Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
Lettura del testo

Parte prima “NOBILE, GIOVANE E RICCO” (1696-1723)

6 - ORE DECISIVE PER NAPOLI (1707- 1711)

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

- 76 -

6 - ORE DECISIVE PER NAPOLI

(1707- 1711)

 

Tempi felici per i ragazzi in un Paese in guerra proseguire gli studi senza sirene e senza bombardamenti! Dal 1701 infatti gli Asburgo e i Borboni si dilaniavano a vicenda per le corone del defunto Carlo II di Spagna 1 .

Per ben due volte l’imperatore Leopoldo con i suoi alleati aveva scacciato Filippo V da Madrid e creduto di potervi intronizzare l’arciduca Carlo d’Austria, dopo averlo insediato a Barcellona, da dove questi aveva tentato di regnare sulla Catalogna non potendolo fare su tutta la Spagna. Però nel 1705 a sessantacinque anni l’imperatore era stato costretto dalla morte a farsi da parte. Gli successe il primogenito Giuseppe I nell’impero e nella lotta contro i Borboni che sembrava coronarlo vincitore in quanto i Franco-spagnoli subivano sconfitte su sconfitte e il principe Eugenio di Savoia avanzava in Lombardia. Il momento di “cogliereNapoli arrivò nel giugno del 1707 quando Giuseppe I fece lanciare verso di essa “cinquemila fanti e tremila cavalieri tedeschi sotto l’impero del conte Daun2 .

Un pugno di soldati, messo a fatica insieme dal duca di Escalona, viceré di Filippo V a Napoli, nel tentativo di sollevare contro gli invasori quegli stessi Napoletani da sei anni tartassati con imposte per la guerra, si mosse verso il Nord, dissolvendosi però ben presto come neve al sole prima ancora di incontrare i Tedeschi. Escalona allora tentò di coinvolgere nella resistenza il Sacro Real Consiglio, poi i nobili dei Seggi, poi il popolo del Mercato, ma fu come voler dar fuoco al mare: nessuno si mosse. Percorse a cavallo per chiamarla alle armi la fedelissima Napoli, che lo guardò passare indifferente, discretamente ironica. Il 3 luglio gli imperiali entrarono in Capua e al viceré, che il 7 fece un ultimo tentativo infruttuoso presso le Piazze e il Consiglio, non restò che imbarcarsi precipitosamente per andare a rinchiudersi nella fortezza di Gaeta 3 . Intanto dalla capitale partirono messaggeri a offrire le chiavi della città, come a dei liberatori, all’avanguardia tedesca comandata dal conte Georg-Adam von Martinitz, già nominato

 

- 77 -


dall’imperatore viceré di Napoli. La sera stessa del 7 luglio le truppe imperiali vi entrarono trionfalmente e il generale von Daun prese ufficialmente possesso del Regno in nome dell’arciduca Carlo. “Furioso qual suole nelle allegrezze”, il popolo demolì la statua equestre di Filippo V e, fattala a pezzi, la gettò in mare. “Pochi giorni appresso cederono i tre castelli della città; il presidio di Castelnovo, uffiziali e soldati, spagnuoli e napolitani, passò agli stipendi del nuovo principe, non vergognando dell’incostanza4 .

Infedeltà della Fedelissima? No. I Napoletani - Liguori e Cavalieri in testa - che nel 1702 avevano sorriso amaro a Filippo d’Angiò, ritornavano agli Asburgo.

 

I nuovi signori della bella Napoli celebrarono rumorosamente la “conquista”: la Fedelissima esplose in grida, canti, cortei per accogliere il fortunato vincitore; Castelnovo e la flotta con gli echi delle loro salve di artiglieria... risvegliarono lo stesso Vesuvio, il terribile vicino allora in fase calda.

Dal 1680 al 1701 diciassette eruzioni- boati, scosse, fiamme, ceneri, lava, lanci di enormi pietre- avevano fatto impazzire la città e spinto la popolazione nelle chiese per invocare misericordia, giorno e notte.

28 luglio 1707: il mostro iniziò la festa vomitando fiamme e facendo la voce grossa; sabato 30: il cratere esplose all’improvviso scagliando alta nel cielo una bordata dantesca di massi infuocati; domenica e lunedì: fuoco, boati, lanci di pietre, con una straordinaria quantità di cenere; martedì 2 agosto: nelle strade vennero accese torce e lanterne per non urtarsi in pieno giorno. La gente singhiozzava con gli occhi che bruciavano per la polvere e la cenere, il cui depositarsi sul selciato raggiungeva un tale spessore da soffocare ogni rumore, anche lo stesso passo ferrato dei cavalli dei rari tiri costretti a uscire.

La popolazione terrorizzata fu invitata per la sera a riunirsi in piazza S. Caterina a Formello (oggi piazza Enrico de Nicola) dove era stato eretto un altare sul quale il cardinale Pignatelli avrebbe posto, di fronte al Vesuvio che gettava saette e massi infuocati, la statua di S. Gennaro, ultima speranza per i napoletani. Il primo ad arrivare però fu il vivente apostolo di Napoli, il P. Francesco de Geronimo; salito sulla scalinata del conservatorio di Sant’Onofrio, di fronte alla chiesa di S. Caterina, agitò il suo leggendario campanello e nel silenzio che si impadronì della piazza, proruppe:

- Napoli, mia cara Napoli, che ore sono?

Non si capiva più se era mezzogiorno o mezzanotte, ma in ogni caso non era più l’ora né dei Franco-spagnoli né dei Tedeschi!

- Te la dico io l’ora, proseguì Francesco: sono le ventidue

 

- 78 -


(mancavano infatti due ore all’Angelus della sera che allora segnava il termine delle ventiquattro ore). Sono le ventidue. Quasi l’ultima ora. L’ora del pentimento, della conversione...

E per un’ora il fuoco della sua predicazione fece dimenticare quello del vulcano. Per quale miracolo riusciva ancora a respirare?

Quando giunse il cardinale con la reliquia di S. Gennaro; la preghiera di tutto un popolo atterrito e contrito esplose in un lungo grido, a cui fece eco il cratere con il suo terribile boato, per un’ultima volta.

Non sappiamo se i Liguori fossero in città o un po’ più lontano dal terribile mostro a Marianella. “Alfonso, che ore sono?”. Stava per compire undici anni, l’età delle impressioni forti e già definitive e vivrà ancora ottantanni intorno a un Vesuvio fumante e spesso incollerito. Tutte ore da non perdere! La sua corsa all’essenziale, precocemente intrapresa, ogni giorno rilanciata, gli farà dimenticare il Vesuvio anche durante le eruzioni del 1737, 1760, 1767. Eppure che bel tema a disposizione del missionario per incutere timore!... Alfonso non ne parlerà mai, né nei suoi libri, né nelle sue lettere, né nelle sue predicazioni e nemmeno nei suoi nove Discorsi per i tempi di calamità ( 1758 ).

Mercoledì 3 agosto 1707 il sole si levò in un cielo azzurro su un Vesuvio addormentato e una città dalle strade e terrazze sepolte sotto due pollici di cenere 5 .

 

Ceneri del terrore svanito e della penitenza esaudita. Ceneri anche del regime di Madrid.

Sei anni prima del termine della triste guerra di successione spagnola, il 1707 espropriò per sempre Madrid della corona delle Due Sicilie e installò l’Austria a Napoli, anche se per un po’ di tempo ancora lo Stato risiederà in Spagna, dal momento che l’arciduca Carlo (“il re Carlo III”) governava da Barcellona e guardava verso ovest vedendosi già “re di tutte le Spagne”. Le sue ordinanze in favore di Giuseppe de Liguori portavano: “Carlos, per grazia di Dio re di Castiglia, di Leon, di Aragona, ecc.”. Tutto questo però non era ancora conquistato e, continuando la guerra, egli sarà cacciato dalla Spagna, ma non dall’Italia; così dal 1707 e per lungo tempo la città partenopea vivrà sul quadrante di Vienna, che, richiamato in Austria il viceré Martinitz, lo rimpiazzerà nel palazzo reale con il generale Wirick von Daun; la pressione fiscale spagnola sarà sostituita in tutto il Paese da quella austriaca.

Così Alfonso, nato suddito spagnolo, diventerà nel 1707 suddito austriaco e per ventisette anni (1707-1734) durante i quali suo padre sarà uno dei grandi del Regno.

 

- 79 -


Nel luglio 1707 Giuseppe de Liguori aveva trentasette anni e suo nido familiare cinguettava di piccoli, quattro dei quali nati in un Regno in guerra e l’ottavo e ultimo, Ercole, non ancora di un anno. Anche se Giuseppe era ufficiale e il suo mestiere le armi, la sua famiglia se l’era cavata con la paura dal momento che fino al 1707 polvere aveva tuonato sulla terraferma, non sul mare, e lontano dalle Due Sicilie: nell’Italia settentrionale, in Francia, in Spagna.

Tuttavia l’ancestrale fedeltà dei Liguori e dei Cavalieri agli Asburgo di Spagna aveva dovuto impegnare il loro zelo e la loro abilità per la causa degli Asburgo d’Austria contro i Borboni, altrimenti non si spiegherebbe la loro immediata promozione a posti di comando 6 .

Giuseppe Cavalieri, fratello di Donna Anna, risiedeva a Madrid, occupando un posto prestigioso a corte presso Filippo V, come avvocato dei poveri, ma fu pronto nella ritirata e nel voltafaccia, ottenendo così subito a Napoli una poltrona nel Sacro Real Consiglio e il portafoglio di consigliere di Stato ministro della guerra 7 . Giuseppe de Liguori cominciò a salire velocemente in alto nelle grazie del viceré von Daun: il 23 dicembre 1707 sarà promossocapitano di fanteria spagnola e della galera Padrona” il secondo legno della squadra real (spagnola sempre, perché da Barcellona l’arciduca Carlo governava Napoli con il titolo di pretendente al trono di Spagna), lasciando quindi dopo più di vent’anni la Capitana. Su questa era semplice ufficiale mentre sulla Padrona diventava il padrone dopo Dio! Vi regnerà fino al 1716 8 .

Oggi è difficile farci un’idea esatta del prestigio che allora circondava questo alto grado. Nel 1700 l’altero vascello di linea, a vela non più a remi, che attraversava l’Atlantico affrontando le tempeste, poteva guardare dall’alto, come un uccello che sprezza un “rampante”, la galera, bassa sull’acqua, sommersa dalle forti ondate, che non poteva perciò allontanarsi dalla costa o lasciare il Mediterraneo. Ma con il mare piatto o con il vento contrario toccava alla galera di ridersela e filare come una freccia, soprattutto se, come quelle della squadra napoletana, era una trireme con quattrocento rematori. Restava perciò ineguagliabile per il trasporto rapido, per il pattugliamento elastico, per l’inseguimento e per la fuga. Ma, valorosa, essa non fuggirà anzi si scaglierà sul nemico spinta dai remi con la sua ridotta artiglieria: due piccoli cannoni sul retro e davanti sull’asse un grosso pezzo due piccoli, capaci di una scarica a filo radente per aprire il passo alla colonna d’assalto. Essendo quella delle galere una battaglia di fanteria a colpi di pistola o all’arma bianca, corpo a corpo, tutto era affidato al valore personale: coraggio, prontezza, ardore cavalleresco; gli stessi ammiragli, cui si mirava per primi, incrociavano i ferri; e

 

- 80 -


con loro gli ufficiali, tutti gentiluomini delle più grandi famiglie, che guardavano dall’alto ogni altro ufficiale della marina 9 .

Ma la Padrona ereditata dal capitano de Liguori, per la vecchiaia e per i colpi dei marosi, non ce la faceva più: le galere come i cani morivano dopo dodici anni! I nuovi padroni riaprirono i cantieri navali e, mentre costruivano una nuova, con un decreto del 5 dicembre gli affidarono una cavalcatura di migliore legno, che era stata battezzata- adulatori! - Daun.

La sua prima campagna da capitano sul Tirreno contro corsari e contrabbandieri terminò nell’aprile del 1709 con al rimorchio una nave smirniota (uomini e contrabbando) catturata lungo le coste della Calabria. La corte apprezzò, con la fiducia crebbero anche le responsabilità. Un decreto del 26 novembre 1709 affidava al capitano della Padrona (era il suo titolo) un convoglio straordinario, da condurre attraverso i rischi della guerra a Porto Santo Stefano per le guarnigioni napoletane (i “Presidi”) della Toscana meridionale, con truppe di fanteria, munizioni, viveri, seimila scudi da consegnare al comandante della piazza di Orbetello. Don Giuseppe aveva ai suoi ordini non solo la Daun ma anche “le altre galere, una tartana carica di polveri e una nave di linea”, la Prasca, presa a nolo da un genovese e armata con sessanta cannoni. Abbordando la penisola di sbarco, trovato l’istmo per Orbetello occupato dai Franco-spagnoli, fece fuoco dal mare sul nemico con tutta la sua artiglieria, aprendosi il passo.

Dalla Sicilia, occupata dal “nemico”, quattro triremi “ben armate terrorizzavano le acque calabresi e... lo stato maggiore napoletano. Sulla sua nuova Padrona, varata nel settembre 1711, con una galera di appoggio, la S. Elisabetta, partì per garantire la sicurezza dei convogli di grano e di altre derrate dall’Adriatico attraverso lo stretto di Messina e le quattro galeotte borboniche non osarono affrontarlo. Quando apprese che i pirati facevano razzie sulle isole pontine, prontamente, lasciando sul posto solo la paura che ispirava, fece rotta verso nord, intercettò ben presto una galeotta di sette cannoni e sessanta corsari, poi un bastimento (una saettia) con undici pezzi e centotredici uomini e, portato a Napoli questo opulento bottino, senza nemmeno sfilarsi gli stivali, quattro ore dopo filò verso Messina per riprendere il suo posto di guardia 10 .

A leggere i rapporti e i dispacci del tempo, si ha l’impressione che sul mare Napoli avesse un solo ufficiale superiore temibile e temuto, il cavaliere Giuseppe de Liguori, che incarnava il leone del suo stemma familiare: vigile, fiero, intrepido, possente, dalla zampa di acciaio pesante e veloce.

Incuteva timore ad Alfonso questo leone; però che immagine prestigiosa di padre! Fortunatamente sempre più lontano, perché “Car-

 

- 81 -


lo III, per grazia di Dio Re di Castiglia, di Leon, di Aragona e di altri luoghi” aveva bisogno di lui!

Carlo III? No, Carlo VI, imperatore di Germania e re delle Due Sicilie: così la morte aveva voluto.

Infatti l’uomo propone, Dio dispone e... la morte scompone. Nel 1711 l’arciduca Carlo, fratello dell’imperatore Giuseppe I, che a trentadue anni e senza figli maschi aveva raggiunto nella tomba il padre Leopoldo, lascerà Barcellona per Vienna e la corona imperiale. Il trattato di Utrecht (1713) gli assegnerà Napoli e Milano, mentre darà al borbone Filippo V la Spagna. Così Napoli, tranne l’intermezzo borbonico di Filippo V, effimero come la sua statua (1701-1707), passerà dagli Asburgo di Spagna a quelli d’Austria; la capitale partenopea non avrà ancora un suo re.

Nessun problema per Don Giuseppe, posto da poco dagli Asburgo d’Austria nell’orbita del potere e dei favori. Vi resterà venticinque anni (1709-1734).

 

 

 

 

 

 





p. 76
1 Cf. precedentemente, pp. 47-49.



2 P COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, 1. I, c. I, VI.



3 G. CONIGLIO, I viceré spagnoli di Napoli, Napoli 1967, pp. 352-353.



p. 77
4 COLLETTA, loc. cit.



p. 78
5 D’ARIA, op. cit., pp. 457-462; BACH, op. cit., pp. 260-263.



p. 79
6 “S. Alfonso”, 30 (1959), p. 29.



7 ASN, Sezione Giustizia, Pandetta Nuova 4a/107-18, FOL. 166; CF. fol. 200-201; SH 7 (1959), pp. 250-251.



8 SH 7 (1959), pp. 232, 244-245, 248. La nomina ebbe effetto (carica e soldo) dal dicembre 1707; il

viceré ne avvertì l’arciduca Carlo il 3 marzo 1708 domandandogliene conferma e patente; “Carlos,

re di Castiglia...”, firmò da Barcellona il 29 gennaio 1709.



p. 80
9 R. MOUSNIER, Les XVI et XVII siècles (tom. IV della Histoire générale des civilisations), V

ed., Paris 1967, pp. 142-144.



10 SH 7 (1959), pp. 231-251; “S. Alfonso”, 30 (1959), pp. 54-55.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License