Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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Parte prima “NOBILE, GIOVANE E RICCO” (1696-1723)

8 - IN DISEGNO, PITTURA E ARCHITETTURA “ RIUSCI’ A MARAVIGILIA ALFONSO... ”

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8 - IN DISEGNO, PITTURA E ARCHITETTURA

RIUSCI’ A MARAVIGILIA ALFONSO... ”

 

“ Se si voleva da Don Giuseppe, e da Donna Anna, che il loro figlio fosse illuminato nelle lettere, ed ottimo Cristiano, il volevano adorno ancora delle virtù Cavalleresche. Anche da ragazzo se li destinarono in casa maestri per lo disegno così in pittura, che in architettura1 .

Nel cuore dei genitori di Alfonso, soprattutto in quello di Don Giuseppe, ogni mattina si ridestava l’ambizione sempre nuova e forte di fare del figlio un “signore”, un grande signore. In una società fondata sul prestigio e sulla ostentazione occorrevano la “ facciata ” e la “ indoratura ” del bel parlare, dell’erudizione scintillante su tutto il sapere dispensato dalla “ filosofia ” e ancor più della dimora avita il cui interno poco confortevole era nascosto dietro la facciata barocca, imponente e splendida, fastosa e grottesca, come scriverà il presidente de Brosses a proposito del palazzo Borghese, non dissimile dalle altre residenze:

“Tutti questi grandi appartamenti, così vasti, così superbi, stanno per gli estranei: non sono abitabili dai padroni di casa, non avendo né accessori, né latrine, né mobili di servizio; e di tutto ciò non vi e niente perfino negli appartamenti superiori dove si abita2 . Si potrebbe aggiungere: né tappezzerie, né persiane, né riscaldamento - il fuoco era malsano!, - eccetto, per sgranchirsi le mani, gli scaldini, piccoli vasi di maiolica pieni di brace. Compito principale della “casa palazziataera presentare un’apparenza principesca.

L’uomo di classe, che aveva interesse a “curare la facciata”, sola immagine che valeva, doveva intendersi di architettura, potendo così dirigere con gusto e competenza le costruzioni, i restauri e gli abbellimenti dei suoi palazzi e dei suoi padiglioni.

Infatti Alfonso maneggerà spesso la riga e la matita, fisserà da sé i piani dei suoi conventi e delle sue chiese, correggerà con mano da intenditore i progetti dei suoi architetti, anche se non costituirà una minaccia per la gloria di un Vanvitelli 3 !

 

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Tannoia ci fa sapere che Don Giuseppe era appassionato di musica, ma non parla del suo amore per la pittura, forse perché ogni italiano nasce con un pennello in mano e quindi è inutile ricordare tale genialità nazionale come “segno distintivo”. Ma questo non è altrettanto vero per la musica?

Ancora de Brosses sottolinea questa passione italiana per la pittura:

“Tutto l’ornamento dei vani consiste in quadri, di cui le quattro pareti sono ricoperte dall’alto in basso, con tanta profusione e così poco stacco che l’occhio ne è spesso tanto affaticato che divertito. Oltre al fatto che essi non fanno quasi alcuna spesa in cornici, essendo così la maggior parte dei quadri vecchi, anneriti e meschini, per metterne insieme una così enorme quantità, è necessario mischiare un gran numero di cose mediocri alle belle4 .

Infatti i nonni di Alfonso avevano investito largamente in quadri: Don Domenico de Liguori alla sua morte nel 1728 ne lascerà una ventina, che Don Giuseppe si aggiudicherà d’autorità, sordo alle contestazioni durate sei mesi della sorella Ippolita del Balzo, che ne reclamava quattro. Tirchieria? Piuttosto passione per la pittura, condivisa del resto dalla moglie, il cui padre, Don Federico Cavalieri, in un inventario del 1704 affermava di possedere un centinaio di tele, parte di dilettanti parte di grandi maestri, senza contare quelle già donate ai suoi figli maggiori per la casa o... per l’episcopio. Proprio Giacomo, vescovo di Troia e Foggia, nel 1723 cederà come una fortuna per una fondazione dei Gesuiti “li quattro pezzi di quadri di Solimena che sono in Foggia5 .

Solimena, discepolo di Luca Giordano (1634-1705), era arrivato a Napoli alla chetichella nel 1676, lo stesso anno dell’allora giovane (trentaquattro anni) Francesco de Geronimo e, come lui, al Gesù Nuovo, dove i buoni padri stavano restaurando la cappella di S. Anna col proposito di farvi dipingere un’Assunta. Lo schizzo prescelto tra mille altri in seguito ad un concorso, era di uno sconosciuto che non aveva avuto neppure il coraggio di presentarlo di persona, temendo di non essere preso in considerazione per la sua giovane età: si chiamava Francesco Solimena (1657-1747) e aveva solo diciannove anni. Più volte i concorrenti eliminati passeranno in cappella a vederlo dipingere, non senza una segreta gelosia per questo ragazzo così dotato non solo da superarli tutti 6 , ma da essere adottato prima dai Gesuiti poi, molto rapidamente, da tutta Napoli e ben presto dal Regno intero.

Poiché il barocco era prima di tutto architettura dipinta e scolpita, Solimena, ultimo grande rappresentante di quello napoletano e uno dei pochi artisti completi della storia delle arti plastiche, fonderà con genialità le tre dimensioni della creazione artistica nel suo pensiero, nella

 

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sua mano e nel suo insegnamento. Architetto, pittore e modellatore, questo prodigioso mago del barocco impronterà del suo stile e del suo movimento tutta l’arte partenopea del settecento, dai monumenti architettonici fino ai pastori di terracotta dei presepi, passando evidentemente per la pittura. Sarà soprattutto il caposcuola dell’Accademia pittorica napoletana, perché formerà centinaia di discepoli e perché “dipingere alla solimenescadiventerà nel Meridione l’ambizione di tutto il secolo XVIII.

All’inizio del secolo Solimena andava verso i cinquant’anni ma per lungo tempo ancora sarà pieno di forza e di gloria.

 

Come il cavaliere de Liguori incontrò il Solimena? Certo per il suo primogenito non poteva accontentarsi che del migliore; ma c’era di più.

Il prestigioso artista restava legato ai Gesuiti, che per primi lo avevano valorizzato, abbozzando per loro una celebre Madonna e S. Ignazio e il tumultuoso affresco di Eliodoro cacciato dal Tempio sulla parete interna del muro di ingresso del Gesù Nuovo. Perché non pensare allora che sia stato Francesco de Geronimo a introdurre l’amico Don Giuseppe nella bottega del Solimena?

Di certo rimane la sorprendente pagina di B. de Dominici pubblicata nel 1745 nelle Vite de’ pittori:

“D. Giuseppe di Liguoro, Cavaliere napoletano, si applicò ancor egli con gran genio al disegno, e volle per maestro Francesco Solimena, con la di cui direzione fece qualche cosa, copiando l’opere sue. Ma lasciando poi di colorire a olio, si volse a dipingere in miniatura, ed in tal modo ha fatto moltissime cose con sua lode, da poiché, virtuosamente applicando il tempo, è venuto a guadagnarsi il nome di Virtuoso, ed a far Si che il suo nome resti meritevolmente eternato.

Egli, acciocché non venghi disturbato dalle cure domestiche, suole per lo più ritirarsi a Marianella, casale vicino Napoli, ove, benché fatto vecchio, tuttavia dipinge le sue miniature, delle quali suole far dono ai suoi più cari amici, e ad altre persone di merito7 .

Questa pagina di storia minore, scritta a caldo e con una punta di iperbole mentre il vecchio ufficiale era ancora in vita (morrà all’uscita del libro nel 1745, cioè due anni prima di Solimena), se non apre a Don Giuseppe le colonne delle enciclopedie d’arte, a noi la possibilità di lanciare uno sguardo sui suoi gusti e sulla sua cultura, sul suo riposo tranquillo e, soprattutto, sulla formazione pittorica del suo primogenito Alfonso, che quindi crebbe non solo in una galleria di quadri, ma anche tra i colori e i pennelli. Come non pensare allora che il maestro di pittura e senza dubbio di architettura datogli dal padre non sia stato quello stesso del quale anche il genitore seguiva le lezioni?

In casa il ragazzo ebbe “maestri per lo disegno”, dice il metico-

 

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loso Tannoia: uno per il disegno artistico, l’altro per la tecnica e l’estetica dei piani e degli stili. Solimena e un assistente? È probabile, perché già allora il denaro dettava legge, il P. Francesco probabilmente raccomandava e i Liguori-Cavalieri diventavano personaggi importanti.

Più tardi unico luogo valido di lavoro sarà la bottega del maestro. De Dominicis ci ha mostrato Don Giuseppe intento a copiare le tele del Solimena, la cui polivalente scuola negli anni in cui Alfonso usciva dall’infanzia attirava numerosi giovani, formando i migliori architetti, scultori e pittori del Regno, come Paolo De Maio (17031784) e Francesco De Mura (1696-1782), ai quali Alfonso sarà legato per tutta la vita da un’amicizia nata tra tavolozze e cavalletti, senza dubbio alla scuola di Solimena 8 .

 

In disegno, pittura e architettura, “riuscì a maraviglia Alfonso; e vivendo tra di noi, ancorché vecchio, non lasciava abbozzare, secondo veniva animato dalla propria divozione, delle varie Immagini, specialmente di Gesù o Bambino, o Crocifisso, e delle tante in onore di Maria SS., che, a beneficio comune, non mancò di far incidere in varj rami ”, prosegue Tannoia, fedele biografo, scoprendoci una pista originale, poco esplorata e che ci porterebbe lontano.

Come il padre, Alfonso de Liguori non lascerà scritto il suo nome in lettere maiuscole nella storia della pittura anche solo regionale, però buon allievo di Solimena e legato da amicizia artistica e spirituale con De Maio e De Mura, non sarà uomo da sotterrare un talento senza sfruttarlo a fondo per Dio, per Maria, per gli altri, per se stesso. Perciò per comunicare tutto il fuoco che lo divorava, dirà, canterà, griderà la sua fede, il suo amore e la sua contemplazione con la pittura e il disegno, la musica e la poesia, la parola e la scrittura.

Se non dimentichiamo il suo fervore infantile, la sua paura del peccato e la sua estasi nel giardino di Miradois, saremo meno sorpresi dalla sua profonda emozione a ventitré anni di fronte al Crocifisso un giorno del 1719, la stessa che nel 1553 aveva sconvolto Teresa di Ahumada dinanzi all’Ecce homo dell’oratorio di Avila dalle carni tumefatte e lacerate da enormi ferite. Alfonso si affretterà a fissare su una grande tela (m.1 x 1,50 circa) la sua tragica visione del Crocifisso, sprofondato nella sua morte d’amore, scorticato e sanguinante, già grido di stupore commosso che i suoi scritti ripeteranno spesso:

Anima mia, alza gli occhi e guarda quell’uomo crocifisso. Guarda l’agnello divino già sacrificato su quell’altare di pena. Pensa ch’egli è il Figlio diletto dell’Eterno Padre; e pensa ch’è morto per l’amore che t’ha portato. Vedi come tiene le braccia stese per abbracciarti, il capo chino per darti il bacio di pace, il costato aperto per riceverti nel suo Cuore. Che dici? merita d’esser amato un Dio così amoroso? Senti quel-

 

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lo ch’egli ti dice da quella croce: Vedi Figlio, se vi è nel mondo, chi t’abbia amato più di me” 9 .

Alfonso farà riprodurre, ingrandito da pittori dilettanti per tutte le sue comunità e per tutte le sue compagnie di missionari itineranti e moltiplicare e diffondere in immaginette, questo Cristo sofferente 10 .

L’originale che si ammira a Ciorani, tradito dalle copie rosso vivo, sorprende per la discrezione delle tinte e la serena tenerezza del volto Alfonso a ventitré anni aveva meditato ed espresso sulla tela la morte dell’Amore che noi abbiamo ucciso; certamente morte atroce sotto i colpi del peccato ma nel perdono, nella pace ritrovata con Dio, nella salvezza; morte di amore vittorioso, morte di un Dio.

 

Affermata questa sicura speranza, tratterà facilmente, con un realismo ricco di humour macabro, la morte umana del presuntuoso quando, diventato prete e fondatore, è ancora Tannoia che parla, “volendo additare qual gruppo di marciume sia l’uomo in se stesso, delineo a fumo il cadavere di Alessandro il Grande, tutto difformato ed intorniato da topi, con iscriverci di sotto” due strofe di una sua canzoncina di cui diamo la prima:

 

“Ecco dove finisce ogni grandezza

ogni pompa di terra, ogni bellezza:

vermi, lutto, vil pietra o poca arena

chiudono al fin d’ognun la breve scena”.

 

Questa “predica” sarà per i suoi novizi di Ciorani, analoga a quella per i suoi studenti:

“Nel refettorio della casa d’Iliceto, continua Tannoia, si vede un altro scheletro, ma ben grande attorniato da topi, e da marciume”; vicino alla testa, una clessidra con l’iscrizione: “È finita l’ora”; accanto ai piedi, una lampada spenta con il suo ultimo fumo: “È terminato l’olio”; sul fondo del quadro, a grossi caratteri che colpiscono: “O tu che leggi, vedi quale ai da essere un giorno11 .

Gettato nel turbinio scintillante della nobiltà, testimone lucido della corsa agli onori e del bluff universale, Alfonso era ai primi posti per osservare che “il fascino della frivolezza fa perdere il senso dei valori” (Sap. 4, 12). A questo genere di follia, con il pennello e la penna, preparava una doccia fredda, una visita al cimitero:

“Hanno fatto gran fortuna un tempo su questa terra un Alessandro Magno, un Cesare Augusto; ma da tanti secoli questa loro fortuna e gia finita... Tutte le fortune in somma di questa vita vanno a finire ad un funerale e ad esser lasciato a marcire in una fossa. L’ombra della morte cuopre ed oscura tutti gli splendori delle grandezze terrene. Bea-

 

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to dunque solamente chi serve a Dio in questa terra, e con servirlo ed amarlo si acquista l’eternità felice12 .

Disprezzo del mondo? disillusione di vecchio? Al contrario, sguardo chiaro del giovane abitato dallo Spirito. Quando sobriamente elegante, con un lacché alle calcagna a meno che non andasse in carrozza era costretto a subire la conversazione mondana e inutile di qualche salotto facoltoso, In casa dei Salerno, dei Crivelli o dei D’Afflitto, faceva pazientemente onore alla sua famiglia e ai suoi ospiti, benché tutto questo costituisse per lui un supplizio e, rientrato a casa sfinito, lasciava sfogare il suo disgusto di fronte alla madre che gli diceva: “Mio povero Alfonso, e dove dobbiamo trovare una conversazione per te?” 13 .

Scommettiamo che, rifugiatosi in camera sua, senza cattiveria si metterà a disegnare lo scheletro della bella duchessa o il cranio senza parrucca dell’alto magistrato!

Ma non gli verrà mai l’idea di far riprodurre e diffondere gli Alessandro Magno, perchè questo piccolo brivido realista davanti alla morte conterà per lui molto meno della contemplazione del Crocifisso.

Il Cristo di Ciorani è firmato, in alto a destra, con le iniziali dell’autore: “A.M.D.L.” (Alfonso Maria de Liguori) e la data: 1719.

Certamente della stessa epoca è la Madonna di S Alfonso, la cui pennellata è chiaramente la stessa del Crocifisso e la visione quella del mistico; aureolato dalle dodici stelle dell’Apocalisse, appare un volto fine e intensamente spirituale al di di ogni arte. Nessuna Vergine di Raffaello invita tanto al silenzio e alla preghiera.

Il giovane Alfonso così vedeva la donna, così vedeva Maria e per tutta la sua vita sarà preso dall’incantesimo di questa visione. Probabilmente verso il 1764, su suo invito, l’amico De Maio la riprodurrà senza superarla, sostituendo le stelle con un’aureola e completando con busto e mani l’ovale del viso che sarà sempre lo stesso di divina bellezza: la Madonna di S. Alfonso.

Il pennello del brillante avvocato schizzerà inoltre una Madonna dello Spirito Santo affidandone il completamento all’altro amico, De Mura, e una Divina Pastora che De Maio rifinirà. Disegnerà nuovamente con gioiosa tenerezza “la sua Vergine” per il frontespizio delle Glorie di Maria, perché per Alfonso sarà un sogno sempre rinascente il prendere la penna o i pennelli per ridire sulla carta o sulla tela la sua ammirazione e il suo amore per “Mamma Maria”, al fine di incantare e toccare gli altri, come una parola d’amore mai abbastanza detta.

Testimonierà il Tannoia al processo apostolico: “Essendo vescovo, ne riuscì un’immagine così bella e divota (della Madonna), che non saziavasi di vederla e riguardarla, ripetendo sempre: È bella ! . . . è bella!” 14 .

Era l’estasi.

 

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La prima parola in pubblico di Alfonso sull’amore fatto uomo, sul peccato, sulla redenzione fu quindi il suo Cristo in croce; la sua prima parola di tenerezza filiale su Maria fu la sua Madonna. Ricco di immaginazione, la sua intensa visione interiore doveva passare anche per le mani, proiettandosi nella pittura e nel disegno; ricco di sensibilità, ogni -immagine espressiva (un presepe, un Crocifisso, una bella Madonna ) lo commuoveva vivamente, proiettandolo subito in un incontro vivo e caloroso con Gesù e con Maria, come, d’altra parte, ogni sguardo lo rendeva particolarmente disponibile all’incontro con le persone. Per innamorarsi di un Dio bambino, di un Dio crocifisso, di sua Madre Maria, terrà sempre a portata di mano una delicata statuetta di Gesù in culla, un drammatico Crocifisso dal forte realismo, una dolce pittura della Madonna. Leggiamo tra le altre la testimonianza del suo segretario episcopale, Don Felice Verzella:

Teneva sempre avanti esposta la sua Immagine detta del Buon Consiglio, e tante volte io lo viddi, e l’udii fare atti di amore, e di confidenza con altri affetti, e preghiere verso la santa Signora, ed ordinariamente a tutti coloro, che venivano a ritrovarlo per qualche affare di coscienza tanto Diocesani, che Forastieri, regalava qualche Immagine di Maria SS. inculcando la sua divozione e soleva dire: “Questa è la Mamma nostra, che ci ha da portare in Paradiso; Questa è quella, che ci ha da ajutare in punto di morte; Poveri noi, se non avessimo questa gran Madre di Dio 15 .

Alfonso credeva in questo impatto santificante del visivo, perché lo sperimentava, perciò la prima “parola” di quasi tutte le sue opere spirituali e di numerosi suoi trattati dommatici sarà un’illustrazione, immaginata e disegnata personalmente per concretizzare fin dal frontespizio l’idea madre. In maniera particolare, delineerà, con la sua mano e con il suo cuore, due versioni della sua ammirabile Madonna (1750 e 1756), quale prima testimonianza di perfetto amore all’inizio delle Glorie di Maria: il capolavoro del figlio, dell’operaio, del cavaliere ispirato dalla Madre, dalla Signora e realizzato per lei “il meglio possibile”.

Normalmente le stampe, come oggi i francobolli, portavano il nome del disegnatore, ma Alfonso non vi metterà il suo, per umiltà, come si asterrà anche dal farlo figurare sulle prime sue opere. Per lo stesso motivo, se queste illustrazioni fossero state di un altro, le avrebbe attribuite in maniera esplicita al loro autore; la verità glielo proibiva, perché frutto della sua inventiva e della sua mano. Delle diciassette stampe esaminate solo quattro portano il nome del calcografosculpsit” o “incidit”) e nessuna quella dell’autore o del disegnatore (“delineavit”). Così quante altre illustrazioni sacre della fede e dell’inchiostro di questo Dottore della Chiesa si saranno diffuse rapidamente,

 

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come predicazione figurata, tra il buon popolo napoletano! Come allora non prendere in considerazione la testimonianza del Tannoia, secondo la quale il vecchio Alfonso, dopo il suo episcopato, continuava ancora a disegnare immagini di Gesù e di Maria e a farle incidere sul rame per moltiplicarle? Ci sarà uno specialista che si interesserà di rintracciarle?

Le stampe di Alfonso per la testata delle sue opere, a noi pervenute, sono di un evidente simbolismo (dovevano parlare ai semplici), di un disegno preciso e nitido, di una grande finezza, animate dal movimento ispirato allora dal barocco e dalla scuola di Solimena. La Chiesa del suo Trionfo della Chiesa (1772), rappresentata da una galera in pieno uragano, sollevata da onde furibonde, rispecchia la sua osservazione meticolosa e... la sua emozione filiale 16 .

 

I biografi di Alfonso hanno solo sfiorato queste piste ben precise e forse qualcuno darà loro ragione: “Un prete, un vescovo, per di più in pensione, che perde il tempo nel maneggiare pennelli, matite, penne, inchiostro di china è un uomo di poco peso!”. Ma chi la pensa così svolazza, quasi leggera farfalla, nei cieli dell’intellettualismo.

Accanto a Solimena, Alfonso svilupperà sia quella sua dimensione umana, che gli permetterà di andare incontro all’anima popolare, di commuoverla con le visioni, come il popolo delle cattedrali, e non gia solamente con le parole per quanto ardenti, sia quella dimensione personale che lo farà sentire parte di questo popolo, per il quale l’immagine e il sacramento della presenza. Quale spirito eletto, se rimasto umano, non darà un grande valore ai ritratti di coloro che ama? Avvocato, missionario, vescovo, scrittore di fama europea, Alfonso non si separerà mai da ciò che resterà per lui “memoriale” degli incontri mistici della giovinezza: il suo Crocifisso e la sua Madonna.

Prenderà posto con modestia tra i pittori dilettanti, tuttavia la sua visione del Redentore e della Madre forzerà il suo pennello a superare l’ispirazione dei grandi, tanto che i due pittori suoi amici, Paolo De Maio e Francesco De Mura, che incideranno sull’arte napoletana del settecento, impronteranno i volti della Vergine e del Cristo alle sue tele e al suo contatto di fuoco.

Cosciente come il padre dei propri limiti dinanzi alla tavolozza e al cavalletto, Alfonso si sentitrà maggiormente a suo agio con una matita o una penna in mano. Don Giuseppe aveva optato per la miniatura, Alfonso diventerà un “virtuoso” dell’incisione, “fin nella vecchiaia”, con mano che non tremava.

Come non firmerà i suoi disegni che avrebbero potuto dargli un nome, così non firmerà le sue composizioni musicali.

 


 

 

 

 





p. 96
1 TANNOIA, I, p. 8.



2 Citato da VAUSSARD, op. cit., p. 36.



3 TANNOIA, ibid.



p. 97
4 Citato da VAUSSARD, ibid.



5 SH 14 (1966), p. 395; “Analecta”, 32 (1960), pp. 290-293. Don Ercole, ultimo fratello di Alfonso

e erede delle pinacoteche dei Liguori e dei Cavalieri al pari del loro gusto per la pittura, lascerà nel

1780 un “museo” di circa 250 tele.



6 BACH, op. cit., pp. 584-585.



p. 98
7 Citato da D. CAPONE, Il volto di Sant’Alfonso, p. 4.



p. 99
8 Enciclopedia cattolica, vol.12, art. Solimena”; CAPONE, op. cit., p. 5.



p. 100
9 Via della salute: Opere ascetiche, X, pp. 214-215.



10 Summarium, pp. 263, 265, ecc.



11 Cf. CAPONE, op. cit., p. 6.



p. 101
12 Via della salute: ibid., pp. 34-35.



13 Citato da CAPONE, op. cit., p. 54.



14 CAPONE, op. cit., pp. 111-112, 129-145.



p. 102
15 Summarium, p. 296 e passim.



p. 103
16 CAPONE, op. cit., pp. 120-128.



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