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4. - “CHE SARA’ MAI QUESTO BAMBINO?”
Nel Settecento le strade napoletane, dai colori vivaci e dai molteplici rumori e odori, erano invase da un’agitazione gioiosa, nella quale si trovavano gomito a gomito ma senza confondersi, come dicono gli storici, cinque categorie ben distinte di persone: la nobiltà fastosa e sfaccendata, il clero dalle pingui rendite, la classe media dei borghesi parassiti, il popolo minuto dei commercianti e degli artigiani, che popolavano le botteghe e i bassi dei palazzi privati, e la plebe, massa di circa trentamila accattoni (i cosiddetti lazzaroni o banchieri che passavano la notte sui banchi pubblici quando l’inverno non li costringeva a rannicchiarsi sui gradini delle scalinate interne) 1.
Bisognava aggiungere un sesto “mondo”: quello degli schiavi (negri, orientali o moreschi), che costituivano con i cavalli il bestiame urbano dei grandi porti, come testimonia un testo ufficiale del 1768 (lontano solo duecento anni) di un procuratore del re di Francia.
“La maggior parte degli schiavi che si trovano a Nantes è inutile e anche dannosa. Nelle pubbliche piazze e nei porti si vedono negri in gruppo che spingono l’insolenza fino ad insultare i cittadini non solo durante il giorno, ma anche durante la notte” 2.
Nel secolo XVIII, il più schiavista dell’epoca moderna, la Spagna, che col Portogallo si trovava in una felice posizione geografica, offriva un fiorente mercato alla tratta dei negri, tanto che nel 1701 (Alfonso aveva cinque anni) il Re Cattolico Filippo V concesse il monopolio di questo commercio per l’America spagnola alla Compagnie française de Guinée, sottraendo “considerevoli profitti alla democratica Olanda e alla puritana Inghilterra” 3.
La Spagna metteva a servizio anche dei suoi possedimenti italiani e principalmente delle loro galere, ognuna delle quali “consumava” quattrocento vigorosi rematori, l’ “avorio nero” tanto necessario all’economia coloniale. I negri si univano ai ferri dei condannati ai lavori forzati e dei prigionieri della mai spenta guerra secolare tra cristiani e maomettani; decine di migliaia di prigionieri cristiani, prelevati sul mare
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o sulle spiagge dai pirati barbareschi, gemevano nei bagni penali del Marocco, di Algeri, di Tunisi, dell’Egitto e della Turchia, mentre numerosi “turchi”, cioè musulmani catturati sul Mediterraneo nell’intercettazione dei pirati venuti dalla Turchia o dall’Africa del Nord, si trovavano nelle ciurme o al servizio di ricchi cristiani, come lo documenta il Nunzio Apostolico a Napoli nella gazzetta del 7 agosto 1725: “Ritornarono al nostro porto dal corso le quattro nostre galere su delle quali hanno portato li schiavi fatti su le consapute quattro galere corsare” 4.
Don Giuseppe de Liguori, che “aveva varj Schiavi al suo servizio”, non era un’eccezione per una Napoli che ne contava circa diecimila; Tannoia, che attingeva l’informazione dai fratelli di Alfonso, sottolineava che “come Capitano delle Galee” gli era più facile il procurarseli abbondantemente e a buon prezzo 5.
Gli arcivescovi di Napoli fin dal XVI secolo si erano preoccupati di proteggere e di evangelizzare gli schiavi, fondando la Congrega dei Catecumeni per l’istruzione e possibilmente la preparazione al battesimo per mezzo di appositi catechisti e mettendo a loro disposizione durante i periodi di riposo in porto la chiesa di S. Maria del Rimedio, vicino al molo. Ma che potevano capire i poveri schiavi che avevano bisogno di mesi per apprendere dai guardiani e dai forzati, compagni di catena, le quattro parole (e quali parole!) di napoletano che riuscivano alla fine a masticare?
All’inizio del XVII secolo si aggiunsero i Gesuiti: confratelli di Francesco Saverio, efficienti, all’avanguardia, fondarono una Confraternita degli Schiavi per la loro evangelizzazione e un’Accademia linguistica per lo studio dell’arabo, del turco e dei diversi dialetti dei prigionieri, sensibilizzando nello stesso tempo, per il loro influsso sull’alta società, i grandi sui loro doveri di fede e di carità verso gli schiavi. Non mancherà la gioia del raccolto: ogni anno una ventina, ospitata per qualche giorno nella loro Casa dei Catecumeni, sarà preparata al battesimo 6.
Nel 1676 veniva assegnato alla “missione di Napoli” un giovane gesuita, Francesco de Geronimo (1642-1716), un santo, permeato dai sogni infuocati di Francesco Saverio: le Indie, il Giappone, il martirio...; il suo Generale, il P. Oliva, aveva risposto alle quattro domande in scritto decretando: “Il vostro Giappone sarà Napoli”. Francesco nelle piazze e nei crocicchi, dove la “missione” lo mandava a predicare ogni domenica all’aria aperta, scoprì i lazzaroni, le prostitute e, un giorno del 1677, anche i galeotti, diventando subito un assiduo frequentatore della darsena e a poco a poco l’unico amico dei forzati e degli schiavi. Questi “dannati” incatenati agli scanni, per i soldati “canaglie” e per gli aguzzini “dorsi nudi” (gialli, bruni, neri)
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lucidi di sudore in balia dei bastoni e delle fruste, per lui divennero volti, sguardi, nomi, fratelli, figli. Le ciurme lo accoglievano con grida di gioia: “Il P. Francesco! Ecco il nostro padre” e per i “turchi” se non ancora il Vangelo era però già quasi il Corano: “Il P. Francesco l’ha detto!”.
Il Capitano Generale delle galere riuscì nel 1685 ad ottenere dal rettore del Gesù Nuovo la nomina ufficiale del P. Francesco a cappellano dei rematori di tutta la squadra e da allora fino alla morte nel 1716, per trent’anni, ogni volta che i bastimenti militari getteranno gli ormeggi nel porto, il vascello ammiraglio, la Capitana, sarà il suo quartier generale e le ciurme la sua parrocchia.
All’inizio della quaresima del 1685, mentre la flotta restava in rada, inaugurò il suo ministero con una “ missione ” nel senso forte del termine: alcune settimane intense di predicazione, di preghiera, di incontri, avendo preso personalmente in consegna la Capitana e inviato confratelli sulle altre navi; missione che si concluse tra fiori, musiche, canti e... rombo del cannone con una processione a S. Maria del Rimedio, la messa e la comunione pasquale di circa trecento forzati cristiani. Da allora ogni anno sarà organizzata nello stesso modo la quaresima dei galeotti.
Se erano trecento i forzati cristiani, gli altri duemilacinquecento vogatori necessari alla squadra erano costituiti da schiavi musulmani: là sarà il Giappone del missionario, il cuore del suo cuore. Al termine della missione del 1685 quattro di questi “turchi” furono battezzati primizia di un raccolto d’ora in poi annuale, strappato a caro prezzo ai “deserto” 7 .
Nei primi mesi del 1685, l’anno stesso - notevole coincidenza di date e di uomini! - nel quale il santo gesuita aveva preso in consegna ufficiale i galeotti, il cavaliere Giuseppe de Liguori, appena quindicenne, aveva messo piede come aventurero sul ponte della Capitana, la nave ammiraglia che sarà per ventitré anni la sua casa galleggiante. Promosso dall’Austria nel 1708 a comandante della Padrona, non abbandonerà la “parrocchia” dell’uomo di Dio e l’irresistibile irradiamento della sua tenerezza, anzi sarà maggiormente avvicinato a lui da comuni responsabilità, tanto più che il padre gesuita aveva preso in consegna non solo il popolo incatenato dei ponti fluttuanti ma anche gli operai dell’arsenale e del porto e l’intero quartiere della Marina 8.
Particolare interessante: negli anni 1685-1695, mentre il giovane aspirante ufficiale non pensava che a bombarde e navigazione, il missionario, invitato dalla comunità delle Cappuccinelle per giornate di ritiro, conosceva due figlie del presidente Cavalieri: la giovane professa Maria Francesca Teresa del Cuore di Gesù (Cecilia) e, tra le educande, la sorella minore Anna Caterina 9.
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Perciò colui che, accolto dal grido gioioso degli schiavi: “Ecco il P. Francesco! il nostro padre!”, entrerà nel palazzo dei Liguori in quella giornata autunnale del 1696 per una circostanza speciale, il primo - “lieto evento”, sarà un amico, un assiduo di casa, “il Padre”.
Non bisogna dimenticare che all’inizio del Medioevo il cavaliere alloggiava nello stesso vano del suo cavallo e che nei secoli XVII-XVIII il popolo minuto dei bassi, persone e animali domestici, brulicava nell’unica camera-cucina, mentre l’élite si sperdeva nelle vaste e numerose stanze dei vari piani. La camera da letto, una volta separata, conservava però il suo carattere pubblico: il letto era il mobile di gala del ricco; a letto si ricevevano i visitatori, a letto si ascoltava la musica, a letto si davano gli ordini alla servitù 10. La camera della regina non era forse la più bella della reggia di Versailles e i re e le regine di Francia e di Spagna non ricevevano a letto ambasciatori e ministri?
Perciò il meticoloso storico di Francesco de Geronimo, il gesuita Julien Bach, scrive:
“L’anno 1696 nacque un bambino che doveva più tardi illustrare la Chiesa e la cui culla doveva figurare con onore nella storia di san Francesco di Geronimo. Da tempo immemorabile era in uso nelle famiglie nobili del Regno di Napoli una cerimonia molto significativa: tre giorni dopo la nascita di un bambino si dava un gran ricevimento; la madre stava sul letto di gala con intorno le dame d’onore e i servi in livrea, gli uomini venivano ammessi successivamente per le felicitazioni e dopo i complimenti passavano nella galleria vicina o in un salone unendosi agli altri amici di casa che avevano già adempiuto lo stesso dovere. Ma ugualmente desiderato dalle famiglie cristiane ricche o , povere era l’aver la visita di un sant’uomo, pensando che essa avrebbe attirato le benedizioni di Dio sul bambino ”.
Il santo quindi, entrato e fatti i suoi complimenti, si raccolse in preghiera vicino al piccolo Alfonso, lo benedisse e lo prese in braccio dicendo alla madre: “Questo figliuolo viverà vecchio vecchio, né morira prima degli anni novanta: sarà Vescovo, e farà gran cose per Gesù Cristo”.
Dopo il primo stupore, un silenzio da Annunciazione dovette vibrare nella casa, sulle labbra, negli occhi; un silenzio da far trattenere di colpo il respiro e da far fermare, come impietriti, sulla scalinata...
Donna Anna, e non solo lei, conserverà queste parole nel cuore per tutta la vita. La testimonianza ci è giunta da lei e da una tradizione viva e molteplice, familiare e pubblica 11.
Il vecchio e il bambino si incontreranno ancora durante i vent’anni passati in contatto con Don Giuseppe? La storia, che cammina solo con i documenti, non può che lasciar correre l’immaginazione e volare la poesia... e sottolineare, con un sorriso di meraviglia, che un
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secolo più tardi, il 26 maggio 1839, entrambi saranno elevati da papa Gregorio XVI alla gloria degli altari.
Dalla profezia di san Francesco de Geronimo Anna Cavalieri attinse senza dubbio una coscienza più viva, forse un po’ ansiosa, della sua grave responsabilità di educatrice, già sensibilizzata dalla sua fede e dalla sua formazione nei dieci anni di convivenza tra le ferventi Cappuccinelle Riformate della Salita Pontecorvo. Si deve perciò dar credito a ciò che afferma Tannoia:
“Sono troppo note in Napoli le rare qualità di questa Dama. Era donna di orazione, amante de’ poveri, e nemica di se medesima. Affliggevasi di continuo con frequenti digiuni, con cilizj, e flagellazioni, e con altri mezzi di eroica penitenza. Non fu mai a teatri, né fu amante di conversazioni; ma attendeva in casa a Dio, ed a se stessa. Soprattutto vedevasi sollecita per la cura de’ figli, e nel soddisfare i doveri di sposa” 12. Ancora fedele allo slancio monastico nel quale era cresciuta, “recitava ogni giorno l’Officio Divino, come una Religiosa Claustrale” 13.
Fuga nel passato di fronte agli impegni materni o non piuttosto sorgenti vive da cui ella attingeva il nutrimento per il suo piccolo mondo?
“Non fu ad altri affidata l’educazione di Alfonso, come per lo più si pratica da’ nobili, ma fu questa tutta cura, anzi di ragion privata, della propria Madre. Essa D. Anna, che ben sapeva i suoi doveri, se ne prese sollecita tutto il pensiere; né permise, che altri ingerito si fosse in ammaestrare ne’ doveri Cristiani, cosi questo Figlio, che ogni altro frutto prodotto dalle proprie viscere. So per attestato dell’altro Fratello D. Gaetano, che ogni mattina la santa donna era sollecita in benedire i suoi figli, e far da questi prestare a Dio i dovuti ossequj; che ogni sera, avendoli radunati intorno a sé, li ammaestrava ne’ rudimenti Cristiani; recitava con essi il santo Rosario, e sodisfaceva ad altre preci in onore di altri santi; ch’era attenta a non farli conversare con altri uguali; ed affinché la grazia prevenuta avesse la malizia, ed i figliuoli di per tempo avvezzati si fossero ad odiare il peccato, ogni otto giorni portavali con sé a confessare nella Chiesa de’ PP. Girolamini dal P. D. Tommaso Pagano suo confessore, e loro parente” 14.
Questo lontano cugino (1669-1755), maggiore di un anno degli sposi Liguori, appena al di sopra della trentina ma già stimato come professore di teologia e come uomo di Dio, era santo e saggio, le qualità che Teresa d’Avila esigeva da un direttore spirituale.
Direttore, s’intende, nel senso di “consigliere”: un consigliere che, scelto dalla persona ch’egli dirige, non ha altro, a fondamento
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della sua autorità, che la libera scelta di chi ha deciso di farsi guidare da lui. E come quando si sceglie liberamente una guida per una escursione o un capocordata, con un atto di assoluta fiducia, perché si vuole seguirlo e ubbidirgli per camminare sicuri fino alla meta.
Tommaso Pagano apparteneva alla congregazione dell’Oratorio, fondata un secolo e mezzo prima da san Filippo Neri (1515-t595) a Roma presso la chiesa di S. Girolamo della Carità e diffusasi nel 1586 a Napoli con l’ “Oratorio S. Girolamo” di fronte al Duomo, all’angolo di Via Tribunali 15.
Nell’opulento torpore della maggior parte dei conventi e dei monasteri napoletani, i Filippini, conosciuti con il nome romano di Girolamini, facevano parte di quella dozzina di Ordini, nuovi o riformati, verso i quali si orientavano solo le vocazioni generose, perché vivevano con fervore la preghiera, la povertà, l’austerità, lo zelo e i loro noviziati operavano una cernita severa. Erano Ordini attivi i cui membri, tormentati dalla preoccupazione per il prossimo, trovavano in questo zelo orizzontale il senso e il vigore della loro ascesa verticale verso Dio o, se si preferisce, infuocati dalla contemplazione del Roveto ardente, erano risospinti verso i fratelli. In testa, con i nostri Oratoriani o Girolamini, v’erano i Pii Operai, i Lazzaristi, i Cappuccini, i Francescani alcantarini (il cui ministro provinciale, Giovanni Giuseppe della Croce [1654-1734], “da noi ben conosciuto”, scriverà più tardi Alfonso 16, raggiungerà quest’ultimo nella gloria del Bernini insieme a Francesco de Geronimo, in quello stesso 26 maggio 1839) 17.
La chiesa e il convento dei Girolamini costituivano uno dei sei grandi focolai di qualità molto diversa che animavano spiritualmente la metropoli con confraternite di artigiani, commercianti, giovani nobili, dottori, ecc. Al pari di quelle dei Gesuiti al Gesù Nuovo, dei Pii Operai a S. Giorgio Maggiore o dei Teatini ai Santi Apostoli 18, la comunità sacerdotale degli Oratoriani risplendeva di uno spirito e metodi propri della tradizione ancora primaverile e vivace del fondatore.
Benché del quartiere dei Santi Apostoli, a due passi dai Teatini, i Cavalieri facevano parte della famiglia, spirituale e carnale, dei Girolamini. Il P. Francesco Gizzio, prozio di Donna Anna morto da poco (1698), aveva attirato le folle con la sua potente predicazione e diretto i giovani nobili per ventotto anni nell’Oratorio di S. Giuseppe con un’attiva animazione attraverso il teatro, secondo il metodo oratoriano lasciandoci dei drammi e altre opere teatrali religiose che la storia letteraria non ha dimenticato 19.
Intorno al 1700, venne sostituito da Tommaso Pagano, parente anche lui di Anna Cavalieri, una delle giovani colonne dell’opera, nella quale per quarant’anni assumerà le più svariate cariche. Contrassegnato
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da un cuore filiale per la Vergine e per Filippo Neri 20, sarà scelto da Donna Anna come guida per se stessa e per i figli. “Questa scelta del P. Pagano, uomo riputatissimo in tutta Napoli scrive il cardinale Capecelatro, anch’egli oratoriano - fu un primo misterioso benefizio della Provvidenza verso di Alfonso. Il P. Pagano infatti era uomo insigne per gentile pietà, tutto pieno dello spirito di san Filippo, e anche molto dotto. Le memorie del tempo ci dicono ch’ei non si permetteva mai alcuno svago, e che spendeva nello studio tutto il tempo che gli restava libero dagli obblighi di Congregazione. Essendo stato per quasi trent’anni il confessore di Alfonso, è giusto il pensare che, oltre alla pietà, gl’ispirasse anche quel vivo amore degli studj, che Alfonso stesso mostrò sempre, e che dette tanti frutti di sapienza e di carità alla Chiesa” 21.
Il 25 dicembre 1703, il Nunzio Apostolico a Napoli scriveva al Segretario di Stato a Roma: “Ha sofferto questa città con disgusto la perdita del consigliere Federico Cavalieri, perché lo considerava un Ministro d’integrità e di sapere” 22.
Alfonso aveva sette. anni; incontrava per la prima volta la morte, un giorno di Natale...
Sua madre si concentrerà ancora di più sui figli.
“Come Alfonso si avanzava negli anni, così crescevano le sollecitudini nella Madre. Non contenta di quello che apprendeva sotto la guida di quei ottimi Sacerdoti, e specialmente del P. D. Tommaso Pagano, che ne ascoltava le confessioni, essa medesima istruivalo praticamente nella maniera di saper orare, e ne’ doveri, che sono proprj di un Cavalier Cristiano. Mettevagli in orrore il gran male, che in sé è il peccato, l’Inferno che si merita, e di quale disgusto sia al cuore di Gesù Cristo, qualunque colpa ancorché leggiera. Tutto faceva impressione in Alfonso” 23.
E’ lecito chiederci se questa “impressione” non abbia inciso troppo profondamente sulla psiche di un bambino particolarmente sensibile, se l’accentuazione posta sul peccato mortale e sull’inferno non abbia lasciato una ferita che lungo tutta la vita gli farà pagare un pesante e segreto tributo di intima sofferenza. Ecco però la meravigliosa contropartita: “Soprattutto vedevasi impegnata D. Anna ad istillare nell’anima de’ figli un amor tenero verso Gesù Cristo, ed una filiale confidenza verso Maria Santissima”24. Questi due tratti caratterizzeranno per tutta la vita - e tanto più profondamente del fuoco dell’inferno! - la spiritualità e il ministero di Alfonso, che diventato vecchio amerà confessare: “Quanto di bene riconosco in me nella mia fanciullezza, e se non ho fatto del male, di tutto son tenuto alla sollecitudine di mia Madre” 25.
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Anche se l’amore è cieco e il tempo abbellisce i ricordi, tuttavia le vocazioni profonde affiorano spesso nell’infanzia. Con Tannoia possiamo credere alla vecchia mamma che ricordava il bambino spontaneamente aperto a Dio, serio e pio, che amava “ formare altarini, e celebrar giolivo feste e festicciuole di varj santi ”. E aggiunge: “Trovava nel cuore del figlio una docilità così grande, e quella rettitudine di mente, che rendevano efficaci le proprie istruzioni. Quello però, che più si ammirava da tutti era la di lui costanza negli esercizj divoti. Giunta l’ora di quella particolar divozione, che sodisfar doveva colla Madre, si presentava da sé, né trascurava verun altro esercizio, che esso medesimo prefisso si aveva” 26.
Secondo il sistema educativo del tempo, i genitori associavano i giovani figli alle loro pratiche di pietà, trattandoli da adulti: li conducevano a messa, all’ufficio divino, alle prediche, li facevano partecipare alle loro devozioni ai santi. Tutto ciò poteva portare a un sentire personale, ma anche al formalismo o al disgusto, alla rivolta, al rigetto; ma, a questo riguardo, una certa autenticità di vita da parte degli educatori aveva più peso della libertà del ragazzo.
Per quanto riguarda Alfonso, va sottolineato un tratto straordinario che ci illumina sull’influsso della madre e sulla fedeltà del figlio. Lungo tutta la sua vita di studente, avvocato, missionario, vescovo e perfino nella decrepitezza dei suoi novant’anni, conserverà e utilizzerà quotidianamente il quadernetto sul quale la madre aveva trascritto, sin da quando sapeva compitare le prime parole, le preghiere del mattino e della sera e, persi gli occhi e la memoria, si rivolgerà al suo fedele lettore e segretario, il fratello Francesco Romito, con queste parole: “Prendi il quadernetto e leggimi le solite orazioni”, cioè le preghiere della sua infanzia, le preghiere apprese dalla madre 27.
Anche il padre era autenticamente cristiano, secondo la tradizione dei Liguori, leali cavalieri di Dio, che appartenevano a una élite non scalfita né dalla decadenza dei tempi, né dal nascente scetticismo e uno, zio (cugino germano del padre), Mons. Domenico de Liguori sarà vescovo di Lucera, sede vicina a Troia. Personalmente Don Giuseppe viveva tra due fuochi: in casa accanto alla luce della moglie e in marina a quella del P. Francesco de Geronimo.
A terra Don Giuseppe era di “un viver esemplare e tutto cristiano; frequentava le Chiese, e i Sacramenti”, faceva i suoi ritiri annuali tra i Gesuiti- chi lo attirava se non Francesco de Geronimo? - o tra i suoi vicini, i Lazzaristi.
In mare viveva ancora in un’atmosfera cristiana, essendo le galere, tranne l’ammiraglia e la viceammiraglia (la Capitana e la Padrona) tutte battezzate come chiese: S. Barbara (la patrona delle polveri e del
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fuoco), S. Gennaro, S. Giuseppe, S Carlo, S Michele e (evidentemente quando si passerà all’Austria e l’imperatore rinforzerà la squadra napoletana) S. Leopoldo 28, Diventato comandante di bordo nel 1708, la sua cabina sarà simile alla cella di un monaco con le pareti tappezzate di immagini sacre e con quattro statuette in legno dipinto di circa cinquanta centimetri, conservate oggi gelosamente dai Redentoristi di Ciorani, riproducenti il Cristo. sofferente: agonizzante nell’orto, flagellato, Ecce homo coronato di spine, carico della croce. Nei giorni del la vecchiaia confiderà: “Questa devozione al Cristo sofferente mi è valsa molte e grandi grazie; mi ha liberato dalle mani dei Turchi” 29.
Tuttavia, militare e marinaio di carriera, imbarcato spesso per parecchi mesi, Don Giuseppe apparteneva più ai suoi uomini che ai suoi figli: dirà più tardi Alfonso che il padre “per lo più andando in corso colle Galee, non poteva attendere, come voleva, all’educazione de’ figli e che tutto il pensiere avevasi dalla propria Madre” 30.
Forse non “tutto”, perché durante l’inverno la squadra si rilassava nel bacino di Baia e nei mesi estivi e autunnali i funzionari, dal viceré fino ai rematori delle galere, a meno che il “Turco” non si spingesse a cacciare nei paraggi, godevano di parziali vacanze 31. Anche i coniugi Liguori con il loro allegro piccolo mondo potevano allora riguadagnare per qualche settimana il paradiso di Marianella 32 e ritrovare lo “zio” e vicino Nicola de Liguori (fratello del futuro vescovo di Lucera), forse anche la sorella, la giovane “zia” Antonia (Donna Antonia Salerno), una pittrice da tutti ammirata.
Il fiero capitano poteva dimenticare i galloni, temperare la voce, giocare con i figli, ma sapeva giocare o almeno ridere? Il lupo di mare rinfoderava gli artigli, si svestiva della rudezza, ritrovava il suo clavicembalo e i suoi pennelli (adorava la musica e la pittura), ma riusciva ad esternare la sua tenerezza?... Orfano di madre, cresciuto estraneo accanto a una matrigna, precocemente uscito di casa per farsi soldato tra soldati, ben presto ufficiale con subalterni, capitano con galeotti, marinaio di fronte a marosi, a venti e forse a pirati o unità di combattimento nemiche, Don Giuseppe si svelava nel mondo della guerra e della marina uomo di autorità e di responsabilità, lavoratore e ambizioso, duro con se stesso e di ferro con gli altri, imperioso e impaziente, vulcano dalle brusche e violente collere: un napoletano con la lava del Vesuvio nelle vene. Così lo vedremo ben presto, a livello professionale, altamente efficace, temuto e insieme apprezzato fin nell’entourage del viceré 33.
Quest’uomo dalla forte personalità, grande signore, non poteva non incidere profondamente sui figli, anche se il tempo trascorso in casa era dieci volte inferiore a quello passato sulla galera: benché assente,
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la sua presenza era sempre avver la da tutti, soprattutto dal primogenito sul quale cristallizzava tanti sogni ambiziosi.
Trentatré anni della vita di Alfonso saranno segnati dalla delicatezza della madre e dalla forza del padre.
Da una tardiva confidenza del futuro santo sappiamo che fìn dalla, prima infanzia il padre lo faceva dormire sulla terra una volta la settimana per abituarlo al duro nel caso che avesse optato per la carriera militare 34.
Tuttavia era troppo presto per lasciargli intravedere l’inferno del galeazze con le teste irsute e sconvolte degli uomini ai remi, incatenati nelle loro immondezze, le sferze che ne tormentavano i dorsi, le grida le bestemmie, il fetore di cloaca avvertito già a due miglia di distanza sopportato dagli ufficiali solo con le narici piene di tabacco forte. Senza dubbio però, anche se i documenti, meno ancora il mare, non ce ne conservano traccia, Don Giuseppe lo conduceva con i fratelli su imbarcazioni da diporto lungo la costa, fino alle vicine isole di Capri e Ischia, o a rinforzare le braccia sui remi di una feluca nel luccichi delle sere d’estate.
Non dobbiamo però pensare solo a un adolescente o coricato notte sul freddo lastricato o inginocchiato il giorno in preghiere senza fine! Per tutta la vita Alfonso dimostrerà una vitalità così piena di gioia farcelo immaginare, ragazzo, capo chiassoso della banda di fratelli e di sorelle, anche se i severi archivi agiografici non sono testimoni delle ragazzate e della vivacità dei santi in erba. Se le mura, le scalinate, e i giardini potessero parlare, quelli del Borgo dei Vergini e di Marianella risuonerebbero per noi delle grida, delle risate, dei canti e delle danze intorno a un clavicembalo indiavolato, delle folli corse di Alfonso e della sua banda.
Certo, i ragazzi Liguori erano tanto meno spesso “in una galera” di quanto non lo fosse il padre nella sua.
Poi, ben presto, Alfonso con i fratelli trascorrerà liete domeniche all’Oratorio di S Giuseppe coi Girolamini.
Dopo la prima comunione (senza dubbio il 26 settembre 1705 35 per un decennio, fino al 15 agosto 1715, crogiolo della sua adolescente sarà la Confraternita dei Giovani Nobili dell’Oratorio S. Giuseppe, dalla quale certamente a causa del prozio, il P. Francesco Gizzio, per lungo tempo prestigioso direttore, da trent’anni facevano parte i ragazzi della famiglia materna (i Cavalieri, i Gizzio, gli Avenia).
Alfonso venne ammesso come “novizio” il 7 marzo 1706, prima dell’età richiesta, per la sua sbalorditiva maturità; i fratelli Antonio e Gaetano, meno precoci, vi entreranno, l’uno a quattordici e l’altro a dodici anni, nel settembre 1712, trovando quale “maestro dei novizi”.
Don Alfonso de Liguori, di soli sedici anni 36.
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“Lo si vedeva di per tempo ogni Domenica mattina alla sua Congregazione”, dice Tannoia. Ascoltate le istruzioni “famelico” e confessatosi “dal suo P. D. Tommaso Pagano”, partecipava al santo sacrificio e alla santa comunione, prolungando il suo ringraziamento “ginocchioni e con una particolar divozione” che “dava tenerezza” in chi lo guardava 37. Nel pomeriggio si ritrovava con i giovani “confratelli” per i vespri, seguiti dall’“oratorio”, secondo la migliore tradizione filippina.
San Filippo Neri aveva trasmesso alla sua opera e ai suoi figli la sua personalità tutta amore e libertà, umiltà e semplicità, preghiera, Iode e gioia attiva; per lui segno di Dio era una raggiante allegrezza, tanto che il suo “allegramente!” più che un ritornello era irresistibile arma di apostolato che trascinava gli uomini, soprattutto i giovani, verso Dio in un girotondo sorridente e armonioso: “La stanza di Filippo era un paradiso”, come ricorda un discepolo.
Amando troppo i suoi ragazzi per sacrificarli in casa nei pomeriggi di sole, li conduceva sul Celio o sul Gianicolo, dove aveva affittato una vigna sull’altura di S. Onofrio da cui si godeva il più bel panorama di Roma e lì il gruppo, molto numeroso, trascorreva i pomeriggi e le serate negli esercizi abituali dell’oratorio: esortazione del santo, letture pie, sermoni familiari tenuti da quattro diversi “predicatori”, preghiera individuale, canti, rappresentazioni, inni, storie vissute (là il discepolo preferito, Cesare Baronio [1538-1607], cominciò a narrare i suoi Annales ecclesiastici) e, al momento giusto, il divertimento 38. Questo equilibrato concatenamento di recite e di arie musicali darà origine a una specie di cantata sacra chiamata oratorio.
L’oratorio di Napoli, fondato mentre era ancora in vita san Filippo e per il momento unica filiale di quello di Roma, sapeva del Neri autentico; aveva preso perciò in affitto a metà delle pendici di Capodimonte la villa Miradois: una grande casa, cisterne, giardino, pergolati e una galleria di statue di marmo, circondati da boschetti e da frutteti di aranci e di limoni che si estendevano per nove ettari; per il momento “ Villa Filippina ”, in seguito comprata dal principe de La Riccia ne prenderà il nome. Da Pasqua a Pentecoste i giovani nobili della Confraternita di S. Giuseppe vivevano qui la vita dell’oratorio filippino, festa spirituale che nel succedersi vario dei suoi momenti faceva pensare a una suite musicale; in estate e in autunnio andavano più in alto in cerca di un ombroso pergolato o di un prato 39.
Dopo il canto dei vespri nell’immensa e splendida chiesa dei Girolamini, la banda chiassosa prendeva Via Duomo, passando per la parte alta del Borgo dei Vergini, a due passi dal palazzo dei Liguori, e arrampicandosi lungo la grande scalinata della Salita Miradois - o qùella parallela dell’attuale Salita della Riccia- , raggiungeva in un
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quarto d’ora il portale della Villa Filippina. Per dieci primavere con i compagni di fervore e di gioco Alfonso trascorrerà nel parco Miradois domeniche intense e gioiose di fronte a un panorama tra i più belli della costa partenopea: ai piedi, la città come un tappeto variegato; più lontano, le due anse del golfo incendiate dal sole, nel cui luccichio centinaia di velieri danzavano ormeggiati nel porto o scivolavano al largo; a volte una rapida trireme con le sue pinne da gigantesco millepiedi marino filava verso la cresta dell’orizzonte (“Forse è la galera di papà!” pensava Alfonso); verso sera, un vivo colore vermiglio scintillava sull’acqua, come se le foreste di corallo che ricoprivano il fondo della - baia affiorassero dagli abissi tingendo il mare e il cielo con riflessi di sangue e d’oro; in fondo, di fronte, Capri, quasi un canino di marmo verde, e le ripide scogliere di Sorrento battute dai flutti; tutto a sinistra e troppo vicino, il terribile Vesuvio, illuminato dalla luce radente della sera, si tingeva a poco a poco di un rosa discreto che veniva dal mare e dal sole. “Vedi Napoli e poi muori”, soprattutto dal balcone di Capodimonte!
Sotto il sole dello Spirito e il carisma formatore di Filippo Neri, un altro splendore, interiore, stava sorgendo e proprio a Miradois sene avrà una prima sorprendente rivelazione.
Un pomeriggio della primavera del 1707 o 1708- “Era Alfonso di circa anni dodici” scrive Tannoia - giunta l’ora del sollievo dopo una lunga condivisione della Parola e della preghiera, un gruppo decise di giocare a bocce con le arance cadute nei viali.
- Alfonso, vieni a giocare con noi!
- Ma non conosco questo gioco.
- Ma sì, lo conosci. Oppure lo imparerai. Su via, prendi queste arance!
E insistevano, mettendogliele in mano, tanto che alla fine Alfonso fu della partita.
Caso o abilità, vinse, colpo dopo colpo, trenta mani di seguito! Stupore nei compagni e anche gelosia nell’uno o nell’altro per i pochi soldi che passarono dalle loro tasche alla sua. Uno degli anziani, lo stesso che più aveva insistito perché giocasse, esplose in una stupida collera:
- E tu eri quello che non sapeva giocare!
Non controllandosi più, si lasciò sfuggire una parolaccia oscena. Alfonso arrossì affrontandolo:
- Come? Per pochi quattrini si ha da offendere Dio? Questi sono i tuoi denari!
Gettò le monetine a terra e girati i tacchi scomparve nel folto del boschetto...
Il tempo passava, mentre scendeva la sera e arrivava l’ora del
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ritorno... Alfonso non lo si era più visto... Il padre prefetto inquieto cominciò a chiamarlo, senza nessuna risposta... Si misero tutti alla sua ricerca, perlustrando il grande parco, finché un gruppo lo scoprì in ginocchio dinanzi a una immagine della Madonna, che portava sempre con sé, posta su un arbusto di lauro o di bosso. Era tanto assorto nella preghiera e sordo al mondo sensibile che con fatica il baccano fatto intorno a lui riuscì a distoglierlo dalla sua estasi.
Si può immaginare l’impressione dei giovani cavalieri! Il millantatore che l’aveva insultato non riusciva a darsi pace e mormorava:
“ Che cosa ho fatto? Ho maltrattato un santo! ”.
Alfonso si guardò bene dal raccontare l’accaduto alla madre e il Tannoia ne è venuto a conoscenza non dai fratelli che non facevano ancora parte dell’oratorio ma da un testimone, il cavaliere Antonio Villani, che lo racconterà un giorno ai padri di Ciorani, concludendo:
“Voi, che ne sapete? Questo è stato santo sin da figliuolo” 40.