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Sant'Alfonso de Liguori (1696-1787) è un gigante non solo della storia della spiritualità, ma della storia tout court. Eppure, L'epoca nostra correrebbe il rischio di dimenticarlo, se un libro attento e ricco come questo non venisse opportunamente a ricordarcelo.
Le cifre parlano, evidenti, sorprendenti: la Teologia morale del fondatore dei Redentoristi ha avuto 9 edizioni durante la sua vita e 73 dopo la sua morte; la sua sintesi, L'Homo Apostolicus, ha raggiunto dal Settecento ai nostri giorni 118 tirature; le Visite al SS. Sacramento hanno avuto 2.017 edizioni, Le glorie di Maria più di un migliaio; la Pratica di amar Gesù Cristo 535; L'Apparecchio alla morte 319. Nel numero delle edizioni, sant'Alfonso supera di gran lunga Shakespeare: per il primo, circa 20.000 edizioni in più di 70 lingue; per il secondo, 10.602 edizioni (nel 1961) anche se in 77 lingue. Queste quantificazioni danno la misura di un fatto religioso e culturale, che nei libri di storia non ha sempre avuto il posto che gli spetta.
L'uomo ha avuto un destino fuori del comune. Nato nella nobiltà napoletana e figlio di militare, studente superdotato, attratto dalla musica, dalla pittura, dal disegno, dall'architettura, fu avvocato a 16 anni. Napoli, che ammirava il brillante avvocato conoscitore e estimatore di G.B. Vico, in contatto con i più bei spiriti della città, lo vide con sorpresa farsi sacerdote contro la volontà di un padre autoritario; lo scoprì quindi con stupore nei quartieri più poveri ad evangelizzare gli analfabeti, in sorprendenti predicazioni serali, la cui formula gli sarebbe sopravvissuta. Poi, un giorno, Alfonso fuggì da Napoli su un asino, deciso a consacrare la sua vita alle missioni nelle campagne più abbandonate, raggiunto da compagni che diventeranno i Redentoristi. Non era però facile nel Regno di Napoli, nel Settecento, fondare una nuova congregazione religiosa, perché, essendovi già troppi sacerdoti secolari e regolari e troppi conventi in un paese povero e male amministrato, il governo non senza ragione cercava di impedire l'estendersi dei beni di manomorta e l'accrescersi delle esenzioni fiscali. Alfonso voleva solo
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la povertà per il suo istituto, ma le autorità gli ritorcevano che non si poteva rispondere dell'avvenire e che le congregazioni anche più fedeli agli inizi, erano poi cadute nel rilassamento e nelle ricchezze. Cosi, suo malgrado, Alfonso dovette ritornare a Napoli più spesso di quanto non avesse voluto, rifarsi avvocato e patrocinare per la sua fragile istituzione. Male o per nulla rasato, vestito di una sottana rattoppata, ma tenuto per santo, discusse senza posa con ministri che sempre lo rispettarono ma non sempre furono disposti a cedere.
Né vi erano solo le opposizioni del governo napoletano. La creazione della congregazione redentorista sarà per mezzo secolo la croce del fondatore, per le ostilità e diffidenze del clero, per l'abbandono di alcuni discepoli incapaci a sostenere il ritmo di una vita troppo rude, vinti dal freddo e dalla fame, per le tensioni tra gli uomini, per le difficoltà tra il papa e il re delle Due Sicilie: tutti questi fattori, fecero lega contro Alfonso in maniera tale che avrebbero condotto alla disperazione chiunque altro. Aveva giurato di non essere vescovo, ma dovette ubbidire all'ordine esplicito di Roma, dove era arrivata la fama della sua santità. Quando finalmente riuscì a fare accettare le sue dimissioni da vescovo per ragioni di salute, sperava di terminare tranquillamente i suoi giorni in mezzo ai “figli”; invece, quando si spense, era emarginato e quasi escluso, con i confratelli napoletani, dalla congregazione che aveva creato. Il conflitto tra Pio VI e il re delle Due Sicilie aveva condotto a questo risultato sorprendente e doloroso: Roma riconosceva solo i Redentoristi degli Stati Pontifici, escludendo quelli che continuavano a lavorare più a sud.
Non è facile essere santi; non è facile rompere con una società brillante, andare contro la volontà del padre, discutere palmo a palmo con la Chiesa e lo Stato; soprattutto, non è facile lottare contro se stessi. Alfonso aveva un carattere collerico e autoritario, ma si dominava a forza di digiuni, mortificazioni, lavoro, veglie, così che lo si vedeva spessissimo con un “volto di paradiso... dolce, gioioso, gentile”.
Era terribilmente duro con se stesso (aveva fatto inoltre voto di non perdere un minuto), ma il suo messaggio spirituale era di fiducia, di speranza e di moderazione; conobbe le ansietà degli scrupoli, ma tentò di preservarne gli altri; si mortificò, diciamolo, all'eccesso, ma sconsigliò ai suoi “figli” e a coloro che guidava di seguire il suo esempio. Non fù un “rigorista” malgrado certe leggende; anzi, apparve nella storia - e questo è il suo maggior titolo di gloria - come colui che avrebbe fatto rifluire “la marea nera del rigorismo” (immagine felice del P. Rey-Mermet) all'interno del cattolicesimo. Fu il contrapposto di un agostinissimo fino ad allora dominante di cui il giansenismo era una delle espressioni storiche. Harnack ha scritto in un compendio penetrante. “Il de Liguori, il Beato (1816), il Santo (1829), il Dottore della
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Chiesa (1871) è il vero contrapposto di Lutero, e nel Cattolicesimo moderno ha fatto quello che per l'antico fece Agostino... Quantunque il de Liguori non arrivasse ai vergognosi estremi dei probabilisti del secolo XVII, pure accettò pienamente il loro metodo, ed in un numero infinito di questioni, comprese quelle dell'adulterio, dello spergiuro e dell'omicidio (aggiungo: della bestemmia), e fu abile nel trasformare in veniale il peccato mortale. Nel secolo XIX, ei non trovossi di fronte ad un Pascal; anzi, di decennio in decennio, L'autorità del de Liguori non fece che aumentare, egli era il nuovo Agostino”. Sant'Alfonso fu l'avversario del “probabiliorismo” o “tuziorismo”, che esigeva che in ogni caso di coscienza si adottasse l'opinione moralmente “la più probabile”, “la più sicura”, cioè la più dura, ma non pervenne senza fatica a questa dottrina più confortevole per i penitenti. Scriveva infatti un giorno: “Io stesso sono stato per lungo tempo partigiano appassionato del probabiliorismo”. Furono le opere dei Gesuiti a farlo evolvere, tanto che quando la Compagnia di Gesù fu soppressa dai Borboni e poi da Roma, passò agli occhi di alcuni come un “gesuita travestito” e la sua Teologia morale venne proibita in Spagna e in Portogallo.
Il fondatore dei Redentoristi era diventato uno dei grandi avversari del “rinvio dell'assoluzione” e del rifiuto della comunione cari ad Arnauld. Riguardo al matrimonio ebbe il coraggio di affermare contro tutta la tradizione agostiniana che la procreazione non era il fine primario. A livello più generale, scriveva frasi sorprendenti per la penna di un sacerdote di allora: “Non bisogna imporre niente agli uomini sotto colpa grave a meno che la ragione non induca a ciò con evidenza”; “Guardando la fragilità della presente condizione umana, non è sempre vero che la cosa più sicura sia dirigere le anime per la via più stretta”.
L'evoluzione di sant'Alfonso si spiega con la sua esperienza di missionario e di confessore della gente di campagna. Il raffronto con san Vincenzo dei Paoli salta agli occhi dello storico che, leggendo l'appassionata biografia del P. Rey-Mermet, ritrova nell'Italia meridionale, cento anni dopo, L'atmosfera e i ritmi enfatici della riforma cattolica della Francia del secolo precedente: i due uomini hanno avuto le stesse intuizioni, hanno scoperto la stessa realtà, hanno optato per le stesse soluzioni, giudicando entrambi che le popolazioni agricole e soprattutto quelle delle zone più emarginate erano sotto-cristianizzate. Hanno voluto consacrarsi loro, proibendo ai propri discepoli di predicare nelle grandi città, decisi a non dimenticare nessuna borgata per quanto modesta. Scartato dalla loro predicazione ogni fiore e ogni ricamo, insistendo più sulla catechesi che sull'eloquenza, hanno voluto essere semplici con la gente semplice: di qui il loro successo popolare.
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Però - ecco la sua originalità , Alfonso era musicista, avendo oltretutto frequentato molto nella sua gioventù l'Oratorio dei Girolamini di Napoli, dove si conservavano e si coltivavano le tradizioni musicali scaturite da san Filippo Neri. Si spiega così la qualità delle 50 canzoncine da lui composte nelle quali non v'è traccia del Dio vindice tanto frequente nei cantici francesi dello stesso periodo. Queste canzoncine sono entrate nel patrimonio culturale italiano, tanto che Verdi nel 1890 diceva a proposito di Tu scendi dalla stelle che “senza questa pastorale di sant'Alfonso, Natale non sarebbe più Natale”; noi ne abbiamo riascoltato l'aria nel film “L'albero degli zoccoli” senza immaginare il nome dell'autore. Infine, la semplicità, voluta e insieme sincera, del grande napoletano l' ha portato ad essere uno dei creatori della lingua italiana moderna, dal momento che prima di lui i letterati della Penisola avevano scritto in un toscano ricercato, mentre le popolazioni parlavano i dialetti delle rispettive province. Come Lutero si era sforzato di creare una lingua tedesca accessibile a tutti, sant'Alfonso parlò e scrisse in un italiano semplice e diretto, “masticabile e nel nord come nel sud della Penisola.
Tutto questo si apprende - e molte altre cose ancora seguendo una guida sicura qual è il P. Rey-Mermet, un uomo e un autore di una sorprendente giovinezza. Il lettore sarà colpito dalla gioia dello stile e dal ritmo vigoroso, perché questa biografia sapiente è condotta a tamburo battente, ma nella gioia. Essa è anche vissuta dall'interno; trattandosi evidentemente di una storia “impegnata”, perché di un redentorista che vive la propria vocazione attraverso quella del fondatore e il discepolo ama e ammira il maestro. C'è forse un modo migliore per farlo comprendere?
Professore al Collège de France