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All’inizio del Settecento Napoli, raggomitolata in modo pauroso dentro la cinta fortificata all’ombra di Castel Sant’Elmo con i suoi 214.000 abitanti, soffocava all’interno dei bastioni come una matrona costretta nel busto di un’indossatrice; solo nel 1717, con l’arrivo degli Austriaci, le violente proteste di una popolazione asfissiata strapperanno al viceré, il conte di Daun, l’autorizzazione a costruire all’esterno delle mura, che si comincerà ad abbattere non prima del 1740 Tuttavia, a dispetto delle ordinanze di Madrid, il viceré Pietro di Toledo, a metà del XVI secolo, aveva lasciato sorgere extra muros grossi agglomerati, tra i quali, al di là di Porta S. Gennaro, il Borgo dei Vergini, ai piedi delle pendici verdeggianti che si arrampicano verso Capodimonte 1.
In questo quartiere relativamente nuovo, arieggiato e purificato dalle piogge che scorrevano dall’alto, e non a Marianella, il piccolo Alfonso crescerà fino ai suoi undici anni, nella casa che i giovani sposi Giuseppe e Anna de Liguori avevano scelto non lontano dal palazzo Cavalieri e dalla trireme ammiraglia, la Capitana, ancorata nel porto militare raggiungibile facilmente per via Toledo.
Avevano forse preso in affitto uno dei tre appartamenti del palazzo Scordovillo all’angolo di Via dei Vergini e del Supportico Lopez (l’odierno n. 38), come fa supporre l’atto di compera del 1717, o è più verosimile, come vuole la tradizione orale dei Liguori di Presiccio 2, che si fossero installati qualche centinaio di metri più lontano, in casa di un cugino di secondo grado, il giovane Domenico de Liguori (1674-1752), la cui vasta dimora s’innalza ancora oggi al n. 2 di S. Maria Antesaecula. Ad ogni modo è certo che dalle nozze fino al 1707, il decennio delle culle, saranno parrocchiani di S. Maria dei Vergini, secondo l’irrecusabile testimonianza dei volumi XI e XII del Libro dei Battezzati di questa parrocchia che, dopo l’atto di battesimo di Alfonso Maria del 29 settembre 1696, registrano alle rispettive date quelli di sette tra fratelli e sorelle.
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Gli sposi Liguori-Cavalieri infatti, in dieci anni, ebbero quattro maschi e quattro femmine.
Ad Alfonso Maria, nato a Marianella all’alba del 27 settembre 1696, si aggiunse il 5 novembre 1698 Antonio, che, cresciuto certamente insieme al primogenito, il 21 marzo 1716 con il nome di Benedetto Maria emetterà i voti solenni tra i Benedettini della congregazione di Montecassino, nel ricchissimo monastero napoletano dei SS. Severino e Sossio, diventerà maestro dei novizi a trent’anni e morirà dieci anni dopo “martire della penitenza e dell’abnegazione”, come ci assicura il Tannoia, anche se la storia ci dice che questo convento nuotava allora nell’indolenza e nella rilassatezza 3.
Il 25 febbraio 1700 nacquero le gemelle Barbara e Maddalena, delle quali secondo il Libro dei Battezzati l’ultima, nata per seconda, fu battezzata per prima, forse perché si riteneva concepita per prima secondo la vecchia credenza, o perché si temeva per la sua vita; difatti scomparve ben presto dalla storia familiare dei Liguori, ma il suo nome (presenza di un angelo volato via?) sarà aggiunto a quello di Anna Maria, la prima sorella nata dopo di lei nel 1702. Barbara invece, messa in educandato, cioè in clausura, tra le Francescane di S. Girolamo (o Geronimo) a nove anni, a quindici prenderà l’abito religioso con il nome di suor Maria Luisa.
Gaetano, nato il 4 settembre 1701, cresciuto in casa come i due fratelli maggiori (tutti e tre ragazzi fortunati!) diventerà prete diocesano per vocazione paterna. Don Giuseppe, dall’amico duca Orsini di Gravina, otterrà un beneficio ecclesiastico, di cui deteneva il patronato, per il figlio quattordicenne che si deciderà per il sacerdozio solo una dozzina d’anni più tardi; ordinato nel 1730, fino alla morte avvenuta nel 1784 “menerà in casa una vita quasi eremitica” (Tannoia) con l’unico impegno pastorale di custodire la Cappella del Tesoro di S. Gennaro nel Duomo, dove ai busti di argento dei santi patroni di Napoli nel 1840 si aggiungerà quello del fratello Alfonso.
Il 28 novembre 1702 venne al mondo Anna Maria Maddalena, detta Annella, che sarà messa in clausura, ancor prima della sorella Barbara, nel monastero di S. Girolamo all’età di soli cinque anni con una dispensa accordata da un breve pontifico di Clemente XI al cardinale Pignatelli, non potendosi monacare le bambine prima dell’uso della ragione; ammessa al noviziato dopo dieci anni di educandato, diventerà, accanto a suor Maria Luisa, suor Marianna, ma la sua vita sarà un lungo calvario nel corpo e nello spirito: torturata dagli scrupoli, aggrappata alle indicazioni dei suoi confessori gesuiti e dello stesso fratello Alfonso, che un giorno le dirà: “ Voi pazza morirete ”, finirà i suoi giorni ininterrottamente vigilata 4.
I figli nascevano con destini diversi. Teresa Maria, del 12 dicembre 1704,
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crescerà con la madre fino al matrimonio a sedici anni con il duca Domenico del Balzo, barone di Presenzano, contribuendo al successo della famiglia e all’equilibrio sociale della nobiltà, che esigevano un maschio per perpetuare il nome, la stirpe e il patrimonio e una femmina da dare in sposa a qualche nobile ereditiero.
La nascita di un ultimo figlio, Ercole, il 30 novembre 1706, dovette forse creare delle preoccupazioni ai genitori: sarebbe vissuto di armi, foro, commercio, beneficio ecclesiastico o mensa comune in qualche monastero? Alfonso annullerà questi interrogativi cedendogli il proprio posto 5.
Oggi si resta perplessi dinanzi a tali decisioni vitali fatte solo dal pater familias; neppure lo stesso Dio, Padre onnipotente, si attribuisce tale diritto!... Ma erano questi il costume di allora e gli imperativi socioeconomici dell’Ancien Régime.
La “successione”, come abbiamo visto per Emilio Cavalieri, era retta dal duplice principio conservatore: perpetuare la Casa e non sminuire il patrimonio (feudi, terre ed edifici), secondo la ferrea legge del maggiorascato, o diritto di primogenitura, tutta in favore del figlio o della figlia primogenita. I figli “in più”, se maschi tentavano l’avventura della spada, della toga, degli affari, della tonsura o del saio; se femmine avevano diritto alla “legittima”, cioè al mantenimento fin quando restavano in casa e alla dote quando si sposavano o entravano in religione. La soluzione monastero era certamente “la migliore” per la gloria di Dio e la felicità delle donne, avendo il concilio di Trento dichiarato, sotto pena di anatema, che “la verginità è più perfetta e beata del matrimonio”! Alcune grandi famiglie avevano monasteri “propri” per sistemare le figlie al sicuro dagli spasimanti, che erano colpiti dalla scomunica qualora, senza il permesso del vescovo, avessero osato conversare attraverso le grate, non solo con una religiosa professa, ma anche con una semplice educanda.
Quale significato poteva avere per la piccola Annella di soli cinque anni la domanda al papa Clemente XI nella quale esprimeva “il suo ardente desiderio di essere ammessa nel monastero delle monache di S. Girolamo della città di Napoli per meglio mettere al sicuro il suo onore e più facilmente penetrarsi nei buoni costumi”, o, dopo sette o dieci anni di clausura, la domanda per Barbara, a quindici anni nel 1715, e per Anna Maria a sedici nel 1718, di fare professione per tutta la vita, attestante che “da niuna persona (era) stata forzata né violentata”? In realtà si trattava di formule di rito “liberamente pretese” da tutte per non finire sotto la mannaia della scomunica del concilio di Trento, che non rincorreva mulini a vento quando colpiva quelli che,
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fossero anche re o cardinali, forzavano giovani o vedove a entrare in monastero o a farvi la professione.
La piaga delle vocazioni forzate non era solo napoletana ma occidentale e dipendeva dall’Ancien Régime. Tale autoritaria pressione sociologica riguardo alle scelte di vita ha fornito alla letteratura un filone d’oro abbondantemente sfruttato fuori d’Italia: La Religieuse di Diderot è una caricatura di cattivo gusto, ma André Latreille nella Histoire du Catholicisme en France, parlando del secolo XVIII, accetta, pur con la doverosa cautela, le prove portate dai romanzieri nel descrivere “i chiostri pieni di vocazioni forzate, di figli cadetti sacrificati ai primogeniti, di figlie votate loro malgrado a un nubilato contro natura”. In Francia, nel 1700, il clero era dieci volte più numeroso del necessario (250.000 membri per 20 milioni di abitanti) e il dolce Massillon, non in un romanzo napoletano, ma nel suo famoso discorso Sur la vocation esplodeva a buon diritto:
- Ma non è possibile, direte voi, in una famiglia numerosa sistemare tutti nel mondo.
- E che! fratelli miei, per non spartire i vostri beni sacrificate i vostri figli!... Si immolano gli sfortunati cadetti alla grandezza di un primogenito... Genitori` barbari e inumani per innalzare al di sopra dei loro antenati uno solo dei loro figli, non si fanno scrupolo di sacrificare tutti gli altri: strappano dal mondo figli a cui fa da vocazione la sola autorità paterna; conducono all’altare vittime infelici per immolarle alla propria cupidigia più che alla grandezza del Dio che vi si adora... Così l’imprudenza, l’ordine di nascita, la cupidigia, il rispetto umano, decidono del destino di quasi tutti gli uomini, dando origine a tanto scontento in tutti gli stati, a tanto rimpianto nei matrimoni, a tanto disgusto nel servizio divino, a tanta rivolta, noia, amarezza nei chiostri.
L’intera Europa cattolica ben meritava questi rimproveri cocenti!
L’irriflessione dei genitori, l’ubbidienza sacralizzata dei figli, la forza delle abitudini, la pressione sociologica, gli imperativi economici, in cui consiste il vero potere di tutti i regimi, e qualche “diavolo tentatore” rendevano tollerabili alle coscienze questo modo di fare. - Alcuni storici condannano l’espansione topografica della Napoli sacra di allora che, invadendo un territorio troppo ristretto con conventi, monasteri, chiese, “conservatori” di bambine e di ragazze, case di asilo o di ritiro con i loro vasti recinti, costringeva il popolo minuto ad ammassarsi in catapecchie sovrapposte l’una sull’altra fino al cielo; ma forse si potrebbe vedere nelle sontuose fondazioni religiose il bisogno inconsapevole per una triste società di comprensione e di perdono per l’internamento di questi “claustrati per forza”. Ahimè! i tre quarti dei trentasette monasteri femminili e dei
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centoquattro conventi maschili scandalizzavano per l’ozio, il lusso e la bramosia di denaro 6.
Nelle vocazioni “paterne” della famiglia Liguori, sotto questo punto di vista né peggiore né migliore delle altre, il fattore economico ebbe un ruolo importuno.
Nel 1715 Don Giuseppe assicurò per tutta la vita ad Antonio, entrato tra i Benedettini, un posto alla mensa comune e a Gaetano, ben sistemato in un beneficio ecclesiastico con una tonsura dietro il capo, un piatto alla tavola di casa, pagato da una sinecura dotata, ma non poté fornire a Barbara i 1.500 ducati, necessari per emettere il voto di povertà tra le Francescane di S. Girolamo, dei quali 1.000 saranno poi anticipati da una benefattrice, suor Benedetta Maria de Angelis, e 500 dai “Governatori del Monte dei poveri vergognosi”7. Fondato nel 1614, “amministrato” da una confraternita di cavalieri, questo “Monte dei poveri vergognosi” aveva come fine tra l’altro di dotare le “donzelle nobili” cui la povertà impediva di entrare in religione per “sposare Gesu Cristo”8.
I Liguori nel 1715 si trovavano dunque senza denaro o attraversavano un critico periodo finanziario? I documenti dell’epoca ci permettono di veder chiaro.
Numerosi atti notarili denunciano una confortante crescita economica della famiglia Liguori intorno al 1715: i 7.000 ducati della dote di Donna Anna fruttavano ogni anno più di 400 ducati (una famiglia povera con quattro figli viveva con 4 ducati al mese!); Don Giuseppe, oltre una ricca eredità lasciatagli dall’abate Francesco Mastrillo cugino di sua madre, riscuoteva 55 ducati mensili, quale luogotenente colonnello comandante della Capitana, e a questi aggiungeva lauti proventi, quale membro di diritto del Consiglio Superiore della marina, creato proprio nel 1715 per provvedere a rinforzare la squadra reale con la costruzione di quattro nuove galere. Questo marinaio, del resto, aveva i piedi bene a terra! Prestava somme importanti e investiva capitali nelle imprese del sale, del tabacco, della seta, dell’olio, del ghiaccio (frigorifero), del ferro, della farina; dal 1714 dirigeva lo sfruttamento dei boschi delle isole Pontine nel golfo di Gaeta per la fornitura alla marina reale di materiali da costruzione e di carbone polverizzato per la polvere da sparo; investiva anche in immobili, assicurandosi dal febbraio 1715 (lo stesso mese, strana coincidenza, in cui non aveva un carlino per la dote di Barbara) con notevoli versamenti rateali i diritti ipotecari sul palazzo di Don Giuseppe Scordovillo al Supportico Lopez, che comprerà poco dopo, con atto del 30 novembre 1717, assieme alla casa Cardovino con la relativa tenuta di cinque ettari a Marianella 9.
Non si può provvedere a tutto in una volta!
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Don Giuseppe inoltre teneva al denaro, tanto che nel 1728, alla morte del padre Don Domenico, sarà necessario ricorrere agli avvocati per fargli versare il saldo della dote dovuto alle due sorellastre Geronima de Migliore (morta lasciando due bambini) e Ippolita del Balzo 10 e citarlo in tribunale per strappargli la a legittima ” delle figlie francescane suor Marianna e suor Maria Luisa 11.
Era reazione contro la passata povertà di aventurero o durezza di orfano di madre cresciuto in un ambiente esclusivamente maschile? In verità questo capitano di acciaio era attaccato al guadagno come al suo lavoro e poi, noblesse oblige, c’era l’ambizione.
E in realtà era dispendioso a Napoli far parte dell’aristocrazia: palazzi, fasto, feste, teatro, servitù, parassiti e il “dolce far niente”, primo lusso di questi figli del sole e della fortuna, facevano squagliare i ducati tra le dita di coloro che volevano essere all’altezza di una nobiltà i cui membri vivevano da gran signori senza lavorare e disprezzando il commercio.
D’altra parte potevano avere delle attenuanti in quanto si calcola che su sei napoletani uno solo lavorasse 12, mentre gli altri cinque si agitavano, correvano, parlavano, gesticolavano per non far niente. E la giustificazione di tale comportamento è diventata proverbio: Napoli è un pezzo di cielo caduto in terra (e tutti sanno che il cielo è il riposo eterno!). Stupito, Goethe scriverà:
“Napoli è un paradiso; tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso; non mi riconosco quasi più, mi sembra d’essere un altr’uomo. Ieri mi dicevo: "O sei stato folle fin qui o lo sei adesso...".
Se a Roma si studia con piacere, a Napoli non si può che vivere; si dimentica se stessi e l’universo; quanto a me, è una sensazione abbastanza strana questa di aver a che fare solo con uomini che pensano a godere ”.
Il poeta ha visto solo la luce, ma uno storico specialista del periodo, G. Spini, in un suo libro recente rivela le ombre:
“La nobiltà italiana si modellò sempre più sull’esempio spagnolo. Lo stesso ozio fastoso dell’aristocrazia spagnola, lo stesso disdegno verso qualsiasi attività produttiva, la stessa mania di apparenze, la stessa passione insensata per l’etichetta, le precedenze, i puntigli d’onore, i duelli, ne diventarono le caratteristiche poco simpatiche... Mentre privilegi e lustro di titoli altisonanti tenevano contenti e sottomessi la nobiltà ed il clero, il popolo languiva nella miseria, falcidiato periodicamente dalle carestie e dalle pestilenze” 13.
I Liguori e i Cavalieti facevano parte dell’élite che rifiutava l’oziare fastoso, mirando più in alto del loro rango per l’ambizione che non
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faceva dimenticare a Don Giuseppe il nonno, uno dei magistrati supremi del Sacro Real Consiglio, il cognato consigliere di Stato, ministro della guerra, l’antenato Marco governatore di Napoli, il figlio Alfonso... Ah! suo figlio, il suo primogenito, il suo amore (perché questo duro è in fondo un tenero, appassionato di musica), il suo orgoglio, orgoglio insondabile... E’ cosa da non parlarne mai, ma da pensarci sempre.
Ad ogni modo i cavalieri non andavano più a cavallo, ma da persone che contavano, uscivano solo in carrozza, preceduta e seguita da servi, con le fiaccole in mano la notte, come Du Paty scriverà nelle Lettres sur l’Italie: “La professione di quindicimila persone a Napoli è stare avanti a una carrozza, di altre quindicimila, dietro”.
Le famiglie nobili avevano da mantenere allora non solo questi portatori di torce dalle livree più care dell’abito monastico, che non correvano gratuitamente, ma anche “una turba di segretari, di maestri di casa, di cappellani, di paggi, di camerieri, di cuochi, di lacchè, di volanti, di cocchieri, di cavalcanti, di mozzi di stalla. L’uso di un lacchè è generale nella capitale, e distingue le persone che lo portano. Il suo salario è tenue e per vivere defrauda per tutte le vie il padrone ” 14.
A Don Giuseppe, ufficiale superiore della marina da guerra, era agevole reclutare un personale originale, abbondante, a buon mercato e facile da tenere inquadrato, tra gli schiavi turchi o barbareschi catturati nelle operazioni di intercettazione dei pirati, tanto che ognuno dei suoi figli avrà un cameriere e uscirà in città sempre con un lacchè alle calcagna 15.
Ma non anticipiamo. Alfonso e Antonio sapevano appena camminare alla soglia del secolo XVIII, quando uno scossone storico, quasi premeditato, segnò il passaggio e risvegliò bruscamente questa nobiltà “addormentata nel bosco”.
Sabato 20 novembre 1700, una staffetta straordinaria dall’ambasciata di Roma comunicava al viceré di Napoli la morte a Madrid del malaticcio sovrano senza figli, Carlo II, ultimo rappresentante della dinastia degli Asburgo di Spagna, le cui due sorelle Maria Teresa e Margherita Teresa avevano sposato, rispettivamente, Luigi XIV di Francia e l’imperatore Leopoldo I d’Austria; con lo stesso corriere Napoli era informata che il defunto re nel suo testamento aveva designato come suo successore, a capo dei ventitré regni o principati sovrani collegati alla corona di Spagna, non un nipote della Casa d’Austria, ma il pronipote Filippo di Borbone, duca d’Anjou, nipote di Luigi XIV, che, proclamato Re Cattolico con il nome di Filippo V (1683-1746), farà il suo festoso ingresso a Madrid il 19 febbraio dello stesso anno.
Divenuto cosi re di Napoli, di Palermo e di altre venti “capitali”, il viceré in carica a Napoli, il fastoso Luis de Lacerda duca di Medina
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Coeli, non ebbe alcuna difficoltà a riconoscerlo e proclamarlo: era un buon spagnolo e Napoli restava alla Spagna, il suo posto era buono ed egli restava al suo posto: Asburgo o Borbone, che importava?.
Per il popolo, “morto il re, viva il re” e la festa dell’intronizzazione era sempre un’occasione da non perdere con il suo albero della cuccagna da svaligiare e con gli spiccioli gettati a piene mani dagli ufficiali della cavalcata da raccogliere sul selciato nero.
Ma dietro i profondi inchini di circostanza e il silenzio dei nobili covava la cospirazione, alimentata dall’acredine lasciata dagli Angioini, che ritornava tutta in gola al solo nome del duca di Anjou, e dalla delusa speranza di Napoli di ritrovarsi capitale, non già semplice capoluogo di provincia, con un re in casa e una corte in cui pavoneggiarsi e divertirsi “regalmente”.
Nello stesso tempo Napoli veniva esortata a restare fedele alla Casa d’Austria dall’imperatore Leopoldo I, che rivendicava per gli Asburgo le corone del defunto cognato, opponendo a Filippo di Borbone il suo secondogenito, l’arciduca Carlo. Scoppiava così tra i due cognati di Versailles e di Vienna la guerra di Successione spagnola: tredici anni di sangue in Spagna, in Germania, in Italia settentrionale (1701-1714). Al Sud alcuni nobili cospirarono con l’imperatore per avere Carlo come re di Napoli, in cambio dell’aiuto offerto per rigettare in mare gli spagnoli e il loro viceré, passando all’azione il 19 settembre 1701, festa di S. Gennaro. Il santo con il suo popolo, però, si trincerò nella neutralità! Allora gli insorti, barricatisi nei monasteri di S. Chiara e di S. Sebastiano e nelle vie adiacenti, furono assaliti il 23 settembre dal duca di Popoli, fratello dell’arcivescovo, alla testa di un gruppo di nobili e della guarnigione spagnola e Luis de Lacerda, dopo tre giorni di vana lotta e di disordini, spegneva il petardo con il sangue di qualche testa consegnata alla mannaia 16.
I Liguori conservarono la testa sulle spalle, perché fortunatamente Don Giuseppe il 19 settembre era sul mare) più precisamente nel porto di Nizza, dove si trovava con la squadra reale, partita verso il 15 agosto dietro la Capitana “tutta ricoperta d’indorature e di drappi”, per prelevare la giovane regina Maria Luisa di Savoia, promessa alla Spagna e a Filippo V e, dopo averla condotta a Barcellona, per trasportare a Napoli un reggimento di fanteria a rinforzo della guarnigione spagnola di Castel Nuovo. Le galere saranno di ritorno solo il 28 dicembre 17.
Ma per conquistare il cuore dei napoletani occorreva ben altro che una forte truppa di occupazione e un nuovo viceré dalla ferrea mano, il duca di Escalona. Filippo V decise allora di andare personalmente alla sua conquista e il 5 aprile 1702, lasciata la Spagna nelle mani della regina (una reggente di tredici anni) faceva rotta su Napoli, scortato
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da otto vascelli francesi; quando il giorno di Pasqua, 16 aprile, la squadra reale apparve dinanzi a Baia, tutta Napoli accorse sulla riva e il giovane re (diciannove anni) sbarcò di fronte alla reggia, mentre suonavano le campane di cinquecento chiese e tuonavano i cannoni dei castelli e delle navi. Don Giuseppe doveva essere ai suoi pezzi sulla Capitana.
L’ingresso solenne venne rimandato al 20 maggio. Scortato da tre cardinali, dai grandi del Regno e dal loro seguito, il sovrano incoronato attraversò una città in delirio, perché dopo Carlo V non aveva più visto il suo re; i cavalieri napoletani lo aspettavano ai loro rispettivi seggi, a quello di Portanova Don Giuseppe col padre Don Domenico e il cugino Don Francesco de Liguori principe di Presiccio, con bandiere, cori, salve, musica, discorsi; il corteo ripartì con i titolari di Portonava a scorta di onore: Don Francesco e Don Carlo Capuano tené vano le briglie del cavallo reale, Don Giuseppe con altri quattro cavalieri il baldacchino 18
Filippo V non si trattenne nel paradiso partenopeo, perché più che del Vesuvio aveva paura di questa città dal cuore austriaco; partì verso Milano, verso la sua guerra... 19.
Don Giuseppe de Liguori, nato per la politica, sentiva che il cielo di Napoli stava per cambiare. Quale avvenire per il suo piccolo mondo al sobborgo dei Vergini?
GALASSO, op. cit., pp. 218-220; 225-226.
p. 62. Non resistendo al mal di mare, agli insetti e a “profumo” della ciurma, la principessa si fece
sbarcare in Provenza e proseguì per terra il viaggio.