzione della società, meno ancora delle coscienze, ma reagiva all’imperialismo temporale della Chiesa, convinto che il potere regio avesse una missione divina su di essa. Era della categoria di quei cattolici sinceri (Nicola Caravita, Costantino Grimaldi, Nicola Capasso, Nicola Fraggianni, Antonio Genovesi), tra i quali era cresciuto e aveva intellettualmente “respirato” Alfonso, che, pur non approvandone l’assolutismo e gli oltraggi, li comprendeva
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intimamente, sapendo che la Chiesa aveva abusato e ancora abusava, mentre il suo regno non era di questo mondo. Con loro la voleva povera e al servizio, ma al tempo stesso avrebbe voluto loro più rispettosi dell’indipendenza spirituale della Chiesa, più “intelligenti”, capaci di inquietare monaci tranquilli che mangiavano bene per non far niente e di incoraggiare istituti efficaci che si estenuavano nella povertà.
Perciò non si felicitava con il Reggente per aver espulso i Gesuiti, taceva sui punti di disaccordo e non diceva niente di non vero, benché sotto la scorza di iperbole dovuta al genere letterario delle lettere dedicatorie.
Ma era proprio necessario dedicare un libro a Tanucci? e questo libro? E il nodo del problema. Alfonso, rimasto avvocato e scaltro, doveva vincere una causa: quella di un’opera dalle poche possibilità di grazia agli occhi del censore governativo, partigiano di Giansenio e di Quesnel, che vi erano molto malmenati. Astuto come un diavolo, Liguori gettava audacemente la sua opera nelle braccia del patrono dei censori, felicitandosi con lui soprattutto - metà della lettera - per aver combattuto i libri cattivi!
L’avvocato vinse la causa, perché, dopo qualche litigio, Simioli redasse il 2 aprile 1772 un parere favorevole condito con un pizzico di amaro, che Liguori non apprezzò per niente: l’autore si sarebbe servito “ non tanto di autori critici, ma di quelli dotti e pii ”.
“E lo stesso che dire, reagì Alfonso, che ho scritto quello che a caso ho trovato e che ho fatto di ogni erba fascio”, concludendo con il solito ritornello: “Non ci è rimedio: chi vuole stampare, bisogna che si apparecchi a crepare. Se io avessi stampato per la gloria mia, e non di Dio, mi sentirei disperato”.
Oggi leggiamo non senza un sorriso i nomi di questi fieri esaminatori, che sarebbero condannati all’oblio se non restassero uniti a quello di Alfonso de Liguori, dottore della Chiesa per la morale e la fede.
Ogni opera apologetica efficace dialoga con il suo tempo, per cui è datata e invecchia presto. Anche quella di Mons. de Liguori non sfugge a questa legge.
Facendo un bilancio dell’apologetica napoletana del secolo XVIII, Romeo De Maio sottolinea però questi tre punti: “Solo le dissertazioni di S. Alfonso entrarono nella circolazione apologetica europea; - (furono infatti edite e riedite in ognuna delle 5 grandi lingue dell’Europa occidentale) - colse un nodo essenziale: che il fascino filosofico del deismo inaridiva il sentimento cristiano”20 ; infine, gentiluomo nato, seppe evitare tratti “costanti negli altri apologeti”, quali “la boria patriottica cattolica, l’irrisione e l’ingiuria in luogo della ricerca e delle
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risposte, la denuncia della durezza di cuore e della malizia e delle cecità degli avversari”21.
Esempio tuttora attuale, come quello di una vigilanza episcopale a orizzonte del mondo intero e di una voce che né il potere, né l’età, ne la malattia - stavo per scrivere: né la morte - potevano trattenere dall’elevarsi per la misericordia e la verità.
205-206, 261, 333-334, 358, 343-344, 421-422, 459.
isolate, sembra ignorare il contesto storico nel quale si evolve la finezza di Alfonso e perfino la
sostanza delle sue spiegazioni. su questo dibattito, cf. DELERUE, op. cit., pp. 50-57; “Studia
Moralia”, 2 (1963), pp. 89-155; 3 (1964), pp. 82-101.
400; cf. SH 11 (1963), pp. 151-165.
MAIO, op. cit., pp. 83, 185, 208, 247-248 ecc.
“Apologétique”, coll. 211-214; Contributi, pp. 183-238. Le opere dommatiche sono state tradotte in
latino e pubblicate in edizione critica dal redentorista olandese A. WALTER, S. Alphonsi de
Liguori Opera dogmatica, 2 voll., in 40 insieme di 1500 pagine, Roma 1903.