Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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Parte prima “NOBILE, GIOVANE E RICCO” (1696-1723)

7 - VIA DEI TRIBUNALI (1708- 1713)

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7 - VIA DEI TRIBUNALI

(1708- 1713)

 

 

 

Gli anni 1708-1713 sono per Alfonso quelli dell’università, su uno sfondo di guerra lontana, sotto la sorveglianza appena allentata di un padre sempre più assente.

Napoli si vantava di possedere uno Studium (oggi una università) tra i più antichi del mondo, il quinto dopo Bologna, Oxford, Palencia e Parigi, fondato nel 1224 dall’imperatore Federico II di Hohenstaufen e illustrato dagli ultimi due anni di insegnamento (1272-1274) di uno dei maestri universitari più prestigiosi, un figlio di questa terra, Tommaso d’Aquino.

Quando il 25 ottobre 1708 Alfonso presentò la sua domanda di iscrizione al primo anno della facoltà di diritto, lo Studium, dotato nel 1600 da Domenico Fontana (1543-1607) di una sobria e armoniosa architettura che dava corpo alla basilica e alla piazza S. Domenico Maggiore, era un ammalato grave, per tre quarti già in necrosi, ben lontano dal contare i seimila studenti che Carlo Celano ragazzo aveva visto una cinquantina di anni prima 1 .

Un primo segno esteriore di miseria risaliva al tentativo di rivolta del 1701, che aveva spinto il viceré Medina Coeli a trasformare in caserma gli edifici, cosicché la piazza risuonava delle imprecazioni, prima spagnole, poi tedesche, più che dei sillogismi latini, e a confinare gli Studi pubblici in cinque piccole sale del chiostro domenicano.

Per di più il Cappellano Maggiore della corte, dal quale dipendeva l’università nei vari aspetti (professori, studenti, programmi, polizia, giustizia) era Don Diego Vincenzo Vidania, mummia pietrificata di reazionario, aragonese purosangue, cocciuto e inattaccabile, venuto dalla notte dei tempi, che si dimetterà dalla sua alta carica solo dopo aver compiuto i cent’anni nel 1732

Come era stato possibile arrivare ad una tale riduzione degli effettivi e a una tale sclerosi dell’istituzione? Napoli non aveva più cervelli? Ne aveva più che mai e ricchi di febbrili e immense curiosità, ma nell’impossibilità di esprimersi e di informarsi se non nelle aule delle accademie private. Le istanze di riforma presentate dal con-

 

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siglio municipale centrale (la Città) trovavano solo il no di Vidania e l’indifferenza prima del re di Spagna, poi dell’imperatore di Germania, con il risultato di far trasferire altrove la vita, soffiare altrove lo spirito, covare altrove il fuoco. Essendo stato ridotto lo Studium napoletano al rango di un ministero burocratico per immatricolazioni e diplomi, i nobili non vi mettevano più piede, preferendo i corsi privati, mentre i borghesi, troppo poco in denaro per poterseli pagare, vi cercavano solo un diploma da sfruttare, cosicché le lezioni riunivano intorno a una cattedra non più di una quindicina di studenti 2 .

Quali cattedre? La matematica, la retorica, il greco e la logica ne avevano- una propria, mentre la filosofia ne contava quattro e la teologia cinque con l’obbligo di non allontanarsi da Aristotele e dalle tesi scolastiche. Le sei cattedre di medicina erano occupate da due grandibaroni”, Tozzi e Porzio, che pensavano a curare i loro malati invece di insegnare, e da un professore straordinario, Nicola Cirillo, che, veramente dedito al suo compito, affascinava il suo mondo con gli Aforismi di Ippocrate. L’insegnamento delle scienze, che avevano diritto solo alle briciole cadute dalla tavola della matematica e della “filosofia fisica” benché si fosse dopo Copernico, Galileo, Pascal e Newton, era affidato a professori degni di stima, Agostino Ariani e Giambattista Balbi, alle cui lezioni i giovani facevano ressa. Segno dei tempi nuovi?3

Segno dei tempi nuovi era soprattutto il successo del malaticcio Giambattista Vico, il maestro tisicuzzo - così era soprannominato dagli studenti - spada infuocata che bruciava il suo fodero, potente profeta in un corpo stremato. L’Europa solo dopo un secolo riconoscerà in lui il fondatore della moderna storiografia, ma molto prima una piccola élite di spiriti eletti e un importante gruppo di suoi allievi di retorica, percependone abbastanza i bagliori, si era avvicinata a questo roveto ardente.

Napoli: sole, gioia di vivere, grida, tumulto, nei vicoli tortuosi la folla più mobile del mondo; vivacità, curiosità di spirito senza pari, un intenso movimento di cultura; conversazioni appassionate, assemblee, salotti, dove uomini che portavano allegramente il peso di un sapere immenso rimettevano in discussione tutti i problemi scientifici e filosofici, esaminavano tutte le dottrine, raccoglievano tutti i fatti; A Napoli, che riceveva, perché li chiamava, i messaggi del pensiero europeo adattandoli al suo genio; a Napoli, originale e tumultuosa, che appariva come un simbolo di potenza e di vitalità, nacque il 23 giugno 1668 Giambattista Vico4 .

Nacque fortunatamente da un libraio; a sette anni cadde da un’alta scala e rimase cinque ore in coma con questa prognosi del medico:

“O morto o idiota per sempre”; allievo dei Gesuiti fu poi per nove

 

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anni precettore vicino ad un convento di cui divorò la ricca biblioteca: lesse Aristotele e i greci, Agostino e Tommaso d’Aquino, i “nuovi filosofiGassendi e Locke, Descartes e Spinosa, Malebranche e Leibniz, senza farsi schiavo di nessuno. Così poco conformista da entrare nellAccademia degli Infuriati, ma tanto profeta da riuscire incomprensibile nelle sue visioni già “hegeliane” che preparavano la Scienza Nuova (1725), veniva ascoltato e invitato da uomini eminenti, tra i quali un filosofo, Paolo Matteo Doria, e l’élite dei giuristi del Regno, Domenico Aulisio, Gaetano Argento, Nicola e Domenico Caravita, Costantino Grimaldi, Nicola Capasso, Pietro Giannone.

A Napoli il movimento illuminista era nato principalmente dal grande avvocato, recentemente scomparso, Francesco d’Andrea (1625-1698), spirito universale e vivo che aveva scalzato tutte le routines e aperto nuovi orizzonti nella letteratura, nelle scienze, nella filosofia, nella storia e prima di tutto, evidentemente, nel campo specificamente suo del diritto, facendo scuola soprattutto nel mondo del foro e delle leggi. Perciò qui, più che altrove, troviamo uomini appassionati di lingue, storia, scienze, letteratura, filosofia, politica, tra i quali circolavano giornali letterari e libri stranieri (francesi, tedeschi, olandesi). Ben al di sopra dei pantani dove farfugliavano e gracidavano in massa gli ignoranti e i traffichini del foro e del profitto, avevano creato una corrente di intelligenza, di scienza e di onestà, unica chance della giurisprudenza e dell’università napoletana 5 , la chance umana del nostro giovane studente.

Le due facoltà di diritto, delle quali non abbiamo ancora parlato, accaparravano ben undici delle trenta cattedre proprie degli Studi pubblici: cinque per il diritto canonico e sei per quello civile 6 . Se il diritto è stato chiamato “la scienza italiana”, Roma e Napoli potevano allora andare orgogliose - e a ragione della loro élite di giuristi. Il cuore di Napoli batteva nei Tribunali (così era chiamato il palazzo di giustizia), dove lo stesso pubblico, uomini e donne, partecipava con gesti e con parole agli interminabili dibattimenti delle cause: per atavismo? per acutezza di ingegno? per temperamento litigioso? per millenaria necessità di piegare legislazioni straniere? oppure, più gioiosamente, per amore e piacere di maneggiare le carte del gioco più complicato del mondo?

Per farsi un’idea dell’inestricabile selva in cui si aggrovigliavano le leggi, le ordinanze, le prescrizioni e i privilegi del diritto del Regno, bisogna ricordare che per più di 2500 anni sulla città partenopea, mai pienamente padrona di se stessa, avevano dominato undici diverse dinastie, aggiungendo ciascuna al diritto consuetudinario locale, qualche maglia della rete delle proprie leggi. Si erano così intrecciate ben undici legislazioni: il diritto romano, quello bizantino, longobardo,

 

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svevo, angioino, normanno, aragonese, castigliano, austriaco, feudale, ecclesiastico, 7 per non parlare delle leggi regionali e municipali, che finivano per rendere più inestricabile questa matassa: disperazione degli Ignoranti, rompicapo degli onesti, paradiso dei furfanti di ogni specie, avvocati e ricchi clienti, che se la spassavano a derubare defraudare, spogliare, rovinare il proprio prossimo, ma anche trionfo dei grandi uomini di legge, la cui maestria era ammirata dall’intera Europa. “Dopo il Foro romano non è stato mai più in Europa altro loro più numeroso, più potente, più ricco, più elevato quanto il foro napoletano8 .

Conoscendo bene le capacità intellettuali del figlio e il suo ardore per il lavoro, Don Giuseppe de Liguori, accantonata l’idea di farne un soldato nella scia degli antenati paterni, cominciò a sognarlo nei gradi più alti della magistratura, accanto ai cugini Liguori e Cavalieri. Francesco d’Andrea, nei suoi Avvertimenti ai nipoti, aveva annunziato l’imminente declino dell’aristocrazia e l’ascesa del ceto medio, il “ terzo stato ”, ma era proprio con la cultura giuridica, la grande via che portava ai posti di comando e ai ministeri, che la borghesia era sul punto di sostituirsi alla nobiltà e di confiscarne il potere e il prestigio: spettava dunque ai cavalieri napoletani tagliar la strada a quei pirati 9 . Don Giuseppe decise che il suo Alfonso sarebbe stato avvocato 10 .

 

Doveva quindi passare per l’università: superare con successo L’esame di ammissione, iscriversi al primo anno sborsando due carlini seguire assiduamente le lezioni dei professori nelle aule degli Studi pubblici, secondo la legge richiamata ancora nel 1703 da una prammatica del viceré Villena. Le cose però di fatto andavano diversamente.

Le università medievali costituivano una vasta e solida unità organica di persone (maestri e discepoli), non di edifici, e le lezioni generalmente venivano impartite in casa dei professori, nelle sale o nelle cappelle dei conventi e poi nei “collegi”, cioè nelle residenze per gli studenti borsisti 11 ; al contrario gli Studi napoletani del Settecento pretendevano di imporre l’unità di luogo, benché disponessero solo di cinque aule per le trenta cattedre ufficiali.

In realtà, non solo per forza di cose, ma anche per accontentare numerose persone, alcuni professori impartivano pubbliche lezioni nelle loro case; altri, mal pagati o speculatori, organizzavano lezioni private, facendosi sostituire nelle aule da incapaci che finivano con il creare il vuoto intorno alle cattedre; d’altra parte alcuni titolari non avevano bisogno di aiuto per fare il deserto, essendo personalmente incompetenti o eccessivamente pesanti, senza parlare, naturalmente di quelli che figuravano solo negli annuari e nei libri paga.

 

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Allora gli studenti, disputandosi i posti a suon di pugni, prendevano d’assalto le aule dei soli sette maestri di statura e coscienza universitaria, tra i quali - fortuna per Alfonso! - quattro professori di diritto: il sessantenne Domenico Aulisio (1639-1717), decano della facoltà, presentato da Vico come “un uomo universale nelle lingue e nelle scienze”; Nicola Caravita (1647-1717), consigliere della Real Camera, professore di diritto feudale, che faceva accorrere anche magistrati e avvocati; Gennaro Cusano e Nicola Capasso (1671-1745) della facoltà di diritto canonico, che si spartivano l’insegnamento delle Decretali dei papi, attirando una folla di giovani con il loro sapere e con il loro pensiero.

È meglio non parlare degli altri titolari delle cattedre di diritto, di cui conosciamo i nomi, i capitolati d’oneri, i trattamenti e... le carenze e quando questi signori si disturbavano a fare lezione, solo le mura ascoltavano il Codice di Giustiniano, le sue Istituzioni con le Glosse, Bartolo, i Digesti antico e nuovo per il diritto civile, il Decreto di Graziano e le Istituzioni di Lancellotti per il diritto canonico. Antonio Capellari, successore nella cattedra di diritto feudale di Nicola Caravita, ritiratosi dal pubblico insegnamento nel 1711 sulla soglia dei sessantacinque anni, si presentò a fare lezione una sola volta nei due anni che fu professore titolare di Alfonso: a trecento ducati l’anno era piuttosto caro! Non ci si deve meravigliare allora se gli studenti impegnati, ambiziosi e con adeguate risorse ricorressero alle lezioni private 12 .

 

Il nostro giovane Alfonso de Liguori varcherà la soglia di questi strani Studi pubblici, a dodici anni, dopo essere stato consacratobaccelliere” con l’esame di ammissione dinanzi al professore di retorica, Giambattista Vico.

Alfonso de Liguori e Giambattista Vico: due bei volti dal profilo aquilino, l’uno ancora fresco e colorito, bocca piccola e sorridente, sguardo “quasi ceruleo” (Tannoia), dilatato dalla fiducia e dalla curiosità per la vita, l’altro magnificamente temprato dagli ardori della febbre e del genio; i due più grandi geni italiani del secolo l’uno di fronte all’altro; il giovane cartesiano di fronte all’anti-Descartes (ma forse non si parlò di Descartes).

Il 18 ottobre dello stesso anno, festa di S. Luca, Vico, in virtù della sua carica, per il settimo anno consecutivo aveva pronunziato dinanzi a tutta l’università del Vidania il discorso inaugurale dell’anno accademico: De nostri temporis studiorum ratione, che tracciava le vie dell’avvenire nella viva realtà della storia.

Vico e Alfonso si rivedranno spesso alle riunioni in casa Caravita, ma si “incontreranno”? Il povero e grande Vico non era capito,

 

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lo si ascoltava appena; sofferente e timido parlava forse poco, tranne che nelle sue lezioni. Ma Alfonso non era iscritto al corso di retorica.

Le iscrizioni agli Studi per i sei mesi di corso si ricevevano tra la festa di S. Luca e quella di Ognissanti 13 e noi possediamo i certificati di iscrizione di Alfonso per i cinque anni richiesti per il dottorato, al 1708 al 1712, alla facoltà civile e canonica di Legge 14 .

Le autorità accademiche sapevano bene però che una cosa era immatricolarsi e un’altra il frequentare i corsi, perciò prima di decretare il dottorato esigevano un attestato scritto di due testimoni giurati (cum juramento ) a garanzia dell’effettiva assiduità del candidato alle lezioni magistrali nelle aule universitarie. Alfonso otterrà il 17 gennaio 1713, alla vigilia dell’esame finale, questi due attestati, debitamente giurati e firmati, dal cugino Francesco M. Cavalieri e dall’amico Corrado Capece; e, piacere per piacere, l’indomani, 18 gennaio a sua volta attesterà “con giuramento” in favore dello stesso cugino Cavalieri che hanno “studiato assieme, nelli Studij Publici di questa Fidelissima Città per lo spazio d’anni cinque continui Legge Canonica e Civile, la quale si legge in detti Studji da Publici Lettori”, firmando con la sua grafia sicura e bella: “Io D. Alfonso de Liguoro ho deposto come sopra” 15 .

Come dubitare allora che Alfonso non ha frequentato i corsi universitari? Ma come sostenere che di fatto li ha frequentati e assiduamente?

Sappiamo che i nobili non vi si affacciavano mai e che molti Vi facevano solo una capatina, una volta o due, per poter poi giurare di aver studiato nei corsi pubblici; d’altra parte il santo P. Tannoia, appena meno formale nella Vita, nel processo di canonizzazione di Alfonso deporrà sotto giuramento di avere appreso dai fratelli Ercole e Gaetano che il servo di Dio aveva fatto in casa tutti i suoi studi, compresi quelli di diritto civile e canonico, con maestri privati, senza passare per i corsi pubblici 16 .

 

Lo stesso P. de Liguori - colmo di humour malizioso! - finirà di imbrogliare le carte, quando spiegherà nella sua Theologia moralis, III, 166, che a Napoli (leggete bene, precisa: a Napoli) le attestazioni cum juramento nelle formalità del dottorato non sono per sé giuramenti, “perché tale formula non viene comunemente intesa come un vero giuramento”.

Ciò nonostante non si era fedeli alla verità e il figlio di Anna Cavalieri non avrebbe certo sancito una menzogna con la sua firma ampia e sicura come un colpo di spada di cavaliere.

Allora Tannoia nel suo indiscutibile giuramento sarebbe stato ingannato dai fratelli di Alfonso?

Delizie della storia, nella quale a volte i documenti più ufficiali

 

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si prendono gioco di noi con una divertente nuvola di dubbio e di apparente contraddizione!

Perché non pensare che tutti, ognuno dal proprio punto di vista, abbiano ragione?

Tannoia non può sbagliarsi nella circostanziata affermazione: “Ebbe Alfonso (in casa) per Lettori (di diritto) due valentuomini in quel tempo di sommo grido in Napoli17 . Si pensa allora spontaneamente a Nicola Capasso, giurista poeta che conserverà per Alfonso diventato prete un’amicizia sempre più ricca di ammirazione, e a Nicola Caravita dei duchi di Turitto, che lo introdurrà giovane, quasi come un figlio nell’accademia dei grandi spiriti da lui animata.

D’altra parte, come spiegare il fatto che Don Giuseppe proprio nel 1708 lasciava il Borgo dei Vergini, dove erano stati battezzati tutti i suoi figli, per stabilirsi con la famiglia in un edificio, preso in affitto da Marco Cafaro, in Via dei Tribunali, nel quartiere “a l’Anime del Purgatorio”, a trecento metri dai chiostri universitari 18 , se non per facilitarne la frequenza al suo primogenito?

Dunque, corsi pubblici agli Studi, all’ombra della cattedra degli Aulisio, Caravita, Capasso, Cusano e forse qualche altro, e lezioni private, in casa propria o in quella dei maestri, per supplire ai molti vuoti accademici e riempire le lunghe vacanze scolastiche. A chi conosce l’ambizione del cavaliere de Liguori e il suo polso di ferro, il divorante impegno di Alfonso e la sua resistenza al lavoro, non è possibile vedere il giovane partecipe di un baccano tempestoso e a volte insanguinato, né impegnato in interminabili partite a carte, dove facilmente si dimenticavano Ippocrate e Giustiniano.

 

Era forse Alfonso indifferente al gioco?

Napoli, tranne un’élite, si agitava in un clima di turbolento “far niente” e, se l’ozio è il padre di tutti i vizi, il vizio capitale dell’ozio napoletano era la passione per il gioco, addirittura vertigine per quello d’azzardo. Il popolo, che ignorava l’alfabeto ma conosceva bene le carte, vi si abbrutiva nelle taverne o agli angoli delle strade tra grida insulti, bestemmie, sfide al coltello. L’aristocrazia, che non si riuniva senza le carte, ancor di più riempiva con esse il suo ozio, passando notti intere a giocare in famiglia, tra vicini, nelle case da gioco di cui era piena la città malgrado le leggi; il denaro scorreva veloce tra le mani, riducendo alcune famiglie al lastrico e distruggendone altre, con odi inestinguibili, vendette, duelli e con molti giovani trasformati in bari o furfanti 19 .

Alfonso non era della compagnia, malgrado i Cavalieri bruciassero per il gioco 20 : “Tutto era applicazione per esso; e se egli era portato per lo studio, e per le facoltà scientifiche, D. Giuseppe suo Padre gli

 

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dava del contrappeso, assistendolo, ed impiegandolo colle continuate insinuazioni21 ; unico sollievo concessogli era, a sera, una partita a carte in casa di Baldassarre Cito, giovane figlio del magistrato Don Carlo, con pochi altri cavalieri. Alfonso si introduceva rapidamente in casa Cito, distante solo cinquanta passi nello stretto Vico S. Nicola a Nilo, con gli abiti di casa, senza approntare carrozza, forse passando internamente da una abitazione all’altra, secondo il permesso del temibile capitano: “per un’ora sola, non di più”. Don Giuseppe, quando era in casa, sopportava a malapena anche il più piccolo ritardo e guardava l’orologio più di suo figlio.

Una sera, era maggiore il ritardo o era più nervoso il padre?, Don Giuseppe entrato nella camera dello studente fece tabula rasa di tutti i suoi libri sostituendoli con altrettanti mazzi di carte (colpo ruminato da tempo, dato che aveva sotto mano un’interabiblioteca” di carte da gioco). Al ritardatario stupito, appena entrato in camera, il padre fu alle spalle con queste parole: “Questo è il tuo studio, e questi sono gli Autori, che ti fo ritrovare!”. Alfonso arrossì senza una parola: pazienza, autocontrollo, rispetto per il padre, ma d’ora in poi guarderà le sue carte con un occhio solo, avendo l’altro fisso sull’orologio o sulla clessidra.

 

Non erano certo troppi cinque anni di studio per inventariare - non diciamo ritenere- il Corpus Juris Civilis col diritto romano, in vigore in quel tempo in Italia, col nodo a otto corde del diritto consuetudinario e con il diritto feudale, e non era proprio necessario aggiungervi l’enorme sovrappeso del Corpus Juris Canonici.

Il diritto canonico faceva testo, per il civile e il penale, in qualsiasi causa in cui fosse coinvolto un chierico, una monaca, un “fratello” o, sotto un certo punto di vista, un battezzato (chi allora non era stato t almeno portato al battesimo?); prendeva sotto l’esclusiva sua giurisdizione chiese, monasteri, istituzioni caritative ed educative, possedimenti ecclesiastici e perfino il bandito che avesse trovato asilo in un luogo sacro. Al tempo di Alfonso il mondo era talmente saturo di presenze ecclesiastiche e sacralizzato ad ogni livello, che non si poteva toccare quasi niente che non fosse come pervaso da una corrente di sacro.

Il diritto canonico aveva quindi una parola da dire in quasi tutte le cause, anzi tendeva a prevalere su quello civile. Perciò a Napoli la Chiesa contava almeno sette tribunali: quello della Curia metropolitana, quelli dell’Inquisizione diocesana (uno per la capitale e uno per il Regno), quello del Nunzio Apostolico in nome della Santa Sede, quello del Cappellano Maggiore per le “chiese reali” e l’università, quello dell’amministrazione apostolica rappresentante la Fabbrica di

 

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S. Pietro e quello degli Ospedalieri di S. Antonio di Vienna (nel Delfinato) 22 . L’avvocato e il magistrato si scontravano dovunque in “curieecclesiastiche: vescovile qui (tre tribunali), romana (due tribunali), del Cappellano Maggiore o di S. Antonio di Vienna. Ci si può allora meravigliare se, all’inizio del secolo dei Lumi, il diritto al pari della scienza abbia voluto affrancarsi dalla tutela della Chiesa e se i giuristi e i governanti della città, a forza di inciampare in curie ecclesiastiche, siano stati presi da una febbreanticurialista” e siano diventatiregalisti”, cioè, in tempo di re, partigiani di una società civile indipendente?

A differenza dell’Inghilterra o della Germania, l’Italia era tutta “cattolica” e gli Stati, concludeva Roma, dovevano vivere interamente nella Chiesa di Cristo, sotto il pastorale di Pietro, in una situazione che, per quanto vicina nel tempo, appare già inverosimile e che Si comprende leggendo il decreto della famosa bolla Unam Sanctam scagliata nel 1302 da Bonifacio VIII contro Filippo il Bello, nella quale sl affermava la sovranità papale universale:

“Le parole del Vangelo insegnano che la potestà (del Cristo) comporta due spade, la spirituale e la temporale... Entrambe pertanto sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e la spada temporale. Questa però va esercitata per la Chiesa, quella dalla Chiesa. Quella dalla mano del sacerdote, questa dalla mano dei re e dei soldati, ma in forza di una decisione del sacerdote o almeno con il suo accordo La spada (temporale) quindi deve essere sottomessa alla spada (spirituale) e l’autorità temporale sottomessa all’autorità spirituale... Lo attesta la Verità: spetta alla potestà spirituale stabilire la potestà terrena e giudicare se essa non è buona”.

Il diritto civile conquisterà la sua autonomia solo attraverso un processo di desacralizzazione dell’ordine giuridico: cosa ancora lontana al tempo di Alfonso, che per aspirare al dottorato in diritto dovrà prima esibire l’attestato del matrimonio religioso dei genitori e il suo certificato di battesimo 23 . Tuttavia la legittima autonomia della società secolare già fermentava in sordina e il nostro giovane cavaliere, studente in diritto civile e canonico, non solo ascolterà nelle due facoltà maestri rispettosamente ma fermamente anticurialisti, ma sarà anche, con qualche altro studente, da loro integrato in un’accademia decisamente regalista, raccolta Intorno ai Caravita, dei quali Nicola era diventato da poco celebre con la pubblicazione nel 1707 di una dissertazione rigorosa, frutto del suo salotto letterario, Nullum jus Romani Pontificis in Regno Neapolitano, che era considerata il grido storico dell’anticurialismo incollerito.

Non ci si fermerà solo alla contestazione, perché la legge fisica scoperta da Newton proprio in questo tempo (ad ogni azione corrispon-

 

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de una reazione uguale e contraria) varrà spesso e normalmente anche sul piano morale e giuridico: dal momento che la Chiesa aveva tenuto sotto tutela (e come!) le teste coronate e il potere temporale, i giuristi e i governanti cristiani laici pretenderanno di piegare a loro piacere il potere spirituale della Chiesa. A ciascuno il suo turno! Ritorsione abusiva evidentemente come già lo era stato il dominio ecclesiastico, ma facilmente spiegabile, perché non possiamo aspettarci laici meno peccatori dei preti. A un clericalismo intollerabile risponderà un anticlericalismo altrettanto intollerabile, che si incarnerà, per quanto riguarda il fondatore dei Redentoristi, in Bernardo Tanucci (1698-1783).

 

Per il momento il nostro studente si sprofonderà - allegramente speriamolo- nell’immensa palude delle leggi, condotto da guide che lasceranno un nome nel pensiero e nella letteratura giuridica, come Aulisio e Caravita, Cusano e Capasso, che, affidate ai colleghi delle facoltà di filosofia e di teologia le vuote elucubrazioni, camminavano sul terreno dell’origine e dello sviluppo storico dei costumi e delle leggi facendo diritto positivo, cioè storico, come più tardi si farà teologia positiva. Alla loro scuola Alfonso imparerà meglio - Descartes lo aveva già messo sulla strada - l’indipendenza di spirito, l’orrore per l’inflazione verbale, il senso del concreto e delle situazioni, la sicurezza, infine, di un giudizio estraneo a ogni passionalità di scuola, guidato prima di tutto dall’amore del prossimo, cioè, in ultima analisi, dallo Spirito Santo.

Il giurista infatti non inaridiva o soppiantava in lui il cristiano, come capitava ad altri; mentre avanzava nell’esplorazione delle leggi “il fanciullo - possiamo ancora dare questo nome al nostro precoce universitario - cresceva in sapienza e in statura dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini” (Lc 2, 52); ogni giorno aveva la messa celebrata nella cappella domestica da Don Buonaccia, sempre di casa, e i suoi appuntamenti di preghiera con la madre; trascorreva sempre le domeniche, tranne il pranzo, presso i Girolamini tra l’assoluzione mattutina del P. Pagano e le laudi della sera, nel fervore e la gioia della solenne eucaristia e dell’oratorio di S. Giuseppe. Dal 1707 fece parte del gruppo dei responsabili della confraternita dei giovani nobili, prima come contabile e sagrestano, poi come coordinatore della liturgia, consigliere, segretario e infine, dal 1711 al 1713, come maestro dei novizi; in questo ufficio, quando il 15 agosto 1715 passerà alla Congrega dei Dottori, gli succederà il fratello Antonio, futuro benedettino 24.

Antonio e Gaetano, che lo accompagneranno ai Giovani Nobili dal settembre 1712, vivevano in casa sotto la ferula bonaria di Don Buonaccia; Barbara e Annella invece crescevano lontane dal focolare, claustrate tra le Francescane del monastero di S. Girolamo e Maria

 

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Teresa gironzolava e balbettava intorno alla mamma con Ercole, il piccolo ultimo arrivato, riempiendo di sole le giornate di chi avrebbe rischiato di intristire tra le Pandette e i Commentari dei grandi giureconsulti.

 

Incentrato sugli studi del primogenito, il focolare dei Liguori viveva ormai nel cuore della città: in Via dei Tribunali, a cinque minuti da S. Domenico Maggiore e dai suoi Studi, quasi sulla porta della chiesa del Purgatorio ab Arco (al n. 39), appartenente alla Confraternita delle Anime Purganti, che aveva dato il nome al quartiere, a cinquanta passi dalla minuscola chiesa parrocchiale di S. Angelo a Segno (al n. 44), trasformata oggi in volgare magazzino tra due enormi costruzioni.

Di fronte, all’altezza della chiesa del Purgatorio, comincia l’Arco le cui volte si dispiegano per centocinquanta metri lungo la strada in un vecchio porticato mercantile, percorso da Alfonso ogni giorno per ventun anni. Tutto è rimasto talmente uguale dopo due secoli, che è facile immaginarcelo camminare svelto o attardarsi tra la gente e le bancarelle che offrivano la tavolozza multicolore e profumata della frutta meridionale (olive e uva, arance e limoni, pere e mele, pesche e fichi, noci e castagne); legumi secchi (ceci, fave, fagioli), “la carne dei poveri”, si mescolavano alla verdura (lattughe, cavoli, insalate) e al rosso vivo dei pomodori (la minestra del Mezzogiorno non conosceva ancora nel secolo XVIII il mais e la patata); qui uno spaccio di carne venata, i riflessi argentati dei pesci e dei frutti di mare con il loro acre odore salato.

I Liguori avevano quindi a portata di mano un mercato sempre aperto e ben provvisto. La longevità, rara per il tempo, dei genitori, che festeggeranno le nozze d’oro, e della maggior parte dei figli ci fa supporre che si nutrissero bene, a metà strada tra gli eccessi che uccidono e la parsimonia che porta al deperimento.

All’inizio di questo mercato coperto, a sinistra, sorgeva l’imponente S. Paolo Maggiore dei Teatini, dove erano vissuti e morti di recente due santi, Gaetano da Thiene (1547) e Andrea Avellino (1608)- questo vicinato spirituale non lascerà indifferente il nostro giovane- ; pochi passi più lontano, a destra, S. Lorenzo Maggiore, puro monumento gotico ( 1270) non mascherato dal gesso barocco, affiancato dal monastero dei Conventuali, la cui grande sala capitolare ospitava i consigli della Città: Alfonso vi parteciperà come deputato di Portanova.

Cinquanta metri avanti sul lastricato nero di questa Via dei Tribunali, a sinistra, i Girolamini, Pagano, l’oratorio; poi, subito, Via Duomo e la cattedrale; infine, un po’ più lontano, la massa enorme di Castel

 

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Capuano, i Tribunali, che avevano dato il nome a quest’asse vertebrale della città: aspettavano il nostro futuro avvocato.

Aperta da est ad ovest dai primi viceré spagnoli, quasi rettilinea ma stretta al punto che due carrozze incrociandosi passavano a fatica Via dei Tribunali non era lunga più di un chilometro, tuttavia sarà la spina dorsale lungo la quale saranno raggruppati per quindici anni i centri nervosi dell’esistenza di Alfonso: la casa, le facoltà di diritto, la chiesa parrocchiale, la Città o supremo consiglio municipale della capitale, l’oratorio, la cattedrale (con il seminario sul fianco nord e Largo Donnaregina dove tenevano salotto i Caravita) e, infine, i Tribunali.

 

Non dimentichiamo però, all’altra estremità della strada, il piccolo santuario di S. Maria della Redenzione dei Cattivi o Madonna della Mercede, a soli cinquecento metri da casa de Liguori, all’angolo tra Via S. Pietro e Via S. Sebastiano, vicino a Portalba.

Cattivi, cioè prigionieri, erano i numerosi schiaviturchi”, riconoscibili dai crani rasati sormontati da un ciuffo di capelli, che ogni giorno si vedevano, non solo ai remi delle galere ma in tutto il Regno; secondo la mentalità del tempo era opera doppiamente pia catturarli e trapiantarli in terra cattolica, privandoli così della possibilità di nuocere ai cristiani e offrendo loro la vera fede.

Però chi la fa l’aspetti: molti cristiani, razziati lungo le coste o sul mare, gemevano in terra d’Islam e, benché attenuato, restava sempre il pericolo di nuove incursioni barbaresche, soprattutto per le isole del golfo. I napoletani, il cui buon cuore e la cui anima religiosa reagivano con la stessa impetuosità del Vesuvio, versavano somme enormi per il “riscatto” (redenzione, mercede) dei fratelli privati a forza della libertà e minacciati nella fede 25 ; donazioni reali e principesche, sussidi delle città e delle istituzioni di beneficenza, prediche e questue dei religiosi (trinitari, mercedari, francescani, recolletti, gesuiti), attività di confraternite, i cui membri versavano regolarmente una elemosina e a messa facevano girare il “piatto dei cattivi”, sfociavano nel Monte della Redenzione degli Schiavi; con i fondi raccolti missionari diplomatici riportavano poi in patria qualche decina, raramente un centinaio di “redenti”.

A Napoli era sorta con grande slancio una confraternita, riconosciuta da papa Giulio III nel 1549, che aveva costruito la sua chiesa e la sua sala di adunanza sotto il patrocinio della Madonna della Mercede 26 , Francesco de Geronimo, più sensibile alla sventura dei cristiani prigionieri in Africa del Nord perché “padre” dei galeotti musulmani, ne era il più ardente promotore: questuava, “picchiava”presso gli amici trasformandoli in questuanti (non era possibile resistere alla sua santità), portando così la sua fervorosa efficienza ai confratelli della Re-

 

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denzione, che incontrava, le mani piene di denaro e il cuore pieno di preghiera, al piedi della Madonna della Mercede, a soli pochi passi dalla sua residenza del Gesù Nuovo 27 .

In quest’opera di riscatto i primi ad essere coinvolti erano gli uomini di mare e le loro famiglie, che del resto erano proprio i più minacciati. Chi potrà dubitare che il padre de Geronimo non abbia comunicato il suo sacro fuoco prima di tutto a Don Giuseppe e ai suoi? La vita sulle galere e il dramma degli schiavi non aveva forse unito dal 1685 le loro strade e rinsaldato la loro amicizia? S. Maria della Mercede era certamente e da lungo tempo luogo d’incontro e di preghiera per i Liguori; peccato che gli archivi siano andati perduti 28 !

La Madonna della Mercede li attenderà d’ora in poi a cinque minuti dal nuovo domicilio. Per Alfonso era il più vicino santuario della Vergine Madre, amata tanto da portarne sempre su di sé l’immagine, fino alla vecchiaia troverà la Signora delle sue “visite”; non verrà mai a Napoli, anche da vescovo, senza andare a prostrarsi a lungo ai suoi piedi. “Questa Madonna mi ha fatto lasciar il Mondodirà un giorno al rettore della chiesa 29 .

È possibile indovinare la preghiera, che il giovane cavaliere le veniva a ripetere con ardore, dal suo piccolo poema, musicato e cantato più tardi:

 

Sai che vogl’io,

Dolce Maria?

Speranza mia,

Ti voglio amar.

 

Voglio star sempre

A te vicino

Bella regina,

Non mi cacciar.

 

E poi tu dimmi

Vaga mia rosa,

Madre amorosa,

Che vuoi da me?

 

Più non so darti

Eccoti il core;

Per man d’amore

Lo dono a te 30

 


 

1

 

 





p. 82
1 Citato da TELLERIA, 1, p 24, n. 10.



p. 83
2 F NICOLINI, citato da TELLERIA, I, p. 24, n. 10.



3 G. RICUPERATI, “Napoli e i Viceré austriaci 1707-1734 ”, in Storia di Napoli, VII, pp. 374-381; B. DE GIOVANNI, “La vita intellettuale a Napoli fra la metà del ‘600 e la restaurazione del Regno”, Ibid., VI, pp. 457-459.



4 P. HAZARD, La crise de la conscience européenne (1680-1715), tom. II, Paris 1935, p. 245.



p. 84
5 GIANNONE, op. cit., 1. XXXVIII, c. 4; CROCE, op. cit., pp. 146-149.



6 TELLERIA, I, p. 29.



p. 85
7 COLLETTA, op. cit., 1. I, c. 1, XII.



8 MANNA, citato da A. FREDA, in Contributi, p. 98.



9 DE GIOVANNI, op. cit., pp. 438-440.



10 TANNOIA, I, p. 9.



11 Encyclopaedia universalis, X, p. 725.



p. 86
12 Per le pagine precedenti, cf. Contributi, pp. 91-96, 104-108, 134-137; TELLERIA, I, pp. 29-31;

RICUPERATI, op. cit., pp. 374-381; DI GIOVANNI, op. cit, pp. 457-459; BOUVIER-

LAFFARGUE, op. cit., pp. 83-84.



p. 87
13 TELLERIA, I, p. 24; RICUPERATI, op. cit., pp. 378-380.



14 Contributi pp 87-88



15 “S. Alfonso”, 8 (1937), pp. 214-215; Contributi, pp. 89 e 95.



16 Summarium, p. 69.



p. 88
17 TANNOIA, I, p. 9



18 Contributi, pp. 73-75, 95; SH 20 (1972), pp. 325-326.



19 A. CAPECELATRO, Vita del Padre Rocco, Siena 1881, pp. 67-70, 86-91; G. M. GALANTI, op. cit., 1. I, c. VII, par. VIII; DE MAIO, op. cit., p. 127.



20 G ROSSI, Della vita di mons. Don E. G. Cavalieri, Napoli 1741, p. 11.



p. 89
21 TANNOIA, I, p. 9.



p. 90
22 DE MAIO, op. cit., pp. 35-39



23 Contributi, p. 90; TELLERIA, I, p. 36.



p. 91
24Analecta”, 31 (1959), pp. 307-312.



p. 93
25 CROCE, op. cit., p. 131; DE MAIO, op. cit., p. 135.



26 C. CELANO, Delle notizie... della città di Napoli, Napoli 1692, Giornata seconda.



p. 94
27 D’ARIA, op. cit., p 619



28 SH 7 (1959), pp. 238-239



29 TANNOIA, I, p. 26.



30 O GRECORIO, Canzoniere Alfonsiano, p. 264.



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