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Parte quinta “ DOVE TU NON VUOI ” (1775-1787) 48 - “ VOLONTA’ DEL PAPA, VOLONTA’ DI DIO! ” (1777-1781) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
48 - “ VOLONTA’ DEL PAPA, VOLONTA’ DI DIO! ”
Le concessioni di Clemente XIV riuscirono solo ad acuire l’appetito dei regalisti e Tanucci, con Pio VI, fece i propri comodi, legiferando sfrontatamente, in nome di un fantoccio di re, in tutte le materie ecclesiastiche. Nel 1775 i napoletani si videro proibire il viaggio a Roma per lucrare le indulgenze dell’anno santo, perché Ferdinando IV aveva semplicemente sostituito la visita delle basiliche romane con quella delle chiese napoletane. Il nuovo arcivescovo Serafino Filangieri, la cui nomina non diceva niente di buono al Liguori 1, si mostrò subito basso cortigiano e regalista, sopprimendo nel suo titolo che era arcivescovo “ per grazia della Sede Apostolica ”. Quando il papa si rifiutò di crearlo cardinale, Tanucci rispose che il re non avrebbe escluso il conferimento della porpora a qualche alto dignitario del Regno. Si andava insomma verso una chiesa nazionale, i cui vescovi sarebbero stati nominati dal potere per avere solo servili strumenti; una chiesa soprattutto staccata da Roma, di cui si aborrivano - e con ragione - le pretese di sovranità.
In questo clima sopraggiunse nel 1776 L’incidente della chinea. Ogni anno da secoli il giorno della festa degli apostoli Pietro e Paolo, l’ambasciatore di Napoli presso la Santa Sede versava al papa in segno di vassallaggio 7.000 scudi d’oro, portandoli solennemente in S. Pietro su un cavallo bianco (la chinea). I napoletani provavano, è comprensibile, una crescente avversione per questo tributo, anche se pagato - ironia! - al vicario di chi aveva detto: “ Il mio regno non è di questo mondo ”.
Il 29 giugno 1776 dunque, mentre il principe Colonna, ambasciatore di Ferdinando IV, si recava in pompa magna in Vaticano per la presentazione della chinea, sorse una disputa di precedenza nel corteo tra i suoi paggi e quelli del governatore di Roma. Tanucci trasformò la lite tra valletti in affare di Stato, facendo scrivere al papa in nome del re che, avendo l’esperienza dimostrato che un atto di pura devozione, quale la presentazione della chinea, poteva diventare fonte di
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scandalo e occasione di disordini, aveva ritenuto di sopprimere per l’avvenire tale cerimonia, con una decisione dettata dalla ragione, dalla riflessione, dall’umanità, dalla giustizia e da una saggia accortezza, dipendendo la forma di questo omaggio unicamente dalla sua sovrana volontà, dall’ispirazione della sua pietà e dalla religiosa sua condiscendenza.
“ L’ispirazione della sua pietà ” fece sì che Ferdinando IV offrisse ancora la chinea nel 1777, ma solo come testimoniánza di venerazione per il principe degli apostoli; fu l’ultima volta, malgrado le proteste che di anno in anno Pio VI non mancò di elevare 2. Tra Roma e Napoli si ebbe quindi per dieci anni un clima di guerra, che è indispensabile non perdere di vista per comprendere le peripezie che segnarono tanto duramente gli ultimi anni di Alfonso.
Con questa spettacolare rottura, Tanucci pensava forse di aver consacrato la sua inamovibilità! ? ... Aveva però fatto i conti senza la regina Maria Carolina, figlia di Maria Teresa, sorella di Giuseppe II il “ sagrestano ” e della sfortunata Maria Antonietta, che non amava né quello zoticone di Ferdinando IV, né quel vecchio potentato di Tanucci, ma, come sua madre, soprattutto il potere. Positivamente l’imperatrice aveva fatto inserire nel contratto nuziale della figlia che la giovane regina sarebbe stata ammessa con voce deliberativa alle sedute del Consiglio di Stato, dal momento in cui avrebbe dato un erede alla corona di Napoli. Nel 1775, nato il principe erede, Maria Carolina persuase il regale sposo che la tutela di papà - il re di Spagna - era durata troppo (l’Austria aspettava il suo turno) e Ferdinando sabato 25 ottobre 1776 ringraziò il vecchio Tanucci, che aveva servito i Borboni per 49 anni, sostituendolo, per influsso di Giuseppe II, coll’ambasciatore a Vienna, il marchese della Sambuca, Beccadelli Bologna.
Mons. de Liguori non poteva non rallegrarsi per questo mutamento al vertice, perché il feroce processo Maffei-Sarnelli, sempre pendente contro di lui e il suo Istituto, aveva fatto particolarmente aggravare le cose da due anni. Con decreto del 13 ottobre 1775, Tanucci aveva demandato l’inchiesta e il giudizio su questa vecchia causa a tre commissari con a capo Ferdinando de Leon, avvocato fiscale della Giunta degli Abusi, un agnostico dichiarato e aggressivo, desideroso solo di far scomparire monaci, Gesuiti e Redentoristi 3.
Astuto ed efficace, de Leon lasciò cadere le lagnanze locali dei Maffei e del Sarnelli, centrando il suo rapporto su capi di accusa cui era impossibile sfuggire: i padri di fatto avevano acquisito dei beni, malgrado l’ordinanza regia del 1752; costituivano una congregazione, dal momento che avevano superiori locali, novizi e studenti; partecipavano
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alle facoltà e ai privilegi degli altri istituti; avevano fondato negli Stati Pontifici per esportarvi i tesori del Regno; infine, dato più grave di tutti, erano un pollone gesuitico, con lo stesso regime autoritario e la stessa morale lassa.
“ Non vi è bisogno di nuove Congregazioni, e di nuovo incentivo, per abbracciarsi la vita Ecclesiastica in un Paese, ove vi ha settantacinque mila tra Preti, e Frati... Se Vostra Maestà, su questo, che rappresento, vorrà sentire il parere de’ suoi Magistrati, spero che costoro non si faranno abbagliare dall’apparente utilità dell’insegnarsi a’ poveri villani. Tutte le cose male hanno avuto principio dalle cose buone. Non vi fu Setta nel Mondo, che con apparenza di bene non facesse la prima sua mostra; ma il tempo dimostrò, che il fanatismo, L’ambizione, lo spirito di singolarità, e non altro, erano state le molli, che innalzato aveano i nuovi edifici...
Non creda V. M., concludeva l’avvocato nel suo rapporto, che senza rimedj forti, ed efficaci anche questa nuova Congregazione non sia per crescere. Tra le contraddizioni sono sorte le altre: tra le contraddizioni si promoverà anche questa. Si aspetterà il tempo più favorevole, ed allora la presente controversia si descriverà tra la gloria dell’Istituto, ed il nome mio, che per altro non merita, che oscurità, sarà famoso nella Vita di D. Alfonso de Liguori, tra quelli, si dirà, che il demonio eccitò, come sempre operar suole, contro le opere buone”4.
Ma sì, caro Don Ferdinando de Leon, eccoci fedeli all’appuntamento!
Per dare maggiori possibilità a questo dossier, il primo ministro nel gennaio 1776 lo aveva sottratto alla Real Camera per trasferirlo alla Giunta degli Abusi, il tribunale eccezionale da lui creato e presieduto: era già una squalifica, quasi una condanna.
“Abbiamo ricevute stamattina le belle notizie, scrisse Alfonso al P. Angelo Maione, dico belle per farci rassegnare alla volontà di Dio.
Se si avverano, non ci resta altra speranza che Dio, il quale è più potente di Tanucci e di tutti”5.
Nove mesi dopo un “buffetto” di Maria Carolina atterrò il colosso e il marchese della Sambuca, su domanda di Alfonso e di suoi amici vescovi, restituì ben presto il processo Maffei-Sarnelli alla Real Camera e al suo presidente Baldassarre Cito (7 marzo 1777).
Al vecchio compagno di studi e di giochi, alla corte suprema in cui contava amici eccellenti, a meno che non si trattasse dello stesso Carlo De Marco, Alfonso indirizzò un memorandum familiare, in cui rigettava punto per punto le accuse di Ferdinando de Leon:
“...Posto dunque che il Re concesse a noi il poter convivere, come possiamo convivere senza subordinazione degli uni agli altri? Anche nelle botteghe de’ lavoranti, anche nelle mandre di pecore, vi bisogna
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un capo, che diriga gli altri. Non vi siano pure né Rettori, né Priori e simili, ma è necessario che i conviventi siano subordinati a coloro, che dirigono l’Opera ed i soggetti. Altrimenti l’Adunanza diventerà una massa di discoli, che contrastano fra di loro tutto il giorno; perché ognuno vorrà fare ciò che gli piace, e vorrà che si faccia quel ch’esso vuole? Specialmente nelle missioni... che altro riuscirebbe la missione che una confusione ed uno scandalo degli stessi paesani?
La seconda contravvenzione che ci si oppone, è che noi abbiamo noviziato e studentato. A questa noi rispondiamo, che si aboliscano per noi questi nomi di noviziato e studentato; ma all’incontro domandiamo: E’ necessario o no per mantenere l’Opera delle missioni, che si suppliscano i nuovi soggetti a quelli che mancano? Nello stesso Dispaccio si dice, che il Re desidera che l’Opera delle Missioni si mantenga sempre nella sua nativa fervorosa qualità. Se i nuovi soggetti non si surrogano a quelli che muojono, ed a quelli che si partono per loro capriccio dalla nostra Adunanza, come ella ha da mantenersi sempre nella sua nativa fervorosa qualità? Se non avessimo presi nuovi giovani per supplire a’ soggetti che son mancati, al presente la nostra Adunanza potrebbe dirsi finita, o quasi finita..
Ma perché non si prendono soggetti e sacerdoti già istruiti? Ma vorressimo sapere, dove si trovano questi missionarj già fatti? Ordinariamente quelli che si applicano allo stato ecclesiastico, se giungono al sacerdozio e si situano in qualche impiego di parrocchia, di economato, di sagristia e simili, situati che sono, chi mai di costoro vuol lasciare lo stato già preso, in cui si è situato, per venire a viver così poveramente, come fra noi si vive? E specialmente se egli si trova avanzato alquanto in età, è molto difficile che voglia porsi a rischio di perdere la salute, viaggiando per montagne e per deserti con piogge e nevi, e con pericolo di perdervi la vita, come già fra di noi tanti ne son morti per le fatiche fatte nelle missioni. Sicché se dovessimo licenziare i giovani che vogliono venire ad ajutarci, non sarebbe mantener l’Opera delle Missioni nel suo primo fervore, ma volerla distruggere”6.
Questa “arringa” non datata fu del 1777 o del 1778? Lentamente fece il suo cammino e il 12 aprile 1779 il padre scriveva a Maione
“Padre D. Angiolo mio, ora la cosa mi pare bene incamminata Lasciamo fare a Gesù Cristo, il quale in queste nostre persecuzioni ha fatto miracoli, come V. R. ben sa; e son sicuro che non lascerà che l’opera sua si distrugga, essendo di tanto profitto ai poveri peccatori. Dalla Calabria, dalla Puglia, dalla Basilicata, dalla diocesi di Benevento, dalla Sicilia e dalla campagna di Roma, ho notizie che mi inteneriscono, delle fatiche de’ nostri Padri e del bene che fanno. Sia benedetto Dio!
Io poi crederei esser buono prevenire Mgr Cappellano Maggiore,
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acciò, andando dispaccio, si trovi informato; ma di questo si regoli V. R. colla sua prudenza...
Io mi sento più male di salute; ma vi assicuro che muoio troppo contento, se Gesù Cristo e la Madonna SS.ma mi fanno vedere la quiete nelle nostre Comunità ”7.
Alfonso quindi si aspettava un’ordinanza favorevole e in realtà il 21 agosto 1779 Carlo De Marco pubblicava in nome del re un dispaccio che riconosceva formalmente l’utilità dell’opera delle missioni, autorizzava l’esistenza delle quattro case di Ciorani, Nocera, Deliceto e Caposele, approvava la nomina di superiori e permetteva di accettare giovani per formarli al ministero dell’Istituto. Era gettare a terra tutta la requisitoria del procuratore de Leon e, benché non si accennava a voti, si faceva un gran salto in avanti nei confronti del decreto del 1752, con la speranza di andare più lontano, passo dopo passo: “Se qui fosse venuto il Gran Duca di Toscana in persona, ripeteva con rabbia il procuratore de Leon, conseguito non avrebbe dalla Corte, quanto hanno ottenuto questi quattro Pretazzoli”8.
“Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto! Il P. Cimino mi ha letto posatamente il dispaccio, scrisse due giorni dopo Liguori a Maione, per cui dirò tre messe di ringraziamento.
Ringraziamone dunque di cuore Gesù Cristo e Maria Vergine, a cui ho raccomandato l’affare in modo speciale.
Ringrazio il Sig. De Marco, il Cappellano Maggiore ed anche V R., che con tanta attenzione ha atteso al disbrigo di questo affare di tanto vantaggio...
Io mi sento più male di salute; ma vi assicuro che muoio troppo contento, se Gesù Cristo e la Madonna mi fanno vedere la quiete nella nostra Comunità”9.
Con questa speranza il fondatore rivolse ai suoi figli quasi un testamento spirituale:
“L’età avanzata nella quale mi trovo, e molto più le continue malattie che non cessano di molestarmi, siccome mi persuadono che questa sia l’ultima insinuazione che fo a voi, Padri e Fratelli miei dilettissimi, così mi danno a credere che voi sarete per mettere in pratica quanto, in nome e da parte di Gesù Cristo, vi ammonisco, considerando ciò come un estremo pegno del mio affetto verso di voi.
È vero che ho sommo motivo di consolarmi, per avere inteso che nelle nostre case si vive in osservanza e morigeratezza, attendendo ciascuno a quel fine per cui il Signore l’ha chiamato in Congregazione; ma è vero ancora che, con grave rammarico dell’animo mio, mi è stato riferito che nella Congregazione vi sono insorti molti sconcerti, e specialmente intorno alle missioni, a’ quali a tutto potere bisogna dare gli opportuni rimedi ”.
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Richiamava la povertà nel cibo, L’orazione mentale, dal momento che “ l’operaio, per illuminare, deve essere illuminato, e per accendere nel petto degli altri il fuoco dell’amore di Dio, prima ne dee essere egli acceso. Tutto ciò ricavasi dalla meditazione...
Soprattutto che mai, mai non si prendano spese, regali o denaro dalle università, affinché le missioni non si rendano odiose, e così si vada a perdere o almeno a raffreddarsi l’esercizio del missionarsi, sopra di cui sta appoggiato unicamente l’Istituto dell’adunanza del SS. Redentore... ”.
Seguivano alcuni punti di vita regolare interna, poi:
“Acciocché quanto hovvi affettuosamente insinuato stia nel vigore e nell’osservanza, ho stabilito con fermezza in ciaschedun anno, per quanto Dio vorrà, di mandare un Visitatore per ogni casa, che faccia le mie veci... ”.
Tutto insomma nella circolare parlava di speranza di fronte a un avvenire visto saldo.
Ancora meglio, il 22 ottobre in nome del re, il primo ministro della Sambuca incaricava Mons. de Liguori e i suoi missionari di predicare nel Regno la “crociata”. Dovendo rinforzare la flotta militare contro i Turchi che razziavano le coste napoletane e siciliane, incendiando, uccidendo e trascinando prigionieri a Tunisi, Algeri o Tripoli della Sambuca credette più valido suscitare donazioni che rendere più pesanti le imposte. Per questo ottenne dal papa ciò che Maria Carolina non osava ancora accordare: una “ bolla di crociata ” che prevedeva privilegi spirituali a coloro che alleggerivano la propria borsa per i cantieri navali di Sua Maestà. Mons. Filangieri, promosso commissario generale della crociata, nel febbraio 1778 aveva steso una lettera pastorale per sensibilizzare l’opinione pubblica, ma nessuno aveva messo mano in maniera consistente al proprio portafoglio... Allora il governo pensò a quei Redentoristi ai quali da poco si era accordato come una seconda esistenza.
Alfonso, che aveva nelle vene sangue di capitano di galera, vide soprattutto l’occasione irripetibile per accedere finalmente al pieno riconoscimento legale e fece stampare una circolare pomposa, datata 8 novembre 1779, che cominciava così:
“Alfonso Maria de’ Liguori, per grazia di Dio e della S. Sede Apostolica Vescovo, Rettore Maggiore de’ sacerdoti missionari della Congregazione del SS.mo Redentore.
Con sommo ed inesplicabile giubilo del nostro cuore, ci è capitato per la posta un venerato real dispaccio, spedito per la prima segreteria di Stato, col quale si è compiaciuta la Maestà del Re N. S. incaricarci, con espresso comando, che ci fossimo adoperati di far pro-
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muovere e sostenere con zelo da tutti voi, miei Confratelli, la grand’opera della S. Crociata, voluta dalla M. S. in questo Regno, per li motivi accennati nello stesso real dispaccio che, per vostro regolamento e governo, passiamo alla vostra notizia. Egli è del tenor seguente:
IlI.mo e Rev.mo Signore. - Avendo in considerazione il Re le incessanti fatiche di cotesti missionari del SS. Redentore per istruire popoli ed indurgli agli atti della vera pietà e religione, e la santa premura colla quale spargono da per tutto i principi della sana Morale, relativi a’ doveri di un buon cittadino e di un buon cristiano, si è determinata la M. S. a volere che l’opera della Crociata, la quale non è ad altro ordinata che alla salute delle anime de’ Fedeli e al maggior vantaggio dello Stato, sia promossa e sostenuta dallo zelo di cotesti missionari: quindi vuole che V. S. Ill.ma, qual Fondatore e Rettore Maggiore delli medesimi, dia loro al nome del Re un espresso incarico che, per ogni luogo dove faranno le missioni, spiegassero, quanto più frequentemente potranno, le indulgenze e le altre grazie ottenute nella detta Bolla; annunziando nel tempo istesso, a’ fedeli vassalli della M. S., Io bisogno che ha la nostra marina di un indispensabile sussidio, per ripulsare le continue aggressioni che fanno i Maomettani, con danno considerabile della Religione e dello Stato...”.
Si saranno notati i termini “santa premura” e “sana Morale” impiegati dal primo ministro, e quello di “Congregazione” arrischiato da Alfonso. Decisamente il vento era cambiato!
Già nel 1777 gli avvocati di Alfonso e alcuni confratelli avevano percepito questo cambiamento e, senza sperare un exequatur alla Regola approvata da Benedetto XIV (reso impensabile dal clima che si era instaurato tra Roma e Napoli), avevano ritenuto giunto il momento per chiedere al re un “ regolamento interno ” analogamente a quanto aveva fatto nel 1752 Carlo di Borbone per quello esterno. Non si faceva minimamente questione di ritoccare le Regole e le Costituzioni canoniche, ma solo di stabilire uno statuto legale per la congregazione. Il Cappellano Maggiore, Mons. Matteo Testa, era molto favorevole in questo senso e lasciava ben sperare; il giurista Liguori, che distingueva lo status civile di un’opera da quello religioso, ci mise le due mani, incaricando segretamente della cosa i due consultori generali, Angelo Maione e Fabrizio Cimino. Alle voci che filtravano deformando le sue intenzioni, rispose con fermezza scrivendo il 4 settembre 1779 al P. Bartolomeo Corrado:
“Ho inteso dubitarsi da taluni che io voglia far Regole nuove, diverse dalle antiche.
Come mai ha potuto qualcuno sospettare di ciò, mentre io sono stato sempre gelosissimo di questa Regola? Secondo questa ho sempre
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governata la Congregazione, e sino all’ultimo fiato procurerò con tutte le mie forze che la Regola non resti mutata in menoma parte”.
Il superiore generale era chiaro e franco, pur tacendo - doveva farlo - sulle trattative di pura forma che dovevano finalmente dare all’Istituto il riconoscimento legale. Si sarebbe spiegato nel 1780 in un lungo memoriale, non datato, destinato a Pio VI:
“ Beatissimo Padre, ecco il fatto nella sua sincerità...
Mi fu proposto che non essendosi mai sul Breve apostolico di approvazione delle Regole, come si è già detto, potuto ottenere il regio exequatur ed essendoci opposto dal Barone (Sarnelli ) e dal Fiscale (de Leon) suddetti il tener dette Regole senza l’assenso del Re, esser necessario tentare di domandarne l’approvazione che tenesse in qualche modo l’efficacia del regio exequatur; tanto più che S. M. avea approvato i superiori, come sopra, e gli altri officiali per l’interiore regolamento. E mi fu rappresentato esser necessario che si proponessero in sostanza le medesime Regole approvate dalla s. memoria di Benedetto XIV, modificate a tenore degli ordini reali del 1752 e 1779 e adattate alla polizia del Regno. Questo fu il parere de’ nostri Avvocati e de’ miei Consultori; e mi fu anche insinuato esser necessario un esatto segreto, perché non fosse impedito o rovinato negozio sì importante per mancanza di segretezza.
Diedi dunque incombenza ad uno de’ Consultori, il P. D. Angiolo Maione, il quale assisteva in Napoli per la causa suddetta, di fare quanto fosse necessario per condurre a fine questo affare. Si fecero varie sessioni ecc. e si incominciò ad agire. Io mi valeva in Nocera di un altro Consultore, il P. D. Fabrizio Cimino, nella cui fedeltà riposava quietamente. Avendo i sacerdoti miei congregati avuto qualche indizio di ciò, fu fatta istanza da quasi tutte le case di Regno per sapere quali Regole si presentassero a S. M. Mi era disposto a sentire i sacerdoti, i quali aveano ragione di esser intesi in un affare sì delicato e che tutti riguardava; ma mi fu vietato dal timore, che i Consultori suddetti mi fecero concepire, che questo fosse lo stesso che rovinar per sempre negozio sì necessario al corpo tutto, potendo giungere alle orecchie del Barone avversario, il quale avrebbe co’ ricorsi messo insuperabili ostacoli al buon esito della desiderata approvazione reale”10.
Si sente affiorare l’ambiguità della situazione attraverso questa nuova smentita di Alfonso il 15 dicembre al P. Corrado:
“ Ho ricevuto e considerato, parola per parola, la vostra lettera. Non credo che vogliate sospettare che io v’inganni, o che voglia asserire una bugia, o che sia tanto scimunito che voglia permettere che si muti cosa alcuna nella Regola. Non dico altro.
Se poi non posso essere creduto, che voglio dire? Me lo prendo per li peccati miei.
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Il sentire queste cose mi dà gran pena, vedendo chiaramente che sono cose del demonio per mantenerci inquieti. Ripeto: assicuratevi in mia coscienza che non vi è cosa contro la Regola, o contro l’osservanza della Comunità. Se poi non mi vogliate credere, pazienza”11.
La cosa era in buone mani: Mons. Testa, Cappellano Maggiore, che sapeva bene fino a che punto occorreva cedere ai regalisti, teneva tanto che il passo del suo vecchio amico Liguori riuscisse e Maione non aveva altra ambizione. D’un tratto però, presi dal gioco, redassero un Regolamento del tutto nuovo: i quattro voti furono sostituiti da un giuramento di castità e di ubbidienza; fu tolta qualsiasi traccia di povertà e di vita comune, invece del voto e del giuramento di perseveranza venne stabilito che in ogni momento fosse lecito ai soggetti lasciare l’Istituto, la conduzione esterna della congregazione passò ai vescovi, lasciando al rettore maggiore il solo governo ad intra, ma con poteri singolarmente ridotti e per di più trasferiti in gran parte ai suoi consultori; i capitoli generali da tenersi ogni nove anni furono soppressi; non apparvero più numerose altre prescrizioni di minore importanza. Per completare questo volto civile del Regolamento, venne affermato che la congregazione doveva la sua esistenza ai decreti regi del 1752 e del 1779, inseriti nel testo perché fossero inviolabilmente osservati da tutti. La regola di Benedetto XIV venne così sostituita da un’ordinanza regia .
Alfonso era un giurista troppo sottile per vedervi un grave inconveniente: non si trattava solo di un documento che collocava la congregazione dinanzi allo Stato? Nel 1777, in un memoriale per la Real Camera, aveva scritto che il dispaccio regio del 1752 era “ la pietra fondamentale che sostiene la nostra Adunanza”12. Tra persone intelligenti ci si capisce! Però avrebbe sicuramente rifiutato che questi enunziati destinati al foro civile potessero minimamente significare l’esclusione pratica delle disposizioni religiose fondamentali approvate da Benedetto XIV. Ad ogni modo il testo doveva essergli sottomesso prima di venire proposto al governo e in realtà, a fine settembre 1779, Maione venne a Pagani a presentare il progetto al rettore maggiore, ma...
Ma Mons. de Liguori aveva 83 anni, occhi consumati che gli rendevano difficile qualsiasi lettura, una sordità che gli impediva l’ascolto di lunghi rapporti e il libello di Maione era scritto in caratteri piccoli e pieno di cassature e di correzioni. Pure il vegliardo cercò di leggere, ma dopo poche righe dovette rinunziare. Che si sia papa o santo, la vecchiaia è incompatibile con l’esercizio delle responsabilità. Alfonso si rimise al suo direttore e vicario generale, il P. Villani.
Villani, 73 anni, era l’uomo dei rimaneggiamenti della Regola: aveva subito senza infarti quelli della curia romana nel 1749 e ora
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ebbe lo stesso cuore forte di fronte a quelli del regalismo napoletano, anche perché “ mai attribuì troppa importanza al “Regolamento”; egli lo considerò sempre una pura formalità, che non obbligava nel foro della coscienza”13. Eppure rimase sorpreso dinanzi alla soppressione dei voti, ma Maione fu pronto a dirgli non senza ragione: “ Non vuole Voti il Re, perché ci costituiscono Semiregolari ” e che “non erasi nel caso di dar la legge, ma di riceverla da Monsignor Cappellano: che se variavano certe minuzie, avendosi in sostanza confirmata la Regola, queste non facevano al caso”. Villani allora rassicurò il fondatore - “tutto andava bene” - e Maione riguadagnò Napoli con carta bianca da parte del superiore.
Redatto secondo le norme del Consiglio di Stato il Regolamento interiore della Congregazione del SS. Redentore non dovette penare per l’approvazione: il 22 gennaio 1780, dopo 40 anni di rifiuti, la congregazione ottenne finalmente uno statuto legale nel Regno. L’orda Maffei-Sarnelli-de Leon perdeva la causa prima che venisse discussa; l’avvenire delle missioni era assicurato; Testa e Maione potevano essere fieri e felici per Alfonso e il suo Istituto.
Tuttavia i confratelli erano agitati come da una febbre: si scriveva a Maione, a Liguori, che chiamò presso di sé Tannoia...
A Napoli, durante tutto febbraio, il Regolamento passò dal Consiglio di Stato alla Camera di S. Chiara e da questa agli Affari Ecclesiastici presso Carlo De Marco. Il 1° marzo finalmente il Cappellano Maggiore consegnò l’esemplare ufficiale a Maione per Mons. de Liguori, con questa lettera: “V. S. Ill.ma, qual Fondatore, e Rettore Maggiore della Congregazione, faccia sapere in nome mio a tutti e qualsivogliano Individui, che cotal Regolamento deve restar sempre fermo in ogni futuro tempo, senza veruna alterazione, o diminuzione, dovendo osservarsi puntualmente...”.
Maione era sufficientemente fine per prevedere la certa tempesta, perciò, invece di portare subito fieramente il suo “ capolavoro ” a Pagani, aspettò un’occasione favorevole, presentatasi nella persona del rettore di Benevento, Gaspare Caione, consultore generale, che andava a predicare gli esercizi al clero di Salerno.
Pagani, 8 marzo 1780. Nel primo pomeriggio, arrivò il P. Caione latore per Alfonso del documento tanto aspettato e i confratelli, sottratti alcuni al sonno altri alla preghiera, furono tutti in pochi minuti in camera del P. Villani, rettore della casa e vicario generale. Recarsi insieme da monsignore? Era troppo ammalato, però senza di lui nessuno osava rompere i sigilli. A sera ai padri, riuniti da lui per un momento di ricreazione, Alfonso disse tutto felice:
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- Venerdì Santo accetteremo di nuovo la Regola, ed anche noi faremo a Gesù Cristo questo sacrificio.
- Lo faremo, gli fu risposto, dopo aver letto, e considerato il Regolamento...
Comprese? Non sembra e nessuno osò spingere avanti la cosa. Ma poi, subito fuori della sua camera, i confratelli non diedero tregua al vicario generale finché non avesse aperto il plico sigillato; impadronitisi dei foglietti, a gruppi, li lessero avidamente: stupore, scandalo, collera. Dopo una notte passata nel copiare le pagine, risvegliarono Alfonso prima che si facesse giorno per esporgli il massacro a cui era stata sottoposta la Regola e chiedergli che facesse giustizia.
- Non si può, non si può! ripeteva Alfonso scorrendo le pagine fatali e rivolto a Villani:
- D. Andrea, non aspettava da voi questo inganno.
Poi a tutta la comunità:
- Meriterei esser trascinato a coda di cavallo. Doveva leggere io come Superiore... che per leggere un verso, vi debba stentare...
Rivolti gli occhi verso il Crocifisso:
- Gesù Cristo mio, io mi sono fidato del Confessore: se non mi fidava del Confessore, di chi meglio avrei potuto fidarmi!
E scoppiò in singhiozzi, ripetendo: “ Sono stato ingannato! Sono stato ingannato!... Ah Signore, non castigate gl’innocenti, ma mortificate chi vi ci colpa, perché ha guastato l’Opera vostra”. Naturalmente questo colpevole ai suoi occhi non era altri che lui e perse l’appetito e il sonno, tanto che si credette di perderlo.
Due giorni dopo chiamò in aiuto il P. Corrado da Ciorani:
“ Don Bartolomeo mio, io sto in pericolo di andare in pazzia.
Trovo il nuovo Regolamento, fatto dal P. Maione, quasi tutto contrario ai sentimenti miei.
Qui tutti i giovani fanno fracasso.
Vi prego di lasciar tutto e di venirmi a trovare, se non mi volete veder perduto il cervello, e morto con qualche goccia”14.
Primo atto del rettore maggiore, il 13 marzo, fu ritirare dinanzi a un notaio ogni procura per il P. Maione e trasferirla al P. Corrado, inviato subito a Napoli con una supplica al re e lettera per Mons. Testa e per il marchese De Marco:
“Don Bartolomeo mio, V. R. già vede che la nostra Congregazione sta per distruggersi; onde bisogna che V. R. L’aiuti, come meglio può.
Le mando questa mia supplica al marchese De Marco, e le mando ancora la lettera che fo al marchese De Marco, la quale bisogna che gliela porti V. R., e l’informi di tutto.
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Bisogna parlar chiaro; altrimenti il P. Maione lavorerà sotto acqua.
Bisogna fargli sapere ch’esso P. Maione, per trovarsi fatto Consultore, ha voluto avvantaggiare le facoltà de’ Consultori, ed ha dirupate le facoltà del Rettore Maggiore in mille cose; in modo che ora i miei compagni non mi portano più rispetto, vedendomi così disprezzato.
Bisogna che un giorno di questi, quanto più presto, parli al detto marchese, e gli dica ch’io non sono scimunito, come gli dirà il P. Maione; ancora mi aiuta il cervello, ma esso Padre tira a farmelo perdere”.
A Carlo De Marco, benché tanto regalista quanto Maria Carolina o Giuseppe II, Alfonso non aveva niente da nascondere, avendo in lui un amico sicuro, che avrebbe fatto quanto avrebbe potuto. Perciò, per far vibrare la corda dell’amicizia, drammatizzava l’irriverenza di cui d’ora in poi sarebbe stato oggetto.
Tentò poi di raccogliere i figli e di mettere il Cielo dalla sua parte, come aveva sempre fatto nei giorni di pericolo. Il 16 marzo scrisse perciò al P. Diodato Criscuoli, rettore di Ciorani:
“ Io non so come non mi sia venuto un butto di sangue, per li fracassi in cui si son trovati nella Congregazione.
Il P. Maione, sentendo che io e tutti gli altri della congregazione non voleano il nuovo Regolamento fatto, non dal Re, ma dallo stesso P. Maione, volea ricorrere al Re, affinché ordinasse il discacciamento di ognuno che non accettava il Regolamento.
Per grazia di Dio, ho saputo a tempo questo suo bel pensiero onde subito ho rivocato ogni procura fatta da me a Maione, ed ho scritto al P. Corrado per rimediare al fuoco che sopra ciò il P. Maione allumerà, e spero che il fuoco si smorzerà.
Frattanto prego V. Riv. e gli altri a ritornare, se non avete cominciata altra missione; e (se l’avete cominciata) subito dopo quest’altra missione, ritornate.
Cominciate una novena alla Madonna di nove Ave e Gloria, acciò la Madonna rimedi a qualche ruina.
Io non perdo tempo per rimediare; ma la Madonna è quella che ha da operare.
Fate pregare anche da altri, senza nominare questo disturbo della Congregazione; e subito che potete venire a trovarmi qui a Nocera venga Vostra Riv. Ora non bisogna che vengano gli altri; e pregate Gesù Cristo che mi dia rassegnazione ”.
Una personalità complessa Angelo Maione: ricco di ambizione, almeno - perché no? - quella di riuscire, forse anche partecipe della mentalità regalista, tanto frequente tra la gente di Chiesa di fronte alle ideologie politiche del momento, soffriva di una certa allergia nei
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riguardi dell’autorità degli altri. A S. Agata non era voluto restare con monsignore e ora l’autorità aveva 80, 83, 85 anni, con un vicario generale con solo dieci di meno... eppure Alfonso aveva sempre conservato la sua fiducia in lui. Ma ora che sarebbe accaduto tra di loro? Lunedì santo, 20 marzo, il rettore maggiore gli scriveva:
“Io abbracciato ai piedi di Gesù Cristo vi scrivo questa.
Vi prego a far lo stesso per parte vostra, in questi giorni in cui Gesù Cristo, per nostro amore, ha dato la vita.
D. Angelo mio, scordiamoci di tutto il passato, e mettiamoci sotto i piedi tutto quello ch’è succeduto.
Vi prego di ritirarvi nella casa vostra di Ciorani, e se non vi piace quella casa, sceglietevi quella che volete.
Siate sicuro che io per me vi amerò come prima, e ciò lo vedrete coll’esperienza. Resterete Consultore, com’eravate prima, dando il vostro parere in tutti gli affari pressanti della Congregazione.
La stima vostra, lasciatela in mano mia; e sarà mio perpetuo pensiero difenderla presso tutti i domestici ed estranei.
Quietiamoci adunque, ve ne prego per le piaghe di Gesù Cristo.
Non ho altro che dire: consigliatevi col SS. Sacramento e poi datemi la risposta quando vi piace.
Vi benedico, e prego Gesù Cristo che vi riempia del suo santo amore e vi faccia tutto suo, come Gesù Cristo lo desidera ”.
Maione aveva messo la Congregazione di fronte a un dilemma, reso inevitabile dal disaccordo tra Roma e Napoli: o rifiutava il Regolamento cadendo sotto i fulmini di Napoli o lo accettava finendo sotto quelli di Roma. Nel primo caso era la soppressione delle case napoletane, nel secondo si rischiava la frattura con quelle degli Stati Pontifici.
Il fondatore, rifiutando tale alternativa, volle cercare una terza strada in una riunione dei delegati di tutte le case, convocata a Pagani per il 12 maggio. Occorreva infatti fare in fretta perché se a Napoli Maione, sordo al suo superiore e padre, si affaccendava per far espellere dalla congregazione tutti quelli che non accettavano il Regolamento, negli Stati Pontifici v’era chi già aveva preso in mano i destini della congregazione del nord, presentandosi come suo salvatore.
Il P. Francesco De Paola, rettore di Frosinone e visitatore delle due case della “ Romagna ” spirito indipendente, guardava verso Roma più che verso Nocera la cui vecchia guardia, sempre la stessa - Villani, Mazzini - intorno a un rettore maggiore ottuagenario, gli ispirava poca simpatia. Forse aveva anche una scorza di mania di persecuzione, dal momento che in una lettera amara del 2 gennaio 1780 si lagnava con il P. Villani d’essere criticato dai consultori e pregava poi l’ammonitore ufficiale di richiamare monsignore a una regola certo non meno vene-
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rabile delle altre: la convocazione del capitolo ogni nove anni; diversamente si sarebbe appellato al papa, come aveva già pensato di fare 15 .
Era una gaffe da evitare assolutamente! Ma un intrigante spione il P. Cipriano Rastelli, fece precipitare le cose: avrebbe fatto meglio a trovarsi in missione il 20 gennaio, invece di scrivere da Pagani a De Paola questa lettera stupida e cattiva:
“L’umile servitù ed obbligazione che già prima contrassi con V. Riv. mi spinge a scrivere la presente e notiziaria di alcune cose rilevanti che dai Padri Consultori si maneggiano con segretezza e risguardano gl’interessi di ciasched’uno individuo. Sono entrati in impegno i Padri Majone e Cimino con Monsignore e il rimanente del conciliabolo di far approvare dal nostro Sovrano la Regola ed impetrarvi l’assenso; e perché è difficile la cosa, pensano di togliere via tutto ciò che è contrario al dispaccio del Sign. Nostro. Quindi dovranno toglierne i voti ed altre cose sostanziali, e tutto questo rilevantissimo affare sta confidato nelle mani di Maione solo... e quantunque Monsignore Liguori sia stato pregato a voler ascoltare ancora gli altri Padri, non ha voluto sentire alcuno riclamare e non si è arrosito dire che chi vorrà osservarle e riceverle sarà in Congregazione e chi no, marcerà via. Quello però che dà più da temere si è che questi due Consultori pensano a perpetuare il loro dispotismo e forse indurre Monsignore a rinunciar l’impiego a talun di loro; giacché, come intesi, quel che più si pretendea in questo esposto era il dare un successore a Monsignore per perpetuare, dicevano, la Congregazione... ”. E Rastelli il puro, terminava la sua pagina con una filippica contro questi due consultori che, non conoscendo né Regola, né povertà, né vita comune, avevano messo tutta la casa al servizio del loro dispostismo!
Questa pagina fece uscire De Paola dalla sua esitazione e il 23 febbraio - quindi prima che il re avesse controfirmato il Regolamento - inviò un rapporto con una copia della lettera di Rastelli all’abate Zuccari, avvocato e prosegretario della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari. In un rapido excursus storico spiegava che l’Istituto era senza rettore maggiore legittimo da quanto Mons. de Liguori era stato promosso vescovo di S. Agata, perché da una parte erano state le comunità non già un regolare capitolo a postulare di mantenerlo come rettore maggiore, d’altra parte il rescritto pontificio prolungante il suo mandato era stato presentato per l’accettazione al capitolo del 1764 anch’esso invalido “ per vari capi ” che si asteneva dal riferire. Dopo di questo erano passati 18 anni senza che si fosse celebrato nessun altro capitolo e ora Mons. de Liguori, 84 anni, chiedeva al re di scegliere il suo successore. Era distruggere la Regola, cambiare la congregazione. Che fare? Convocare un capitolo generale?... almeno per le
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case degli Stati Pontifici? O meglio separare quest’ultime da quelle del Regno e far loro eleggere il proprio superiore?
Zuccari, volendo restar fuori del gioco, rifiutò di trasmettere il dossier al cardinale prefetto, ma a fine aprile, dopo l’apparizione del Regolamento, il P. Isidoro Leggio, uno dei sudditi di De Paola presentò la cosa alla Santa Sede.
Lunedì di pentecoste, 15 maggio, si aprì l’assemblea di Pagani con discussioni che si prolungarono fino al 26 giugno, alle quali però Alfonso, sordo e malato, poco partecipò. Che poteva ripetere se non quello che aveva già scritto il 12 aprile al P. Leggio? Dopo aver molto pregato e riflettuto, al grido di dolore: “Sono stato ingannato”, aveva infatti fatto seguire una serenità realistica: se si erano sacrificati i voti, li si potevano recuperare nel giuramento di ubbidienza che invece restava e poteva inglobare tutto; “il governo interno” (lo ripeteva tre volte) poteva e doveva restare inalterato. Aveva scritto perciò a Leggio e ai suoi confratelli di Frosinone:
“State forti nel tenere abbracciate le antiche Regole, fatte non da me, ma da quel santo Monsignore Falcoia, colle quali sinora si è conservata la Congregazione...
Si muteranno alcune cose, per non opporci ai diritti regali, ma in quanto al governo interno, io spero che si abbiano da osservar sempre le stesse massime...
State allegramente! Tutte le regole del Papa, come sono i voti, non si possono stabilire, perché il Re non vuol voti; ma si farà il giuramento di ubbidienza, e questo basterà per mantenere le pratiche antiche in quanto al governo interno, dando però luogo ai diritti regali...
Io voglio una Congregazione del SS. Redentore, non già due; né ostano alcune cose per ubbidire al Re: basta che si mantenga lo stesso governo interno della Congregazione”16 .
Nessun atto ufficiale, nessun rapporto disinteressato ci è rimasto di quelle sedute e di quelle sofferenze. I sedici partecipanti (due per casa, tranne Agrigento troppo lontana) compilarono una lista di cambiamenti “intollerabili”. Il 26 maggio i padri Corrado e De Bonopane partirono per Napoli con la missione di discuterne di fronte alle istanze governative. Tre settimane di sofferenze perdute! Il 26 giugno, prima di separarsi, i rappresentanti delle case del Regno accettarono il Regolamento sub conditione non precisata e scelsero anche un nuovo consiglio generale. Alcuni “duri” volevano eliminare tutti i “responsabili”, cioè Villani, Maione e Cimino. Alfonso, ritenendosi il primo colpevole e per attenuare il colpo agli altri, depose la sua carica di rettore maggiore, ma fu rieletto non sappiamo come, al pari di Villani, che però dovette cedere al P. Corrado il suo ufficio di vicario generale. Tranne Don Andrea, furono tutti nuovi i membri del consiglio generale, tra i
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quali Blasucci, ma non il cugino De Paola. I “pontifici” si astennero dalle votazioni.
Settimane strazianti per il fondatore, la cui neutralità attirava i rimproveri di tutti: “ Voi l’avete fondata, e voi l’avete distrutta!”. Ma restava in silenzio, come il Cristo negli oltraggi, o a volte semplicemente “tutto attribuiva ai proprj peccati”.
Dopo la riunione di Pagani, diversi padri chiesero di passare in territorio pontificio; il P. Sossio Lupoli vi si rifugiò con i 12 studenti di cui era prefetto; l’eminente ma già anziano Caione, rettore di Benevento, si infuriò un giorno contro il gruppetto di giovani che ormai assistevano il generale. Fu ben presto chiaro che l’assemblea di Pagani non aveva fatto altro che rendere evidente l’inevitabile: la frattura
De Paola da parte sua si dava da fare per accelerarla: il 25 giugno, poi il 4 luglio, suggeriva... chiedeva “con le lagrime agli occhi” alla S. Congregazione di dare un presidente autonomo alle 4 case degli Stati Pontifici.
E se la Sicilia le avesse seguite, pensava, sarebbero state cinque! Lo stesso 4 luglio, scrisse perciò al rettore di Agrigento, il “fratello” Pietro Paolo Blasucci (le madri erano sorelle), la cui risposta però il 30 luglio fu una doccia fredda:
“Carissimo Fratello, ricevo una vostra de’ 4 del cadente. Se non sono appieno informato dell’occorse novità, non ne sono certamente affatto nuovo. Non capisco qual bisogno avevate ad umiliare Supplica a nome delle Case dello Stato a S. Santità affinché ordinasse l’Osservanza in quelle della Regola di Benedetto XIV, e non del nuovo Regolamento Regio fatto espressamente per le 4 Case del Regno ecc. né ha sognato di dare regola fuori del suo regno, né poteva darla.
Le case dello Stato fondate da S. Santità, sono soggette e lo saranno alle leggi stabilite da S. Santità. Il ricorso dunque ha servito solamente per discreditare in Roma la Congregazione come degenerata nel Regno e discreditare le medesime case dello Stato come membra di un corpo malsano, e a tirarci imprudentemente la collera del Re, che presto o tardi informato di un tal ordine procurato da S. Santità, o può ottenere dalla S. Sede l’abolizione di tali case a lui sospette ne’ confini del Regno o almeno divieto rigoroso di operare, commerciare, o accostare un piede nel Regno, e di questo modo abolirle colla penuria...
Mi dispiace che avrete luogo nella storia dello scisma come Donato fra Donatisti e Geroboamo fra i scismatici Israeliti. Non vi fate capo di quattro teste mal consigliate; abbiate orrore dar questo scandalo al mondo gravissimo di sottrarvi dall’ubbidienza del santo vecchio Mgr Liguori, assegnato dal Papa rettore maggiore vita durante, qual è sino alla morte, delle case dello Stato secondo la Regola di Benedetto XIV,
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e nello stesso tempo direttore, secondo la mente del Re, delle case del Regno”17.
De Paola andò oltre e Roma si informò con discrezione a Benevento e Veroli, mentre conduceva un’inchiesta a Pagani per mezzo dell’internunzio di Napoli, Mons. Severino Servanti. Vivamente indisposta dalla nuova usurpazione del re, male informata sullo stato di salute di Alfonso, la Curia non aveva alcun pregiudizio favorevole per colui del quale Pio VI disse che non “ capir poteva come Alfonso così addetto alla Santa Sede, e ricco delle sue grazie, indotto si fosse ad un passo così scabroso ”.
Mentre De Paola e Leggio pungolavano gli uffici romani, Alfonso il 24 agosto rispondeva al cardinale prefetto Francesco Carafa che, dati i suoi 85 anni e le sue infermità, avrebbe inviato due padri, finito il grande caldo, per mettere in piena luce la verità, aggiungendo: “ Non attendeva in questa età un regalo sì distinto da’ miei”18.
Tutto precipitava. Senza attendere l’esito dell’inchiesta, la S. Congregazione il 22 settembre emise un decreto provvisorio, che privava le case del Regno di Napoli degli indulti e privilegi accordati alla Congregazione del SS. Redentore e dichiarava che esse dovevano considerarsi come mai appartenute all’Istituto. Si stava per eleggere un presidente per le residenze degli Stati Pontifici nella persona del P. De Paola, nominato effettivamente il 25 settembre. In questo stesso giorno arrivarono a Roma i due padri inviati da Alfonso, Antonio Tannoia e Salvatore Gallo, in tempo solo per accogliere la notizia disastrosa portarla a Pagani.
- Io voglio solo Dio, disse Alfonso, basta che non mi manca la grazia di Dio. Il Papa così vuole, benedetto sia Dio!
Però nel corso della giornata fu assalito da una terribile tentazione di disperazione e disse piangendo: “Per i peccati miei Dio abbandona la Congregazione. Ajutatemi che non voglio offendere Dio: il demonio mi vuol far disperare!”. Ritornata la pace, si rivolse gioioso verso il Crocifisso e la Madonna: “Madonna mia vi ringrazio, voi mi avete ajutato: ajutatemi Mamma mia: Gesù mio speranza mia, non confundar in aeternum”. Da allora per chiunque si lamentasse dinanzi a lui della situazione ebbe una sola risposta: “Volontà del Papa, volontà di Dio” .
Volendo ubbidire alla volontà del presidente e morire nella congregazione, pensò di andare a vivere gli ultimi suoi giorni come semplice soggetto nella casa di Benevento, ma Villani gli disse:
- Non essendosi abbandonata la Regola, la Congregazione anche sussiste nel Regno.
- Comunque sia, rispose, il Papa non riconosce queste Case per Case dell’Istituto.
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- Allora, andate pure a Benevento! Ma farete tanto rumore da aggravare la tensione tra il papa e il re.
Alfonso non ne parlò più, ma alla prima occasione, l’8 ottobre, scrisse a De Paola:
“ Don Francesco mio... mi rallegro che vi siate arrecati sotto la potestà del Papa, e che V. R. siane fatto luogotenente; di più mi rallegro della missione di Velletri. Tutto va bene, e tutto dovevate accettare, essendo volontà del Papa.
Il Papa mi avrà incolpato, per avere io accettato il Regolamento del Re; ma se mai avete modo di fargli sapere, per qualche amico che, se esso Papa sapesse che siamo stati in pericolo di perder tutto se io non avessi accettato il Regolamento, certamente non mi condannerebbe.
Io spero appresso, quando sarà tempo, di fargli sapere il tutto, e supplicarlo della grazia che spero; mentre non mi sono scordato delL’affetto che ha avuto verso me miserabile, ed io spero vivere e morire servo suo fedelissimo e della Chiesa.
Prego V. R. a trovare qualche persona che faccia questa parte mia presso del Papa; mentre per ora non posso scrivergli, e bisogna che mi rassegni alla volontà di Dio in tanti disturbi in cui mi son trovato.
Tutti voi di costà non vi scordate di raccomandarmi alla messa per la morte che mi sta vicina.
Ognuno di voi, io l’ho amato assai. Il Signore ha voluto questa divisione: sia sempre adorata la sua santa volontà!
Se qualche volta mi potete scrivere per farmi sapere i vostri progressi, l’avrei a caro. Gesù e Maria benedicano tutti voi! e pregateli per me”19 .
Alfonso inviterà a Pagani De Paola, che però non vorrà mai venire; scriverà al papa per tentare di fargli comprendere l’impossibile situazione; il 24 febbraio 1781 strapperà al re per i suoi sudditi il permesso di aggiungere ai giuramenti di castità e di ubbidienza quelli di povertà e di perseveranza, primo passo verso la riunificazione 20. Sfortunatamente non ebbe intorno a sé uomini validi: Villani era vecchio, Corrado privo di finezza, Tannoia di personalità, Blasucci in Sicilia . . .
La situazione si deteriorava nell’indecisione. De Paola, che pure aveva promesso di lavorare per l’unione, si impazientì e chiese alla S. Congregazione di metter fine al provvisorio. Leggio, nominato procuratore delle case degli Stati Pontifici insistette per il mantenimento delle decisioni del 22 settembre 1780 e vinse la causa, il 24 agosto 1781, quando la S. Congregazione decise che si stesse al precedente decreto e che non si ritornasse più sul problema.
L’Istituto era spezzato in due e non facevano più parte della
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congregazione del SS. Redentore i confratelli viventi nel Regno di Napoli, tra i quali lo stesso fondatore.
Lo stesso Pio VI dichiarò agli inviati di Mons. de Liguori che motivi politici impedivano un’altra soluzione, perché Roma non poteva lasciarsi sfuggire quest’occasione per assestare un colpo al re e alla regina di Napoli.
Il colpo però finì su Alfonso, che ebbe solo queste parole: “Questa è stata la mia preghiera sono sei mesi: Signore voglio quello che vuoi tu”.