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Parte quinta “ DOVE TU NON VUOI ” (1775-1787) 49 - “ ECCOMI QUA, MIO DIO! ” (1781-1787) | «» |
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49 - “ ECCOMI QUA, MIO DIO! ”
Da metà dicembre 1778 non cadeva una goccia d’acqua su Nocera dei Pagani e nelle sue passeggiate quotidiane il vecchio vescovo sentiva crescere la disperazione del povero popolo. Domenica 16 maggio 1779 si fece issare sulla cattedra nella parrocchia di Pagani per predicare la penitenza e l’indomani, recatosi nella cappella della Madonna delle Grazie, dopo una lunga silenziosa preghiera, dichiarò bruscamente a coloro che si erano raccolti intorno a lui: “Allegramente, seguitate a raccomandarvi alla Madonna, confessatevi e comunicatevi in questa settimana, che domenica avremo l’acqua!”. Immaginate voi se la notizia non fece rapidamente il giro del paese e se non si sperò!... Eppure, non era profezia di curato che aveva visto scendere il barometro, dal momento che il cielo si ostinava a restare “di bronzo”. “ Questa volta, si cominciò a mormorare, Monsignor si è svergognato ”. Improvvisamente, due ore prima dell’Angelus della sera della domenica però, in un istante il cielo si coprì e tutto il paese cantò sotto un vero diluvio. Otto giorni dopo l’abate Nonnotte ne veniva a conoscenza a Parigi.
Dieci settimane più tardi toccò al Vesuvio terrorizzare la regione. Cominciò il 29 luglio ad eruttare, sputando fiamme alte e riversando lava a nord, verso Somma e Ottaviano, poi l’8 agosto cambiò direzione minacciando Pagani a circa venti chilometri. Verso le 9 di sera, divenuto allucinante lo spettacolo, il P. Corrado corse alla cella di Alfonso, che, sostenuto da Romito e Pollio, si trascinò all’estremità del corridoio, la cui finestra dava sul vulcano. “Gesù!” esclamò atterrito; poi fece un grande segno di croce e il Vesuvio si abissò nel suo cratere 1.
Era meno facile a Liguori scongiurare una sentenza pontificia, perché la ragion di Stato, che non ragiona e non misura i propri colpi, aveva picchiato più duramente di quanto chiunque avesse previsto: i confratelli delle case napoletane avevano “ cessato d’esser membri ”
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- pesiamo le parole - della congregazione del SS. Redentore. Maione e Cimino non osarono rientrare “ in casa ”: il primo morirà prematuramente nel 1787; il secondo, in seguito vescovo di Oria, ritornerà a Pagani solo nel 1818 come “oblato” per finire i suoi giorni tra i confratelli. De Paola e Leggio volevano la presidenza e la separazione, ma non avevano mai mirato all’annientamento della branca napoletana dell’Istituto. Un incendio una volta appiccato non si sa però dove si fermerà!
Per il fondatore fu come il colpo di grazia. “Eran quasi due anni, scrive Tannoia, cioè prima della catastrofe di tanti guai, che Alfonso spossato vedevasi e debilitato; ma se tale per l’innanzi, cadavere addivenne, succeduta la congerie di tanti malanni. Facevano peso gli anni in un corpo estenuato e crocifisso; ma sopraggiunto il grave travaglio in che vide se stesso e la Congregazione, agonizzava, e non era uomo. Poco mangiava, e meno dormiva; e lo stesso mangiare, anzi che sollievo, eragli di pena. Continuato miracolo stimavasi da tutti, come l’afflitto vecchio regger potesse, e sopravvivere, e non restar soffocato in tante e sì diverse amarezze, ed amarezze così gravi ”. Dovette rinunziare a predicare il sabato sulla Madonna, malgrado il suo voto. Nel novembre 1780 tenne anche l’ultima conferenza alla comunità diffondendosi sull’efficacia della preghiera, sulla sua grande utilità, sulla sua indispensabile necessità. Tutti furono colpiti dal calore e dall’ampiezza: era quasi una consegna ai suoi figli 2 .
Ebbe un’ulcera allo stomaco e, dopo aver vomitato sangue quasi da morirne, ritornando lentamente in sé lo si sentì mormorare: “Come? Non siamo noi la Congregazione del SS. Redentore? Non ricevemmo noi la Regola del Papa Benedetto XIV? Se osserviamo la Regola del Papa, perché non siamo della Congregazione?”. La sua pena profonda affiorava nei momenti di semicoscienza, ma poi lucido concludeva:
- Si può forse dubitare, che quella Regola si è osservata, e quella si osserva, che a noi fu proposta dal Papa Benedetto XIV, come ora ci abbiamo da trovare da fuori? Dio così vuole, pazienza!
- Ma no, via questi pensieri neri, gli dicevano allora i confratelli, noi siamo veri congregati.
Si calmava apparentemente e ritornava in silenzio. Giammai, nei momenti di semicoscienza o nei suoi deliri di malato, lo si sentì proferire la minima lagnanza contro la Santa Sede e contro chiunque altro 3 .
Al contrario, mentre soffriva sotto il peso della disgrazia pontificia e mentre doveva considerarsi “ cassato” da membro della congregazione da lui stesso fondata, era felicissimo della sua espansione folgorante dovuta ai favori di Pio VI e allo spirito di intraprendenza dei padri
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De Paola e Leggio. Scrisse perciò il 23 novembre 1781 al padre “ presidente ”:
“ Con mia consolazione, ieri giorno 22 del corrente, ricevei la vostra carissima, scritta a’ 14, dalla quale ho saputo con distinzione le due fondazioni di Foligno e Gubbio, ed anche dell’ospizio a Roma. Con ciò ho avuta doppia consolazione...
Godo assai de’ 15 novizi ricevuti, perché ora avete bisogno di maggior copia di soggetti, anche per le missioni in queste nuove case...
La ringrazio dell’Ave Maria ogni sera: applicatela specialmente per la mia buona morte.
Anch’io ringrazio Dio che, per mezzo mio, si è servito idi dar principio a tutto il bene che poi si è fatto per mezzo vostro, e principalmente del Papa, che Dio ha voluto consolare con tante opere di sua gloria.
Godo che andate, fra breve, a far le missioni per le case nuove di Foligno e Gubbio.
Io spero che Dio si servirà di voi per altri aumenti della gloria sua, e pertanto non lascierò pregarne il Signore.
Aggiungo più cose molto utili, e vi prego d’insinuarle a’ compagni.
Insinuate il predicare della preghiera, del che io ho stampato un libro a posta. Dio vuole fare le grazie, ma vuol esser pregato: chi non prega, non ottiene.
Raccomandate sempre la divozione alla Madonna per chi si vuol salvare .
Procurate che ogni sabato si faccia la predica della Madonna; e che si faccia sempre questa predica in tutte le missioni...
Aff.mo ed Obbl.mo fratello - (e per l’ultima volta della sua vita osava firmare:) - Alfonso Maria, del SS. Redentore”4 .
Sei mesi più tardi, il presidente dei Redentoristi, mise il fondatore al corrente dei progressi della congregazione, assicurandolo - macabra gentilezza - che alla sua morte ogni padre degli Stati avrebbe celebrato per lui le nove messe previste per il rettore maggiore.
“ Ringrazio V. R. ed i suoi compagni che si ricordano di me, rispose Alfonso il 21 giugno 1782, e sappiate che io ancora mi ricordo di voi.
Da ora vi ringrazio con tutto il cuore, con tutti i vostri compagni, delle buone intenzioni di dirmi le messe nella mia morte.
Quando potete, scrivetemi un verso; perché le vostre lettere mi consolano .
Mi consolo del noviziato di Scifelli, con ventidue giovani.
Prego Dio che sempre più l’accresca il fervore dell’amor suo.
Io ringrazio sempre Dio che fa sempre avanzare le vostre case, e
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mi fa morire umiliato: segno che vuol perdonarmi i peccati miei...
Pregate Dio che mi faccia morire con confidenza nella sua Passione .
I giovani che mi accompagnano mi consolano col lor fervore.
Di nuovo vi prego a raccomandarmi a Gesù ed a Maria, ed io non lascierò di farlo per tutti voi, acciocché vi riempiano del loro amore.
E con ciò vi abbraccio con tutti i vostri compagni strettamente nel cuore. - Alfonso Maria ”.
Veramente la congregazione sembrava esplodere: nel 1782 Scifelli formava 21 novizi; altre quattro case vennero subito ad aggiungersi alle quattro già esistenti, Spello (diocesi di Foligno ) nel 1781, Gubbio nel 1782, S. Giuliano a Roma nel 1783 e Cisterna nel 1785. Nel 1783 il presidente De Paola ottenne dalla Santa Sede la nomina a superiore generale perpetuo, designando quale sua residenza il convento di S. Giuliano vicino a S. Maria Maggiore a Roma.
Questa partenza folgorante fu un fuoco di artificio: il suo governo autoritario, contro il quale Alfonso precedentemente lo aveva messo in guardia quando era rettore di Frosinone, nocque ben presto a De Paola; la curia romana, assillata dal suo procuratore Leggio, trovò intempestive le sue sollecitazioni (voti solenni, nomina a vita del procuratore e dei consultori, ecc.); il suo alto credito entrò in crisi 5. Si ebbe anche il tracollo economico, perché novizi e studenti senza patrimonio avevano lo stesso appetito degli altri e le nuove fondazioni esigevano denaro, mentre ne mancava già per Scifelli e Frosinone.
Nel 1785 il P. De Paola chiese alla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari il permesso di convocare a ottobre un capitolo generale, precisando che doveva trattarsi non di un capitolo elettivo (era superiore a vita e voleva conservare il suo stato maggiore), ma solamente (era lui a sottolineare) per mettere a punto l’osservanza. Imprudenza, perché la S. Congregazione rispose che doveva essere un capitolo elettivo. Il 19 ottobre Francesco De Paola al primo scrutinio ottenne 13 voti su 20, lo stesso al secondo: era chiaro che sette votanti avevano deciso di non lasciarlo passare. Allora il procuratore generale Isidoro Leggio tirò fuori un rescritto pontificio del 7 ottobre, in virtù del quale l’elezione era legittima e canonica a maggioranza assoluta; se si era proceduti a un secondo scrutinio era stato solo per vedere se si aggiungevano i due terzi richiesti dalla Regola. Si andò allora a cantare il Te Deum, ma è piccante notare che De Paola, tanto cavilloso su questo punto per Liguori, non si preoccupò per se stesso di essere eletto secondo la Regola. Le sue quotazioni evidentemente erano in ribasso nell’Istituto e anche a Roma, dal momento che il rescritto di approvazione del capitolo in data 14 settembre 1787 rigettò in blocco tutte le disposizioni capitolari contrastanti con la Regola di Benedetto
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XIV, cominciando con le scuole secondarie e superiori 6. Povero De Paola !
E molto più povero Alfonso! Il suo studentato, giovani e professori, aveva passato la frontiera per cui bisognava ripartire da zero. I giovani, è vero, continuavano fortunatamente a venire, ma mancavano i maestri, finché il P. Giovanni Battista Di Costanzo, a differenza di altri, accettò a 38 anni di lasciare le missioni per diventare “ lettore ” di filosofia e di teologia 7 a Deliceto. Deliceto, la fame, Ciorani, la miseria: “ Ora tutte le Case, sospirava Alfonso, se ne cascano a pezzi. Ah Signore, si faccia la volontà tua, e ne venga che ne venga!”8.
Il rapporto comprensivo e favorevole di Mons. Servanti sul Regolamento giunse alla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari il 17 ottobre 1780, cioè tre settimane dopo il decreto con il quale era stata annientata la parte napoletana dell’Istituto. Se questo rapporto non impedì il 24 agosto 1781 la conferma dello sventurato decreto, certo contribuì, aiutato anche dalle lettere di numerosi vescovi, a far sì che la S. Congregazione il 4 aprile 1783 restituisse a Mons. de Liguori “ lungo tutta la sua vita e ai singoli missionari che ora o in seguito ne condivideranno il ministero, finché ognuno di loro persevererà nel lavoro intrapreso, le indulgenze e le sole grazie spirituali, analogamente a quelle di cui per apostolico indulto godono nelle missioni e negli altri esercizi ecclesiastici i sacerdoti della congregazione del SS. Redentore, che esiste nello Stato della Chiesa”9. Alfonso aveva chiesto l’indulto per “i suoi missionari”, i giuristi romani furono attenti ad accordarlo a lui e ai suoi missionari “presi singolarmente” (singulis), per non riconoscerli come un corpo. Malgrado questo, con il ritorno dei privilegi, l’attività missionaria riprese con maggiore slancio.
Sei giorni dopo, il 10 aprile, il primo ministro firmò la sentenza della Real Camera che respingeva tutte le rivendicazioni e accuse del barone Sarnelli: L’accettazione del Regolamento era riuscita a far gettare nel ripostiglio dei ferri vecchi la spada di Damocle sospesa da 20 anni sulle quattro case napoletane.
Il fervore dei 130 esercizianti, soprattutto dei giovani, in quella settimana santa, tra le mura di Pagani, cantò per Alfonso e il suo Istituto boccheggiante le promesse della risurrezione 10.
Alfonso, da parte sua, non pensava più che a morire, ma traboccava di speranza: “Portatevi bene con Dio, ripeteva, che Iddio non è per abbandonare la Congregazione, e le cose dopo la mia morte si accomoderanno”. Un giorno confidò al P. Giuseppe Cardone: “Io desiderava veder in vita aggiustate le cose: ne ho pregato, e ne prego continuamente la Madonna, ma non è volontà di Dio. Si aggiusteranno le cose, ma dopo la morte mia ”11.
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Cosciente della sua impotenza e per prevenire gli scossoni disastrosi che avrebbe portato con sé il suo decesso, decise di passare la mano e, con l’autorizzazione del re (il Regolamento era legge), indisse un capitolo generale, scrivendo il 28 giugno 1783 ai rettori delle quattro case del Regno e a quello di Agrigento:
“Vedendomi, per la mia decrepitezza e per i mali corporali che soffro, impotente al governo della Congregazione, ho pensato di farmi eleggere un Coadiutore, colla futura successione nella carica di Rettor Maggiore dopo la mia morte, e colla stessa mia autorità durante la mia vita; ed ho pensato parimente di far eleggere nello stesso tempo gli Assistenti, il Procuratore della Congregazione e gli altri ufficiali, cioè i Rettori delle case.
A questo fine, ho fatto presente a S. Maestà la mia prefata intenzione, che con suo real dispaccio si è degnata di approvarla, ed ho ordinato che gli Assistenti, il Procuratore e gli altri ufficiali si eleggano da tutta la Congregazione, col deputarsi da ogni casa tre sacerdoti per una tal’elezione, dopo la quale, si passi finalmente ad eleggersi il mio Coadiutore nella forma che trovasi nel Regolamento, ove si parla delL’elezione del nuovo Rettore Maggiore per la morte del predecessore ”12.
Questo capitolo si tenne a Ciorani dal 4 al 16 agosto 1783 in una pace piena di fiducia: la missione continuava. Pietro Paolo Blasucci, che rappresentava da solo la Sicilia, ne fu il segretario e Andrea VilIani all’undicesimo scrutinio con 11 voti su 15 fu eletto coadiutore di Alfonso con diritto di successione 13 . Il 30 agosto il fondatore firmava la sua ultima circolare che ne comunicava i risultati e che da sola è sufficiente a provare, se ce ne fosse bisogno, il suo attaccamento e quello di tutta la branca napoletana alla Regola di Benedetto XIV:
“Molto rev.di Padri e Fratelli in Cristo dilettissimi.
Essendosi Iddio degnato, per sua infinita misericordia, benedire e farci vedere già chiuso e terminato il nostro Capitolo generale, che coll’assenso della Maestà del Re si è tenuto nella nostra casa di Ciorani, e ciò che più mi consola, con somma pace e quiete, e con tutta soddisfazione de’ PP. deputati: così spero che si vogliano ricevere ancora con eguale compiacimento, in tutte le nostre case, le determinazioni che in quello si sono fatte; siccome si potranno rilevare dalle copie degli atti, che in forma autentica ivi si trasmettono e che prego, dopo essersi lette in comune, conservarsi in archivio ”.
Avendo il capitolo come unico scopo quello di procedere alle elezioni, aveva affidato al rettore maggiore e al suo coadiutore di emanare alcuni precetti opportuni:
“1° Circa le missioni, incarichiamo a’ Superiori delle medesime ed agli stessi Rettori locali d’invigilare attentamente sopra la condotta
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de’ missionari, e vedere se esattamente si osservino le antiche costumanze per quelle stabilite e praticate, cioè, se i missionari predichino e catechizzino con quella dottrina e chiarezza e con quella gravità e decenza, che si conviene alla cattedra di Gesù Cristo; se a loro arbitrio vadano o vengano a questa o a quella chiesa, o lascino l’impiego loro assegnato senza l’espressa licenza del Superiore della missione; se siano edificanti e cautelati nel confessare e trattare colle persone di diverso sesso; se senza licenza si portino in casa de’ secolari, e se colla loro modestia, umiltà e pazienza, che tanto è dovuta al loro carattere, edifichino i popoli, o gli scandalizzino coi loro portamenti; se stiano ritirati in chiesa o in casa, attendendo al proprio ministero, o si facciano lecito di andare a spasso e divertirsi fuori di casa, se tra loro ci regni la carità, la subordinazione e la sant’armonia; e sopra tutto se siano ubbidienti in accettare senza replica qualunque impiego, che loro viene assegnato dal Superiore della missione.
Vogliamo ed ordiniamo ancora che, in tempo di missione, si osservi sopra tutto la parsimonia nel vitto. I cibi preziosi, cioè, polli, uccelli, pesci squisiti, carne delicata, pizze dolci e qualunque sorta di altri dolci, tutto viene proibito in tempo di missione; ed offerti simili regali da qualsivoglia persona, vogliamo che generosamente si rifiutano.
Ordiniamo di vantaggio che in tempo di missione vi sia impreteribilmente, come comanda il Regolamento e secondo l’antica costumanza, mezz’ora di meditazione in comune, nell’inverno la mattina, e nell’estate il giorno.
Similmente non si manchi da ognuno di farsi, terminata la messa, almeno un quarto d’ora di ringraziamento, e si celebri questo tremendo mistero con quel raccoglimento ed esattezza di rubriche, che S. Chiesa esige in celebrarsi la s. messa...
2° Incarichiamo la coscienza de’ Rettori locali che non lascino introdurre veruna novità o abuso che leder possa, anche in picciola cosa, la santa povertà e vita comune che a Dio si è giurata; anzi non manchino spiantarlo, se mai alcuno se ne fosse introdotto...
In virtù della santa povertà e della vita perfettamente comune, proibiamo a tutti di applicare per sé e per altri, qualunque ne sia il pretesto, veruna porzione di quegli emolumenti, limosine o regali, che ognuno ritrarrà per qualunque fatica o impiego egli abbia, e per qualunque titolo gli provenga, sia anche di speciale benevolenza; ma vogliamo che il tutto s’incorpori nella Comunità e si metta in comune in mano del Superiore della casa, ove si dimora, e da cui si percepiscono i necessari alimenti o quanto onestamente bisogna... ”.
Si noti il tono. Anche gli altri punti avevano il solo scopo di assicurare l’antica osservanza. Sapendo che il testo sarebbe stato letto e “ spulciato ” in alto, sia a Napoli che a Roma, la conclusione sapeva
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dare a Cesare quello che era di Cesare e a Dio quello che era di Dio:
“ Ed in seguela del nostro impiego e per discarico di nostra coscienza, raccomandiamo ancora in generale, e vogliamo che per prima si osservi, con ogni scrupolosa esattezza, il nostro interiore Regolamento, ed in secondo luogo che si osservino ancora uniformemente, in tutte le nostre case, tutte le antiche costumanze che sinora lodevolmente si sono praticate, così in casa che in missione; e proibiamo a’ Superiori il permettere in quelle qualunque rilasciamento ed abuso.
Finalmente ritrattiamo e diamo per nulla qualunque dispensa o permesso, che si ritrovi dato da noi o dal nostro Vicario, sia in comune a tutti, o in particolare ad alcuno; ed essendoci cosa in contrario, si manifesti al mio Coadiutore, affinché questi, esaminate le cose e bilanciati i motivi innanzi a Dio, conceda se vuole, a tenore del bisogno, quelle licenze che gli sembreranno necessarie.
Questa mia Circolare, vogliamo che si legga ogni principio di mese a tavola, affinché se ne rinnovi la memoria, e non si possa allegare da’ trasgressori veruna scusa in discolpa.
Preghiamo tutti di raccomandarci a Gesù Cristo ed a Maria SS.ma e di pregare per l’incremento del nostro Istituto, e restiamo col dare loro la s. Benedizione. - Fratello Alfonso Maria, Rettore Maggiore ” 14 .
Pur scrivendo al plurale con Villani, si firmava da solo, ma era un dimettersi tra le mani del suo coadiutore, per non pensare ad altro che all’Incontro.
Il fratello Ercole era morto improvvisamente a Marianella l’8 settembre 1780 e la primogenita Maria Teresa, consigliata dallo zio, con scelta matura, era entrata nel convento di S. Marcellino, facendovi la professione il 2 luglio 1783. L’11 Alfonso dettava per essa questo biglietto:
“ Mi ha recata una consolazione immensa la notizia della vostra professione, perché ora potete dire a Gesù Cristo: Signore, io già sono tutta vostra.
Resta solo che dovete vegliare con gelosia somma sugli affetti del vostro cuore e sull’osservanza de’ voti fatti.
E’ troppo sicura la via dalla cella al cielo, ma puossi passare pure dalla cella all’inferno. Non è lodevole essere in Gerusalemme, ma lo è il vivere bene in Gerusalemme.
Io altro non posso fare che raccomandarvi a Gesù Cristo, come vi prometto di farlo con tutto il cuore.
E benedicendovi in nome di Gesù Cristo e di Maria santissima, mi dico vostro...”15 .
Le sorelle di Alfonso, Barbara e Marianna, clarisse, invecchieranno
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a lungo a S. Geronimo; il fratello sacerdote, Don Gaetano, morirà il 4 ottobre 1784 nella casa paterna di Borgo dei Vergini.
Alfonso celebrò l’ultima sua messa il 25 novembre 1785: “ Gesù Cristo, disse, non vuole che io celebri più: sia sempre fatta la divina volontà ”. Divenne però più avido dell’Eucaristia: “ Datemi Gesù Cristo ” supplicava spesso e passava mezze giornate dinanzi al tabernacolo, dicendo al domestico Alessio: “ Qui vi è il Sacramento: qui si fa la comunione: non a tutte le parti vi sta il santissimo Sacramento: oh bella cosa! due lampade ardono sempre avanti il divin Sacramento: qui si fa l’esposizione del Sacramento: e quanto vogliamo starci avanti il Sacramento?”. Al momento poi di partire: “ Quando verremo un’altra volta a visitare il santissimo Sacramento”16.
Più che mai la Vergine era, dopo Dio, il suo primo amore. Si faceva leggere le vite dei suoi santi preferiti: Teresa di Gesù, Gregorio Nazianzeno, Francesco di Sales, Giuseppe Calasanzio che aveva gustato la sua stessa agonia di fondatore; ma soprattutto si deliziava delle letture su Maria.
- Leggimi qualcosa sulla Madonna, chiese un giorno al fratello.
Francescantonio Romito prese un libro e lesse. Alfonso ascoltò, si entusiasmò, finendo con l’esclamare:
- Che bello! che libro è questo che mi leggi? chi lo ha composto?
- Monsignore, siete voi che avete composto questo libro; sono Le Glorie di Maria.
- Gesù mio, disse allora Alfonso tutto intenerito, ti ringrazio che mi hai fatto scrivere della Madre tua!
Il fratello prese nota del fatto e della data: era il 25 ottobre 1784 17.
Nella giovinezza Alfonso aveva fatto voto di dire il rosario ogni giorno; arrivato all’età in cui la memoria non incide quasi più niente per mancanza di spazio, si potrebbe dire, domandava spesso:
- Ho detto il mio rosario oggi?
- Ma certo, gli rispose un giorno Romito con una punta di impazienza, perché star sempre a dubitarne?
Allora il vegliardo “ con tutto il contegno ” gli rispose:
- Quando sto dubbioso sopra il rosario, non mi contristate, perché la salute dell’anima mia e la mia predestinazione mi preme sopra tutto: e quando sto dubbioso del rosario, è segno, che sto dubbioso della salute.
- Facciamo così, intervenne Alessio Pollio, tutte le Ave Marie che dite soverchie più del rosario, applicatele per l’anima mia.
- Io vorrei, rispose grave monsignore, che stessi zitto, perché
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sono parole oziose ed inutili, delle quali avrai da rendere conto a Dio 18.
Tra le maggiori gioie del padre v’era l’ascoltare i missionari al ritorno dalle campagne apostoliche. Insisteva allora con forza sulle idee pastorali che avevano guidato la sua vita e la sua battaglia: “Povero Sangue di Gesù Cristo conculcato e malmenato (dai giansenisti)... Col bacio di pace Giuda tradì Gesù Cristo, e col bacio di pace anche questi tradiscono Gesù Cristo e le Anime... So che gli Angeli non ne sono degni, ma Gesù Cristo ne ha degnato l’uomo per sollevarlo nelle sue miserie. Tutto il bene l’abbiamo da questo Sagramento: mancando questo ajuto, tutto è ruina ”. E la sua indignazione esplodeva contro i confessori che respingevano le anime: “ Soffrir non potette specialmente fino all’ultima età un certo che di abbominio che da questa razza di Confessori si ostenta verso i peccatori. Voleva ed inculcavalo, che quanto più fossero tali, maggiormente si abbracciassero. Non altrimente, ei diceva, fu la condotta di Gesù Cristo... Non li spaventate, ripeteva, con dilazioni di mesi e mesi, com’è la moda che corre. Questo non è ajutarli, ma ruinarli. Quando il penitente ha conosciuto, e detesta il suo stato, non bisogna lasciarlo colle sole sue forze nel conflitto colla tentazione: bisogna ajutarlo, ed il maggior ajuto si dà colla grazia dei Sacramenti ”19.
Se proviamo a rileggere o a cantare le circa 50 canzoncine composte da Liguori per le missioni, non troveremo un solo canto di terrore: ignorava il “ Dio vindice ” e perfino il “ Signore Dio ” della liturgia o la “ Divina Maestà ” degli spagnoli e di Falcoia, per rivolgersi, con tenerezza filiale che era tutta una teologia, al “buon Dio” al “caro Gesù”, al “ Redentore pieno di amore ”, a Maria “ bella mia speranza ”.
Ora, Dio permise che nei suoi ultimi anni Mons. de Liguori passasse per il fuoco delle più dure prove spirituali: come se 22 anni di malattie e 24 di persecuzioni non l’avessero ancora sufficientemente purificato, conobbe negli anni 1784-1785 L’abbandono straziato di Cristo sulla croce: “Chi sa, diceva piangendo, chi sa se sto in grazia di Dio, e mi salvi”, rivolgendosi poi verso il Crocifisso: “ Gesù mio, non permettete che io sia dannato... Signore, non mi mandate nell’inferno perché nell’inferno non si ama ”.
- Come state? gli chiese un giorno un visitatore.
- Sto sotto lo staffile della giustizia di Dio
Erano tentazioni contro la fede, cui rispondeva: “ Dio mio, credo, e voglio vivere, e morire figlio della S. Chiesa ”. Gli scrupoli invadevano liberamente, terribilmente il campo di una coscienza, che il
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vecchio non poteva più dominare, e allora solo l’ubbidienza gli dava una pace precaria e la comunione. Peggio, eccitazioni voluttuose turbavano i suoi sensi, strappandogli gemiti e gettandolo nel timore di offendere Dio: il professor Gennaro Goglia, assistente di Gastone Lambertini all’istituto di anatomia dell’università di Napoli, che nel 1951-1952 ha studiato scientificamente con lui lo scheletro di Alfonso, spiega questi turbamenti con le gravi alterazioni subite dalle vertebre lombari e con la loro azione irritante sui centri che comandano l’innervamento degli organi genitali. “Sono di ottantotto anni, disse un giorno al P. Criscuoli piangendo, ed il fuoco della mia gioventù non ancora si è estinto”. Un parroco, venuto a trovarlo un altro giorno, osservo:
- Monsignore, vi vedo malinconico: voi siete stato sempre allegro!
- Allegro! rispose, io provo pene d’inferno 20 .
Siamo dinanzi ad un fatto fisiologico clinicamente spiegabile, mentre è difficile distinguere le apparizioni di demoni venuti a tentarlo contro la fede, la speranza o l’umiltà, di cui parla il suo primo biografo, dagli incubi di un vecchio in dormiveglia.
Al contrario, anche in questi mesi di calvario interiore, le sue estasi ebbero testimoni, tanto che si dovette allontanarlo definitivamente dalla chiesa per impedire che i suoi trasporti mistici turbassero i fedeli.
Qualcuno si è meravigliato che Liguori non abbia scritto alcun trattato di mistica.
Prima di tutto l’epoca culturale segnata dall’Illuminismo non lo incoraggiava per niente; poi l’esperienza personale delle anime lo aveva reso molto diffidente di fronte a malattie spirituali o mentali spacciate spesso come unione passiva con Dio; infine la Chiesa, che sospettosa aveva condannato i suoi “ amici ” Fénelon e Petrucci, non poteva stimolarlo che al silenzio 21 . Però, oltre i capitoli didattici delle sue opere pastorali (Praxis Confessarii, Homo Apostolicus), dove affiorava la sua esperienza interiore, bisogna leggere le sue lunghe poesie, nelle quali il mistico sfuggiva a lui stesso, penetrava nella “ selva romita e scura ” delle rotture ultime per l’incontro intuitivo dell’amore. Di queste canzoncine, delle quali Alfonso viveva e faceva vivere più di quanto non insegnasse, il grande poeta Salvatore Di Giacomo (1860-1934) diceva: “ Sono i miei libri di preghiera ” 22 .
Ma Alfonso scrittore non aveva mai mirato a un pubblico d’élite, come aveva fatto prima il suo maestro Francesco di Sales teso a far entrare la santità nei salotti e nella corte; sempre fedele alla sua scelta per il mondo dei piccoli, scrisse e predicò per metterla a portata di mano dei lazzaroni e dei pastori. Una delle ultime sue gioie fu
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sentire dall’architetto napoletano Giuseppe Mauro, interrogato con ansia riguardo alle Cappelle serotine se fossero frequentate:
- Sì, e non potete credere il bene che si fa, e che quantità di gente bassa vi concorre: vi si veggono ancora de’ cocchieri santi.
- Cocchieri santi a Napoli, riprese Alfonso con esultanza Gloria Patri... voi l’avete inteso D. Giuseppe, Gloria Patri, cocchieri santi a Napoli! 23.
Il 16 luglio 1787 un violento attacco di dissenteria, accompagnato da intensa febbre, avvertì che la fine di monsignore era ormai vicina. Lo si sentiva ripetere una professione di speranza scritta il 21 ottobre 1785: “Fidato nelle mani di Gesù C. muojo sicuro, credendo di salvarmi per li tanti meriti di Gesù C. e di Maria, sperando di andar presto a rendercene le grazie in Paradiso ”. E un giorno: “ Signore, voi ben sapete, che quanto ho pensato, ho detto, ho fatto, ed ho scritto, tutto l’ho detto, e fatto per le Anime, e per la gloria vostra”.
Il 23 luglio, in uno dei rari momenti di coscienza, disse: “Eccomi qua, mio Dio!”, poi verso sera: “Vieni, Gesù Cristo mio!”. Lo si era sentito spesso esclamare: “ Gesù mio, mi sembrano che mille anni mi separano dalla felicità di vederti in Cielo! ”.
Il 27 verso le sette del mattino, lo si credette perduto, per cui datagli l’assoluzione, si cominciarono le preghiere per gli agonizzanti. Ritornato in sé, disse: “ Sto all’ultimo. Il medico gli chiese la benedizione e Alfonso, aperti gli occhi, con voce chiara disse: “Dominus noster Jesus Christus te benedicat ”. Romito e Pollio si gettarono insieme ai suoi piedi:
- Benediteci, padre.
- Dominus noster Jesus Christus vos benedicat.
- Benedite tutte le case e tutti i membri della congregazione.
- Sì, rispose e fece il segno della benedizione.
Tutti erano in pianto, ognuno venne a baciargli la mano.
- Benedite anche le case degli Stati, disse fratello Romito.
Le benedisse due volte, poi, mezz’ora dopo, spontaneamente, aperti gli occhi e con voce forte disse: “ Benedico le Case dello Stato ”. Qualche momento dopo fu pregato di benedire le diocesi e le suore di S. Agata e di Scala: fece il gesto della benedizione, poi spontaneamente disse: “ Benedico il Re, tutti i Generali, Principi, e Ministri, e tutti i Giudici, che fanno giustizia ”.
Il 28 gli fu presentata un’immagine della Madonna monsignore la guardò, mosse le labbra e aprì le braccia in un gesto di offerta.
Il 29, “ Datemi la Madonna ” disse e, presala tra le mani, si mise a pregare. Poi cominciò il rantolo della morte.
Il 30, appena gli fu presentato un crocifisso, manifestò il desiderio
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di averlo tra le mani, lo strinse con amore e tentò tre volte di baciarlo.
Nelle sue Orazioni alla divina Madre per ciascun giorno della settimana, aveva scritto: “...Anzi, Signora, perdonate il mio ardire, prima ch’io spiri, venite voi stessa a consolarmi colla vostra presenza. Questa grazia l’avete fatta a tanti vostri divoti, la voglio e la spero ancor io... O Maria, v’aspetto, non mi fate restare sconsolato”24. Ora il 31, verso le sei di sera, mentre teneva tra le mani l’immagine della Madonna, fu visto di colpo infiammarsi nel volto e diventare risplendente, mentre parlava sommessamente e sorrideva alla Madonna. Un’ora dopo, dinanzi ad altri tre padri, si rinnovò lo stesso “incontro”.
L’indomani, 1° agosto, arrivarono come per miracolo confratelli da tutte le case. Gli fu presentato di tanto in tanto il crocifisso, che egli stringeva con amore, senza pensare che non era mai lo stesso. Verso mezzogiorno, messagli nuovamente tra le mani la sua cara Madonna, senza alcuna contrazione, senza un sospiro doloroso, tra i suoi figli in lagrime e in preghiera, spirò nel Signore, mentre si diffondevano i rintocchi dell’Angelus 25 . Contava 90 anni, 10 mesi e un giorno; aveva, salvo errori, 98 figli nelle Due Sicilie e 85 (quasi tutti napoletani) negli Stati Pontifici 26 .
Ferdinando de Leon era morto nella sua vasca da bagno; il commissario di Sarnelli nella sua vettura; Maffei non so dove. Quest’ultimo aveva lasciato una vedova, sei figli e 30.000 ducati di debiti, per cui un nugolo di creditori si era precipitato sulla povera famiglia, togliendole anche il pane. “ Tutto quel bene, che potete fare ai figli di Maffei, tutto fatelo ”, aveva scritto Alfonso a Tannoia 27 .
Restava la divisione dell’Istituto, anche se il fondatore ne aveva predetto la fine e visto i primi segni: lo scambio di missionari tra le due branche secondo le necessità pastorali, le riunioni a Benevento, favorite dal cardinale Banditi, nel 1786 e 1787 tra i delegati dei due tronconi. La morte di Alfonso, venerato quasi da tutti come padre, avvicinò i cuori e rese più acuti i rimpianti. Restava però il Regolamento.
Blasucci e i padri della Sicilia se ne erano già sbarazzati. Il Regolamento infatti aveva vigore di legge solo per le quattro case del Regno di Napoli, mentre essi, pur sotto lo stesso re, e lo stesso governo, facevano parte di un altro Regno, quello di Sicilia, e per di più non erano una casa, ma solo un gruppo di missionari volanti, ospiti del vescovo di Agrigento. Tuttavia, fine diplomatico, Blasucci era venuto personalmente al capitolo di Ciorani nel 1783 per venerazione verso Alfonso e per non rompere con i napoletani. Sfortunatamente Villani esigette l’accettazione del Regolamento in Sicilia, ma Blasucci cercò
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di guadagnare tempo con risposte evasive, finché, quando nel 1786 dinanzi a un nuovo rifiuto Villani dichiarò i siciliani esclusi dall’Istituto, ottenne dalla Santa Sede d’essere collegato, con la sua comunità, alla congregazione governata da De Paola, ridiventando Redentorista senza però dir niente a Pagani, per non aggravare la rottura ufficiale.
Nel settembre 1788 Ferdinando IV proibì a tutti i religiosi del Regno la dipendenza da superiori all’estero e di prendere parte a capitoli tenuti in paesi stranieri, perché dovevano attenersi alle Regole che avevano accettato al momento della loro professione. Per una deliziosa ironia, i siciliani ebbero così da parte di un governo che non sapeva quello che faceva un decreto in data 17 aprile 1790 che li rimetteva sotto la Regola di Benedetto XIV. Prontamente i napoletani imitarono Blasucci ottenendo la stessa ingiunzione il 9 ottobre 1790. Morto così il Regolamento, Pio VI permise la convocazione di un capitolo generale di riunificazione, di cui uno dei più ardenti promotori fu il P. Leggio. Il P. Pietro Paolo Blasucci venne eletto rettore maggiore di tutti i figli di Alfonso 28 .
Il fondatore aveva profetizzato un giorno: “ Non dubitate, la Congregazione si manterrà sino al giorno del giudizio, perché essa non è opera mia, ma opera di Dio. Finché io vivrò, essa vegeterà nell’oscurità e nell’umiliazione, ma dopo la mia morte spiegherà le sue ali, e si estenderà specialmente nei paesi settentrionali ” 29 .
Ora nell’ottobre 1784, a Roma, due uomini del nord si erano presentati al primo convento di cui sentirono l’Angelus del mattino: Clemente Maria Hofbauer e Taddeo Hubl erano così entrati tra i Redentoristi di S. Giuliano.
Venuti a sapere l’ammissione di questi due tedeschi al noviziato e il loro ardente desiderio di, ritornare in patria per fondare a Vienna una casa del SS. Redentore, i napoletani si chiesero se i loro confratelli degli Stati non avessero perso la testa, ridendo di quella casa tedesca; ma rimasero meravigliati quando videro che Alfonso con il suo spirito profetico la pensava diversamente: “Reso inteso de’ santi desiderj di questi due Tedeschi, scrive Tannoia, ne godette estremamente ”. E subito, come se i veli che nascondono a noi il futuro fossero scomparsi ai suoi occhi, annunziò i disegni di Dio. “Iddio, disse, non mancherà propagare per mezzo di questi la gloria sua in quelle parti. Mancando i Gesuiti, quei luoghi sono mezzo abbandonati. Le Missioni però sono differenti dalle nostre. Ivi giovano più, perché in mezzo de’ Luterani, e Calvinisti, i Catechismi, che le prediche. Prima devesi far dire il Credo, e poi disporsi i popoli a lasciare il peccato. Possono farvi del bene questi buoni Sacerdoti, ma hanno bisogno di maggiori lumi ”. Poi ascoltando solo il suo zelo aggiunse: “ Io li scriverei ”; però subito, ricordandosi che non era loro superiore: “ Ma
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Iddio non vuole, che vi abbia ingerenza Gesù Cristo mio confondetemi sempre più e si facci la gloria vostra! ” 30 .
Per la gloria di Dio e anche per quella del loro fondatore, i missionari redentoristi sono presenti oggi (1982) in tutta l’Europa, nelle due Americhe, nell’Oceania, in sette paesi dell’Africa e nel sud delL’Asia da Bagdad a Tokio.
Otto mesi dopo la morte di Alfonso de Liguori, in seguito alle pressioni del popolo e del clero, si aprì il processo informativo per la sua canonizzazione, avendo il papa Pio VI dispensato dai dieci anni di stacco esigiti prima dell’introduzione della causa a Roma. Scendendo in campo, il promotore della fede - detto anche avvocato del diavolo - obiettò che era impossibile pensare a elevare sugli altari il colpevole del Regolamento, allontanato dal papa dalla sua stessa congregazione; ma Pio VI firmò un decreto che imponeva il silenzio su questa triste storia. Il 7 maggio 1807 apparve il decreto di eroicità delle virtù di Alfonso, ma, essendo stato allontanato il Santo Padre da Roma, tutto fu ritardato di dieci anni...
Tuttavia ben presto a S. Maria dei Vergini qualcuno avrebbe riaperto religiosamente a p. 127 il registro dei battesimi dell’anno 1696 e, in margine all’atto di Alfonso de Liguori, avrebbe annotato: “Beatificato nel settembre 1816”; poi un altro: “Santificato a 26 maggio 1839”; infine un terzo: “Dichiarato Dottore della universale Chiesa il 23 marzo 1871”. Non resterà spazio per aggiungere: “Proclamato Patrono dei confessori e dei moralisti il 26 aprile 1950”.
Nel 1957 Don Giuseppe De Luca, questo grande conoscitore della storia della spiritualità, scriverà di Alfonso de Liguori:
“Di quel secolo (dei Lumi) è certamente il napoletano della maggiore altezza di pensiero, e fa il paio con Giovan Battista Vico, almeno per chi non ponga l’altezza del pensiero unicamente nelle province della filosofia. Nella storia della Chiesa è il napoletano d’intelligenza più vasta dopo il mille e cinquecento, come Tommaso d’Aquino dopo il mille . . .
Lasciamo stare tutto codesto che si è detto, e quant’altro si potrebbe dire in gloria di sant’Alfonso, e ricordiamoci che ci ha lasciato, a noi preti, a noi fedeli alcuni tra i libri più cari dell’anima. Ha posto lui, senza parere, sulle labbra di tutti, anche degli analfabeti, le parole di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce. Ha suggerito al popolo i termini più alti nelle formule più umili, gli affetti più estatici nei vocaboli più quotidiani.
Ha creato, nei semplici, un cuore di santi e grandi santi ”31 .
1
redigere un commento al Regolamento, pubblicato in SH 8 (1960), pp. 3-39; 14 (1966), pp. 48-92.
pp. 119-120.
morte, si conserva religiosamente dai Redentoristi di Bd du Montparnasse, 170, a Parigi.
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