Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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Parte prima “NOBILE, GIOVANE E RICCO” (1696-1723)

2 - DUCHI NO, CAVALIERI SI’

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2 - DUCHI NO, CAVALIERI SI’

 

 

Il volume XI del Libro dei Battezzati, custodito come una reliquia nella sagrestia della chiesa di S. Maria dei Vergini, il cui fonte battesimale e gli archivi sono stati per fortuna risparmiati dalle bombe che ne hanno invece polverizzato gli altari e la volta, quando viene tolto dalla sua custodia, si apre da solo alla pagina 127; in alto a sinistra una croce di Malta segnala l’ultimo atto di battesimo del settembre 1696. Questo atto in realtà è sottolineato in maniera particolare, perché a sinistra e in alto annotazioni posteriori di penne diverse hanno ricoperto i margini e gli spazi liberi. Riferimenti di matrimonio o di ordinazione? No. Queste aggiunte richiamano le successive tappe non sacramentali, ma della gloria e dell’autorità postuma nella Chiesa di questo battezzato. Leggiamo: “ Beatificato nel settembre 1816 ”, “Santificato a 26 maggio 1839”, “ Dichiarato Dottore della universale Chiesa il 23 marzo 1871”. Se vi fosse rimasto altro spazio, una quarta mano avrebbe aggiunto con inchiostro molto più recente, forse con penna biro: “Proclamato Patrono dei confessori e dei moralisti il 26 aprile 1950”.

Ecco l’atto di battesimo circondato da queste prestigiose miniature:

“ A 29 di Settembre 1696 di Sabato. Alfonso Maria Antonio Giovanni Francesco Cosimo Damiano Michel Angelo Gasparro de Liguori figlio del Sig. D. Giuseppe de Liguori ed della Sig.ra D. Catarina Anna Cavaliero Coniugi, fu battezzato per me D. Giuseppe del Mastro Parroco, e fu tenuto da Gratia Porpora - nato a 27 di detto, ore 13”.

Allora a Napoli, come in tutto il resto della penisola, il suono dellAngelus della sera mezz’ora dopo il calar del sole determinava i giorni e le ore; nella seconda quindicina di settembre alle ore 13, le nostre attuali 7, i rintocchi dell’Angelus del mattino della vicinissima chiesa di Marianella e di tutti i campanili di Napoli riempivano l’aria.

I genitori intendevano con il nome Alfonso far rivivere nel loro primogenito la memoria del nonno e del trisavolo, con i nomi Antonio,

 

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Francesco, Gasparro quella degli altri antenati paterni e con i nomi Cosimo e Damiano, Michel Angelo quella dei santi festeggiati il giorno della sua nascita al mondo e della sua rinascita alla grazia secondo le buone tradizioni del tempo. Infine la Patrona di tutti i sabati dell’anno, presente in maniera speciale in questo sabato battesimale, avrà un posto sempre più importante nella vita di questo bambino che una volta diventato vescovo si firmerà non più Alfonso de Liguori, ma semplicemente Alfonso Maria.

 

I coniugi Liguori-Cavalieri non conoscevano il senso etimologico di questo bel nome; la “ph”, reminiscenza greca in latino e in francese, è solo un errore ortografico consacrato dall’uso; “Alfons” infatti deriva da due radici germaniche: adal, uomo di nobile origine, e funs, pronto al combattimento 1. Mai un nome sarà più appropriato: nobile di nascita e cavaliere di Cristo sempre pronto e sulla breccia per le battaglie di Dio.

 

 

I Liguori non guardavano certo cosi lontano. La madre felice teneva nel segreto delle preghiere i suoi sogni e il padre si riprometteva di assicurare a questo figlio i pingui frutti del duplice privilegio del la sua nascita: la casta dorata e la primogenitura, che portava con sé titoli, poteri, ricchezze, ozio, sicurezza di un brillante matrimonio. Don Giuseppe avrebbe vegliato perché l’erede del suo nome, del suo patrimonio e della sua stirpe diventasse il più prestigioso gentiluomo del Regno.

Non ignorava che il cognome trasmessogli poteva derivare dal greco liguros, illustre... e questo figlio ne sarebbe stato la prova! Del resto era uno dei cognomi più antichi dell’Italia meridionale: Napoli, prima ancora dei re, aveva avuto dei Liguori.

I Liguori erano autenticicavalieri napoletani ”, pur senza possedere uno dei mille titoli nobiliari del Regno (119 principi, 156 duchi, 173 marchesi, 42 conti, 445 baroni, niente meno!2, che circa cinquemila famiglie cosiddette patrizie, in lotta tra di loro per il più altisonante, dividevano o accumulavano per il gioco delle alleanze, delle eredità, degli appalti, delle sopraffazioni e dei favori reali. La loro stirpe, che da secoli s’era distinta al servizio della città partenopea nelle armi, nella magistratura, negli alti gradi dell’amministrazione, nella Chiesa, e che andava orgogliosa di quel Marco de Liguori

governatore di Napoli durante il regno di Tancredi (1190-1194), dal quindicesimo secolo faceva parte della “ nobiltà di seggio ” e a sedeva ” nella “piazza ” di Portanova, uno dei sei consigli di quartiere che si spartivano per diritto ereditario il governo della capitale3.

L’istituzione delle “piazzeaffondava le radici nell’antica tradizione delle città greche, nelle quali il popolo lavorava e i notabili

 

 

 

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trascorrevano il tempo libero nell’agorà per scambiarsi le novità, tenere consiglio, decidere gli affari. Così a Napoli, ancor prima del periodo feudale, nelle “ piazze” si raccoglievano coloro che per le ricchezze o gli alti incarichi non avevano bisogno di lavorare: erano i non-servi, i nobili che “ vivevano con armi e cavalli ”. Questa “ nobiltà di piazza ” che trattava gli interessi della comunità in maniera sovrana, dalla “ piazzaera in seguito emigrata in un vicino palazzo dovesedeva ”; cosipiazza ” e “ sedile ” o “ seggio ”, diventati sinonimi, indicavano questi supremi consigli di quartiere cui si apparteneva per diritto ereditario. Troppo vasta per essere a misura d’uomo, Napoli era allora divisa in sei quartieri: cinque in mano alla nobiltà (Caponata, Nidot Montagnat Porto, Pottanova) e uno (Popolo) in mano ai rappresentanti del popolo. Il fratello di san Luigi IX, Carlo d’Angiò (1227-1285), volendo trasformare la “ nobiltà di piazza ” in uno strumento forte e sicuro del potere reale, elevò questi nobili al rango di cavalieri, accordando loro diversi privilegi, tra i quali il più apprezzato era il diritto di spartirsi il 60% dei proventi doganali di tutte le merci che entravano per terra o per mare nella metropoli. Da allora le famiglie che detenevano i “ seggidivenuti ambitissimi, per non sminuirne il prestigio, il potere e le risorse, si arrogarono il diritto di ammettere i pretendenti, cioè in pratica di respingerli, tanto che nel corso del 1500 convennero su un regolamento ufficiale di aggregare solo chi fossenobile di quattro quarti di nome e d’arme, senza alcun ripezzo ”. Di conseguenza le famiglie più titolate e i grandi della corona chiedevano con insistenza un “sedile” in una “piazza”, ma Filippo II (1527-1598), per rendere più difficile l’ammissione, al consenso unanime dei titolari aggiungerà quello del re in persona4.

I Liguori non ebbero bisogno di potenti intercessori per ottenere una poltrona al Consiglio di Portanova, perché vi sedevano con certezza almeno cento anni prima di Filippo II, probabilmente prima ancora di Carlo d’Angiò e forse fin dal tempo del governatorato di Marco de Liguori al termine del XII secolo; non erano arrivisti arricchitisi nel commercio o nel cavillo, ai quali il re vendeva titoli nobiliari per finanziare le sue guerre, o “ nobili di privilegio ” che quelli di origine motteggiavano col proverbio: “ Duchi si, cavalieri no ”; riguardo ai Liguori si poteva dire il contrario: “ Duchi no, cavalieri sì ”. Alla fine del settembre 1710 Don Alfonso de Liguori, cavaliere napoletano per i suoi quattordici anni, prenderà posto nel Sedile di Portanova accanto al padre Don Giuseppe, che allora era il “ Capitano a guerra ”, cioè il comandante della guardia civica5.

 

 

 

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In casa Liguori non si condivideva l’oziosità pomposa e rovinosa della maggior parte dell’aristocrazia napoletana di allora; si era invece gente ambiziosa e forse anche cupida di denaro e, poiché dat Iustinianus honores... e le beghe giuridiche danno danaro, zii e cugini avevano posti di prestigio nel pretorio e nella magistratura6; oppure erano avventurieri e gente di guerra e proprio nelle armi gli ascendenti paterni di Don Giuseppe avevano fatto carriera. Il bisavolo Don Antonio era stato governatore militare dell’isola fortificata di Nisida, baluardo avanzato tra le due baie di Napoli; il nonno Don Alfonso aveva barattato il codice con la spada e al comando di un reggimento di corazzieri si era imposto per il coraggio all’attenzione del bellicoso Filippo IV (1605-1665); il padre Don Domenico, brillante ufficiale nell’armada spagnola, nel 1667 aveva combattuto lungo le coste portoghesi, alla testa di una unità napoletana di fanteria di marina; e tale servizio gli frutterà una rendita mensile di 50 scudi, sufficiente per pensare a una casa propria; infatti nel 1668 sposerà Donna Andreana Mastrillo, una vedova di Nola, adottandone la figlia Eleonora7. Il primogenito Giuseppe, nato nella casa materna a Nola il 5 febbraio 16708, orfano di madre già a sei anni, dal sangue bollente di soldato e dalla fervida immaginazione popolata di armadas, crebbe a Napoli con un padre risposato, una matrigna, una sorellastra e due sorelle, Gironima e Ippolita (detta anche Porzia) amanti più delle loro bambole che dei suoi sogni di campagne e di crociere. Per liberarlo forse da tale ambiente, Don Domenico, che risiedeva senza dubbio nel suo palazzo all’estremità ovest di via Toledo, già nel 1685 aveva intestato al figlio quindicenne la nuda proprietà di tutti i suoi beni, riservandone per sé vita natural durante l’usufrutto, ad eccezione della residenza estiva di Marianella che gli concesse subito libera di ogni vincolo9.

Si raggiungeva Marianella, villaggio di circa settecento abitanti, dal nome canoro che sembra evocare la Vergine bambina, con una passeggiata di otto chilometri attraverso giardini e boschetti, a Nord della capitale, oltre Capodimonte; dietro l’abside della chiesa i Liguori possedevano da circa duecento anni una vasta tenuta con giardino, frutteto, boschetto. Nel 1660, mentre il nonno Don Alfonso si faceva onore al servizio di Filippo IV, il fratello e comproprietario Don Ercole aveva sostituito il modesto villino con un’ampia villa di due piani (venti vani) su un pianoterra di dipendenze e di “bassi” da affittare. Diventata la prima casa di Giuseppe, nella quale per ora trascorrerà le sue solitarielicenze ”, sarà in seguito da lui abbellita e ingrandita con terreni e costruzioni10.

Infatti, ancora adolescente, egli aveva lasciato un focolare non più suo per prendere le armi e il mare, aiutato forse dal padre che

 

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aveva dovuto mantenere i contatti con la Squadra reale. Giuseppe cominciò dal basso sulla galera Capitana come semplice aventurero, che non significava avventuriero e meno ancora mercenario, dovendo assicurarsi con i suoi mezzi la sussistenza. La trireme aveva in organico il numero chiuso di 400 forzati ai remi e 105 ufficiali e soldati; l’aventurero con la sua persona e i suoi ducati si metteva al servizio in attesa della morte o del congedo di uno dei 105 militari, che gli permetterà di fare un passo avanti verso un posto di titolare con soldo, gavetta, gallette e la speranza dei galloni. Il nostro giovane cavaliere prestò servizio un anno o forse due nella fanteria di marina come fuciliere e artigliere, mozzo e apprendista timoniere, segnalatore e scandagliatore, navigatore con l’aiuto della bussola o delle stelle, fino al luglio 1692 quando il padre con un decreto reale di Madrid poté trasferire su di lui la sua rendita militare di 50 scudi al mese. L’aventurero Liguori passò allora al rango di entretenido (questi termini sono spagnoli, perché spagnola è l’armata), cioè a carico dello Stato, come soldato e soldato ben pagato, dal momento che un comandante di galera percepiva 55 scudi mensili e per quindici anni prestò servizio nella fanteria di marina sulla Capitana salendo, non sappiamo con quale ritmo, i vari gradi della gerarchia militare11. Saranno quindici anni calmi come il mare nelle belle giornate, malgrado i sommovimenti della guerra di successione spagnola sulla terraferma.

Non immaginiamolo però in rotta lungo le coste asiatiche o marocchine. La flotta da guerra napoletana, che contava solo sette triremi12 , qualche bastimento leggero per le manovre veloci e certamente alcune tartane per trasportare le “ munizioni ” da bocca, aveva il compito di intimorire i pirati che assalivano le rive del Tirreno, sorvegliare i porti, proteggere il trasporto marittimo di truppe e di merci dall’Adriatico al golfo di Gaeta intorno al piede dello “ stivale ”, garantire la sicurezza dei convogli diplomatici tra Barcellona e Napoli ed eventualmente scortare gli spostamenti reali.

Di conseguenza le assenze di Don Giuseppe saranno frequenti, ma raramente molto lunghe o molto lontane; questi quindici anni di tranquillità divisi tra il mare e la città permetteranno al giovane ufficiale di 25 anni di realizzare il desiderio di una casa propria sposando, il 15 maggio 1695, nella cattedrale di Napoli, Donna Anna Caterina Cavalieri, più giovane di soli dieci mesi13.

 

Donna Anna, nata il 24 novembre 1670, quinta figlia di Don Federico Cavalieri, uno dei primi magistrati del Regno, e di Donna Elena d’Avenia, della famiglia dei marchesi di Avenia di origine spagnola, rappresentava un prestigioso partito.

 

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Gli Avenia-Gizzio erano eminenti uomini di legge, quando non erano gente di Chiesa: un prozio di Elena, Francesco Gizzio (t 1698), oratoriano, famoso per il suo genio e la sua eloquenza 14, trascorreva nell’oratorio dei figli di san Filippo Neri gli ultimi anni di una vita E tutta consacrata all’educazione cristiana dei nobili napoletani e un giovane cugino germano di Elena, Pietro Marco Gizzio, che Alfonso chiamerà affettuosamente zio secondo l’uso del tempo, era già canonico della cattedrale e giudice ecclesiastico della diocesi. I Cavalieri erano il prototipo della famiglia patrizia di allora basata su due poli vitali, il diritto di primogenitura e la religione padre di Anna, Don Federico, il primogenito, eminente giurista, era presidente della Real Camera della Sommaria (1688)- insieme Corte dei Conti e Ministero delle Finanze - incaricata di gestire i beni della corona e dello Stato (demanio, flotta, arsenali, feudi, fisco, dogane...), di giudicare i delitti commessi contro di essi, di fungere da arbitro nei casi di conflitto; nel 1696 diventerà nonno di Alfonso e sarà chiamato a sedere nel Sacro Real Consiglio di S. Chiara, la Suprema Corte di appello, al di sopra, come il re in persona, della Sommaria e della Vicaria (l’Alta Corte penale e civile). Durante l’ascesa di Federico, primogenito veramente grande, i tre fratelli cadetti erano scomparsi dalla competizione e dall’eredità rinchiusi, con o senza vocazione, uno tra gli Olivetani, un altro tra i Carmelitani scalzi e un terzo tra i Celestini, Ordini che allora a Napoli non figuravano certo tra i primi per fervore e povertà15.

L’alta posizione raggiunta da Don Federico Cavalieri fu certamente frutto anche di un grande coraggio temprato dalle avversità. Infatti dopo solo undici anni di matrimonio, a 28 anni, la moglie Elena moriva dando alla luce il sesto figlio, Francesco, sopravvissuto solo poche ore, e Anna Maria Caterina a tre anni restava la beniamina di un focolare, privo ormai dell’anima e del cuore, accanto al padre con i fratelli Emilio e Giuseppe, rispettivamente di undici e sette anni, mentre le due sorellegrandiTeresa e Cecilia, la prima di nove e L’altra di sei anni entravano nell’educandato del monastero di S. Francesco delle Cappuccine Riformate, attualmente al n. 14 della Salita Pontecorvo. Don Federico continuerà la vita da solo, irrigidito nel dolore, nel lavoro, nella fede, “ ministro integerrimo, amantissimo del giusto, forte, e senza rispetti umani, di santissima vita, piena del santo timor di Dio ”, come lo dipinge Mons. Sanfelice, futuro vescovo di Nardò16.

In quel tempo i capifamiglia pretendevano da Dio, quale contraccambio ai loro “ doveri religiosiadempiuti sino allo scrupolo, che si guardasse bene dall’esercitare la sua volontà sui loro primogeniti! Emilio Giacomo, nato il 24 luglio 1663, primo frutto dell’unione di

 

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Don Federico con Elena d’Avenia, degno figlio di suo padre, tempra forte come la sua, si permetterà invece, come Dio, di avere un proprio progetto di vita, anche se aveva dovuto iniziare la trafila dall’università con la prospettiva di raccogliere l’indivisibile eredità e la responsabilità del nome e della fama; a vent’anni, terminati gli studi di diritto, si opporrà alle imperiose tradizioni e senza né avvisarerivedere il padre entrerà nel noviziato dei Pii Operai, i missionari del popolo minuto. La tempesta in casa Cavalieri fu terribile! Per strapparlo al suo “ insanoprogetto, Don Federico arriverà ad intentare contro il figlio un processo canonico presso il tribunale ecclesiastico, processo ricordato in modo anonimo, sessant’anni più tardi nei suoi Avuisi sulla vocazione, da Alfonso de Liguori, che nel frattempo aveva combattuto simili battaglie.

Il presidente perderà la causa ed Emilio ne guadagnerà in attenzione e stima presso l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Antonio Pignatelli, che lo promuoverà al presbiterato a ventiquattro anni con dispensa dall’età canonica, nominandolo subito dopo esaminatore dei giovani preti e corresponsabile del clero (oggi diremmo vicario episcopale).

Nel 1691 Pignatelli fu eletto al soglio pontificio con il nome di Innocenzo XII e a Napoli gli succedeva il cardinale Giacomo Cantelmo Stuart, cugino di Giacomo II d’Inghilterra, che potenzierà subito l’Inquisizione vescovile, perché inasprito anziché addolcito nella sua intolleranza dalle missioni diplomatiche in Svizzera, Polonia e Inghilterra17. Quale promotore della fede scelse il P. Emilio Cavalieri, giurista di formazione e di spirito, uomo di legge e di rigore, stimato dai suoi confratelli e dall’intera diocesi per la prudenza e l’abilità dimostrate “ in qualsivoglia maneggio ”, che a soli ventotto anni si troverà consultore e poi giudice fiscale di questo terribile tribunale. L’Inquisizione per tradizione era la bestia nera di Napoli; lo slancio di uno zelo troppo giovane e forse ambizioso e metodi più da serpente che da colomba esacerbarono talmente gli animi di tutte le “ piazze ”, compresa quella del Popolo, che i loro sei deputati, dopo una riunione della “ Città ” nel tribunale di S. Lorenzo, decisero in un primo tempo di esigere la partenza del cardinale e del suo “ sbirro ”, accontentandosi alla fine dell’espulsione del solo P. Cavalieri. Esiliato, prese la strada di Roma, dove i Pii Operai avevano da poco (1689) fondato, nella chiesa di S. Balbina sull’Aventino, un centro missionario il cui superiore era un confratello della sua stessa età, il P. Tommaso Falcoia (1663-1743), uomo che peserà molto sulla vita e sull’opera di Alfonso de Liguori.

A Roma troverà sul trono di Pietro un protettore personale, Innocenzo XII, che lo amava, lo stimava e lo promuoverà, a ventinove anni malgrado i sacri canoni, vescovo di Fondi, diocesi certamente

 

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minuscola e fangosa (10.000 anime, 1.000 ducati di rendita annuale) ma l’unica vacante a poca distanza da Napoli. Il Santo Padre al P. Cavalieri, umilmente prostrato ai suoi piedi per rifiutare la mitra, dirà: “ Va bene, d’ora innanzi però verrete ad abitare presso di me nel palazzo pontificio ”. Dopo un anno di questo esilio dorato, l’umiltà di Emilio dovrà cedere all’ubbidienza. Egli accetterà la nuova nomina alla sede molto ambita di Troia (28.000 anime, 9.000 ducati) e sarà ordinato vescovo, a soli trent’anni, il 2 maggio 1694, un anno prima del matrimonio della sorella minore con Don Giuseppe de Liguori, il quale sarà fiero di sposare la sorella di un vescovo, non solo importante ma anche il più giovane della cristianità, nonostante l’esasperazione dei suoi avversari e delle cattive lingue che non avevano mancato di far notare il rifiuto all’anello della povera Chiesa di Fondi per una sposa con maggiore dote 18.

Il presidente Cavalieri ora poteva fregarsi le mani non solo per ciò che sulle prime aveva tanto infiammato il suo furore, ma anche per le grandi speranze che ora gli venivano dal secondogenito Giuseppe, in favore del quale il giovane vescovo aveva rinunziato alla primogenitura, e che diventerà ministro della giustizia, della guerra, consigliere del Sacro Real Consiglio di S. Chiara, governatore di Capua... e padre di un domenicano e di due visitandine 19.

Delle sorelle cresciute tra le Cappuccinelle, Teresa ammalatasi era tornata a casa per curarsi... e per morire tisica nel fiore dei suoi venti anni, Cecilia invece vi farà la professione solenne “ per entrambe ”, prendendo il nome di suor Maria Francesca Teresa (!) del Cuore di Gesù, e sarà poi eletta e rieletta più volte badessa.

La piccola Anna Caterina, cresciuta accanto al padre fino ai quattordici anni, nel dicembre 1684 aveva raggiunto le sue sorelle maggiori che l’aspettavano da dieci anni nell’educandato delle Cappuccinelle, dove resterà per altrettanti anni fino al matrimonio20.

 

A quell’epoca le giovani patrizie si sposavano ordinariamente all’uscita dal convento, secondo la scelta fatta dai genitori, spesso da lunga data, per motivi di famiglia (beni, feudi, titoli, nome); era allora impossibile come oggi incontrarsi, piacersi, frequentarsi, avvertire mamma e papà e poi sposarsi; agli “ interessatirestava solo da pronunziare il “ sì ” imposto dal concilio di Trento. L’amore quindi, che non veniva prima, poteva essere il primo e non raro frutto del matrimonio, circondato, però, di riserbo e di discrezione. Sappiamo che Donna Anna portava a Don Giuseppe cinquemila ducati di dote 21, ma ignoriamo il capitale di sentimenti messo insieme nella primavera del 1695 che li unirà per cinquant’anni e sei mesi...

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NOTE

 

 





p. 31
1 SH 1 (1953), pp. 114 ss.; 5 (1957), pp. 122-123.



2 B CROCE, Storia del Regno di Napoli, p. 113; R. BOUVIER A. LAFFARGUE, La vie napolitaine au XVIII siècle p. 38.



3 Contributi (S. Alfonso de Liguori. Contributi bio-bibliografici), pp. 19-22, 36.



p. 32
4.P. GIANNONE, Istoria civile del Regno di Napoli, 1. XX, c. 4.



5 Contributi, pp. 23, 36, 41.



p. 33
6 Ibid., p. 22.



7 SH 7 (19s9), pp. 229 ss.



8 Contributi, p. 23.



9 Ibid., p. 33; SH 13 (1965), pp. 102-104.



10 ASDN, Visite Pastorali, A. Pignatelli, II, f. 199; Contributi, pp. 24-26, 30-35.



p. 34
11 SH 7 (1959), pp. 231 ss.



12 R TELLERIA, San Alfonso Maria de Ligorio, vol. I, p. 12, n.44.



13 SH 7 (1959), p. 231, n. 9; Contributi, p. 24.



p. 35
14 R. DE MAIO Società e Vita Religiosa a Napoli nell'età moderna (1656-1799), pp. 56, 59, 63, 145.



15 Ibid., pp. 108-109



16 TELLERIA, op. cit., I, p. 6; SH 2 (1954), p. 284, n. 3.



p. 36
17 DE MAIO, op. cit., pp. 25-26 .



p. 37
18 G GALASSO, “Napoli nel Viceregno spagnolo 1696-1707 ”, in Storia di Napoli, VII, pp. 68-85;

L. OSBAT, L'inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti 1688-1697, pp. 149 ss., 192, 200, ecc.;

D. VIZZARI, E. Cavalieri da inquisitore napoletano a vescovo di Troia, Napoli 1976.



19 SH 7 (1959), pp. 250-251.



20 SH 2 (1954), pp. 283-284; “Analecta C.Ss.R.”, 11 (1932), pp. 45-46.



21 SH 5 (1957), p. 241.



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