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Parte quinta “ DOVE TU NON VUOI ” (1775-1787) 46 - “ STO A NOCERA, ED ORA MI VEDO IN PARADISO ” (1775-1778) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
46 - “ STO A NOCERA, ED ORA MI VEDO IN PARADISO ”
Bisogna leggerne di tutte!...
“ Sant’Alfonso si è orientato verso gli studi giuridici ed è diventato dottore in diritto a sedici anni. Il giovane dottore possiede pienamente i suoi manuali - (ma non vi erano manuali!) - e si iscrive al foro di Napoli, scoprendo che la scienza giuridica, per quanto desiderabile quando si arringa, non è sufficiente! Occorrono nervi di acciaio! Nella prima arringa, il Dottor de Liguori... sbaglia, farfuglia mischia i pezzi e le imposte della causa. Scoraggiato, lascia la toga e il foro... ”.
Chi farfuglia e si inganna, se non l’autore di queste righe?
“ Si prepara a diventar prete. L’aristocratico brillante passa ai più umili... Organizza i discepoli che si uniscono a lui con il nome di Redentoristi.
Sant’Alfonso deve subito lasciare la sua congregazione carica di promesse - (“subito ” ? ... in realtà esattamente 30 anni dopo la fondazione!) - chiamato a una sede episcopale campana... Quest’episcopato per lui è una straordinaria grazia di maturazione - (era tempo, dal momento che divenne vescovo a 66 anni!) - . Conoscerà una grazia di spropriazione, riuscendo a poter lasciare la sua carica episcopale. Naturalmente bussa alla porta della congregazione che ha fondato, ma la sua famiglia religiosa lo rinnega, lo rigetta, non vuol più sentir parlare di lui. Messo " fuori le mura", sant’Alfonso vivrà fino a tarda età, dopo aver subito un’atroce umiliazione. Non ha perorato per sé, ma preso atto che gli si è sbattuta la porta sul naso ”.
Ecco quanto si può leggere in un’opera liturgica scritta e pubblicata nel... 1980!
Non avremmo alcun interesse a segnalare questo romanzo grottesco e detrattore se non fosse un esempio, lampante e nuovo come l’ultimo biglietto uscito dalla Banca di Francia, dell’ignoranza dei cristiani riguardo ai santi in generale e ad Alfonso in particolare. Interrogate il primo cattolico che capita, laico, seminarista o sacerdote,
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su Alfonso de Liguori e saprà dirvi tre cose: fu rigorista, fu dotato del dono della bilocazione e fu cacciato dalla congregazione che aveva fondato. Il nostro autore rincara solo quest’ultimo punto: chiudendogli la porta sul naso, i Redentoristi l’avevano mandato a vivere e a morire fuori le mura !
In realtà i confratelli avevano preparato tra le loro mura a colui che non aveva mai smesso di essere il loro rettore maggiore una bella camera con “ nel piede... un fregio, o sia fascia di nero, e nella soffitta l’incartata ”, quella riservata agli ospiti importanti. Ma il fondatore, deluso, protestò:
- Come qui, debbo star io in mezzo a’ fregi? voglio la mia solita stanza .
- Impossibile, si protestò, perché già occupata dal P. Villani.
Finì per ammettere che, date le sue infermità e la sua dignità episcopale, gli erano necessarie una camera per dormire e una per lavorare e ricevere i visitatori (con un altare per la messa), ma acconsentì ad occupare due celle ordinarie al secondo piano. Entrandovi esclamò: “ Oh quanto mi vedo più contento di questa cella, che nel Palazzo di Arienzo! ”. L’indomani scriveva a uno dei padri: “ Io per grazia di Dio già sto a Nocera, scappato da sotto il carro, ed ora mi vedo in Paradiso ” 1 .
Ben presto sfilarono in camera sua il vescovo di Nocera, Mons. Benito Maria Sanfelice, prelati, superiori maggiori, notabili di tutto il territorio circostante.
Con lui da Arienzo erano venuti il fratello redentorista Francesco Romito, che continuerà il suo ufficio di lettore, segretario, infermiere e gestore, e il fedele Alessio Pollio. Quest’ultimo, vedovo dal 1770 a 28 anni con due bambine poi diventate per la generosità del suo padrone, L’una redentorista e l’altra sposa, si farà fratello redentorista, restando però sempre il commesso, il cocchiere, il “cameriere” insostituibile, affezionato e di fiducia del grande infermo. Alessio prenderà nell’ingresso dalle braccia delle madri i bambini malati per portarli su in camera di Alfonso, che così potrà benedirne più di mille, posando teneramente la mano sulla testa, e guarirli; sosterrà prima, poi spingerà sulla poltrona a rotelle da una stazione all’altra della Via Crucis nel corridoio il vescovo in preghiera spesso a voce alta, come faceva anche dinanzi al SS. Sacramento. Questa compagnia sembra sia stata l’unico noviziato del fratello Pollio. Ma chi ebbe mai un simile maestro?2.
Romito sarà sempre più l’altra stampella di monsignore. Impossibile farsi un’idea precisa del lavoro che si abbatteva sul segretario di quel “ mostro ” di lavoro che nessuna fatica riusciva a fermare. Verzella, che nel 1772 aveva dovuto dichiarare forfait per curare la salute,
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ci fa sapere che durante l’episcopato uomini di dottrina si rivolgevano a Mons. de Liguori per pareri teologici o morali in vista di opere in cantiere, dalla Sicilia, da Mantova, Lucca, Venezia, Roma e i suoi Stati, Bologna, Ferrara, ecc.; altri gli chiedevano consigli spirituali o gli esponevano un problema di coscienza. Tra i corrispondenti abituali ricordati da Verzella si contavano 10 principi, di cui 3 appartenenti al Consiglio di Stato, 17 vescovi, 13 cardinali; preti, religiosi, monache, baroni di tutte le province del Regno; gente umile, come quel caporale di Camerino al quale il vescovo sembrava più attento che a chiunque altro 3. Le quasi duemila lettere, che oggi ci restano, sono solo un’infima parte di quelle che Alfonso scrisse o dettò.
Inoltre al suo ritorno a Nocera, tutta la corrispondenza del superiore generale, che durante il vescovato finiva per tre quarti sul tavolo del vicario generale, si accumulava ormai sul suo. Liberatosi del Taburno, gli ricadeva sulle spalle intero il peso del suo Istituto, come dopo sei mesi di esperienza si sfogava con una punta di delusione col P. Maione:
“ Sperava di venire a sollevarmi in Nocera; ma son venuto a provare in questa casa mille spine, che non mi lasciano riposare. Sempre sia benedetto Iddio!
Tengo la testa ruinata, e mi bisogna tener sempre vicino un panno bagnato per evitare qualche vertigine o mancamento di testa, per le tante lettere che ho da scrivere.
Dirà V. Riv. che sarebbe meglio che io non scrivessi più lettere; ma che ho da fare? Mi ritrovo Superiore. Se non fossi Superiore, lascerei fare agli altri; ma trovandomi Superiore, mi viene lo scrupolo, se lascio di scrivere qualche lume che Dio mi dà: mentre Dio dà a’ Superiori certi lumi che non dà agli altri; e questo pensiero mi fa scrivere tante lettere ” 4 .
Ma perché era indispensabile che il fondatore restasse superiore?
Quando 13 anni prima, nominato vescovo contro sua volontà, Liguori si era sentito “ cacciato ” dalla congregazione a causa dei suoi peccati, non era stato lui a chiedere di cumulare le due cariche, ma bensì i consultori generali e le comunità. Se allora fosse stato liberato dalle responsabilità dell’Istituto, sarebbe stato eletto rettore maggiore Don Andrea Villani, la bontà stessa, per le cui mani di maestro dei novizi erano passati una buona parte dei giovani: “ per la singolare dolcezza ” con la quale “ reggeva la Comunità, si aveva in tutta la Congregazione in opinione di maggiore santità, che lo stesso S. Alfonso”5. E Alfonso lo aveva scelto come suo vicario; però cosa aveva
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fino ad allora salvato l’Istituto dai denti di Maffei e di Sarnelli se non il prestigio personale del fondatore?
Erano passati 13 anni. Nel 1775 Villani aveva 69 anni e Alfonso dieci di più con l’aggiunta delle malattie che già sappiamo, ma non sembra si ponesse il problema delle dimissioni del rettore maggiore a vita. Non va dimenticata la dimensione allora europea dell’ex-vescovo di S. Agata e il fatto che egli restava a Napoli per i suoi figli sempre minacciati un incomparabile parafulmini. Però, come già si era sentito nel capitolo del 1764, non mancavano alcuni giovani scalpitanti, anche perché l’ultima generazione conosceva Alfonso solo di nome. Ma quest’ultimo sentiva forse la coscienza interpellata dal fatto che, durante i 13 anni di lontananza, il buon Villani aveva lasciato allentare i dadi, cioè addolcire la disciplina, come testimonia questa significativa sfuriata al rettore-apicultore di Deliceto, il nostro memoralista Tannoia nel giugno 1773, per non aver ottemperato a un ordine del vicario generale:
“D. Antonio mio, voi sapete che io vi stimo; ma bisogna che ora vi parli chiaro. Voi siete stato tacciato che poco siete obbediente agli ordini de’ Superiori; e questo vedo che sia una delle maggiori cause, per cui la Congregazione presentemente sta in malo stato: perché i Rettori sono i primi a non volere obbedire.
Da oggi avanti io, che sono il Direttore della Congregazione destinato dal Papa e dal Re, voglio mutare stile e voglio essere obbedito; e chi se ne vuol andare che se ne vada. Chi resta, resta. Dio non ha bisogno di gente, ed ama i soli buoni ed obbedienti.
Pertanto V. R. subito mandi detto Fratello Antonio (Oliva) in S. Angiolo in ogni conto, e si guardi di metterci per mezzo il vescovo che sento dimorare costì; anzi, se mai il vescovo volesse impegnarsi a far trattenere questo Fratello, V. R. si adoperi in tutti i modi a lasciare quest’impegno.
V. R. non mi risponda che non ha potuto arrivarci; perché, se non manda il Fratello, ella me ne darà conto e se ne pentirà; ma spero che non mi darà questo disgusto.
Dica da parte mia ai Padri di codesta casa che siano attenti ad obbedire, siccome scriverò fra breve a tutte le altre case.
Io son risoluto di mandar via ognuno che non vuole obbedire, ancorché mi fosse fratello carnale; e non pensi qualcheduno di aiutarsi poi colla Corte: perché il Re, che mi ha fatto Direttore e che molto mi favorisce, sentirà più me che tutti gli altri.
Faccia sentire questo capitolo a tutti.
Benedico V. R. e tutti. - Fratello Alfonso Maria”6.
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Tre settimane dopo seguì la circolare annunziata di un rigore insolito, nella quale si legge tra l’altro:
“ Mi dispiace assai quando sento che qualche giovane de’ nostri non vive secondo la perfezione evangelica, propria degli operari del Vangelo. Ma sento più sensibile e viva nel mio cuore l’amarezza, quando anche qualcheduno de’ Padri e Fratelli più anziani e più antichi della nostra adunanza, che dovrebbe essere ai più giovani e recenti specchio di edificazione e virtù, sento che poco stimi l’obbedienza dovuta al Superiore.
Ho sempre raccomandato a tutti, e colla voce e colla penna, la santa obbedienza e la sommissione ai Superori che fanno in terra le veci di Dio; dalla quale dipende il buon ordine, la gloria di Dio, il profitto delle missioni e la pace dello spirito proprio che, ubbidendo puntualmente, è sicuro in tutto di fare la volontà di Dio, in cui solo si trova la vera pace. Ma ciò non ostante il demonio ha tentato e tenta alcuni de’ nostri a far poco conto dell’obbedienza: che perciò vivono essi inquieti ed inquietano i compagni ed i Superiori sotto mendicati pretesti, che il nemico della salute loro rappresenta nella mente come effetti e ragioni di zelo, di spirito lodevole, di riforma degli abusi e di amore della giustizia e della verità.
Gran cosa ! Parlano taluni de’ nostri di riforma e di zelo ma poi non pensano a riformare in primo luogo se stessi e la loro vita, più difettosa di quella degli altri...
Fratelli e figli miei carissimi in Gesù Cristo intendetela bene. Dio vuole la vostra obbedienza e sommissione rispettosa ai Superiori più che cento sacrifici e mille altre opere strepitose di gloria sua.
Dio ci vuole poveri e contenti della povertà, e dobbiamo ringraziarnelo, quando ci è per sua misericordia un tozzo di pane in tavola, e non ci fa mancare il puro necessario.
Chi non si contenta di menare fra noi poveri una vita povera nel mangiare e nel vestire, può licenziarsi dalla nostra adunanza senza inquietarci, ed andarsene alla sua casa a vivere come gli piace; perché io sono pronto ad accordargli la licenza: non volendo Iddio, nella sua casa, servi malcontenti che a forza lo servono e con continuo disturbo...
Il Signore Iddio a questo fine mi mantiene la vita in questa età così avanzata, per rimediare agli sconcerti che nascono a danno dell’opera delle missioni; ed io son risoluto di rimediarci in ogni conto.
Non mi fa timore che se ne vadano la maggior parte. Chi resta, resta. Dio non ha bisogno di molta gente; basta che restino pochi e buoni. Questi pochi faranno più bene che tutti gli altri imperfetti, superbi e disubbidienti...
Raccomando l’ubbidienza ai Superiori, l’amore a Gesù Cristo, L’affetto alla sua santa Passione, l’orazione, gli esercizi spirituali e il
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solito ritiro. Chi ama Gesù Cristo obbedisce e si contenta di ogni cosa, e sta sempre quieto ” 7 .
Questi propositi sottolineavano quanto Alfonso intendeva per ubbidienza e osservanza: la morte dell’individualismo e l’incondizionato dono di sé all’opera comune della missione manifestando su questo punto un bisogno di raddrizzamento nel quale la sua coscienza di fondatore si sentiva impegnata: “Iddio a questo fine mi mantiene la vita... per rimediare agli sconcerti che nascono a danno dell’opera delle missioni ”.
Alfonso era quindi rientrato a Nocera dei Pagani senza la minima idea di dimettersi. Voleva anche riprendere come prima il corso normale della vita regolare, ma Villani, suo direttore, gli proibì di farsi trascinare in coro e in refettorio e Donato Antonio Pignatori, suo medico, gli ordinò due passeggiate al giorno in vettura. Per il resto riprese la sua vita tranquilla e implacabile di preghiera e di lavoro, in sincronia con la comunità. Il fratello Romito era il compagno delle sue meditazioni, tre volte il giorno, e della sua lettura spirituale e il chierichetto al mattino della sua messa crocifissa e serafica, dopo la quale lavorava sino alla passeggiata verso mezzogiorno con Alessio a cassetta. Felici uscite del mattino e della sera, che terminavano in chiesa, dove il padre si attardava a lungo, a volte per ore, in infiammata adorazione! Nel marzo 1775, mentre era ancora ad Arienzo, aveva chiesto e ottenuto da Pio VI, per i suoi forti mali di testa, di poter commutare il breviario con altre preghiere vocali secondo il parere del confessore, perciò spesso, da allora, invece delle ore canoniche recitava il rosario meditandone lungamente i quindici misteri. E così le ore laboriose si succedevano scandite da Ave Maria infuocate, recitate ogni quarto d’ora al suono dell’orologio. Quando sentiva l’Angelus si gettava in ginocchio senza potersi più rialzare, spesso anche senza accorgersene, perché immerso nella contemplazione del mistero dell’incarnazione allora bisognava prendere a braccia il suo corpo e rimetterlo sulla poltrona per il lavoro o l’unico pasto della giornata. Quando diverrà troppo sordo per sentire i tocchi dell’orologio, chiederà di esserne avvisato. Se nei giorni in cui era troppo sofferente di testa doveva omettere l’ufficio divino, sapeva a memoria quello piccolo della Vergine, cui non era mai venuto meno fin dalla giovinezza. Questo gran lavoratore resterà sempre fedele alle sue 8 ore di preghiera quotidiana 8.
Man mano che Alfonso sprofondava nella sordità, i suoi lettori e collaboratori si sfibravano, senza che se ne avvedesse, nel gridare sempre più forte. Invece la sua voce, pur bella e sonora fino all’ultimo,
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non avrebbe potuto più riempire la grandi navate, inoltre lo stare in piedi era una prova crocifiggente per la sua colonna vertebrale incurvata verso il suolo. Eppure la passione per la Parola gli faceva dimenticare tutto.
“ La conversione delle Anime, dir soleva, non fu incaminata da Gesù Cristo, che colla predicazione, e colla predicazione bisogna continuarla. Tutto sta che si predichi Cristo Crocefisso... ”.
“Invitato a predicare - continua Tannoia - veniva invitato a nozze, e quasi festoso vi si portava. Soleva dire, che dalla parola di Dio sempre se ne ricava del frutto, e che non vi è cosa, che tanto s’impedisca dall’infermo quanto la predicazione ” 9 .
Alfonso era quindi felice di trascinarsi, aiutato da Romito e da Pollio, al capitolo settimanale per infervorare la comunità allo zelo per le anime e alla pratica delle virtù; si faceva issare ogni sabato sulla cattedra della piccola chiesa di S. Michele, dove si accalcavano più di 300 persone, per predicare le glorie e le misericordie di Maria; con premura rispondeva sempre ai sacerdoti e ai monasteri di Nocera che non si stancavano delle sue esortazioni.
Nel chiostro del Carminiello guarì anche due “ tumori maligni ”: la scandalosa inimicizia tra due religiose e il cancro al seno che tormentava la superiora. Questa, data per spacciata dai medici, aveva chiesto al padre di ottenerle la guarigione e Alfonso rispose: “ Ancorché infracidi, non ti dar pena: mettiti in mano a Dio, e stringiti col Crocifisso, mentre così darai gusto a Gesù Cristo, e soffrirai minor pena ”; poi, rientrato a S. Michele, le fece portare una “ boccia di semplice acqua ”, pregandola di bagnare con essa il suo male, che scomparve con le prime abluzioni.
Le passeggiate in vettura, anche se al termine del servizio e tirata da due bestie consunte, sembravano al vecchio vescovo un lusso superfluo, al quale non si rassegnava che per ubbidienza. Gli toccavano, è vero, 800 ducati annui della mensa di S. Agata, la pensione del collegio dei dottori, alcuni emolumenti del Seggio di Portanova e la rendita del patrimonio familiare, ma ai suoi occhi erano tutti beni degli indigenti, “ per esso la porzione più cara ”, come dice Tannoia. Il fratello Romito aveva ordine di contentare tutti i mendicanti e di assicurare quanto bisognava a un certo numero di poveri vergognosi 10.
Nelle sue elargizioni il superiore generale non dimenticava le sue case degli Stati Pontifici, che nascevano come per incanto, anche se nello spogliamento di Betlemme.
Fin dal 1772-1773 gli otto Redentoristi di S. Angelo a Cupolo, animati dal giovane, zelante e intelligente Francesco De Paola, si
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irradiavano intensamente negli Stati Pontifici, ben al di là di Benevento. Il vecchio vescovo di Veroli, Mons. Giovanni Battista Jacobini li aveva voluti stabilmente in diocesi; un sacerdote avignonese, generoso e capriccioso come la sua Provenza, aveva offerto la piccola chiesa e la casa costruita per il centinaio di abitanti della collina di Scifelli e d’accordo con Alfonso, il 15 aprile 1773, aveva firmato le carte ufficiali con Villani, che poi si era affrettato a renderne conto al rettore maggiore ancora ad Arienzo.
Ahimè! la gioia del fondatore non era stata condivisa da alcuni padri più anziani, come da Nocera aveva scritto il venerabile Mazzini a Tannoia, maestro dei novizi a Deliceto:
“Ancor’io fui di parere che non si abbracciasse la fondazione in Veroli, sì per il motivo che mi accennate - (temevano la personalità di De Paola) - sì ancora per la scarsezza de’ soggetti per una fondazione che sta prossima a Roma. Ma né Mgr nostro Padre, né il P. Vicario né gli altri consultori diedero orecchio al mio latrare ”11.
Al contrario Alfonso guardava verso il nord, verso gli Stati, verso le Alpi... Per il momento la congregazione aveva di nuovo, in caso di allarme, un primo rifugio fuori del Regno. Era una grotta di Betlemme per la piccolezza e la povertà, ma non era nato così il Cristo?
E De Paola sperperava denaro!
“ Don Francesco mio, gli scrisse Alfonso, vi ho mandato quattro once per il P. Blasucci, oltre due altre once che mandai ultimamente a Veroli; ma di queste non voglio che se ne spenda niente per libri, ma solo per cose necessarie al vitto; mentre sento che quelli Padri a Veroli (cioè Scifelli) si trovano in molta strettezza.
Io feci tanti stenti per avere quelli 100 ducati da Grazioli, e sperava che con questi si desse soccorso a Veroli per l’inverno che viene ma sento che se ne sono comprati libri, con troppo mio dolore.
È tempo di libri, quando non ci è che mangiare! Sono cose da stordire.
Se mai questi libri si potessero tornare addietro, anche con qualche perdita, vedete che potete fare; perché l’avrei molto a caro che si portasse tutto ivi per comprar pane, che certamente mancherà.
In caso che i libri non si potessero tornare, consigliatevi poi con Blasucci per la cautela di non far sapere che noi mandiamo roba colà”12 .
Inviare denaro fuori del Regno era un crimine, anche se doveva servire a impedire che dei napoletani morissero di fame. Però l’esiguità di Scifelli rendeva urgenti altre case fuori delle Due Sicilie, per cui con i vivi incoraggiamenti di Alfonso si cercò non lontano a Ceprano, poi a Torrice. Ma dovunque mancavano le risorse e sarebbe stato accumulare miseria su miseria. Ben presto poi la morte di Clemente XIV rimandò
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al suo successore il diritto di autorizzare le nuove fondazioni nei suoi Stati 13 .
Impaziente, dinamico, non privo di ambizione, Francesco De Paola sognava di eternare l’Istituto impiantandolo nella Città Eterna e nei primi mesi del 1774 aveva esposto le sue vedute al fondatore, ricevendo questa risposta:
“ Ho letto la vostra lunga lettera, dove affatto non approvo le vostre ragioni per la casa di Roma, ed a tutto ho le risposte.
Ma che serve a perdere il tempo, quando vediamo che Dio non lo vuole?
Per quel che dicono poi le genti che, morto io, finisce tutto, io dico che questa Congregazione non l’ho fatta io, l’ha fatta Dio; egli l’ha mantenuta per 42 anni, ed egli seguirà a mantenerla.
Perché poi il Re di Napoli l’ha da dismettere, quando non porta danno a niuno, ed è acclamata da tutti i vescovi; quando ella non possiede niente di rendita propria, e quando (quel che importa più), nel Dispaccio del Re Cattolico, il Re dichiara desiderare che questa adunanza si mantenga, non solo per la vita d’Alfonso de’ Liguori, ma per quanto può durare; purché non manchino le missioni del primitivo fervore ?
Sicché tutta la nostra permanenza dipende prima da Dio, e poi da’ nostri portamenti. E perciò attendiamo a stare uniti con Dio, ad osservare le nostre Regole, ad essere caritatevoli con tutti, a contentarci delle nostre miserie, e principalmente ad essere umili; perché un poco di superbia ci può distruggere, come ha distrutto i Gesuiti.
Ed intanto prego V. R., per quel tempo che costì farà l’officio di Superiore, ad essere umile e cortese con tutti, specialmente nelle missioni, e ad usare poi tutta la carità co’ nostri Fratelli che si trovano tra le miserie, lontani da Napoli e da’ parenti; onde bisogna usar con essi tutta, tutta la carità”14 .
Tuttavia l’idea di una fondazione a Roma fece il suo cammino tanto che un amico di Mons. Jacobini, Mons. Vincenzo Macedonio, segretario ai memoriali, ne parlò al papa e al suo seguito. Il 25 agosto 1774 Liguori metteva al corrente il rettore di Scifelli:
“ Questa mattina ho letto un biglietto del Vicario, dove mi scrive che Monsignor Macedonio disse (all’avvocato Melchiorre) Terragnoli che il Papa pensava di metterci in Roma alla chiesa del Gesù, ma che i palatini l’hanno distolto.
Gloria Patri! Che ci faremmo noi a Roma? Perdendo il nostro impiego, addio Congregazione! Diventeremmo tutti cortigiani.
Frattanto ringraziamo Dio della buona idea che ha il Papa di noi. E perciò sarebbe buono che Monsignor vostro di Veroli insistesse ora con Monsignor Macedonio per la risoluzione di Ceprano ”.
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Lo stesso giorno sviluppava il suo pensiero nella risposta al P. Villani:
“ Godo delle notizie datemi di Monsignore Macedonio, per la buona intenzione che conserva il Papa verso di noi.
Del resto, ringraziamo Iddio e li Signori palatini che la cosa è svanita.
Se il Papa fosse stato fermo in tal pensiero, fortemente gli avrei scritto di mutar risoluzione, ancorché contraddetto mi avesse tutta la Congregazione .
Che ci faremmo noi a Roma? Sarebbe perduta la Congregazione; perché, distratti dalle nostre missioni, perduto il fine dell’Istituto, sarebbe finita la Congregazione. Resterebbe un ircocervo, e a che servirebbe più?
In Roma, ci sono mille che possono fare quello che faremmo noi; e tra tanto a che si ridurrebbe l’opera nostra?
La nostra Congregazione è fatta per le montagne e per i villani. Posti in mezzo ai prelati, cavalieri, dame e cortigiani, addio missioni, addio campagne; e noi ancora diverremmo cortigiani.
Prego Gesù Cristo che ce ne liberi ”.
Se Mons. de Liguori diceva no a Roma, continuava ad avere gli Stati Pontifici come obiettivo pressante, perché, per quanto i napoletani, soddisfatti dalla soppressione dei Gesuiti, avessero evacuato Benevento liberando così S. Angelo a Cupolo, restavano solo due le case di rifugio in caso dl espulsione dal Regno e l’uragano sembrava sul punto di scoppiare. Era indispensabile portare fuori del Regno il baricentro dell’lstituto? Il 30 maggio 1776 il padre manifestava tutto il suo pensiero a uno dei suoi confidenti, il P. Caione:
“Padre mio, le case di Napoli, fuori di quella di Benevento, a noi poco o niente servono per istabilire la Congregazione; perché tutte non fanno corpo e stanno appiccicate coll’ostia.
Per ora bisogna che le manteniamo per quanto si può; ma parliamo chiaro: se la Congregazione non si stabilisce fuori del Regno di Napoli, non sarà mai Congregazione...
Io sono in fine di vita, poco tempo mi resta. Voi, che restate avete da pensare a stabilirla ”.
Subito dopo questa lettera, i padri De Paola, Caione, Cimino e Costanzo, dal 1° al 20 giugno, diedero a Frosinone (8.000 ab.), il maggiore agglomerato urbano della diocesi di Veroli, una missione sconvolgente: “ Non abbiamo mai avuto una simile missione, diceva la gente, i padri devono restare con noi! ”. Il 22 giugno le autorità municipali scrivevano a Liguori offrendogli la cappella e l’eremitaggio della Madonna delle Grazie, abbandonati dagli Agostiniani, sulla collina alle porte della città e i materiali per la costruzione. La gioia di Afonso fu
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al colmo e da quell’estate la Vergine delle Grazie accolse la comunità redentorista di Frosinone, con De Paola quale rettore e Blasucci quale visitatore delle nuove case; poi due brevi pontifici dotarono - magramente - e approvarono - calorosamente - le fondazioni e l’Istituto.
Rispuntò l’attrattiva di Roma e il fondatore, cambiando sguardo, rispose alla fine di ottobre 1776 a Blasucci:
“ Ringrazio sempre Iddio che al presente ha fatto ritrovare V. R. in Frosinone, altrimenti codesti altri miei Fratelli, secondo il loro zelo vorrebbero vedere presto sollevata la Congregazione, in modo che facesse spicco e tenesse casa in Roma.
Il tener Casa in Roma, io, per ora e per molto tempo, stimo che non sia espediente. Lascio le ragioni. Quando è tempo, le dirò...
Per ora certamente non occorre di andare V. R. in Roma; ma, col tempo, sarà necessario...
Intorno l’andare in Roma per ottenere la casa degli esercizi dismessa de’ Gesuiti, come consiglia il Sig. avvocato Buonpiani, gli dica che sommamente lo ringrazio per l’affetto che ha per noi, ed io gliene conserverò eterna memoria; ma per ora il mio sentimento sarebbe di aspettare miglior tempo, perché noi non siamo abbastanza conosciuti in Roma, e il pretendere questa casa degli esercizi potrebbe apparire una certa arroganza; tanto più che, sopra detta casa, avran posto l’occhio molte comunità cospicue che si trovano in Roma.
Onde per ora, stimo che si deve attendere solamente a stabilire codeste due case che abbiamo nella diocesi di Veroli, e specialmente la casa di Frosinone. Quando questa sarà poi bene stabilita col tempo, allora si penserà a quel che più conviene; tanto più che il nostro Istituto principalmente è intento a coltivare, non già le città grandi e rinomate, ma i paesi della campagna più bisognosi di aiuti spirituali.
Se poi, col tempo, Iddio ci farà conoscere che ci vuole in Roma, allora ubbidiremo ” .
Per il momento un quarto insediamento negli Stati Pontifici veniva prospettato nella stessa Benevento dal cardinale Francesco Maria Banditi, nuovo arcivescovo, con l’offerta dell’edificio e della chiesa che i Gesuiti avevano dovuto abbandonare. Il padre rifiutò: non voleva fondazioni nelle città, soprattutto se come Benevento, che traboccava di 16 conventi maschili e di un clero numeroso; gli ripugnava l’idea di stabilirsi, come un cuculo, nel nido della disciolta Compagnia. Ma il cardinale sottolineava il fatto che avrebbero potuto irradiarsi nelle campagne, specializzando la casa di S. Angelo a Cupolo, sul suo Tabor, per i ritiri e poi - L’economia non ha certo aspettato Karl Marx per comandare - le rendite di Benevento erano indispensabili per far vivere gli affamati di Scifelli e di Frosinone. Nell’inverno 1776-1777
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il rettore maggiore si arrese alle ragioni del cardinale e il 2 gennaio 1777 scrisse a De Paola:
“ Forse già sapete quello che ci ha scritto l’arcivescovo di Benevento, il Cardinale Banditi... ci ha scritto che, dei 700 ducati annui che da Benevento vanno a Roma per pagare, fra gli altri, il mantenimento alli Gesuiti Portoghesi... seguirà di mandarne 400; e 300 vuole dargli a noi, colla promessa degli altri 400, quando si estingue il vitalizio de’ Portoghesi.
Il negozio non era da rifiutarsi; onde di comun consenso col P. Cimino, Maione, del P. Vicario e Mazzini, L’abbiamo accettato; giacché, se a queste case nostre abbiamo poco pane, vi sarà una casa in cui, col tempo, avremo un poco di pane...
In Napoli, circa l’ordinazione de’ chierici, in tempo del nuovo Governo, è uscito un dispaccio più rigoroso: che non si darà a’ chierici licenza di ordinarsi, se nel paese vi sono 100 preti, né se vi sono due fratelli o zii in casa, né se tutti i fratelli e zii non hanno porzione eguale al patrimonio del prete; di modo che noi abbiamo più buoni giovani che erano venuti già per ritirarsi, e non gli possiamo ricevere per questi impedimenti. Per tali ostacoli anche i Pii Operari stanno afflitti, perché non possono ricevere soggetti.
Mi è venuto un pensiero e vorrei sapere da V. R., P. De Paola, se potrà comunicare questo pensiero con Monsignore di Veroli, acciocché V. R. ce ne parli nella prima occasione che può, e mi sappia dire la conclusione, per potermi io regolare.
E bisogna sapere che qui, per mandare un Padre de’ nostri alla Romagna, abbiamo da fare la quarantena a pregarlo; ed alcuni non vi vogliono venire, perché ognuno non si vuol partire da mamma.
Io vorrei sapere se Monsignore di Veroli potrebbe adottarli o ascriverli ad una delle chiese di Veroli, Frosinone, o Scifelli, in modo che poi potesse ordinarli; perché così faremmo un viaggio e due servizi: scrataressimo quei soggetti da Napoli, e poi alla Romagna li avremmo ordinati; altrimenti, i nostri vescovi Napoletani, che stanno con tanto timore, non li ordinano ”.
E’ chiaro, la politica napoletana tendeva a strangolare l’Istituto per cui l’offerta di Benevento fu una grazia insigne, come l’altra di avere a portata di mano il P. Caione quale superiore. Alfonso aveva dovuto mandare a Scifelli questo ex-rettore di Materdomini, perché richiesto come vescovo di Conza. E Don Gaspare Caione, dottore in diritto civile e romano, fine letterato, poeta, grande missionario, ricco di fede e di esperienza, non avrebbe fatto rimpiangere alcuno, neppure - pardon! - i Gesuiti. Il 6 giugno, festa del Sacro Cuore, i figli
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di Alfonso presero dunque possesso della chiesa e della casa del Gesù a Benevento, succedendo... ai battaglioni di Ferdinando IV.
Quando Blasucci, richiesto con forza dal vescovo e dal popolo di Agrigento, fu costretto a lasciare gli Stati Pontifici per ritornare in Sicilia, il più indicato a succedergli nella carica di visitatore delle case di Scifelli e di Frosinone era proprio Caione, ma Don Pietro Paolo insistette perché si desse fiducia al suo giovane cugino De Paola. Alfonso lo fece, benché avesse dovuto recentemente richiamarlo all’ordine.
La Regola proibiva i quaresimali, perché predicazioni riservate alle città e votate alla retorica pomposa, ma gli amici De Paola e Criscuoli, vedendosi già a Roma, cercavano di farsi un nome, per cui avevano accettato quaresimali per il 1777. Criscuoli, rettore di Scifelli, ricevette allora da Alfonso queste parole del 14 gennaio:
“ Don Diodato mio, ho inteso che V. R. abbia accettato il quaresimale dell’isola nella diocesi di Sora, ed il P. De Paola quello di Atina nella diocesi di Aquino.
Mi dispiace che non mi abbiate anticipata questa risoluzione, prima di accettarli.
So che questi quaresimali non sono stati procurati con maneggi de’ nostri soggetti, ma offerti dalle università.
Ciò non ostante, non voglio che V. R., o altro de’ nostri, faccia veruno quaresimale, specialmente nel Regno; perché il nostro Istituto lo proibisce, e potrebbe essere occasione di gelosia a quelli operai che li pretendono.
In ogni conto, cerchi V. R. di scusarsi con Monsignor di Sora, ed il P. De Paola col vescovo di Aquino, facendo loro presente la mia proibizione e l’osservanza che pretendo della nostra Regola.
Voglio che attendiate unicamente alle sante missioni. Queste vuole Iddio da noi, e non già i quaresimali.
Fate l’ubbidienza, qualunque siano gli impegni delle università e de’ vescovi che vi ricercano ”.
De Paola insistette, facendo presente la povertà della sua casa e la buona retribuzione dei quaresimali, ma il padre generale non era di quelli per i quali l’economia comandava tutto:
“ E’ vero che vi sarebbe qualche ragione, gli rispose, per causa della necessità in cui ci troviamo, ma io per me non voglio guastare una regola, ordinata con tanta premura dal nostro Padre Falcoia. Ed infatti, vi sono ragioni fortissime in contrario.
Lasciamo fare a Dio; il quale, faticando per lui, non ci farà mancare un tozzo di pane ”.
Francesco De Paola dovette quindi ubbidire, benché si sentisse la vocazione del comando, come il fondatore aveva già intuito vent’anni prima grazie ad un piccolo episodio che lo aveva avuto protagonista
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da giovane studente. Nell’estate 1756 Alfonso traduceva in latino la Pratica del confessore, facendosi aiutare da Ferrara, De Paola e Caione, al quale scrisse il 15 gennaio 1757:
“D. Gaspare mio, molto ti ringrazio dello scritto; mi piace assai, perché l’hai fatto allo stile mio. L’Assistenza a’ Moribondi l’ho data a fare a F.llo De Paola, ma esso s’è posto a fare stile alto e non ha scritto quello che diceva io; onde l’ho da rifare di nuovo ” 15 .
Tutta la corrispondenza tra Alfonso e Francesco De Paola testimonia gli effetti dello spirito indipendente del visitatore della “Romagna”, al quale il fondatore era costretto a mendicare informazioni, sempre con la stessa pazienza, fino al 19 febbraio 1779, quando fece la voce grossa:
“Dopo avere scritto al P. Leggio che le cose di Frosinone mi si avvisano senza scorza, senza farmi saper niente, stasera ricevo una nuova notizia per via del P. Ficocelli, cioè che l’accomodo si farà per mano di Mgr di Veroli; ma all’uso antico, senza spiegarmi niente di ciò che si faceva e di ciò che aveva pensato detto Mgr di Veroli: sicché sono restato all’oscuro, come prima.
V. R. termina dicendo: lasciate fare a me.
Io non mai vi ho impedito di fare, ma non mai ho inteso le cose della Congregazione, senza farmene inteso.
Per grazia di Dio, non sono morto ancora, né ho perduto il cervello; all’incontro, sono stato avvocato, sono stato vescovo: e tali affari ho dovuto trattarli più volte. Perché ora, trovandomi Rettor Maggiore, non ho da esserne fatto inteso?
Per carità, scrivetemi quel che si fa e quel che si tratta, e con chi. Da vescovo e da avvocato, ho dati mille consigli; ma ora, secondo il vostro sentimento, sono diventato inabile a tutto.
Ma finiamola. da oggi innanzi, circa la causa della chiesa di Frosinone, io voglio essere fatto inteso di tutto ciò che si sta facendo ”16
Pierre de la Gorge ha scritto che “il vecchio desidera finire i suoi giorni tra gli onori e nella tranquillità”. Sotto questo punto di vista il nostro ottuagenario non aveva niente del vecchio. Scifelli e Frosinone gli davano parecchie preoccupazioni, tanto che nell’ottobre 1776, mentre Blasucci ne era visitatore, gli aveva scritto:
“Io mi figuro di vedere la nostra Congregazione come una barchetta in mezzo al mare, contrastata da più venti, e sto aspettando che Dio ci faccia conoscere dove la vuol condurre e stabilire. Che se poi la volesse vedere affondata, da ora e sempre dirò che sempre sia benedetta la sua volontà!
Io non però sto molto contento in vedere già arrivata costà V. R., in mano di cui stanno codeste due case, altrimenti se non ci fosse V. R. starei molto più diffidato...
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Finisco, e resto qui continuamente pregando per V. R., che (il Signore) le dia in codeste parti pazienza e luce per ben condurre l’opera di Dio se la vuole.
I principi già vedo che son deboli; ma Dio, quando vuole, da principi debolissimi fa sorgere opere grandi, e questa confidenza io ho in Maria Vergine per codeste case, le quali, per ora, hanno sì poco fondamento...
Il P. Maione mi scrisse che lunedì veniva a trovarmi; ma poi, dopo tanti giorni, non è comparso. Forse starà in tempesta, per qualche nuovo accidente circa la causa. La barchetta passerà qualche nuova burrasca. Faccia Dio!”.
408-409, 410-411. La “ Romagna ” per Alfonso indicava tutti gli stati pontifici, tranne Benevento.