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Parte Quarta “IO SONO IL BUON PASTORE” (1762-1775) 44 - “A ME FAN TREMARE PIU’ I DIFETTI DE’ NOSTRI FRATELLI, CHE TUTTE LE PERSECUZIONI” (1766-1775) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
44 - “A ME FAN TREMARE PIU’ I DIFETTI DE’ NOSTRI
FRATELLI, CHE TUTTE LE PERSECUZIONI”
Vedendolo traboccare di attività sui vari fronti della morale e dell’apologetica, abbiamo forse dimenticato che Mons. de Liguori era superiore generale di sei case dove vivevano, irradiando il Vangelo, circa 80 missionari? Solo 80 dopo 35 anni?...
Bisogna ricordare che per questo nostro mondo l’Istituto offriva due sole garanzie: la miseria per l’oggi e l’insicurezza per il domani, eppure numerose erano le entrate, ma anche i decessi e le partenze. Ah! quell’attacco sentimentale al nido familiare! E poi, malgrado il concordato del 1741, Carlo III e Tanucci, soprattutto dopo la Reggenza, rendevano la vita dura alla Chiesa delle Due Sicilie : confisca, alla loro morte, delle spoglie e dei beni mobili dei vescovi, abati e altri beneficiari, destinazione a lavori pubblici delle rendite dei vescovati vacanti; soppressione di 38 conventi; riduzione, poi abolizione delle decime ecclesiastiche, proibizione di ogni aumento della manomorta; limitazione degli ecclesiastici a 10 poi a 5 ogni cento abitanti, mettendo insieme secolari e religiosi, nessuna ammissione agli ordini senza patrimonio personale; infine l’incredibile disinvoltura che considerava nulla e non avvenuta nel Regno qualsiasi bolla o lettera del papa priva di exequatur regio.
Di fronte a tali misure, i ministri e i reggenti, tutti molto devoti, sentendosi in anticipo le anime rosolate dai carboni dell’inferno, ma sapendo allo stesso tempo che tutte queste disposizioni avevano l’assenso di Carlo III al quale non osavano opporsi, non fecero altro, per evitare insieme i fulmini reali e i fulmini papali o divini, che lasciare carta bianca a Tanucci, perché fosse il solo a mettersi in stato di peccato mortale 1.
Era perciò un miracolo che la congregazione di Liguori esistesse ancora, un miracolo dovuto soprattutto alla singolare venerazione di Tanucci e degli altri magistrati per lui, un miracolo che il fondatore sapeva sarebbe continuato finché non si fosse ricercato il numero a spese della qualità.
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“La Congregazione, aveva scritto il 27 agosto 1765 ai suoi figli, non ha bisogno di molti soggetti, ma di soggetti che vogliano farsi santi; e basta che ne restino dieci, i quali amino veramente Dio.
È troppa ingratitudine a Dio, che, mentre egli sta sollevando la Congregazione, noi lo paghiamo d’ingratitudine. E che, vogliamo diventare come tanti altri, che sono più presto di scandalo alla Chiesa che di edificazione?
Io ho ammonito il P. D. Andrea che egli nel suo governo è troppo debole e dolce, e perciò ho detto che delle cose più gravi voglio esserne io inteso. E prego ognuno ad avvisarmi degli sconcerti più gravi, quando ne avrà avvisato il P. Villani e vedrà che non vi si dà rimedio perché allora ben troverò io la strada di rimediarvi. Il Signore a questo fine mi mantiene ancora in vita” 2 .
Questi propositi di una circolare che sarebbe stata letta per primo dal Villani indicavano l’amicizia e la chiarezza delle relazioni tra il rettore maggiore e il suo vicario, ma al tempo stesso il lato debole di questo dualismo. “Casa a doppia porta, casa mal guardata” ha scritto Lopez de Vega e i frontalieri, delusi o delinquenti in un paese, devono fare solo due passi per trovare gioia o rifugio nell’altro.
Alfonso del resto lasciava a Don Andrea la più larga autonomia nel governo corrente, per cui rimandò a lui il fratello di un Redentorista ammalato:
“V. S. Ill.ma si ricorderà d’averle io scritto già l’altra volta che circa il governo della Congregazione e specialmente de’ soggetti, io non me ne intrigo; mentre sarebbe imprudenza la mia, governar da lontano in quelle cose di cui non vedo né so le circostanze... Si assicuri però che tra noi per gl’infermi si usa tutta l’attenzione, né si bada a spesa quando bisogna”.
La corrispondenza del vescovo testimonia questa discrezione: interveniva nel regolare le missioni solo quando si trattava della sua diocesi; oltre questo, diceva la sua parola nelle costruzioni nelle fondazioni, nelle ammissioni, nelle nomine dei superiori, nell’allontanamento dei colpevoli e nient’altro. Allora gli capitava d’essere più indulgente del buon Villani.
Quando il giovane P. Giuseppe Melchionna, nipote dell’eminente Ferrara, sbadato e testardo, si attardò a Napoli per affari di famiglia a lungo, al di là di ogni ragione, Villani gli inviò l’ordine esplicito di rientrare a Pagani. L’incosciente replicò con una lettera impertinente e il vicario esigette l’espulsione della pecora fuggiasca, mentre lo zio Ferrara perorò per essa. Alfonso guadagnò tempo con Villani: “ Voglio sapere che cosa dicono i Consultori...”, essendo suo “sentimento... che non conviene di scacciare chi veramente si umilia”; usò tenerezza e autorità con Melchionna: “Don Giuseppe mio, sento che ancora
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sta in Napoli: vi prego a non far più sacrilegi. Onde vi precetto per ubbidienza a ritirarvi in una delle nostre case... Io so che vi siete umiliato col P. Vicario. Vi prego di scrivergli un’altra lettera, seguitando ad umiliarvi e cercandogli pietà... ”. Villani si addolcì, esigendo non più l’espulsione ma solo un anno di noviziato. “È troppo!” protestò Ferrara e Alfonso: “Lasciate fare a me”:
“Don Girolamo mio, ho letto tutta la vostra. La prego ad aver pazienza, se non vede ora da me risoluta la cosa di fatto. Salviamo la capra e li cavoli.
Tenga segreto; non dubiti: non farò avere al P. Melchionna la penitenza dell’anno del noviziato. Ma, all’incontro, non posso disgustare D. Andrea in modo che s’avesse a licenziare dall’incombenza che tiene, con dire che io gli faccio far la figura di una mazza vestita...
Andiamo pigliando tempo, e poi sarà peso mio di minorare la penitenza, e ridurre la cosa ad equità.
Tenga il segreto, perché non vorrei che D. Andrea sapesse ora questo mio pensiero...
Penso che il P. Mazzini e Margotta anche staranno alti. Ma lasciamo fare a Dio, ché pigliando tempo, spero che tutto riuscirà con quiete”.
Per le cose importanti Alfonso tenne sempre la mano al timone, ma con tatto, pazienza e bontà, come in questo caso, nel quale il suo modo di fare e la sua intuizione salvarono un giovane un po’ acerbo per 40 anni di vita missionaria.
Ma prendeva tanto poco Villani per “una mazza vestita” che lo vediamo sottomettergli una circolare:
“V. R. Iegga questa lettera d’ordine che mando a tutte le case. Se le pare che va bene, V. R. ne faccia fare le copie e le mandi per le case. Se poi le pare di doversi levare o aggiungere qualche cosa, me lo scriva, che io dirò: Amen”.
Non era però un amen di abdicazione, come testimonia questo richiamo all’ordine:
“Io non ho inteso mai che V. R., nel fatto consaputo, sia andato con doppiezza verso di me, e che abbia pensato che la cosa era di mio disgusto; ma quello che mi è dispiaciuto è che si facciano simili cose di conseguenza, senza farmene parola. Ed ora, come vado sentendo, simili cose si son fatte più volte. Ora quel ch’è fatto è fatto; ma per l’avvenire bisogna andare con più cautela”.
Il padre certamente restava in corrispondenza con chi voleva scrivergli, particolarmente con i rettori, ma per inculcare uno spirito, non per decretare misure di competenza di Villani. Così consigliava il P. Caione, rettore di Caposele:
“Prego V. R. a governare con tutta la dolcezza. Dolcezza unita
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però colla fortezza di non soffrire i difetti, perché questi ci fanno più danno di tutte le persecuzioni; ma nel correggere, correggete sempre prima da solo a solo con tutta la carità, e trattate tutti con affabilità e cortesia. Ve lo raccomando quanto posso”.
Tuttavia le maggiori preoccupazioni del rettore maggiore non nascevano dai suoi figli, anche se alcune disubbidienze lo rendevano molto insofferente, ma dall’incredibile malvagità degli uomini. Il 12 ottobre 1766 inviava questa breve circolare:
“Ecco, miei cari Fratelli, che il Signore ci sta visitando con molte tribolazioni e timori per mezzo de’ nostri oppositori, i quali tendono a veder distrutta la Congregazione, e non sappiamo ove andremo a finire.
L’osservanza è tanto decaduta, e Dio ci castiga.
Speriamo nella divina misericordia, che non voglia permettere veder distrutta la Congregazione; ma procuriamo noi placarlo colle preghiere e con evitare i difetti, specialmente nell’ubbidienza, per li quali ci avremmo meritato ogni castigo.
Fra le altre cose, si è riflettuto che la Congregazione sta tribolata, dacché si è tolto il digiuno del sabato.
Pertanto procuriamo di guadagnarci il patrocinio di Maria, nella tempesta presente, con ripigliarsi in tutte le case il digiuno comune del sabato. La divina Madre penserà a salvarci da questa rovina universale, che ci viene minacciata da’ nostri malevoli
E con ciò abbraccio e benedico tutti in Gesù Cristo. - Fratello Alfonso Maria del SS. Redentore”.
Che stava succedendo? “I nostri oppositori tendono a veder distrutta la Congregazione”. Quali? Tanucci? Il segretario di Stato per gli affari esteri, la Casa del re, i palazzi e il demanio reale non amava alcun Istituto religioso, ma non era nemico dei missionari del SS. Redentore, come emerge dal seguente episodio, già antico, che concerneva precisamente la sovrintendenza del demanio regio.
Tra le dodici riserve di caccia, nelle quali scorazzava Carlo di Borbone, una delle principali era quella di Tremoleto, contigua ai terreni lasciati in legato dal canonico Casati ai Redentoristi di Deliceto. Era un cattivo vicinato per i religiosi, perché daini, caprioli e cinghiali di Sua Maestà devastavano “regalmente” le culture dei dintorni: i fratelli e i contadini zappavano e seminavano, la selvaggina del sovrano faceva il raccolto, togliendo letteralmente il pane di bocca ai proprietari e ai loro eventuali affittuari, tanto che nessuno più ormai voleva prendere terre così esposte . Nel luglio 1755 si erano dovuti trasferire in fretta i novizi a Pagani, perché a Deliceto morivano di fame; sarebbe stato necessario anche ritirare la comunità di
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fronte a questa ragion di Stato costituita dalla caccia di Sua Maestà? Come e con chi lamentarsi dell’onore di ingrassare la cacciagione del Palazzo? I missionari avevano taciuto per ben dieci anni, soffrendo la fame e la miseria, ma finalmente nel 1757 Alfonso aveva autorizzato il rettore a sporgere denunzia in alto e, dopo perizie, lo stato aveva finito per versare 470 ducati per i danni passati con l’impegno per l’avvenire di 25 ducati annui. Tanucci, per nulla innamorato dei monaci, aveva tentato di far rientrare questa “ restituzione ”, ma il padre ministro, Gerardo Gisone, s’era difeso così bene che... Alfonso quasi aveva sposato la causa di Tanucci! “Io per questi benedetti territori, scriveva il 27 febbraio 1759, non ci voglio restare con scrupolo... Basta, fatemi restare senza scrupolo”3.
Perciò i nemici dei Redentoristi non erano né i cinghiali, né i ministri di Sua Maestà, secondo anche l’informazione che il 5 aprile 1763 il rettore maggiore dava a Villani:
“Il P. Caione, essendo andato dal principe d’Ardore, parlando del dispaccio per Iliceto, gli disse d’aver servita la Congregazione, e che era di dovere e di giustizia quanto si era fatto, essendo bene informati i Signori della Reggenza del gran bene che la Congregazione facea nel Regno, ed anche in Sicilia (mi ha molto piaciuto il sapere che i Reggenti sanno già la nostra dimora in Sicilia); e soggiunse che tutta la Reggenza avea grande idea della Congregazione”4 .
Implacabile nemico era invece un ricco e importante personaggio, Don Francesco Antonio Maffei, amministratore generale di Don Mattia Miroballo, principe di Castellaneta, signore di Deliceto. Alla morte prematura del padre, Giuseppe Maffei, nel 1745, al momento delL’arrivo dei padri, l’amministrazione municipale era passata in mano allo zio, il canonico Antonio Maffei, che, temibile tiranno, aveva dettato legge al popolo, al clero, ai missionari, al vescovo, il santo Mons. Antonio Lucci, e perfino a Roma, e con il nipote Francesco Antonio non aveva perdonato a Liguori e ai suoi fratelli di non essersi schierati con lui contro il venerabile vescovo di Bovino 5. Il dramma si ripeté nel 1756 con quel nuovo tirannuccio locale, il nipote, che, inimicatasi tutta la popolazione, si vide accusato presso il re di diversi delitti. Alfonso ordinò ai padri di S. Maria della Consolazione, chiamati da entrambi i partiti a testimoniare contro l’altro, di mantenersi neutrali, stimando da una parte difficile difendere Maffei senza offendere la giustizia, dall’altra che “se abbiamo contrario Maffei, come scriveva, è finita quella casa”6.
Lo avranno contro. Maffei cominciò a privarli del diritto del legnatico, costringendoli a battere i denti l’inverno e a bruciare i banchi della chiesa per fare la cucina poi mobilitò contro di loro il clero locale, che interdisse la visita ai malati e la catechesi al popolo in
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parrocchia. Ingannato dall’accanito calunniatore, L’eccellente principe di Castellaneta, che precedentemente aveva chiesto di essere ammesso nell’Istituto, si schierò per il suo procuratore, giurando con lui la perdita della casa e della congregazione. Saranno venti anni di guerra. Contro i Redentoristi piovettero le accuse più fantasiose: draghisti di soldi, accaparratori di proprietà, costruttori di prestigio, spendaccioni scandalosi, sfruttatori sfrontati, fautori di rivoluzioni contro i signori... Sì, questi nuovi Gesuiti minacciavano la corona ! . . . A ondate le calunnie inondarono gli uffici e i tribunali della capitale 7.
Nel corso del 1766, il P. Tannoia fu ad Arienzo per esporre la nera situazione al rettore maggiore, che rimase come schiacciato, annientato. “Si umilia innanzi a Dio, e ne adora i suoi giusti giudizj... Il travaglio, mi disse, è più grande di quello che potete idearvi. Se si è dichiarato offeso, povera Casa! Ne so io l’indole, e quello vi passò Monsignor Lucci. Iddio sia quello, che ci voglia proteggere!”. Invitò tutte le comunità al digiuno e alla preghiera pubblica per la congregazione e anche per i suoi detrattori. “Silenzio, e carità insinuò per li contraddittori. Soprattutto che cosa attentata non si fosse, ancorché per difesa, contro di quelli; e che di altre armi non ci avvalissimo per difenderci, che orazione, ed osservanza, carità, e benevolenza verso i nemici ”.
Fortunatamente il segretario di Stato alla giustizia e agli affari ecclesiastici era, lo si ricorderà, il marchese Carlo De Marco, un giansenista antiromano come il canonico Simioli, ma sensibile ai valori evangelici vissuti e predicati da Alfonso e dai suoi missionari 8. Conoscendo l’ostiosità folle di Maffei e il fiele fatto bere a Mons. Lucci: “Non è contento, disse, aver travagliato quel servo di Dio, vuole affliggere anche questi ”. Perciò non si turbò per nulla restando alleato dei padri.
Cinque uomini di legge si diedero da fare contro di loro, con loro la giustizia e un grande avvocato, Gaetano Celano, che non dovette nemmeno arringare, perché un’inchiesta fece subito emergere che gli acquisti e le costruzioni degli “accaparratori” di Deliceto si riducevano a un fucile, un tino, qualche centinaio di viti e... cinque alveari, dal momento che le api, dopo i novizi, erano l’innocente amore del P. Tannoia 9. La Camera della Sommaria “soffocata” da tanto rumore per nulla, all’unanimità, con sentenza dei 1° gennaio 1767 rese alla comunità i diritti comuni a tutti i cittadini di Deliceto, col risultato che i padri e i fratelli potettero riscaldarsi e cucinare e Maffei e la sua muta rientrarono a coda bassa nella loro cuccia, giurando con più odio ancora che li avrebbero distrutti. Aggirando la Sommaria, il tirannello ricorse alla Real Camera, il tribunale supremo, facendo togliere ai padri l’amministrazione dei propri beni, per affidarla non
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a un procuratore scelto dal vescovo (sarebbe stato conforme al decreto regio del 1752), ma a un economo di sua scelta. Maffei poteva fare man bassa, dominarli e affamarli, mentre Alfonso scriveva: “Non lasciate l’Orazione, perché a Dio sta tutta la mia confidenza”.
Ci volevano certamente tutta la potenza e l’amore di Dio, perché Maffei aveva fatto lega con Sarnelli, altro nemico della congregazione, per sconvolgere insieme Deliceto, Ciorani e tutto l’Istituto.
Strano mistero delle famiglie! Il vecchio barone Angelo Sarnelli aveva dato il terreno per costruire il convento di Ciorani, il figlio sacerdote Andrea aveva lasciato in legato il suo patrimonio personale (il podere detto “la Vigna”) per farlo vivere, Gennaro era stato l’amico e il santo compagno di Alfonso, invece il primogenito Nicola d’accordo con l’altro fratello Domenico mormorava: “Lascia morire la Gnore, bene poi ce la vedremo coi Padri de’ Ciorani”10.
Malgrado le precauzioni giuridiche, prese e riprese dall’ex-avvocato de Liguori e da Don Andrea, alla morte di quest’ultimo nel 1755, Don Nicola scese in guerra, pretendendo il ritorno di tutti i beni “usurpati” dai padri.
Forte dei suoi diritti e nemico dei processi, che costano caro e generano odiosità, Alfonso propose un accomodamento amichevole: “Vi verseremo a rate annuali la somma di 1.000 ducati a condizione che rinunziate con atto legale a ogni pretesa sui beni della congregazione”. Sarnelli accettò, firmò, ricevette in quattro anni 800 ducati, ma all’ultima rata fece finta di ignorare la convenzione intentando un processo dinanzi alla Real Camera per rivendicare l’eredità paterna e fraterna. Questo colpo inatteso portò il fondatore a Napoli dopo la missione di Nola nel febbraio-marzo 1759. Una battaglia vitale, che sarebbe durata anch’essa venti anni, contro gli sforzi congiunti di Maffei e di Sarnelli, i quali, cumulando malignità e accuse, si facevano forti soprattutto dell’illegalità dell’Istituto.
Il 1766 sembrò portare l’occasione buona: crescendo la marea che avrebbe spazzato via i Gesuiti, sarebbe stato necessario un semplice colpo di spalle per gettarvi dentro i Redentoristi. Mentre Maffei e Sarnelli si apprestavano all’assalto decisivo, il fondatore rivolse ai suoi figli l’appello del 12 ottobre 1766: “ I nostri oppositori... tendono a veder distrutta la Congregazione... procuriamo di guadagnarci il patrocinio di Maria”.
Ben presto sarebbe iniziato l’anno 1767 e Ferdinando IV con i suoi sedici anni sarebbe giunto a maggiore età. Apparentemente però non cambiò nulla alla testa del paese, perché i quattro segretari di Stato conservarono i loro portafogli ministeriali; solo il Consiglio di Reggenza cambiò il nome in quello di Consiglio di Stato, ma con
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le stesse pedine, mosse dallo stesso giocatore, Bernardo Tanucci. Il re, buontempone muscoloso e cacciatore, non si interessava degli affari, ma, diventato il pezzo più importante sulla scacchiera, occorreva averlo in mano e Tanucci non dovette penare molto, facendo giocare più che mai l’autorità di Carlo III.
Il 2 aprile 1767, dopo il Portogallo e la Francia, Carlo III cacciava i Gesuiti da tutti i suoi Stati in Spagna e nel nuovo mondo.
“ Avrà saputa già V. R., scrisse Alfonso a Villani, L’infausta nuova de’ Gesuiti discacciati da tutti i Regni di Spagna. Ecco tanti poveri Indiani abbandonati!”11.
Sconvolto per i suoi amici, i Gesuiti, il padre pensava ancora di più agli abbandonati, santa ossessione della sua vita. Temette per le Due Sicilie e per il suo Istituto? Certo, ma la vita continuava e il 20 giugno, inviando al suo vicario una circolare con l’elenco dei nuovi rettori, lo pregava di dare loro alcuni avvisi:
“Che non spendano molto a comprare più libri di valore notabile: meglio è che pensino a meglio trattare i soggetti nel vitto... Che usino dolcezza co’ soggetti, e che li correggano in segreto, amichevolmente... Dolcezza e forza: perché quello, che senza causa speciale si concede ad uno difficilmente poi si negherà ad un altro, e così l’osservanza va a terra”.
Il fondatore scriveva: “senza causa speciale”, perché nel suo pensiero la Regola era fatta anche per essere dispensata in caso di necessità valutata da una coscienza matura. Essa esigeva anche in termini molto decisi che i sei consultori generali risiedessero nella stessa casa del rettore maggiore (cioè per il momento del suo vicario). Ma ecco la circolare del 20 giugno 1767:
“Cari Fratelli miei, avviso loro come per lo seguente triennio già si sono eletti i Rettori: cioè il P. Mazzini per Nocera, il P. Gaiano per Ciorani, il P. Caione per Caposele, il P. Liguori per Iliceto e il P. De Paola per S. Angelo. Vi sono quattro Consultori, ma è stata necessità elegger questi nelle presenti circostanze.
Fratelli miei, uniamoci con Gesù Cristo, perché né tempi presenti vi sono gran pericoli, per le persecuzioni che stiamo soffrendo. Vi bisogna la mano del Signore per farcene uscire senza danno della Congregazione; ma se non ci portiamo bene Gesù Cristo ci abbandona.
Pertanto vi raccomando lo studio del Crocifisso, e di conversare quanto meno si può colle persone che non sono della Congregazione; altrimenti perdiamo lo spirito e ‘l concetto.
Vi raccomando ancora di fuggire al sommo le case de’ parenti. Avete veduti tanti esempi freschi di quei soggetti che, per andare in casa de’ parenti, hanno perduta già la vocazione, e Dio sa dove andranno a parare.
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Ed in generale, vi raccomando l’amore della povertà e dell’umiltà, le quali virtù, come sento con mio dolore, sono scemate nella Congregazione.
Stiamo attenti, perché né tempi presenti stiamo in pericolo d’esser mandati alle case nostre, e questo sarebbe il maggior castigo che potremmo ricevere da Dio”.
La minaccia di dissoluzione era fin troppo seria, dal momento che, dopo gli altri possedimenti spagnoli, toccava ora alle Due Sicilie espellere i Gesuiti, con pieno accordo tra Tanucci e Carlo III. Maffei e Sarnelli, che spiavano questo momento per finirla anche con i “loro padri”, decisero di riaprire dinanzi alla Real Camera il processo perso presso la Sommaria. Soprattutto Maffei, che se ne faceva un punto d’onore, spese e fu prodigo di bustarelle e di calunnie.
Era quindi imminente il dibattimento dinanzi a quella suprema corte, di fronte alla quale il brillante avvocato de Liguori 45 anni prima aveva perso il processo della sua vita. Villani temeva che potesse perdere di nuovo - lui e il suo Istituto - soprattutto perché la difesa era stata presa di sorpresa: non si era potuto avvertire il ministro Carlo De Marco, non era ancora pronta l’arringa di Gaetano Celano... e il giudizio già fissato per sabato di passione, 11 aprile.
Villani, precipitatosi a Arienzo, mise al corrente Alfonso, che redasse un memoriale per Tanucci e De Marco accompagnato da lettere in cui li pregava di far rimandare il processo. Incaricò Don Felice Verzella di portarli immediatamente a Caserta, dove in quel momento si trovava la corte, perché si era appena in tempo, essendo il 10 aprile, la vigilia del dibattimento. Don Felice arrivò al palazzo quando le udienze erano già terminate, ma il primo ministro, che, pio, stava per recarsi in cappella, saputo dell’arrivo del segretario di Mons. de Liguori, in quattro e quattr’otto si fermò, lesse la lettera e...
- Dite a Monsignore, che si farà quello si conviene. Portate il memoriale al mio segretariato.
De Marco si informò sulla salute di monsignore, aprì lettera e memoriale e, saputo che doppioni erano già in mano a Tanucci, disse:
- Questo m’imbarazza.
Ma furono entrambi subito d’accordo, tanto che Verzella non era ancora di ritorno ad Arienzo, quando già De Marco aveva spedito alla Real Camera l’ordine di differire il processo e a monsignore un emissario a cavallo con questo messaggio: “Il processo è rimandato, sempre pronto per nuovi servizi”12.
Occorreva approfittare di questa tregua e Villani e i padri supplicarono Alfonso di recarsi di persona a Napoli: “Io non son partito, rispose, ma ho scritto d’un modo molto efficace al presidente.
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Se egli con questa lettera non mi favorisce, non mi favorirebbe con cento mie andate in Napoli”13.
Il presidente al quale aveva scritto era quello della Real Camera che altri non era che il suo vecchio amico e vicino di Via dei Tribunali, compagno delle appassionate partite a carte serali, il marchese Baldassarre Cito: dopo Dio non poteva avere amico più benevolo e meglio piazzato. Tuttavia, pressato da Villani e per non dare l’impressione di disinteressarsi della sorte dei suoi, malgrado la febbre e l’asma che lo avevano ripreso, partì accompagnato dal suo segretario a metà luglio, in carrozza presa in prestito dal suo diocesano Don Marcello Mazzone, per la capitale, lasciata a dorso d’asino un giorno di novembre del lontano 1732.
Doveva essere, pensava e i fatti gli daranno ragione, l’ultimo suo viaggio a Napoli.
Per il fratello vescovo, Ercole aveva fatto preparare una bella e nobile camera, ma Alfonso decise che era più adatta al suo segretario e, adducendo i suoi privilegi di ammalato, scelse per sé “un camerino non curato, e tale, che serviva per riposto di vecchie suppellettili” dove a sera ricevette il fiume di visitatori messi in moto dalla notizia del suo arrivo a Napoli: canonici e superiori religiosi, nobili e vescovi di passaggio, sacerdoti e religiosi, grandi dame e gente del popolo. I ricchi ne ripartirono edificati, i poveri si sentirono più a loro agio che tra i rivestimenti rococò e le poltrone di stile e i lazzaroni delle Cappelle serotine, venuti in gruppo, sedettero per terra, mancando le sedie, intorno a un Alfonso più felice che se avesse ricevuto il re 14.
La prima visita, nello stesso pomeriggio dell’arrivo (16 luglio) fu per il cardinale Sersale, che lo abbracciò e, dopo averlo trattenuto a lungo, gli disse: “Monsignore, avvaletevi di tutte le facoltà, come la Chiesa di Napoli fosse tutta vostra!”.
Le giornate presero subito un ritmo intenso, nel quale lo zelo andava prima degli affari: il mattino, messa, predicazione e direzione spirituale in qualche monastero (era disputato); il pomeriggio, passi per la congregazione; la sera, accoglienza dei visitatori fino a tardi frattanto partecipazione alla vita fervorosa della città in qualche chiesa. Lo si vedeva allora in ginocchio in mezzo al popolo, in un banco o sul pavimento, rifiutando inginocchiatoio, cuscino e posto di onore, perso in Dio e sordo a qualche vanitoso meravigliato della sua povertà e umiltà: “Ve’, che razza di Vescovo! Costui svergogna il proprio carattere!” o “Mannaggia li morti del Papa. Vedete, che razza di Vescovo!”. Vedeva almeno coloro che gli baciavano la mano e gli tagliavano un pezzetto della veste?
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Dedicò una mattinata al seminario, una al Collegio dei Cinesi, una ai missionari del P. Pavone che l’avevano eletto membro onorario, parlando con il cuore traboccante dello zelo, della predicazione apostolica, dell’amore di Gesù, della confidenza in Maria. Fu invitato nella maggior parte dei 41 monasteri che allora contava la capitale.
Ritornò più volte nel Conservatorio della Monaca di Legno. Questo nome strano era dovuto a una monaca che ne aveva scolpito le belle statue di legno? In ogni caso, nido di vipere o cesto di granchi, le monache, tra discordie e dispute arrivavano alle mani, percuotendosi come uno scultore il suo burino, senza alcun rispetto né per la superiora, né per il rettore Mons. Targianni (fratello di Diodato Targianni, il “probabiliorista” antigesuita di Palermo). Anche Don Giuseppe Iorio non era approdato a nulla e, disperato, d’accordo con il rettore, fece venire il vescovo di S. Agata: dove s’erano invano adoperati l’eloquenza di Iorio e l’autoritarismo di Targianni, riuscì la dolcezza di Alfonso, riportando pace e amicizia durevole tra le suore nemiche. Però la conversione più inattesa fu quella del... rettore, convinto che ii pugno lo dispensasse dal tatto. Mons. de Liguori lo a lavorò ” ancor più della comunità, riuscendo a fargli comprendere che unica autorità era quella dell’amore. Riconoscente, Targianni verrà una sera a ringraziarlo 15 .
Alfonso si recava volentieri nei monasteri delle nobili, altrettanto volentieri nelle comunità di gente comune, ma preferiva i conventi di pentite, come quello della Monaca di Legno, il Rifugio di S. Chiara o quello di S. Raffaele. Non accettò però alcun invito a ritornare, come quello delle suore di S. Giovannello, che fecero allora intervenire il P. Gennaro Fatigati.
- D. Gennaro, gli rispose scontento, io voglio bene a S. Giovanni, ma non a S. Giovannello. Mi hanno fatto perdere un’ora di tempo, ed io ci ho scrupolo.
Non considerava però perdita di tempo visitare i malati, perciò in ogni monastero fu felice di consolare le suore inferme, sempre accompagnato da un sacerdote.
Lo sapeva bene suor Maria Concetta Ronchi, costretta da lungo tempo a letto a S. Margheritella, della quale la badessa trasmise la preghiera a monsignore:
- Vi chiede con insistenza. Se accettate, chiederemo il permesso al cardinale.
- Non occorre la licenza, rispose Alfonso, dimani sarò a vederla, e celebrerò per la medesima.
L’indomani si recò direttamente in chiesa, vide senza sorpresa il corpo della defunta e celebrò per lei, perché la suora contro ogni aspettativa si era spenta nel corso della notte.
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Analogamente seminò altre parole, che testimoniavano uno sguardo ben diverso da quello dei suoi occhi ammalati, confermate poi dai fatti: “No, no, disse della duchessina di Bovino, non si mariterà: Iddio la distaccherà dal Mondo, e la prenderà per sé”, e alla principessina Zurlo che al contrario sognava solo la vita monastica: “ No non Si farà Monaca, ma ritornerà al mondo, e sarà buona secolare”. A S. Girolamo sua sorella Marianna de Liguori, scrupolosa all’eccesso Si intestardiva a disubbidire ai suoi direttori e “ Povera sorella mia voi pazza morirete ” le disse con tristezza l’uomo di Dio, senza purtroppo sbagliarsi.
Non tutto era gioia anche nelle seconde nozze di Don Ercole, che da lungo tempo in attesa di un erede aveva visto ben presto svanire le prime speranze materne della principessa di Pollica. Ma poi, delineatasi una nuova speranza, gli sposi si erano affrettati ad Arienzo per farla benedire:
- Fonso, prega che sia un maschio.
- Non sarà maschio, ma bambina, aveva risposto Alfonso dando a Donna Marianna un’immagine della Madonna, e voglio la chiamate Maria Teresa 16 .
Seconda prova per il focolare: la giovane donna, tormentata da gravi crisi di scrupoli, nell’autunno 1765 si portò con il marito in Airola per confidare le sue ansietà al cognato; Ercole, venuto invece per chiedergli che Maria Teresa potesse avere finalmente un fratellino, al momento di ripartire implorò:
- Fonso mio, benedici Donna Marianna perché mi dia un figlio.
E Alfonso questa volta, con un sorriso, disse al sacerdote Don Pietro Truppi:
- Vedete che mi chiede mio fratello! Che idea si fa dei miei poteri episcopali ?
Ercole insistette e il vescovo, benedicendo la cognata, aggiunse:
- State di buon animo, che di certo Iddio vi consolerà.
Consegnò due immagini di san Luigi Gonzaga alla futura madre, che nell’aprile 1766 diede alla luce una coppia di gemelli: Carlo Maria e Giuseppe Maria, che ebbero per colmo della felicità come padrino lo zio Alfonso, rappresentato al fonte battesimale di Marianella da Don Antonio Fusco.
Il 5 agosto 1767, in pieno soggiorno napoletano di Alfonso, venne al mondo un terzo figlio e lo zio, condotto a Marianella, gli diede il battesimo e il nome: Alfonso Maria.
La felicità sembrava sorridere pienamente nel focolare Liguori, ma purtroppo in questo mondo essa sorride sempre come il sole tra due nuvole. Dal 1766 la giovane madre conobbe periodi di depressione
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profonda, durante i quali dovette essere sorvegliata continuamente perché non si gettasse dalla finestra e due anni dopo sprofondò nella follia. Nell’autunno 1769 Ercole andò a fare provvista di coraggio presso il fratello ad Arienzo, portando con sé i quattro piccoli, spumeggianti di vita.
- Fonso mio, non sapresti distinguere i tuoi due figliocci: ecco Carlo ed ecco Giuseppe. Vedi come sono graziosi!
Il vecchio zio li guardò teneramente, poi grave si rivolse al padre:
- Se perdessi uno di questi, ti dispiacerebbe?
- Oh che dici? fece Ercole atterrito.
Monsignore abbozzò un sorriso senza aggiungere parola, però il 6 febbraio 1770 a Marianella fu necessario preparare per Carlo una piccola bara di raso bianco.
Schiacciato dal dolore, Ercole tornò solo ad Arienzo, cercando conforto dal fratello:
- Fonso, lo supplicò, non parlare, che quando parli, dirupi una casa.
- Non dubitare, rispose Alfonso, che questi che hai, tutti e due li vedrai grandi.
Cresceranno infatti insieme alla primogenita Teresina, accompagnati dalla preghiera e dalla sollecitudine dello zio, che comporrà un piccolo regolamento di pietà adatto alla loro età. “Avrebbe voluto, scriverà Tannoia, renderli impeccabili. Egli medesimo volle confirmarli, ed istruirli per questo Sagramento”.
Se Ercole considerava il fratello come un santo miracoloso, non era per orgoglio di famiglia: condivideva semplicemente la convinzione comune della città e del Regno. Ma per gli uomini di tutti i tempi niente è più grande della santità, per cui il mattino in cui Mons. de Liguori doveva presiedere alla vestizione di una giovane nobile nella chiesa del monastero di S. Maria dei Miracoli, accorse tutta la Napoli titolata. Entrarono vescovi, invitati, il nunzio, il cardinale... nessuno si mosse dal suo posto, solo alcune parrucche si inchinarono, ma quando apparve Alfonso, cadente, umile, barba irsuta, principi e cavalieri si precipitarono in massa a baciargli la mano.
Il canonico Mazzacara, superiore della Apostoliche Missioni, gli chiese la novena dell’Assunta per i confratelli e il clero, ma Alfonso rifiutò allegando come pretesto l’età, le malattie, le seccature del processo che aveva tra le mani e resistendo perfino alle istanze di Sua Eminenza che gli faceva presente il desiderio del clero. Allora il canonico Mazzacara tirò un altro registro:
- Monsignore, siete membro della nostra congregazione di cui io sono il superiore: vi ordino di ubbidire.
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- Non ho che dire, rispose Liguori abbassando la testa, ma già sapete, che qui non tengo né libri, né scritti, né tempo di potermi applicare, perché già sapete il motivo della mia venuta. Dovete contentarvi di quello che Iddio mi mette in bocca.
Se ci si contentò! Nella basilica di S. Restituta (in realtà una grande cappella laterale aperta sul fianco della cattedrale, dirimpetto alla cappella del Tesoro di S. Gennaro), dove si predicavano i ritiri e le novene al clero, accorsero nobili e popolani, unendosi ai sacerdoti ai religiosi e allo stesso cardinale che non mancò neppure una sera. La folla riempì la basilica, traboccò nel duomo e, al di là delle tre navate, invase la cappella di S. Gennaro; la voce del predicatore si capì dovunque (Verzella parla di prodigio); dame e gentiluomini vennero ad occupare un posto ore in anticipo.
All’uscita, non potendo Alfonso allontanarsi per un ingresso di servizio, Si fece a gara nell’avvicinarsi a lui per gettarglisi ai piedi e farsi benedire, mentre i più audaci, approfittando del pigia pigia, tagliarono qualche pezzetto della sua sottana o della sua mozzetta. Il più indiscreto di tutti, il futuro vescovo di Gaeta, Don Carlo Bergamo, allora parroco dell’Avvocata, fece sparire la sua berretta sostituendola con una simile e tentò perfino di sottrargli un pezzo della corona del rosario di Redentorista che portava sempre alla cinta.
Lo stesso avido Don Bergamo lo invitò a predicare alla confraternita dei cocchieri, lacchè e domestici. Alfonso non si fece pregare per questi umili, ancor meno per ritrovarsi qua e là nei quartieri bassi con Pietro Barbarese e gli antichi compagni delle Cappelle serotine: un ultimo ritrovarsi accompagnato dalla gioia di vedere giovani che assicuravano l’avvenire.
Ma il fondatore era a Napoli per affari e, nel suo “lussuoso” abbigliamento comprato a Roma al momento della consacrazione (scarpe con borchie di ferro ormai arruginite, cappello di 3 carlini per difendersi dal caldo sole estivo), girava a piedi con Don Verzella o il P. Carmine Fiocchi, a meno che non ricorresse alla sua umile carrozza di S. Agata, venduta precedentemente al fratello Don Gaetano. Come in diocesi rivestiva la sottana violetta solo nelle celebrazioni pontificali, mentre nelle sue visite quotidiane nei palazzi e nelle cancellerie si presentava in tenuta di Redentorista, lisa e rattoppata, con le uniche insegne episcopali della sua piccola croce pettorale e dell’anello incastonato da un pezzo di vetro colorato, del quale diceva umoristicamente: “Questo ha fatto la sua comparsa anche in Roma. Ognuno, che guardavalo, lo considerava una gran cosa, ma io diceva tra di me: Voi non sapete che ho rotto il meglio caraffone per ornare quest’anello”.
Se questa umiltà lo fece spesso schernire da camerieri che giudicavano
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le persone dalle mance, non gli impedì invece di essere ricevuto dai più grandi del Regno con segni di venerazione: il principe della Riccia, il ministro De Marco, il marchese Cavalcanti, il principe di San Nicandro, il presidente Cito e altri personaggi lo accolsero come una presenza di Dio e lo trattennero a lungo Tutto ciò fece notizia. Villani aveva visto giusto: sarebbe stato sufficiente che Alfonso si fosse presentato a Napoli per vincere la guerra. Sarnelli si sentì schiacciare, Maffeì e la sua mafia rabbiosi furono costretti ad abbassare il tono: entrambi avrebbero pagato caro per sospendere la causa. Da avvocato che aveva più mestiere di tutti loro, Alfonso aveva redatto due lunghi memoriali per il re, confutando, punto per punto, in uno Maffei, nell’altro Sarnelli, e aggiunse alcuni elementi di difesa per Celano 17.
Fino a ieri sicuri di sé, gli accusatori non pensavano oggi ad altro che a guadagnare tempo, mentre Alfonso voleva che si finisse al più presto: “Se non fosse, diceva, per li travagli, che soffre la Congregazione, che tanto promuove la gloria di Dio, ed il bene delle Anime, lo star qui stimerei un peccato mortale”. Riuscì con le sue istanze a far passare in ruolo la causa l’11 settembre.
Poco mancò che il vescovo non arrivasse vivo a questo giorno. Un pomeriggio, racconta Verzella, mentre si recava in vettura con il suo avvocato Celano in casa del duca Pirelli, membro della Real Camera, per esporgli il proprio punto di vista e stava per entrare nel cortile, incrociò la carrozza di un avvocato della parte avversa venuto per lo stesso motivo il cui cocchiere non volle fermarsi. Mons. Liguori, come al solito, ordinò al suo di cedere il passo retrocedendo, ma sfortunatamente sopraggiunse al galoppo la carrozza del Cappellano Maggiore, Mons. Matteo Testa, l’amico e il collaboratore della missione di Napoli nel 1741-1742, e urtò violentemente la parte posteriore di quella di Alfonso, rovesciandola. Il cocchiere fu gravemente ferito, Celano si rialzò con la fronte bagnata di sangue, monsignore ne uscì indenne, lasciando solo - in mano a ladri o a collezionisti di reliquie? - cappello e bastone. Il consigliere Pirelli, precipitatosi nel cortile, si affrettò a portare in casa i “sinistrati” e, mentre venivano salassati secondo le leggi dell’arte medica del tempo, fece preparare due carrozze per riaccompagnarli.
“Un caso che funestò tutta Napoli” aggiunge Verzella, mentre Tannoia vi vede un colpo del diavolo, fortunatamente andato a vuoto. La vigilia del processo Alfonso si recò con Verzella per un’ultima visita dal presidente Cito presso il quale erano già raccolti i consiglieri della Real Camera con Maffei e i suoi avvocati. Appena fu annunziato monsignore, il marchese, abbandonando tutto e tutti, gli corse incontro e lo condusse in un salone per un testa a testa durato un’ora... un’ora e mezza… I signori finirono per perdere la pazienza: “Così
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alla lunga dando udienza a Monsignore Liguori, che avesse affissi i cartelli e non avesse tenuto Camera Reale!”. Molti se ne andarono, mentre i pochi rimasti videro Don Baldassarre Cito far accendere la torcia per accompagnare il vescovo fino alla vettura, raccomandandosi alle sue preghiere
L’indomani mattina, 11 settembre, “si chiamò la causa in Camera Reale”. Numerosi amici e curiosi si pressavano già in Castel Capuano e Celano era al suo banco; si aspettavano gli avvocati delle parti querelanti: invano, perché nessuno aveva accettato di perorare contro i Redentoristi... solo un povero “pagliettazzo” venne alla fine a dichiarare che non aveva il coraggio di parlare contro un vescovo del quale tutta Napoli proclamava la santità.
Invece di trionfare, Alfonso rimpianse questa defezione che non permetteva di risolvere la causa.
Fatto il giro degli amici, per ringraziarli e dir loro addio, il 19 settembre ritornò alla Madonna della Mercede per dirle: “Madonna mia, a rivederci in Paradiso, che in Napoli non ci vedremo più” e partì per Arienzo.
Tre giorni prima, Tanucci aveva fatto creare la Giunta degli Abusi, composta di 15 membri a lui devoti, attribuendosene la presidenza. Il primo grande gesto di questa giunta, nella seduta segreta del 25 ottobre, fu la soppressione dei Gesuiti, come il primo atto storico di Ferdinando IV fu firmarne il decreto. Lo stesso fece il cugino duca di Parma, Ferdinando anche lui, ma fu scomunicato con i suoi ministri dal papa Clemente XIII (30 gennaio 1768). Legate dal patto familiare del 1761, le corti borboniche intimarono al papa di ritirare il provvedimento e, al suo rifiuto, i napoletani invasero Benevento e Pontecorvo (aprile 1768 ) e Luigi XV occupò Avignone e il Contado Venassino (giugno). La casa-rifugio dei Redentoristi a S. Angelo a Cupolo cadeva così nelle mani di Tanucci, anzi, quinta comunità in un Regno che ne tollerava ufficialmente solo quattro, diventava più precaria delle altre.
Clemente XIII non dovette rispondere alle corti di Francia, Spagna e Napoli, che esigevano la distruzione totale e irrevocabile della Compagnia di Gesù, perché morì il 2 febbraio 1769. Gli succedette, con il nome di Clemente XIV, il debole cardinale conventuale Giovanni Ganganelli, dopo un lungo e burrascoso conclave di intrighi, il cui punto cruciale fu l’abolizione dei Gesuiti.
In questo contesto il fondatore molto lucido scrisse al P. Caione:
“A me fan tremare più i difetti de’ nostri Fratelli, che tutte le persecuzioni, le quali ancora stanno in piedi; e se seguitiamo a far
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difetti, il Signore ci abbandonerà, e andrà in fumo Congregazione, case e tutto...
Già saprà V. R. che io sono stato più mesi in Napoli, dove per grazia di Dio ho lasciato ben disposte le cose; ma la tempesta è stata grande e non è finita ancora
Onde la prego di far seguitare la disciplina nel lunedì, e il digiuno nel sabato che si è promesso alla Madonna per sempre, in ringraziamento del suo aiuto per superare le presenti persecuzioni”18.
Sicuro di Dio e della Madonna, Alfonso temeva veramente solo il peccato e il rilassamento, senza condividere il panico di Villani, al quale scriveva il 18 luglio 1768:
“In quanto alle cose nostre, è bene che stiamo tutti rassegnati nelle mani di Dio; ma io non arrivo ad apprendere questo gran timore che voi avete, perché nel Regno le case nostre vi stanno con dispacci di sua Maestà Cattolica. Ed in quanto alle accuse di Maffei, si conoscono che sono freddure; tanto più che Benevento ora sta in mano del Re, onde è finita la gelosia che poteano avere di noi.
Il più che possiamo temere, è che sia dismessa la sola casa di Benevento.
In quanto alla casa di Sicilia, ancorché ci cacciassero da quella per opera degli Scolopi, ora abbiamo la casa della biblioteca, che non ci può mancare... Questa biblioteca è stata grazia di Dio, perché la medesima ci assicura che i nostri Padri non saranno cacciati da Girgenti”.
Gli Scolopi infatti rivendicavano la casa dove Mons. Lucchesi aveva inizialmente accolto i Redentoristi, ma non fu un dramma, perché la confraternita di S. Maria dell’Itria offrì loro la sua chiesa e il vescovo la custodia, l’alloggio e il trattamento della biblioteca pubblica da lui creata con in più un appannaggio annuo di 100 once, cioè di 600 ducati.
Il valoroso gruppo siciliano si irradiava al di là di Agrigento, nelle diocesi di Messina, Cefalù e Palermo, richiesto anche dai vescovi di Siracusa e di Mazzara. Tutto andava bene, troppo bene e la prosperità rendeva inquieto Mons. de Liguori, che diceva: “ Le Opere di Dio, se non sono contraddette, non sono ben radicate”19, come le querce.
C’erano, è vero, a Palermo le spinte probabilioristiche del consigliere Diodato Targianni, ma il viceré, il duca Giovanni Fogliani d’Aragona, era un franco sostenitore di Alfonso.
Rassicuratevi, monsignore, ecco la tempesta! Nell’ottobre 1768 alla morte di Mons. Lucchesi senza testamento, alcuni lontani eredi pretesero togliere ai padri sostentamento e alloggio. Il P. Pietro Paolo Blasucci, parlando di ritorno sul continente, mise al corrente il fonda-
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tore, da 4 mesi prostrato dal male che non lo avrebbe più lasciato, ricevendo questa risposta in data 6 novembre:
“ Ho ricevuta la vostra lettera funesta. Dico male: di quel che dispone Dio, nient’è funesto. Ci vuol mortificare; sia sempre benedetto!
Io già vi scrissi delle lettere che mandai in Palermo a’ Signori della Giunta. In Napoli, si farà quel che si può, secondo il consiglio de’ savii, perché sono tempi di tempesta.
Quel che vi prego sopra tutto, è non perdere la confidenza in Gesù Cristo.
All’ultimo, se vi scacciano dalla casa, procurate di affittarne un’altra, per quanto basta a capirvi. Non bisogna cedere così presto, sin tanto che Dio ci fa conoscere che non ci vuole più in Girgenti. Si faranno meno missioni, ma non vi mancherà un poco di pane per vivere. E staremo a vedere quel che fanno i deputati, quel che farà il nuovo vescovo, e sopra tutto quel che dispone Dio.
Io tengo che Dio non voglia distrutta questa casa; e dopo questa burrasca, chi sa che farà il Signore? Stringiamoci tutti ora vieppiù coll’orazione, e lasciamo fare a Dio, contenti di quello che disporrà.
Io seguito a star cionco da capo a piedi, e sto contento e ne benedico Dio, e lo ringrazio che mi dà pace e sofferenza”20.
Allarme brutale, che però si calmò, mentre invece ricominciava l’incendio sul continente, perché se Maffei e Sarnelli avevano rifiutato una battaglia che erano certi di perdere, lo avevano fatto solo per un nuovo assalto su un terreno più favorevole. I capi di accusa questa volta mirarono direttamente all’Istituto: la Regola lo rendeva una vera congregazione (e i padri già traboccavano di ricchezze nascoste); i privilegi ottenuti dalla Santa Sede erano una negazione dei diritti del re e dei vescovi; e questo amalgama conteneva un temibile esplosivo: il delitto di congregazione. Mentre nelle case si spandeva il panico, Alfonso restò calmo, pregò e fece pregare; per seguire le cose da vicino, mandò a Napoli il P. Angelo Maione come suo procuratore personale; consigliò, redasse nuovamente memoriali e lettere per il re; ma la sua preoccupazione principale restava sempre la fedeltà dei suoi figli, come scrisse il 30 settembre 1770:
“Io non temo delle accuse perché so che in ciò siamo innocenti; ma temo del poco spirito che ci è, al presente, in alcuni Fratelli.
Non si ama la povertà, come le nostre case avessero le rendite dei PP. Certosini; quando è un miracolo della divina Provvidenza che ciascuno abbia a tavola semplice pane per saziarsi. Ben sapete le miserie d’ogni casa. Poco si ama l’obbedienza, poco si ama la carità; sento che da alcuni si va mormorando, or dell’uno or dell’altro...
Ognuno pensi a sé e cerchi di emendarsi. E a chi non piace la Congregazione e l’osservanza, che se ne vada con Dio. Io sto molto
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contento di quei Fratelli che se ne sono usciti; perché le pecore infette infettano le altre. Non importa che restiamo pochi; Dio non vuole che siamo molti, ma che siamo buoni e santi”.
Attraverso questi anni terribili, durante i quali la causa passerà dalla Real Camera alla Giunta degli Abusi, poi ad una terribile commissione di inchiesta, per ritornare ancora alla Real Camera, le lettere del fondatore si riassumeranno in queste parole di san Paolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” (Rom. 8, 31).
Il nostro lettore ci sarà grato di non trascinarlo di giurisdizione in giurisdizione, perché l’accanimento di questi anni della muta Maffei-Sarnelli ha qualcosa di insopportabile; Alfonso invece, crocifisso dalla malattia, dovette sopportare questo combattimento, questa agonia, la cui posta in gioco era l’evangelizzazione dei poveri.
Ma nel 1772 la Sicilia fu di nuovo nella tempesta. Il nuovo vescovo di Agrigento, Mons. Antonio Lanza, che era una sola cosa con Blasucci e i padri, allontanò dal seminario il professore Giuseppe Cannella, ostinato a insegnare gli errori di Baio, Giansenio, Quesnel e Febronio messi insieme. “È un colpo di Blasucci e di Liguori” pensò il professore, decidendo di non dare loro più tregua, cosicché, quando gli eredi di Mons. Lucchesi intentarono un processo a Mons. Lanza, si portò subito a Palermo per aizzare il viceré e la Giunta. La cosa rimbalzò a Napoli e Blasucci accorse a difendersi, ma invano, perché il 12 settembre 1772 Tanucci in nome del re firmò un decreto di espulsione dei padri di Agrigento. Questo dispaccio fu promulgato? Non lo sappiamo, mentre è certo che non fu eseguito; però il rettore maggiore, da diplomatico avvertito, per ridurre la pressione, chiuse Agrigento richiamando i suoi sul continente. I padri si imbarcarono notte tempo, ma tutto il popolo fu sulla spiaggia per chiedere la benedizione e maledire coloro che li cacciavano.
“Viva Iddio, giurò il vescovo Lanza, voi partirete, ma a dispetto dell’inferno sarete di nuovo in Sicilia; e se altro mi manca per Dio, per voi, e per questa opera, mi venderò il pastorale, e la mitra”. Si era nel luglio 1773.
Questa ritirata strategica riuscì al di là di ogni previsione, perché da Agrigento tutte le classi sociali e tutto il clero moltiplicarono domande al re per il ritorno dei padri, abbattendo l’enorme diga di reticenze De Marco il 3 dicembre 1774 pubblicò il relativo decreto e Blasucci con la sua comunità poté imbarcarsi nuovamente nell’aprile 1775, accolto trionfalmente da tutta Agrigento, vescovo in testa.
Questa luce non segnò la fine della notte, ma fu un segno di Dio e della Vergine che illuminò Alfonso e i suoi e un lampo che spaventò per un istante i loro nemici. Erano tante le suppliche calorose giunte dalla Sicilia in Arienzo che il fondatore aveva inviato ai suoi fratelli il 29 luglio 1774 una lunga, appassionata circolare, dicendo tra l’altro:
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“Amatissimi fratelli, io sto certo che Gesù Cristo riguarda con occhio molto amoroso la nostra piccola Adunanza, come la pupilla degli occhi suoi: e noi lo vediamo coll’esperienza che, in mezzo a tante persecuzioni, egli non lascia di farci degni di promuovere sempre più la sua gloria in tanti paesi, con moltiplicarci le grazie.
Io non lo vedrò, perché la morte mi è vicina, ma sto in una certa confidenza che la nostra piccola greggia crescerà sempre da tempo in tempo, non già in ricchezze ed onori, ma nel procurare la gloria di Dio ed ottenere, con le opere nostre, che Gesù Cristo sia più conosciuto ed amato dagli altri.
Ha da venire un giorno in cui ci vedremo, come ben possiamo sperare, riuniti tutti insieme in quella casa eterna, dove non ci spartiremo più, e dove troveremo a noi unite molte centinaia di migliaia di persone che, un tempo, non amavano Dio e poi, condotte per nostro mezzo a ricuperar la sua grazia, L’ameranno eternamente e renderanno eterna la nostra gloria ed allegrezza: e questo solo pensiero non dee spronarci sempre ad impiegarci in amar Gesù Cristo e farlo amare dagli altri?...
Non mai lasciamo poi di raccomandarci alla divina Madre; giacché il Signore ci dà l’onore e l’allegrezza di promuovere da per tutto le sue glorie: cosa che molto mi consola, e mi dà una grande speranza che questa buona Madre non lascerà di avere una cura specialissima di ognuno di noi, e di ottenerci la grazia di farci santi”.
TANNOIA, II, pp. 193-198 e anche p. 383.
TANNOIA, II, pp. 222-227, 255-262, 402-407; SH 10 (1962), pp. 241-255; 19 (1971), pp. 257-279.