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Parte quinta “ DOVE TU NON VUOI ” (1775-1787) 47 - FINO ALL’ULTIMA GOCCIA... D’INCHIOSTRO (1775-1785) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
47 - FINO ALL’ULTIMA GOCCIA... D’INCHIOSTRO
Quindici anni: L’età dei grandi sogni e spesso delle scelte definitive, l’età di Daniele Comboni nel 1846, quando, studente all’istituto Mazza di Verona, si chiedeva cosa fare. Qualcuno gli mise tra le mani le Vittorie dei Martiri scritte da un autore canonizzato da soli sette anni, Alfonso de Liguori, la cui seconda parte, consacrata alla storia allora recente (1597-1633) dei martiri del Giappone, lo conquistò, lo infiammò, lo fece decidere: sarebbe andato in Giappone, per far risorgere dalle ceneri quella Chiesa, felicissimo di versare anche il suo sangue per Gesù Cristo.
Si trovò allora a passare per Verona un missionario in cerca di rinforzi per l’evangelizzazione di Khartoum: vada per il Sudan! e Daniele Comboni (1831-1881) con i suoi due Istituti missionari diverrà l’apostolo dell’Africa centrale1 .
Il libro sulle Vittorie dei Martiri era stato iniziato da Alfonso in Arienzo. In una lettera del 3 novembre 1774 a Remondini, dopo averlo ringraziato “ de’ cinque tomi della Vita de’ filosofi ” e chiesto “ il libro di Mgr Fénelon contra Giansenio ” aggiungeva:
“ Spero che a quest’ora avrà forse ricevuto il mio libro della Traduzione de’ Salmi, che qui è stato letto con gradimento.
Io, per non trattenermi in ozio in questi miei rimasugli di vita, ho cominciata una opera divota, cioè le Vittorie de’ Martiri, ricavando i loro martiri dagli autori più celebri che ne hanno scritto”2 .
Il 9 febbraio 1775: “ Ricevo una sua veneratissima, dalla quale rilevo che V. S. Ill.ma desidera una copia dell’Opera de’ Martiri, da me riveduta e corretta, subito che sarà uscita alla luce, e che si vuol incomodare di regalarmi il tomo sesto de’ Filosofi di cui io le rendo distintissime grazie.
In quanto all’Opera de’ Martiri, le sono a dire che già la sto terminando; e subito compita, non dubiti che io non la farò uscir fuori, se prima non ne rendo ragguagliata V. S. Ill.ma con inviarnele una copia, siccome brama.
Tengo poi fatti più quinterni della detta Opera; ma, per ristam-
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parli coll’accuratezza che io vi metto, vi vuole del tempo, tanto più che ora, trovandomi nell’età decrepita di 79 anni, continuamente vengo assalito da forti e gagliardi malori, e specialmente da palpiti di cuore che da ora ad ora mi minacciano la morte. Poco o nulla posso faticare, e mi pare a momenti finire la mia vita ”.
E invece, no, finirà il suo vescovato non la sua vita, per cui 1’8 settembre da Nocera annunziava:
“ Ho compito l’opera delle Vittorie de’ Martiri. Nel primo tomo, vi sono i martiri de’ diversi paesi, nel secondo tometto poi, vi sono i martiri del Giappone con molti altri opuscoli, molto utili a diversi stati di persone...
Da molto tempo, ho cominciato poi un’altra mia operetta, molto più faticata e molto utile: della Condotta della divina Providenza in salvar l’uomo per mezzo di Gesù Cristo. Quest’operetta comprende tutte le profezie, figure, segni e sacrifici che prenunziavano la venuta di Gesù Cristo; e questa prima parte è già stampata.
Nella seconda parte, si parla di Gesù Cristo, della conversione de’ gentili, della distruzione della Giudea, de’ progressi della Fede, dell’abbattimento delle eresie, e delle morti funeste de’ persecutori della Chiesa, con un altro opuscolo divoto.
L’opera è picciola in due tometti, ma comprende molto, e spero che sarà molto accettata dal pubblico ”.
La dedicò al papa Pio VI. È un “ discorso sulla storia universale ” che ci porta lontano dai sentieri ordinariamente battuti da Liguori, ma sempre nel cuore del mistero del Cristo e della Chiesa, considerato come il centro della storia; una specie di apologetica positiva con un grande affresco biblico della Città di Dio, senza però tenerezze per i riformatori.
Con questo Alfonso si riposerà finalmente? Nemmeno a parlarne, perché voleva essere il servo del Vangelo, sorpreso dal Signore in pieno lavoro.
“ Ora sto ritirato, scriveva ancora a Remondini il 12 febbraio 1776, e non posso star ozioso, onde ho principiato un’opera più grande, cioè del giudizio particolare ed universale, del purgatorio, dell’anticristo, della risurrezione, de’ segni della fine del mondo, della venuta di Gesù Cristo giudice, dello stato de’ dannati e de’ beati dopo il giudizio, e dello stato del mondo dopo finito il giudizio.
L’Opera è grande, ed io sto attratto, buttato sovra d’una sedia mi bisogna leggere mille libri, perché l’opera è tutta di teologia e di Scritture. Ma tutto viene in lingua volgare, eccettuate le autorità delle Scritture e de’ Padri. Ho belli libri per le mani; ma vi bisogna tempo e salute, ed io sto aspettando la morte da giorno in giorno...
L’opera… non verrà più che di due o tre tomi in-12°, perché io
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succingo le cose e son nemico di lungherie, le quali poi tediano e non si leggono; e secondo l’uso moderno, ora tutti vogliono libri succinti e sostanziosi, come spero che venga quest’opera mia secondo le dissertazioni che già ho stese, dove in breve si legge molto e con chiarezza: la quale chiarezza nelle opere mie sento che da tutti sia lodata.
Altro però io non pretendo che sia lodato Dio. E questa opera la fo per bene delle anime, perché contiene tutte cose che ci fanno avere avanti gli occhi la nostra fine di eterno gaudio o di eterna rovina”.
In realtà queste nove Dissertazioni teologiche morali, appartenenti alla vita eterna formarono un volume di 250 pagine: il trattato sulL’escatologia che mancava alla dommatica di Alfonso.
Causò un incidente significativo, oggi incredibile, tra l’autore e il suo revisore ecclesiastico, il canonico Salvatore Ruggieri, riguardo ai bambini morti senza battesimo: avrebbero dovuto subire la pena del senso e la pena del danno, cioè la sofferenza cosciente della privazione eterna di Dio? Alfonso espresse il suo parere citando san Tommaso: era da escludere sia l’una che l’altra; poi, con totale oggettività, aggiunse: “ S. Agostino fortemente sostiene tutto l’opposto ” e dietro di lui Gregorio Magno, Prudente di Troyes, Isidoro, Fulgenzio, Alberto Magno e, tra i moderni, Lorenzo Berti, il cardinale Enrico Noris, Fiorenzo Conry e molti altri 3 .
Il canonico Ruggieri, dall’alto del suo giansenismo, sentenziò papale papale che “ la sentenza di san Tommaso non poteva passare ” e che Mons. de Liguori doveva schierarsi con Agostino. Alfonso però, malgrado l’opinione corrente, proclamata ancora nel 1774 dal magistero di Pio VI 4, rifiutò che si correggesse il suo testo, perché vi era implicato a suo parere il vero volto di un Dio buono e giusto. Si sente vibrare tutta la sua indignazione in questa insistenza del 15 luglio 1776 presso il canonico Simioli:
“ Io le ho scritto tre volte per quella dottrina di S. Tommaso, che mi contrasta il revisore e dice che non può passare.
Torno a dire che io non voglio aggiustarmi e dipendere da esso: voglio dipendere dall’arcivescovo, e farò quel che l’arcivescovo mi comanderà...
Ho saputo che questa dottrina di S. Tommaso si legge pubblicamente nel collegio di S. Tommaso in Napoli; ma il Sig. revisore dice che non può passare. Basta: io farò quello che mi ricorda l’arcivescovo. Se sapevo, più presto forse avrei lasciato di stampare il libro che darlo a rivedere a questo revisore, oppure impugnar S. Tommaso: una cosa che ha fatto stordire i Domenicani . Bello spirito: La sentenza di S . Tommaso non può passare! Chi lo dice? La santa Chiesa? La santa Chiesa no, perché la Chiesa venera le dottrine di S. Tommaso. Intanto
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prego V. S. Ill.ma di sciogliermi da quel che voleva aggiustare esso revisore, mentr’io voglio dipendere solo dall’arcivescovo.
Mi dispiace quanto tempo ci ho perduto. Il memoriale del libro gia e uscito dal palazzo; ora aspetto che cosa vuol fare l’arcivescovo: se vuole darmi altro revisore, se vuol passare la dottrina di S. Tommaso o non la vuole passare. Io farò quel che mi dice. Pazienza! ” 5 .
Poi, il 22 luglio, Liguori se la prendeva con lo stesso revisore:
“ Veniamo alla questione de’ bambini. Io avevo scritto: S. Agostino sostiene fortemente l’opposito; V. S. Ill.ma ha mutato: fondatamente lo dimostra... ma il voler farmi dire che S. Agostino dimostra l’opposto è volermi fare impugnare S. Tommaso e dire che la sentenza di S. Tommaso evidentemente è falsa, e per conseguenza è volermi far dire una tonda bugia, con un dire un sentimento contrario a quello che sento: ed io son pronto prima a perdere la testa che dire una bugia. Pertanto ho pregato Benedetto Cervone di ottenere la moderazione di quella proposizione: fondatamente lo dimostra. Si può dire: S. Agostino tiene per certo, sostiene per ineluttabile ecc. La prego a non volermi obbligare a dire una bugia. Come posso dire che S. Agostino lo dimostra, quando io non posso arrivare a persuadermi che S. Tommaso tenga una sentenza falsa? La prego, la supplico a non tenermi più angustiato. Si accostano due mesi che patisco quest’angustia; la prego almeno che mi faccia questa carità ”.
Don Cervone, censore regio, riuscì a non far toccare il testo di Alfonso e poco dopo, nominato vescovo di Aquila, ricevette dal vecchio scrittore queste parole: “ V. S. Illustrissima è passata a stato di non poter essere più Revisore delle mie Opere giusto quando io son passato all’inabilità di poter più stampare ”. Dei resto in questo inizio del 1777 confidava al P. De Paola: “ Io mi sento sì malamente che non posso né scrivere né leggere: un dolore di capo continuo. Ho lasciato ogni sorta di applicazione”6.
Le Dissertazioni teologiche morali appartenenti alla vita eterna saranno infatti l’ultimo libro dell’infaticabile scrittore, anche se il suo zelo e il suo coraggio gli ispireranno ancora qualcuno di quei “ trattatelli ” (una dozzina dopo il suo ritorno a Pagani), stampati con e tra i lavori di lungo respiro.
Nel 1775 aveva pubblicato 40 pagine Del sagrificio di Gesù Cristo, ispirate a de Condren e Quesnel, con il fine di condurre i fedeli a comprendere, per parteciparvi, tutti i gesti, tutte le parole del sacerdote, anche il canone. Questa preoccupazione per una assemblea che celebrasse era molto rara prima del Vaticano II.
Altre 40 pagine su La fedeltà dei vassalli videro la luce nel 1777. Dodici anni prima della rivoluzione francese il quasi cieco di Nocera sentiva tremare i troni e gli altari, vedendo i monarchi scuotere la
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Chiesa e la fede e così segare il ramo su cui erano assisi: chi non temeva Dio, non temeva lo Stato. Lanciò un grido di allarme ai principi, dando loro come esempio Costantino, san Luigi, santo Stefano, sant’Etelberto, Luigi XIV e Carlo Emanuele di Savoia nell’opera di “conversione” dello Chablais. Nella sua finezza scelse un ventaglio ampio e nella conclusione prese le distanze dai suoi eroi, proponendo - possibile? - la libertà religiosa, “delirio” in seguito condannato da Gregorio XVI (Mirari vos, 1832) e Pio IX (Syllabus, 1864):
“ Non conviene, scriveva, usar la forza per indurre i sudditi ad abbracciar la vera fede; la forza era un tempo mezzo de’ tiranni che costringevano gli uomini a credere quel che non doveano credere, com’erano le idolatrie. Iddio nullum ad se trahit invitum; egli vuol essere da noi adorato con un cuore libero, non forzato ”.
Poi il primo Redentorista non si lasciava sfuggire un’occasione tanto bella per ripetere in alto la sua antifona:
“Non mancano all’incontro mezzi più adatti ed efficaci a’ principi zelanti d’indurre senza forzarli, i loro sudditi a seguir la sana dottrina. Quando ogni altro mezzo mancasse, essi chiamino ne’ loro Regni buoni missionarj che con sante istruzioni e prediche sgombrino gl’inganni e faccian conoscere la vera fede e la vera via di salvarsi, come han fatto i principi riferiti di sopra e tanti altri.
E’ vero che il mandar le missioni è officio de’ vescovi; ma la esperienza fa vedere che alle volte vale più la diligenza d’un principe santo e prudente a convertire i suoi vassalli, che non valgano mille vescovi, mille missioni e mille missionarj”7.
Restava da far arrivare l’opuscolo ai destinatari, che non erano, ci mancherebbe, lettori abituali di questo “ istitutore dei poveri ”, per cui occorrevano due cose: tradurlo in francese, a quel tempo lingua delle corti europee, e portarlo alle teste coronate. L’anno seguente fu tradotto e pubblicato in francese, probabilmente a spese del canonico Henri Hennequin di Liège, un ammiratore di Alfonso, incontrato forse a Roma, che si incaricò anche di inviarlo a tutte le corti di Europa; d’altra parte a Roma il cardinale Castelli lo diede a tutti gli ambasciatori e ministri delle potenze straniere per i loro signori. Non abbiamo alcuna risposta delle Loro Maestà all’autore, perché, come dice Tannoia, Alfonso aveva l’abitudine per umiltà di distruggere questo genere di corrispondenza 8. Se La fedeltà dei vassalli non cambiò il corso della storia, testimonia almeno lo zelo universale del vecchio vescovo, che niente poteva assopire.
Questa vigilanza lo rese attento alle pubblicazioni anti-Voltaire dell’anziano gesuita francese Claude-Francois Nonnotte (1711-1793). Gli manifestò nel marzo 1778 il suo entusiasmo, iniziando una corrispondenza durata fino al 1785 con almeno 15 lettere in latino, la lin-
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gua allora dei dotti come il francese dei diplomatici. Quando all’inizio del maggio 1778 a Napoli si sparse la voce della conversione di Voltaire, Alfonso esultò, riprendendo subito la penna e il latino per rivolgersi direttamente a lui:
“...Ero angosciato e piangevo vedendoti per anni usare male l’ingegno veramente grande che da Dio avevi ricevuto e, benché il più misero di tutti, innumerevoli volte ho effuso le mie preghiere a Dio perché il Padre delle misericordie ti attraesse totalmente al suo amore, abbandonati gli errori che ti imprigionavano.
Quanto desideravo più di ogni altra cosa è accaduto e sarà (parlo come sento) di maggior bene alla Chiesa di quanto non lo sarebbero lavori indefessi di cento società di operai evangelici.
Tuttavia, perché tale comune letizia sia assoluta dovunque e in tutti i modi e perché venga dissolta qualsiasi ambiguità sul tuo cambiamento, desidererei che con uno scritto rendessi ragione agli errori e ai sofismi, anzi respingessi gli strali di qualche recente scrittore che non ha dubitato per nulla di attaccare i dommi della fede con grande danno per la salvezza di tanti miseri giovani, che per amore della libertà hanno dimenticato l’anima e Dio.
So che soffri nella vista, ma un qualsiasi scritto da te dettato sarebbe sufficiente per tutto il mondo, soprattutto per quelli che si sforzano di mettere in dubbio come fittizio quanto di te sappiamo”9.
Non era una finzione, ma purtroppo una falsa notizia: Alfonso con tristezza mise da parte la lettera e Voltaire morì nel corso del mese.
In queste stesse settimane del maggio 1778 Liguori redigeva l’ultimo opuscolo, non a caso i Ricordi diretti alle religiose del SS. Redentore, che riassumevano l’essenziale della vita religiosa in 44 avvisi. Quello maggiormente sviluppato, il n. 41, trattava della preoccupazione per “i poveri peccatori che vivono lontani da Dio”. Inviandone dieci esemplari a S. Agata il 5 giugno il padre li accompagnava con queste parole:
“Vi prego poi a rileggere questo libretto più volte l’anno, almeno quando ciascuna farà gli esercizi spirituali in particolare.
Raccomando a tutte con cura particolare a mettere in pratica il ricordo che sta alla pagina 12, al n. 41, in cui si avverte a pregare per Il peccatori, e specialmente per gl’infedeli ed altri che vivono separati dalla Chiesa.
La monaca, che non prega per li peccatori, dà segno che ha poco amore a Gesù Cristo. Quelle che l’amano vorrebbero vederlo da tutti amato. Vi raccomando adunque i peccatori...
E per me pregate che Gesù Cristo mi dia una buona morte; perché mi sento molto affannato di spirito, e tremo pensando alla comparsa che tra breve dovrò fare avanti Gesù Cristo...
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Benedico V. R. e tutte le sorelle, una per una”10.
Per le suore di Scala Alfonso aveva conservato tanta discrezione quanto affetto e, pur non essendo a casa sua lassù, diventato vescovo, L’unico monastero che aveva fondato era stato quello delle Redentoriste a S. Agata, amate come figlie: per esse l’ultima raccomandazione, di una penna che ormai gli cadeva di mano e al centro di questo testamento “ i poveri peccatori che vivono lontani da Dio ”. Tutta la vita e tutta l’opera di Alfonso stanno in quest’ultima raccomandazione: essere “redentoriste”, “redentoristi” - una stessa parola e molto più che una parola - significa continuare la vita del Redentore.
Non avrebbe pubblicato altro, ma solo puntualizzato con aggiornamenti incessantemente rinnovati ed espunto qualsiasi probabilismo mal compreso dall’ottava edizione della Theologia moralis, alla cui apparizione nell’ottobre 1779 scrisse a Remondini: “ Con indicibile mia consolazione ho ricevuto... sei corpi della nuova mia Morale, ultimamente ristampata da V. S. Ill.ma... torno a dire che quest’ultima ristampa mi fa morire contento, come all’incontro sarei morto con pena, se fossi morto senza veder questa ristampa”11. La nona edizione nel 1785 sarà praticamente immutata, tranne nel formato che dal pesante in folio passerà al più agile in-4, reclamato da tempo dall’autore .
Questa grande morale in latino e la sua sintesi Homo apostolicus furono conosciute durante la vita dell’autore non solo nei dieci Stati italiani, ma anche in Spagna e in Portogallo (dove furono perfino condannate), in Germania, Francia e Belgio, in Austria, Polonia, Serbia e Bosnia, nelle due Americhe, nelle Indie e perfino in Cina.
Si è soliti dire, con la Bibliographie di Maurice De Meulemeester, che Alfonso pubblicò 111 opere, che vanno però dalle appendici di 5 pagine agli in-4 di 1.500; ma l’edizione critica delle sole Opere ascetiche, attualmente in corso (o in panne?), prevede 18 volumi di 4-500 pagine ognuno. Allora Alfonso fu uno scrittore prolisso, talmente ricco da stampare a proprie spese? Il contrario, fu un uomo conciso e sempre impegolato in debiti. Eppure è uno dei grossi successi librari della storia, potendo annoverare fino ai nostri giorni circa 20.000 edizioni in almeno 70 lingue; Shakespeare, più vecchio di lui di una larga generazione, tradotto è vero in 77 lingue, arriva nel 1961 a 10.602 edizioni 12.
Durante la sua vita Liguori ebbe 53 stampatori-editori, di cui i più grandi furono i Remondini di Venezia e Bassano: Giovanni Battista (1713-1773) e il figlio Giuseppe (1747-1811), che con i loro 18 torchi e più di mille operai facevano concorrenza a tutta l’Europa, spe-
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cialmente a Parigi e Augsburg 13 . Iniziò il rapporto con loro dalla terza edizione della Morale nel 1757 e non ebbe pace finché essi non presero in mano le sue opere spirituali, dal momento che Venezia era il pulpito dal quale poteva predicare al mondo intero, essendo il secondo centro mondiale del libro dopo Anversa. E Remondini trovò l’affare talmente conveniente da scrivergli: “ Se avete da stampare una pagina, anche mandatela da me”14 .
Ma Venezia era lontana da Napoli e il percorso sia per terra (Roma) che per mare (Manfredonia) lungo e denso di pericoli. Per non rischiare di perdere i manoscritti, Alfonso, terminata un’opera, la faceva stampare a Napoli in un numero sufficiente di copie da dare al libraio il proprio tornaconto; poi correggeva abbondantemente il testo stampato, facendo abitualmente una copia delle sue correzioni, e inviava l’opera rifinita a Remondini, chiedendogli spesso anche di servirsi di carta buona, benché a costo di un aumento di prezzo. Le edizioni uscivano in 2-3.000 esemplari (impossibile di più con torchi a mano) e si susseguivano. I napoletani, con rabbia di Remondini e con dispetto di Alfonso, continuavano a stampare opere non rimaneggiate o purificate da errori, mentre altri editori a Torino, Milano, Firenze, Roma, Benevento, Siracusa, impadronitisi di un “Liguori” vi facevano i loro affari, dal momento che il copyright, benché inventato nel 1710 dalla regina Anna Stuart, non si era ancora affermato nel Paese del sole e solo con la rivoluzione francese avrebbe creato sul continente lo statuto fermo dei diritti d’autore.
L’editore faceva pagare i rischi agli autori debuttanti e testimoniava la sua gratitudine a quello di fama con il dono di alcuni esemplari, mentre i forzati della penna si ritenevano felici di essere letti da pochi pari: 50 per un libro serio, 500 per uno piacevole, come diceva Voltaire 15.
Fedele al suo carisma popolare e al suo Dio, Alfonso, che mirava a un altro pubblico e alla gloria di un Altro, si rifiutò risolutamente alle richieste di Remondini per un suo ritratto all’inizio delle opere, come facevano gli autori più importanti, dicendo: “ Questo svergognerebbe; non accrediterebbe l’opera con mettere questa mummia alessandrina vicino al libro”. Don Verzella fu costretto a fare un buco nella porta della camera da pranzo, per farvi appostare un pittore durante i pasti di monsignore 16 .
Al di là della scienza e del rigore delle sue dimostrazioni morali o teologiche, ridusse al minimo l’apparato scientifico. Per la dissertazione De justa prohibitione, et abolitione librorum nocuae lectionis da parte dell’autorità della Chiesa, Alfonso si era fatto aiutare dal P. Alessandro Di Meo, che aveva preparato una appendice di note erudi-
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te. Quando nel 1759, superata l’opposizione di Tanucci (per il quale il solo re aveva una tale autorità) con la minaccia di esilio per il revisore, di galera per lo stampatore e di fuoco per l’opuscolo, questo poté essere pubblicato, non incluse il contributo di Di Meo e Alfonso a chi gliene faceva un rimprovero rispose: “Mi volete far comparire per uomo dotto al mondo?”17 .
Eccoci debitamente avvertiti su una scelta deliberata, la stessa del cavaliere distinto e colto che nel 1732 aveva lasciato Napoli a dorso d’asino per unirsi alla massa dei poveri. Attraverso uno sforzo di pensiero e di espressione di cui si mostrarono incapaci gli uomini “ illuminati ” del suo tempo, arrivò ad esprimersi in un italiano tanto semplice da far sentire a loro agio anche i caprai del sud; più tardi avrebbe preso la penna.
Ma quale penna? Un napoletano, il P. Francesco Chiovaro, si spiega in questi termini:
“La stampa è per Alfonso un mezzo di diffusione del Vangelo tra i poveri, come la musica, la pittura, la poesia. Se non vi fosse stata la stampa per diffondere i suoi scritti, Alfonso non avrebbe messo mano a nessuna delle sue opere di volgarizzazione, genere nel quale è maestro incontestabile. Scrive senza alcuna preoccupazione letteraria, come egli stesso dice, mirando solo a moltiplicare l’eco della sua parola, raggiungendo il maggior numero di uomini possibile. Non a livello di élite: vuole essere il "pedagogo" delle masse, scrive per l’uomo della strada Paradossalmente poi questo disprezzo del dato letterario è all’origine del suo successo, dal momento che nei suoi libri si legge la migliore prosa religiosa del Settecento italiano.
Certamente non ha mai sognato di essere un giorno Dottore della Chiesa, anzi non l’interessava punto, sentendosi solo semplice catechista Il maestro elementare non si aspetta di diventare dottore honoris causa della Sorbona o del Collège de France. Quando gli fu decretato l’onore del dottorato e, cosa straordinaria, molto prima di qualsiasi altro dottore della Chiesa, il buon santo nel suo cielo sarà stato sicuramente il primo a non gloriarsene.
Il titolo che ufficialmente gli è valso tale onore è stato la Teologia morale, un’opera non direttamente destinata alla gente del popolo, neppure ai professori o ai sottili risolutori dei casi di coscienza, ma manuale per i confessori (cominciando dai suoi confratelli) che, lungi dalle discussioni delle scuole di teologia, erano dediti a far passare fin nel cuore del popolo i principi evangelici. Accadde ad essa quanto capita a tutti i tentativi di cambiare dall’esterno una moda culturale: gli specialisti della morale, impadronitisi della sua opera, diedero vita a una polemica che coinvolse lo stesso autore e si infiammò in maniera più viva dopo la sua morte.
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Al contrario, le opere che fecero acquisire ad Alfonso - però non ufficialmente - il titolo di maestro del popolo di Dio furono Le Glorie di Maria, le Visite al SS. Sacramento, le Massime eterne, L’Apparecchio alla morte, la Pratica di amar Gesù Cristo, Del gran mezzo della preghiera, per citare solo le più significative e le più popolari. Seppe individuare i bisogni religiosi del popolo e dare ad essi una risposta intonata alla fede e alla mentalità popolare”18.
Dovette per questo forgiarsi una lingua scritta.
Il popolo italiano del Settecento e dell’Ottocento non parlava italiano, ma piemontese o lombardo, veneziano o romagnolo, napoletano o calabrese. Se l’Italia aveva una lingua letteraria - il toscano, compreso tra intellettuali, scritto da loro e per loro - , gli italiani parlavano tutti i proprio dialetto regionale. Il toscano, come scriveva Ugo Foscolo, è per gli italiani una lingua straniera, una lingua scritta che non può essere parlata.
Causa precipua era il fatto che nel Rinascimento era stata divulgata nel solenne periodare latino alla Cicerone, lungo e rigido, nel quale la vivacità del genio italiano, che si effondeva nei dialetti, si trovava come messo ai ferri. Gennaro Sarnelli e tanti altri che allora come ai nostri giorni possono scrivere solo drappeggiati della toga romana, sono “ fastidiosi e spesso insopportabili”19.
Alfonso, che certo aveva adoperato una declamatoria solenne nelle sue arringhe giovanili al foro napoletano, per non essere ridicolo agli occhi dei suoi pari e pericoloso per i clienti, lasciato tale stile nel vestibolo del palazzo di giustizia, parlò in napoletano nelle Cappelle serotine e creò - notate il termine - un italiano scritto, vivace e popolare, non volgare e scorretto (nel 1750 compose per i suoi studenti una piccola grammatica in 9 capitoli, Avvertimenti per la lingua toscana) 20, un italiano divenuto poi “classico”, compreso ancora oggi dal popolo. Alfonso ebbe il fiuto di scegliere nella lingua allora in corso di elaborazione le parole più semplici, le forme più piacevoli: parole e forme che restano, in forza delle stesse leggi dell’evoluzione linguistica.
Ma questo “toscano” popolare, che Alfonso parlò e scrisse per gli “abbandonati” della cultura, chi poteva leggerlo in un popolo di analfabeti? Eppure veniva letto, dal momento che le edizioni e le traduzioni si moltiplicarono già durante la sua vita.
Prima di tutto i sacerdoti, le monache, i religiosi - numerosi, troppo numerosi - , che non erano delle “grosse teste”, leggevano Liguori: per se stessi, in comunità, nelle chiese per la “vita divota” da animare al mattino e alla sera. Il popolo sentiva perciò le Visite, Le Glorie di Maria, le Meditazioni sulla Passione, le gustava, le introduceva nelle sue serate.
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Istituzione essenziale della vita quotidiana, nobile, borghese o contadina, lungo l’inverno, la serata si trascorreva in racconti e letture: mentre le donne filavano o cucivano e gli uomini tiravano la loro pipa o riparavano qualche utensile al lume della candela o semplicemente curvati verso la fiamma del focolare, una lettrice o un lettore faceva la lettura per tutti, servendosi non sempre dell’almanacco o di un libro di agricoltura, di cucina o di medicina, ma spesso di catechismi, di racconti evangelici, di vite di santi, di opere che nutrivano la fede e la preghiera. Nel più povero quartiere, nel più piccolo villaggio v’era pur sempre chi sapesse leggere: il parroco, uno “zi’ prete” (in quale famiglia mancava!), un cantore della parrocchia, un soldato tornato a casa, una donna educata in conservatorio. L’importante era che il testo fosse semplice, ricco di tratti che l’uditorio poteva ricordare, ridire, diventando a sua volta un narratore orale 21.
La memoria popolare si arricchirà ancor più delle circa 50 canzoncine, composte (parole e musica) lungo mezzo secolo dal missionario del popolo minuto. Per apprezzarlo, non bisogna paragonarlo né a Dante né a Metastasio, perché era solo se stesso: un mistico, che partecipava gli slanci della sua fede e del suo amore al popolo semplice delle campagne e dei quartieri bassi. La musicalità delle parole, il ritmo delle strofe, il sapore delle melodie, il fuoco dei sentimenti rendono diffidenti di fronte ad ogni traduzione: bisogna dirlo, bisogna cantarlo in italiano o in napoletano. Del resto la “giuria” gli ha dato la voce: la voce di un popolo che canta Liguori.
Mons. Mario Palladino scriveva all’inizio del nostro secolo:
“ Unicamente sant’Alfonso gliel’ha dato al popolo questo canto in tutta la sua perfezione. Ed oggi, dopo un secolo e mezzo che ha cominciato a risuonare, nelle nostre e nelle altre contrade d’Italia, conserva ancora, come avviene della vera poesia, la sua giovinezza. Quanti poeti sono venuti in campo in questo lungo periodo di età, quanti, nelle trasformazioni letterarie che si sono succedute, hanno tentato la poesia popolare, e di alcuni tra loro si è detto di aver colto la palma; e poi sono passati, sono stati dimenticati dal popolo, il quale non l’ha dimenticato sant’Alfonso, il suo vero e dolce poeta”22.
È tanto entrato nel respirare del popolo che, per esempio, non v’è Natale senza la sua Tu scendi dalle stelle, composta una sera a Nola. Lo stesso Giuseppe Verdi, dopo la veglia natalizia del 1890 nel palazzo Doria a Genova, riconobbe che senza questa pastorale Natale non sarebbe sembrato Natale 23.
1 “
MEULEMEESTER, Bibliographie, I, pp. 162-179.
da DE MEULEMEESTER, op. cit., III (1939), p. 3.
II, ed., Paris 1969; L. FEBVRE - H.-L. MARTIN, L’apparition du livre, Paris 1971.
41, 77-97; A. SOBOUL, La crise de l’Ancien Régime Paris 1970, pp. 180-181.