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Parte prima “NOBILE, GIOVANE E RICCO” (1696-1723) 5 - CON OGNI SOLERZIA E CON TUTTE LE SUE FORZE (1703-1708) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
5 - CON OGNI SOLERZIA E CON TUTTE LE SUE FORZE
“Si fa fede per me sottoscritto, pubblico professore di grammatica, discipline umanistiche e poesia in questa città di Napoli, anche sotto giuramento tacto pectore, che Don Alfonso de Liguori sotto la mia guida Si e dedicato alle lettere umanistiche con ogni solerzia e con tutte le sue forze. Don Domenico Buonaccia” 1.
È quasi il diploma di maturità di un ragazzo prodigio che non ha ancora dodici anni.
La musica dei sei giorni feriali (mancavano ancora duecento anni alla settimana corta) era diversa dalla sinfonia domenicale per il Signore, concertata allegramente, dall’alba fino al cader della sera, secondo i movimenti proposti dai Girolamini alla confraternita dei giovani nobili.
Contemporaneamente alla caduta dei primi denti, Alfonso mise da parte i giocattoli dell’infanzia (certamente, come per tanti altri bambini, il cavallo di legno, il mulinello, il tamburello, i pastori di legno dipinto), sostituendoli con i libri e con la penna; aveva sette anni, l’età nella quale tra i nobili il ragazzo veniva sottratto alla cura delle donne per essere “rinchiuso, come non ingiustamente diceva Montaigne, in quelle vere carceri della giovinezza prigioniera”, quali erano i collegi. Infatti mentre le figlie dei nobili e dei borghesi napoletani, claustrate precocemente, imparavano dietro le grate il leggere e lo scrivere, una briciola di grammatica, un pizzico di cucina, di ricamo e di belle arti, i figli venivano affidati ai Gesuiti, maestri in pedagogia, i cui collegi costellavano letteralmente gli Stati Pontifici e il Regno di Napoli: effettivamente se ne contavano cinque nella capitale, dei quali uno riservato ai nobili, e ventinove per la sola Sicilia.
Tuttavia i giovani cavalieri delle famiglie più facoltose erano spesso “scolarizzati” a domicilio da maestri esterni e da precettori generalmente ecclesiastici, che risiedevano in casa, con il risultato il più delle volte di votare maestro e allievi alla pigrizia e all’ignoranza ai giochi e alla frivolezza 2. Dopo lunga osservazione di come di fatto
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andavano le cose, Alfonso, sessant’anni più tardi, non potrà dire bene di questi datori di lezioni “particolari” e scriverà:
“Debbono impedire (i genitori) che le figlie parlino da solo a solo con uomini, o giovani o vecchi che siano.
- Ma quegli le insegna a leggere, ed è uomo santo.
- Che leggere! Che santo! I santi stanno in paradiso, ma i santi che stanno in terra son di carne e con l’occasione vicina diventano demonj” 3.
Il vecchio vescovo però, pur scoccando questi strali, nutriva un’alta stima per le eccezioni, che pure confermavano la regola, tra le quali era proprio il suo maestro, Don Domenico.
I genitori infatti si accordarono sul fatto che Alfonso venisse istruito in casa: non rischierà di guastarsi a contatto con compagni marci, pensavano entrambi; e lo terremo a portata di mano per stimolarlo a lavorare, si diceva senza dubbio il padre. In realtà il forcing prodigioso al quale il giovane allievo sarà sottomesso ci fa pensare che si approfittò troppo della sua precocità per metterlo sui libri molto prima di quanto fosse normale, per poi fargli bruciare le tappe.
Gli si scelse tra cento altri un maestro “dotto ma sommamente morigerato e timorato di Dio - Don Domenico Buonaccia, sacerdote calabrese, pubblico professore di grammatica, discipline umanistiche e poesia nella città di Napoli” 4. Il precettore abitava nel palazzo di famiglia, nel corso della settimana celebrava nella cappella domestica, mangiava alla tavola di casa e riceveva qualche ducato, in cambio di una cultura che spesso neppure li valeva 5 . Don Buonaccia invece si meriterà, molto più dei ducati, la stima e l’amicizia dei Liguori, tanto che nel 1715 sarà ancora di casa 6 : Antonio, Gaetano e Ercole saranno suoi allievi e Alfonso, prima universitario e poi giovane avvocato, avrà in lui un consigliere e un uomo di Dio con cui dialogare, quasi un maestro spirituale aggiunto al P. Pagano 7 .
Il programma della formazione umanistica, che apriva le porte all’università, ci è noto attraverso la Ratio studiorum dei Gesuiti: la stessa a Parigi, Messina, Roma, Goa o Napoli. Il P. Tannoia ce lo dettaglia con una minuziosità che merita attenzione, aggiungendovi qualche extra che stuzzica la curiosità: grammatica, belle lettere, poesia latina e italiana, francese, matematica, filosofa, geografia, cosmografia, pittura, architettura, musica. Dimentica lo spagnolo “indispensabile a ogni napoletano di qualche levatura” 8 : è la lingua del viceré e dello Stato, doppiamente necessaria a un magistrato per comprendere, discutere e applicare i decreti ufficiali. Tralascia parimenti la scherma 9 , importante al pari della sua spada per un gentiluomo di questo tempo, ma di poco prestigio in verità per un vescovo.
È necessario dirlo? Il degno Buonaccia non poteva impartire tutti
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questi insegnamenti, dal greco al clavicembalo, dal pennello al fioretto! “Ottimi maestri” venivano a dare ad Alfonso lezioni private secondo la loro specialità e tutti trovavano nell’allievo “un intelletto acuto e penetrante; una memoria quanto facile ad apprendere, altrettanto tenace; ed un’ìndole docile, e tutta portata a voler sapere. Queste cose unite insieme, facevano sì, che Alfonso profittasse di giorno in giorno nelle lettere, con non poco compiacimento così del Maestro, che de’ suoi Genitori” 10 .
Tutto l’insegnamento si fondava allora sull’umanesimo del Rinascimento, che era funzionale perché, rivolto alle sole élites sociali, non doveva formare ingegneri, meno ancora tecnici. Le mani dei nobili non erano, fatte per i lavori servili! Dovendosi preparare magistrati, amministratori, avvocati, medici, preti, professori e molti, molti bei parlatori, lo studio tendeva ad assicurare soprattutto una perfetta padronanza e una ricca varietà di linguaggio, essendo la lingua lo strumento e la misura delle operazioni del pensiero. Non si cercava questa padronanza nelle lingue vive, la maggior parte delle quali procedeva ancora a tastoni e si sarebbe determinata solo nel corso del Settecento, ma si ricorreva al greco e al latino, lingue madri della civiltà europea e emule in perfezione: in perfezione “classica” per l’appunto. Il greco del secolo di Pericle e il latino di Augusto costituivano l’età aurea, ineguagliata della perfezione formale del linguaggio. Il prestigio di queste lingue morte e dei loro immortali scrittori si aureolava di maggiore splendore proprio per il fatto che erano ormai entrati nell’eternità (niente è più stabile dei morti ed è più facile riprodurre modelli che non si muovono!) e per di più queste lingue antiche erano visceralmente “materne” per il napoletano, greco prima di essere latino e latino prima di essere italiano.
Le belle lettere - grammatica, poi discipline umanistiche - esigevano perciò per Alfonso e per miriadi di allievi prima di lui 11 una perfetta assimilazione non dell’italiano, tanto meno del napoletano, ma del greco e soprattutto del latino, che restava la lingua modello quanto a pensiero e forma: calare il toscano di Dante nel periodare ciceroniano arricchito dall’immaginazione e dalla musicalità di Virgilio e di Orazio sarà l’ideale. Inoltre il latino era la lingua della scuola: i maestri gli insegneranno la matematica, la geografia, la cosmografia e più tardi il diritto nel parlare di Cicerone; Antonio Genovesi (1713-1769) creerà uno scandalo clamoroso inaugurando a Napoli nel 1754 la prima cattedra europea di economia politica con insegnamento in lingua italiana 12, Alfonso da parte sua oltre le opere ascetiche e dommatiche redatte nella lingua viva, come diremo più tardi, pubblicherà
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circa novemila pagine di teologia morale scritte in un latino vivo, agile e non privo di eleganza.
Dal secolo sedicesimo il libro aveva rivoluzionato la pedagogia e le edizioni dei grandi autori greci e latini, vagliati e purgati dai Gesuiti, erano a portata di mano. Il maestro riservava all’allievo l’onore e lo stupore di leggere da sé il testo latino o Greco (la lettura del greco però era spesso aiutata da una traduzione latina interlineare), dopo aver fatto la “pre-lezione”grammaticale, prosodica, letteraria o filosofica, che lo introduceva fin sulla soglia del dio della bellezza o del pensiero, lasciandovelo poi penetrare da solo. Ci resta un piccolo esemplare di 216 pagine, Quinti Horatii Flacci opera denuo emendata, stampato a Venezia presso Nicola Pezzana, certamente nel 1702 (la data però è poco leggibile), con la sicura e giovane firma del proprietario: Alfonso Liguoro (la forma arcaica dell’ortografia è caratteristica dell’infanzia del santo) 13 , che allora doveva avere dieci o undici anni, poiché l’Arte poetica e le Odi di Orazio si leggevano nel corso umanistico.
Aveva prima completato il programma equivalente ai quattro anni di grammatica, con Cicerone e Virgilio, Ovidio e Cesare, per ricordare solo i latini. Non sappiamo se Don Buonaccia gli abbia messo tra le mani le Nouvelles méthodes pour apprendre la langue latine (1664) et Ia grecque (1655) di Claude Lancelot (1615-1695) e se la famosa Grammaire de Port-Royal (1660) di Arnault-Lancelot sia stata la base del suo insegnamento. Queste opere erano allora molto di moda nel Regno di Napoli 14 , ma i Gesuiti le avevano precedute di cento anni con metodi e manuali meno stringati e più vivaci 15 e le loro edizioni dovevano abbondare nelle botteghe di Via S. Biagio ai Librai.
Le porte del latino si varcavano evidentemente con Fedro e le sue Fabulae, che si ritrovavano due anni più tardi con Esopo in greco: l’Isopetto. Una di queste favole, che dovettero incantare Alfonso al pari di noi oggi, ritornerà spesso sulle sue labbra e sotto la sua penna negli avvisi ai genitori:
“ I figli sono come le scimmie, fanno quel che vedono fare i loro genitori.
Si dice che il granchio vedendo un giorno i figli che gli camminavano di lato, li riprese:
- Perché camminate cosi storto?
- Padre lasciaci vedere come cammini tu. Ma il padre camminava più storto di loro” 16 .
Si lasciava presto Fedro per Virgilio, per Ovidio e per i grandi modelli della poesia antica.
Non dimentichiamo che obiettivo degli studi letterari era il raggiungimento della perfetta eloquenza, per cui veniva data grande im-
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portanza ai ritmi e ai numeri oratori, secondo una moda, certo non più
intelligente di altre, ma che ebbe lunga vita. Chi si azzardava a giudicare un
oratore dalla qualità del suo pensiero e dalla forza penetrante della sua
persuasione, chi non gustava prima di tutto la musicalità del discorso, i ritmi
dei periodi, la cadenza delle clausole, era un “barbaro”! Il buon parlatore di
domani non poteva contentarsi di leggere e di declamare pomposamente Cicerone e
Demostene, ma doveva attingere dai poeti la ricchezza del vocabolario,
L’orpello e la varietà delle immagini, l’accentuazione e l’armonia dei termini,
il combinarsi lusingatore delle parole che “si amano” e si cercano. Si
imparavano perciò a memoria i poemi celebri che si recitavano per riuscire a
“pronunziare con buona grazia” i versi, cioè cercando la perfezione del tono,
della voce, della dizione, del gesto; li si imprimevano nella mente e li si
imitavano; la versificazione era indispensabile per apprendere il ritmo e la
musicalità della frase 17
Del resto non si conosce veramente che quello che si reinventa!
La poesia insomma veniva posta al servizio dell’eloquenza, le discipline umanistiche sfociavano nella retorica. Ma non sembra che Alfonso abbia fatto il corso di retorica: Pier Luigi Rispoli (1834), pur ampliando abbondantemente, perché lontano dalle fonti, il curriculum di Alfonso sulla base di ciò che era di moda al suo tempo, non menziona la retorica 18 ; Giattini-Marsella (1819) dal canto suo parla di eloquenza 19 ; bisogna però dare fiducia al Tannoia, il testimone più vicino e meticoloso, che non fa parola della retorica. Del resto Alfonso potrà accedere alla Facoltà di Legge a dodici anni - avete letto bene: dodici anni - solo perché gli saranno fatte bruciare le tappe.
Ma perché saltare proprio la retorica per un futuro avvocato?
Dal 1660 le teorie di Descartes, di Antoine Arnauld, di Locke e di lì a poco dell’abate Fleury sull’inutilità della retorica classica si erano fatte strada. Le idee chiare e distinte avevano preso il sopravvento sugli sviluppi enfatici e fioriti e all’ampiezza maestosa del periodare ciceroniano si preferiva tra i “moderni” il tono vivo e breve, alla costrizione della memoria e alla noia della recitazione di un testo “perfetto” la daga incisiva di un’improvvisazione ben affilata. Si chiedeva al concatenarsi di idee sicure la coesione dello sviluppo una volta cercata nel rinserrarsi complicato delle particelle di coordinazione e di subordinazione. Si mirava ad essere ascoltati e persuasivi, più che ammirati dagli snob e noiosi per tutti in un latino pomposo Diderot farà grandi risate sull’ “arte di parlare prima di pensare e del ben dire prima di avere idee” 20 .
Prima di tutti gli altri italiani, Alfonso, spinto dal suo amore per il popolo, imboccherà questa nuova via, come Fénelon in Fran-
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cia: lasciando ad altri le lunghe frasi serpeggianti in proposizioni ondulate, si esprimerà in uno stile succinto, dal ritmo chiaro e vivo. I suoi immediati predecessori, invece, i Segneri, gli Scupoli, lo stesso suo confratello e amico Sarnelli e anche, dopo di lui, il grande Genovesi infilavano interminabili e massicci periodi, gli uni accanto agli altri come blocchi di cemento, che al termine di tre pagine non si possono più sollevare, mentre al contrario le frasi del Liguori, leggere e vive corrono sotto gli occhi e sembrano rincorrersi. Controcorrente in un tempo nel quale gli scrittori potevanò essere letti solo da scrittori Alfonso creerà una lingua italiana popolare, accessibile a tutti, capace anche di illuminare le veglie delle capanne.
Se Don Domenico Buonaccia lo faceva vivere all’ombra delle belle lettere, altri maestri, e senza dubbio a volte la conversazione con suo “mondo”, iniziavano Alfonso all’abile uso delle lingue vive, le quali naturalmente il castigliano, dal momento che era suddito spagnolo. Ma perché anche il francese?
Fin dal 1635 la creazione dell’Académie française aveva consacrato definitivamente una lingua moderna, ormai matura e decisa a liberarsi da qualsiasi sentimento di inferiorità nei confronti del greco e del latino e i capolavori letterari del Grand Siècle giustificavano ampiamente e avallavano questa pretesa degli “immortali”. Il francese venne allora adottato da tutte le società civili come lingua universale e nel corso del secolo XVIII, divenuto la lingua delle corti europee (Russia compresa) e, ben s’intende, di tutta la buona società, si sostituirà al latino come lingua diplomatica fino aì confini dell’Asia 21 . Come lo spagnolo per Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, Alvarez de Paz, Alfonso Rodriguez, così il francese permetterà ad Alfonso di leggere e citare nei testi originali i suoi maestri transalpini (Francesco di Sales, Giovanni Grasset, Giovanni Battista Saint-Jure, Francesco Nepveu) e soprattutto gli ispirerà il meglio della sua produzione dommatica contro Voltaire, Rousseau, Diderot, Bayle, tanto da scrivere più tardi al suo editore di aver pronto per le stampe un opuscolo “contra i deisti, che mi costa dei mesi di fatica, ed ho scrutinati molti libri francesi italiani per comporlo” 22 .
Oltre le belle lettere e il francese, il gentiluomo del Settecento doveva conoscere la matematica e la filosofia, la geografia e la cosmografia, che allora, per quanto oggi possa sembrarci strano, erano aspetti di un’unica scienza, la scienza del mondo, la fisica. Copernico, Desctes, Pascal, Newton erano filosofi, matematici, astronomi o fisici?
Evidentemente non si poneva gli allievi a contatto con la matematica pura (aritmetica, geometria, algebra, analisi), ma li si interessava,
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alla matematica “mista” (astronomia, ottica, prospettiva, musica, meccanica, idrostatica, geometria applicata, agrimensura e topografia) 23 , essendo il maestro un “sapiente”, nel senso completo di allora, che mirava a formare uomini avveduti e curiosi, “teste ben fatte”, “filosofi”.
Come il diario intimo di una coppia è diverso da una tesi sull’amore cortese, cosi la filosofia, tentativo della ragione umana di arrivare con le sole sue forze a spiegare la totalità delle esperienze, fisiche e psicologiche, non è la teologia che, esposizione coerente della rivelazione secondo una determinata cultura, appartiene a un altro ordine, quello divino.
Con l’espressione philosophia perennis, si vuole indicare che da sempre e fino al termine della storia l’uomo si è posto, si pone e si porrà le stesse domande, non avendo alcuno il diritto di dire: “Aristotele e san Tommaso d’Aquino hanno pensato per voi. Vi detteremo ora le loro risposte”. Ogni secolo, ogni cultura, con maggiore o minore fortuna, hanno tentato perciò di dare proprie risposte e ogni sistema di pensiero, a meno che non sia negazione di Dio (ateismo), dello spirito (materialismo) o del mondo naturale (idealismo) può diventare strumento della teologia, in quanto la rivelazione divina non esige mai la rinunzia del pensiero umano.
Il sapere se Alfonso de Liguori sia stato tomista o cartesiano non riveste allora capitale importanza, anche perché nessuno lo è stato prima del XIII secolo
Quale “filosofia” gli avrà insegnato il maestro durante gli studi “filosofici” terminati a dodici anni, seguiti da quattro anni di solo diritto all’università e, più tardi, da tre di teologia al seminario maggiore di Napoli sotto l’egida di Tommaso d’Aquino?
Don Carminiello Rocco, “prete molto dotto” 24 era cartesiano come tutta la Napoli illuminata di allora: università, foro, accademie private, salotti letterari, circoli librari 25 .
Perché trovare inadeguata la ricerca della verità secondo un ordine scientifico e un rigore matematico, dal momento che il debuttante Settecentesco nell’ebbrezza della rivoluzione delle scienze era in totale rottura con la tradizione di una filosofia statica, astratta, “metafisica”?
La scolastica con i suoi giochi di destrezza verbale, scherniti giustamente da Molière, con i suoi paroloni astratti, che spesso servivano solo ad allungare idee troppo corte, non poteva avere più credito in un mondo in cui Galileo, Pascal, Gassendi, Huygens, Malebranche, Leibniz, Newton creavano la matematica, la fisica, la dinamica e l’astronomia moderne. Si voleva la fine dei giochi di prestigio del sillogismo per dar spazio agli osservatori e ai pensatori del reale, la cui “filosofia
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della natura” era riflessione sull’esperienza; ma sotto questo punto di vista non si era forse anche eredi di Aristotele?
Tra essi si contava un Pascal, in nulla inferiore per profondità Platone, e un matematico e per di più fisico, René Descartes (1596 1650), che reiventando la maieutica di Socrate diede al prodigioso sviluppo delle scienze una nuova filosofia destinata ad assicurarne l’unità.
Con tutto il suo ambiente e al passo con i tempi (eccetto i seminari), Alfonso sarà cartesiano, anzi non sarebbe stato un ardito innovatore se non avesse appreso da Descartes, questo Socrate della moderna maieutica, come regolare il parto del pensiero e come “ben condurre la ragione nella ricerca della verità”, secondo queste norme:
- Tenere per vero solo ciò che è evidente e non perché basata su affermazioni di autorità.
- Ammettere solo le idee chiare e distinte.
- Partire sempre da ciò che è più semplice e procedere dal più semplice al più complesso.
- Fermarsi sulle verità il tempo necessario per averne l’intuizione, cioè una vista insieme globale e istantanea.
- Semplificare i problemi, scomponendoli in parti il più piccole possibile.
Questo è il “metodo” di Descartes espresso nelle sue “Regole per la conduzione dell’intelletto” (Regulae ad directionem ingenii dalle quali il P. de Liguori attingerà quella chiarezza, quella semplicità quella potenza di convinzione che ne faranno lo scrittore di gran lunga il più letto del suo tempo, e quella libertà di pensiero di fronte alle opinioni ricevute che ne farà il rivoluzionario maestro della morale:
È stato detto dagli antichi, ma io vi dico ”.
Si troveranno tracce della dottrina cartesiana (la natura intera regolata matematicamente secondo un modello meccanicistico, distizione in due sostanze: la materia-estesa e lo spirito-pensante) lunge tutte le sue opere apologetiche 26 ; nel 1767 scriverà in questi termini: “Noi non diciamo che le bestie non possono essere pure macchine, né che non possono aver anima spirituale; ma diciamo di non saper siccome neppure egli (Voltaire) lo sa”27. Il cartesianesimo permette ad Alfonso di comprendere e di dialogare con gli intellettuali del tempo (quello che mancava alla maggior parte dei preti) e di incrociare il ferro con loro sullo stesso terreno. Tuttavia non sarà cieco seguace del grande Descartes, ma lo vedremo avallare le idee del “ filosofo Newton ” (questo anti-Descartes) e appoggiare la sua “filosofia sperimentale”, forse per influsso di G.B. Vico (1668-1744) 28.
“Filosofia sperimentale”: sotto questo grande ombrello potrebero raccogliersi le scienze oggi divorziate ma che allora conducevano, ménage comune nella vasta casa della “filosofia”.
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Nel 1698 vedeva la luce a Parigi presso Jean-Baptiste Coignard, in quattro tomi, la lnstitutio philosophica ad faciliorem veterum et recentiorum philosophorum lectionem comparata di Edmond Pourchot (1651-1734) “di Sens, professore emerito di filosofia, laureato in diritto civile e canonico e antico rettore dell’università di Parigi”, opera di un cartesiano di buona stoffa, anche se molto aperto, come chiaramente è detto nel titolo, di cui abbiamo sotto le mani la seconda edizione a accresciuta” del 1700 e la terza riveduta e “accresciuta” anch’essa del 1711.
Questo corso in latino, arricchito da tavole esplicative, sarà tenuto in tale stima dal P. de Liguori e dai suoi compagni che nel 1749, durante il primo capitolo generale redentorista, con la decisione 46 sarà scelto come manuale di filosofia per gli studenti della congregazione 29 : determinazione ufficiale significativa che però sancirà solo quanto già si faceva; nel 1746 dando a Deliceto, tra una missione e l’altra, lezioni di “filosofia” ai suoi seminaristi, Alfonso da provetto disegnatore ne riprodurrà ingrandita la tavola 16, la sfera armillare di Tolomeo (conservata oggi gelosamente a Roma). Pourchot, anche se comincia presentando la visione “ relativa ” di Tolomeo (che Einstein non ricuserebbe), non può essere considerato un retrogrado, perché, quando, lasciate le apparenze, ne espone il sistema, conclude che è insostenibile essendo contrario alla fisica e all’astronomia. Venendo a quello di Copernico, ha questa gustosa posizione:
“Il sistema di Copernico, o di Descartes, può essere sostenuto a mo’ di ipotesi, essendo in pieno accordo con la fisica e con l’astronomia. Ne è stata fatta la dimostrazione e le obiezioni contrarie non reggono (lo proverà poi dettagliatamente).
Può quindi essere difeso a mo’ di ipotesi, ma non lo si deve imporre come tesi... perché sembra contrario alla lettera della Scrittura, anche se alcuni cattolici e non di minor conto ritengono il contrario....
Resta però che, per aver sostenuto questa opinione, Galileo è stato condannato dai cardinali inquisitori della fede nel 1616 sotto il pontificato di Paolo V e nel 1633 sotto quello di Urbano VIII... Non se ne può quindi difendere la tesi dicendo: - Le cose sono così. L’ipotesi però parte da fatti ben certi e ne tira le deduzioni astenendosi dal decretare: - Le cose sono così ” 30 .
Veramente il Santo Ufficio metteva a dura prova la fede, anche se aguzzava la sagacità casistica e faceva fiorire l’humour!
Don Alfonso però non si lasciava sgomentare e il 15 luglio 1757 (avrà allora sessantun anni) scriverà con mano decisa questo postscriptum al rettore del suo studentato: “Né voglio che si faccia critica (come
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sento) di Purcozio (cioè Pourchot), per discreditarlo. Questo libro ha avuta l’approvazione universale, e noi l’abbiamo da criticare? Se uno vuol criticarlo lo faccia dentro di sé, ed io voglio essere obbedito... Viva Gesù, Maria, Giuseppe e Teresa!” 31 .
Per una scelta più che risoluta del fondatore, questa Institutio philosophica 32 sarà il manuale dei giovani Redentoristi del primo cinquantennio; non è allora azzardato ipotizzare che quest’opera, nella sua edizione del 1700, molto in voga nel meridione d’Europa 33 , sia stata quella che Don Rocco ha fatto usare e amare al suo giovane discepolo degli anni 1707-1708.
Il tomo primo contiene la logica, l’ontologia, la metafisica (Dio, gli angeli, lo spirito umano); il secondo la geometria e la prima parte della fisica o scienza della natura (i corpi non sensitivi e i corpi sensitivi); il terzo la seconda e la terza parte della fisica (cosmografia, meteorologia, geografia fisica generale, storia naturale dei vegetali, degli animali e dell’uomo, cioè anatomia e fisiologia); il quarto la morale e l’educazione civile. Ecco i “sette figli” della filosofia del Settecento!
Pourchot, pur restando di un cartesianesimo sereno e solido, dava largo spazio alla storia del pensiero.
Il suo “metodo”, che basato sul principio stesso del libero pensiero, rovesciava il paniere delle mele (pardon, lo stock delle idee ricevute), le esaminava una per una e riprendeva solo quelle evidentemente senza difetto, poteva costituire una minaccia per la fede cristiana?
Matematico, Descartes ebbe il torto di pretendere di dedurre tutto a priori, facendo diventare, con il suo disprezzo per l’esperienza, un romanzo la sua teoria meccanicistica, alla quale Newton obietterà: “io non formulo ipotesi, osservo”. Il suo rigetto della prova di autorità avrebbe dovuto portarlo a negare la fede, dal momento che la storia e la rivelazione si conoscono solo attraverso la testimonianza.
Ma Descartes dissociava i due livelli, restringendo il suo metodo alla filosofia “ naturale ”, in quanto le verità della fede cattolica erano e restano “ le prime nella sua fede ”; per lui come per Pascal, Galileo o Malebranche i dommi rivelati nel vecchio e nel nuovo Testamento avevano lo stesso valore del Cogito o delle più sicure esperienze. Vivrà e morirà da cattolico praticante e nel suo voto di un pellegrinaggio al santuario di Loreto, che si impegnò a compiere (e poi realmente fece) se fosse riuscito a scoprire il principio della geometria analitica, non bisogna vedere una semplice mossa diplomatica per disinnescare l’Inquisizione. Per la pratica aveva deciso di attenersi “alla religione della sua nutrice”; per la teoria dirà: “Ho parlato dell’infinito solo per sottomettermi ad esso” 34 .
Allo stesso modo Alfonso de Liguori “ filosofo sperimentale ”
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morirà da cartesiano impenitente e, teologo e moralista cristiano, sarà fervente discepolo di Tommaso d’Aquino, sentendosi sempre a suo agio sia come credente che come filosofo.
Dovrà prima però affrontare l’università e nel settembre di quelL’anno, 1708, compirà dodici anni.