Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
Lettura del testo

Parte prima “NOBILE, GIOVANE E RICCO” (1696-1723)

10. - UN AVVOCATO DI SEDICI ANNI (1713-1723)

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10. - UN AVVOCATO DI SEDICI ANNI

(1713-1723)

 

Assoggettato dal padre ai “lavori forzati”, intellettuali e artistici, Alfonso assaporò la sua infanzia e la sua giovinezza sfiorandole solo con le labbra. Giovane e napoletano dovette però amare doppiamente la vita, come ce lo fa sperare il suo gusto per il gioco tanto strettamente imbrigliato dal temibile capitano, contrariamente all’opinione di alcuni suoi biografi.

Ma amava la vita per riempirla, non per sciuparla, avendo fin dall’infanzia attinto dai genitori - e dallo Spirito che viveva in lui - l’orrore per il “dolce far niente” sfoggiato dai gentiluomini; per nulla cavaliere sotto questo punto di vista, nel filone ancestrale della nobiltà generosa, menava egli... una vita laboriosa, come ogn’altro studente d’inferiore condizione1 . Così questo aristocratico, nel cui cuore abiterà l’ossessione dei poveri, ne aveva già preso istintivamente il ritmo di lavoro.

Tra una “monaca” (la madre) e un militare (il padre), Alfonso imparerà ben presto la forza della regolarità di una vita condotta a tamburo battente: esercizi della fede nella nutrita preghiera, esercizi dello spirito nell’intenso sforzo intellettuale e artistico, esercizi del corpo - ma solo i giorni di vacanza - nella caccia.

Il nostro santo ricorderà nella sua vecchiaia “la passione pel divertimento della caccia”, rimpiangendo il tempo perso a percorrere macchie e paludi, mentre “quella delle Animeera tanto più “cara a Dio, e dilettevole agli uomini Apostolici”. Non gli resterà però alcun rimorso ecologico, come racconterà ridendo: “Qualunque però fosse stata la sua industria, eragli così avversa la fortuna, che potevasi dire benedetto quell’uccello, che prendeva di mira2 . La sua precoce miopia serviva certo a qualcosa!

 

La caccia era divertimento per uomini e la società d’allora esigeva dal giovane nobile - come del resto dal contadino e dall’arti-

 

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giano - di maturare in fretta per assumere gli impegni propri di un’età adulta, in quanto non si era ancora inventata l’adolescenza.

Così, nello stesso mese in cui compiva quattordici anni, Alfonso prese possesso del suo seggio al consiglio di quartiere (la Piazza) di Portanova, raggiunto poi, alla stessa età, dai fratelli Antonio, Gaetano e Ercole (rispettivamente nel 1712, 1715 e 1721).

Il 5 settembre 1710 quindi Don Giuseppe fu fiero di presentare il suo primogenito alle circa diciassette famiglie patrizie, che con i Liguori sedevano di diritto alla Piazza di Portanova. Il nuovo consigliere si presentava, secondo l’etichetta, con parrucca ondulata, giacca chiusa al collo munita di lussuosi bottoni, calzoni di velluto assortito, calze di seta bianca su scarpe alte con borchie d’argento; in mano il tricorno di protocollo e i guanti, lusso dell’alta società; al fianco lo spadino d’argento (48 centimetri), attributo del cavaliere 3 , da cui potrà separarsi solo per mettersi a letto o per varcare la soglia del tribunale, luoghi nei quali si entrava dopo aver lasciato i “coltelli” nel guardaroba.

Dal 1710 al 1723 i verbali delle sedute attestano la partecipazione assidua del nostro nuovo funzionario municipale 4 ormai alle prese con tutti i problemi propri di un’amministrazione cittadina: imposte (in principio c’era l’imposta!), approvvigionamento della popolazione, controllo dei prezzi, conservazione del registro fondiario e notarile delle vendite e delle compere, appalto dei beni e dei diritti municipali, attribuzione dei benefici ecclesiastici del patronato di Portanova, mantenimento dello stato civile e degli alberi genealogici dei cavalieri, indizione e ripartizione delle questue per i poveri vergognosi della nobiltà, mantenimento e gestione delle strade, piazze, fontane ed edifici pubblici, buon costume, polizia urbàna e giustizia di riconciliazione, organizzazione e finanziamento delle manifestazioni religiose e civili, dai festeggiamenti in onore di S. Gaetano a quelli per l’accoglienza del viceré. (Osiamo appena dirlo: i conti dicono chiaro che per S. Gaetano il capitano di galera dava poco, poco...).

Ognuno dei sei Seggi o consigli di quartiere eleggeva ogni anno un comitato permanente di sei cavalieri, i “deputati”, che seguivano il corso degli affari e convocavano le assemblee; designava un “eletto”, per costituire con quelli degli altri cinque Seggi il potere centrale cittadino, il cosiddetto Tribunale di S Lorenzo o, più brevemente, la Città (la giunta municipale), che teneva le sue sedute nella sala capitolare dei conventuali di S. Lorenzo, all’odierno n. 316 di Via dei Tribunali, dove due grandi portali gotici con cinque fiammeggianti finestre illuminavano, sulle mura della sala a volta, gallerie di santi, papi e cardinali dell’ordine francescano. Se Francesco e Bonaventura agli eletti della Città non ispiravano (nemmeno a parlarne!) moderazione

 

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e disinteresse, certo parlarono silenziosamente al cuore di Alfonso 5 . Cosi i molteplici aspetti della vita di un popolo si imponevano alla coscienza del giovane magistrato, dando vita ai testi delle leggi che ancora studiava sui banchi dell’università. E facile immaginarlo i primi anni attento e discreto, meravigliato e a volte turbato, imparare la gestione degli affari e soprattutto la vita degli uomini con la miseria dei poveri e l’asprezza dei ricchi e con le ruberie spesso degli uni e degli altri. La sua “classe” e la sua competenza gli varranno ben presto lusinghiere responsabilità, ma dovrà prima terminare gli studi e conseguire il dottorato nel mese di gennaio 1713.

 

L’università preparava ai tre dottorati (teologia, diritto, medicina), ma il privilegio di conferirli apparteneva al Collegio dei Dottori, sotto l’autorità del Gran Cancelliere del Regno, allora Don Marino Francesco Maria Caracciolo principe di Avellino, che in realtà, pur rilasciando personalmente le preziose pergamene, delegava per gli esami uno dei suoi vicecancellieri. Le tesi dottorali si discutevano nel suo palazzo, tranne quelle di teologia che avevano luogo nella chiesa di uno dei quattro ordini mendicanti della capitale 6 .

Come in ogni altro posto (più che altrove, chi può dirlo?), a Napoli la giustizia si comprava a caro prezzo, cominciando dal diploma di dottore in diritto che però, come quello in medicina altrettanto ambito, permetteva di recuperare rapidamente l’esborso, anche se elevato; la teologia invece offriva meno risorse!... Ma Don Giuseppe non amava slacciare la borsa e Alfonso per la sua laurea aveva da offrire molto più del denaro contante, come risulta dalle condizioni precise e rigorose che dovette adempiere malgrado la sua giovane età o forse proprio per essa 7.

La legge esigeva dal candidato venti anni compiuti di età, cinque anni di immatricolazione e dieci semestri di studio nell’università, sebbene le dispense fossero frequenti. Quella di Alfonso costituì un caso limite: il 10 gennaio 1713 il viceré Carlo Borromeo Ares, in nome dell’arciducaCarlo, re delle Spagne e imperatore dei Romani”, “stante have studiato l’intero corso, e preso tutte le matricole necessarie”, gli accordava la dispensa di tre anni, otto mesi e ventuno giorni, insieme al semestre di studio che ancora gli mancava per l’esame di dottorato, che si articolava in due tappe.

Un primo esame di “cernita”, che scartava gli incapaci per non far perdere loro la faccia nella prova pubblica, si svolgeva dinanzi a due giuristi designati dal Priore del Collegio dei Dottori, allora il famoso Giuseppe Valletta (1636-1714), scrittore onnisciente, punto cardinale della Napoli dei Lumi e dell’Europa delle scienze, con la biblioteca più “avanguardista” del Regno 8 nella sua testa e sulle pareti della sua

 

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casa. Il 17 gennaio 1713 Valletta diede mandato ai dottori Giuseppe Porpora e Giacinto de Baucio di indicare al “Magnifico D. Alfonso de Liguoro” i due punti - canonico l’uno, civile l’altro - sui quali avrebbe dovuto disputare, dopo un lasso di tempo di ventiquattro ore per preparare l’esposizione e prevedere la giostra che ne sarebbe seguita. Conosciamo questi puncta tentativa, sui quali si sarà fatto venir la febbre il nostro candidato: “Dei chierici sposati” per il diritto canonico, “Delle seconde nozze” per quello civile. Superò senza inciampi questo primo ostacolo secondo l’attestato, firmato il 18 gennaio 1713 da Porpora e Valletta: “Abbiamo ascoltato D. Alfonso (nell’esame di prova) gli si possono fissare i punti per l’esame ordinario”.

Porpora e Valletta furono i suoi padrini (promotores) del grande giorno della difesa pubblica, la mattina del 21 gennaio 1713. Il freddo e l’influenza, che imperavano nella città, avranno certo trattenuto alcuni simpatizzanti nelle loro ghiacciaie a battere i denti o in fondo ai loro letti a bere tisane bollenti, senza però togliere l’animazione nel quartiere dell’Anticaglia: parenti, amici, condiscepoli, giuristi confluivano verso la grande scalinata che portava al salone d’onore del palazzo Caracciolo. Il candidato aveva la testa piena delle quattro “leggiassegnategli la vigilia: il trasferimento dei chierici e le donazioni pie per il diritto canonico, i contratti e la priorità della giustizia e dell’equità sulla lettera della legge per il civile. Quest’ultimo punto - strana coincidenza - tratto dal Codice di Giustiniano gli farà in seguito perdere il processo decisivo per la sua vita, ma sarà anche l’idea madre della sua rivoluzionaria opera come “maestro della teologia morale”.

Porpora e Valletta, quali garanti, presentarono il candidato al vicecancelliere Andrea Botteglieri e alla commissione composta dai quattro dottori di norma e da altri a piacere; dichiarata aperta la seduta, Alfonso de Liguori, a sedici anni, si preparava a vincere la sua prima causa, il dottorato in diritto civile e canonico.

La prova consisteva in una difesa orale, regolata come una sinfonia secondo il metodo delle tesi scolastiche, al quale resteranno fedeli fino al secolo XIX i giuristi europei. Su una delle leggi indicate la vigilia, Alfonso espose in latino la sua “lezione”, seguita dalle obiezioni degli esaminatori e dalle risposte, fatte di sottili distinzioni, confutazioni e concessioni, e dall’ampia sintesi finale.

“All’unanimità, senza nessuna voce discordante”, malgrado la sua aria e la sua taglia ancora di ragazzo, Alfonso venne proclamato dottore in utroque jure con la menzione di lode: “Summo cum honore maximisque laudibus et admiratione.

Secondo l’abituale rituale dottorale gli si fece indossare subito dopo una toga d’avvocato, nella quale, piccolo com’era, scomparve interamente (felice toga, che lo trarrà d’impaccio, quando più tardi gli ricorderan-

 

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no i successi della sua giovinezza! Dirà allora: “Mi fecero una Casacca lunga, che mi andava sotto li piedi!”. E riderà. E parlerà d’altro 9 ; lo si istallò sulla cattedra dottorale dinanzi ai libri chiusi del Corpus juris Canonici e del Corpus Juris Civilis, solennemente aperti poi di fronte a lui; gli fu infilato al dito l’anello d’oro che lo sposava con la sapienza; e infine gli fu imposto il berretto dottorale e giudiziario. Formule consacrate dall’uso accompagnavano i gesti e ne dettagliavano i poteri: “leggere, commentare, interpretare, insegnare dalla cattedra magistrale, porre e esercitare pubblicamente tutti gli atti di competenza dei dottori, qui e in ogni altra parte”. I “confratelli” gli diedero allora il bacio di pace, invocando su di lui la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Al nostro neofita restava ancora da compiere un duplice gesto religioso: in ginocchio, in presenza di coloro che d’ora in poi saranno suoi pari, fece prima la professione di fede cattolica nei termini della cosiddetta formula tridentina o di Pio IV 10 , si impegnò poi solennemente riguardo al dogma, allora non ancora definito, dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria, pronunziando il seguente testo, ufficiale certo, ma scritto e firmato di pugno, a volte anche con il sangue, da ogni nuovo dottore:

“Io, Alfonso Maria de Liguori, umilissimo servitore di Maria sempre Vergine Madre di Dio, prostrato ai piedi della Divina Maestà in presenza dell’ineffabile Trinità dell’unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, prendendo a testimoni tutti gli abitanti della Gerusalemme celeste, credo fedelmente con lo spirito, abbraccio veramente col cuore e proclamo fermamente con la bocca che tu, Madre di Dio sempre Vergine, tu sei stata oggetto da parte dell’onnipotente Iddio di un privilegio assolutamente unico: sei stata interamente preservata da ogni macchia di peccato originale, fin dal primo istante della tua concezione, cioè dal momento dell’unione del tuo corpo con la tua anima. In pubblico e in privato, fino all’ultimo respiro della mia vita, insegnerò questa dottrina e mi impegnerò con tutte le mie forze affinché tutti gli altri la ritengano e l’insegnino. Così attesto, così prometto, così giuro e che Dio mi aiuti e questi santi Vangeli”.

Questo giuramento non era frutto della controriforma, perché la sua pratica, iniziata nel 1497 nel clima di fede e di fervore della Sorbona, progressivamente, dal nord al sud, aveva conquistato ben centocinquanta università europee ed era stata imposta dal viceré spagnolo Pedro Giron, duca di Ossuna, nel 1618 ai magistrati, baroni, dottori e professori del Regno di Napoli 11 .

Formalità convenzionale? Per alcuni certamente, ma in questo impegno di fede e di amore nessuno fu più libero e più felice del nostro giovane cavaliere, che trentasette anni più tardi, scrivendo i nove

 

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discorsi per le feste della Madonna, concluderà così quello per l’Immacolata Concezione:

“Voglio finalmente chiudere questo discorso, in cui mi son diffuso più che negli altri, per ragione che la nostra minima Congregazione ha per sua principal protettrice la SS. Vergine Maria appunto sotto questo titolo della sua Immacolata Concezione”.

E rinnoverà in questi termini il giuramento dei sedici anni:

“Ah mia immacolata Signora, io mi rallegro con voi di vedervi arricchita di tanta purità. Ringrazio e propongo di sempre ringraziare il comun Creatore, per avervi preservata da ogni macchia di colpa, com’io tengo per certo, e per difender questo vostro sì grande e singolar privilegio della vostra immacolata Concezione, son pronto e giuro di dar, se bisogna, anche la mia vita12 .

 

Il giorno della investitura nella troppo lunga toga degli avvocati Alfonso aveva sedici anni, tre mesi e venticinque giorni; l’immensa pergamena (60 x 80 cm), che il Gran Cancelliere Caracciolo il seguente 13 marzo vidimerà con il sigillo reale, autorizzava il dottor de Liguori a occuparsi d’ora in poi degli affari altrui, mentre essendo minore dovrà aspettare ancora due anni per gestire i propri.

“Benché giovanetto, si vide Alfonso Liguori, con ammirazione comune, salire nei Tribunali di Napoli; ed assistere, ansioso di approfittarsi, alle tante decisioni di quelle Ruote così rispettabili13 .

Consumerà i dieci anni della sua attività professionale - la sua giovinezza! - incrociando il ferro davanti alle tre alte corti di giustizia, le reali giurisdizioni a competenza nazionale, che riempivano con il loro baccano l’intero quadrilatero della massiccia fortezza a tre piani di Castel Capuano (detta anche Vicaria), su cui sfociava Via dei Tribunali.

avevano sede le due istanze sovrane ordinarie: la Gran Corte della Vicaria, la più antica, che aveva dato anche il nome alla fortezza, era la corte di appello, civile e penale, per tutto il Regno; la Real camera della Sommaria era invece competente in tutte le cause riguardanti il patrimonio reale e le finanze. Il Reggente della Vicaria era di diritto governatore e prefetto di polizia della capitale e dei suoi venti settecasali”. Ma Don Giuseppe non pensava a questa poltrona per il figlio, perché c’era di meglio! La Vicaria e la Sommaria erano presiedute e inquadrate da consiglieri del Sacro Real Consiglio di S. Chiara, tribunale dei tribunali e consiglio dei ministri.

Il Real Consiglio, creato nel 1444 per giudicare sui ricorsi diretti al re di Spagna in persona, originariamente teneva le sue sedute nel monastero di S. Chiara, conservandone il nome anche dopo aver raggiunto nel 1537 la Vicaria e la Sommaria al Castel Capuano. Supremo tri

 

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bunale di appello per qualsiasi causa, aveva esclusiva competenza su quelle in cui erano in discussione più di cinquecento ducati, sui processi feudali, sulle liti tra nobili. I suoi ventiquattroministri”, ripartiti in quattro sezioni per “rotazione” (rota), costituivano la magistratura sovrana e a vita, colmata di onori, poteri, privilegi, denaro; perorare dinanzi al Real Consiglio era l’orgoglio di ogni avvocato, farne parte il vertice sognato della carriera; qualcuno vi era innalzato dalla sua competenza, altri vi erano spinti dai favoritismi, altri ancora vi si issavano arrampicandosi su pile di denaro 14 .

I Cavalieri vi si succedevano di padre in figlio: ieri il nonno Federico; oggi lo zio Giuseppe, segretario di stato per la guerra, che “per la superbia” si era fatto “molti nemici e disgustati” ed eramal visto a Napoli”; domani Francesco Maria, cugino e compagno di dottorato di Alfonso, che “essendo di poco talento e senza saperemetterà sulla bilancia i suoi pesanti ducati e sarà “superbo e sprezzatore di tutti” fino ad essereodiato anche da suoi amici15. Non erano certo tipi molto amabili i Cavalieri (non sembra che Alfonso fosse loro legato), eccetto quel miracolo di dolcezza amorosa che era Donna Anna la rosa di queste spine!

 

Per il momento il nostro Alfonso, il cugino Francesco, l’amico Corrado Capece, il vicino Baldassarre Cito e qualche altro erano sulla linea di partenza, pronti a scattare nella tradizionale corsa.

“I giovani nobili, notava già nel 1632 un viaggiatore parigino, si danno alla legge per poter arrivare alla magistratura e con la toga lunga agli uffici dati dal re. Quasi tutti fanno i magistrati e i procuratori (è la stessa cosa in quel paese) ed è un piacere al mattino vederli andare alla Vicaria con la piccola sottana di dottore, il mantello sollevato dalla spada o forato per lasciar vedere la guaina del pugnale, caratteristica essenziale del cavaliere di seggio. Nella Vicaria è proibito portare spada o pugnale, ma essi conservano almeno il fodero vuoto del pugnale16 .

“Sul principio lo (Alfonso) diede in pratica suo Padre al Signor Perrone, celebre Avvocato in quel tempo; e passato questi a miglior vita, venne affidato al Signor Jovene, anche Giureconsulto molto stimato tra suoi coetanei”, chiamato dalla fiducia di Filippo V a presiedere la Sommaria e posto recentemente da quella dell’imperatore a capo della Vicaria 17. Decisamente Don Giuseppe si contentava solo dei migliori per assicurare la carriera al suo primogenito.

I Tribunali erano (e lo sono ancora) un formicolio chiassoso ed eterogeneo di uomini di legge, di vetturini, di valletti in livrea, di profittatori di ogni genere e dell’immancabile esercito di oziosi. Ma quelle spesse mura ospitavano la maggiore azienda del Regno, che dava da

 

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vivere a cinquantamila napoletani: giudici, avvocati, procuratori, notai, scrivani, copisti, uscieri, sbirri e fattorini (in quindicimila circa) si confrontavano e si davano da fare; testimoni e falsi testimoni (un nugolo) prendevano accordi e si vendevano; ladri facevano la posta ovunque alle tasche e alle borse; venditori ambulanti senza numero offrivano la loro merce nei corridoi e nelle anticamere; mendicanti vocianti reclamavano la quotidiana elemosina.

Così questo “palazzo del cavillostuzzicava la penna dei turisti del tempo a tal punto che i loro giornali di viaggio erano spesso esempi di “giornalismo a sensazione”, registrando solo ciò che poteva colpi re di più e condendo con spezie forti ciò che era piccante. Ma allora che diavolo andava a fare un onesto cavaliere in questo “manicomio”? Per fortuna, pur senza trascurare le testimonianze pittoresche o scandalose, la storia attinge ad altre sorgenti. A Napoli all’inizio del XVIII secolo, come ne fanno fede gli archivi, le tre corti di giustizia e il collegio degli avvocati non mancavano certo di magistrati ignoranti, oziosi, venali, venduti e generosamente provvisti di altri vizi dell’umana miseria, però, come i corpi professorali delle facoltà, contavano anche uomini di scienza, di lavoro, di saggezza e di integrità. Tra quelli di maggior spicco e che furono a diversi titoli vicino ad Alfonso, oltre il prestigioso Valletta e il Reggente Jovene, v’erano lo scrittore Costantino Grimaldi e il suo amico, il presidente Domenico Caravita; i fratelli Alfonso e Francesco Crivelli, che prenderanno il giovane debuttante in paterna amicizia; Giacomo Salerno, che ne aveva sposato la cugina, Antonia de Liguori, la delicata pittrice di Marianella; Domenico Bruno, che il giovane Alfonso affronterà e sconfiggerà nel foro; Antonio Maggiocchi (o Maiocca), che invece gli infliggerà la prima e ultima sconfitta. Tutti questi uomini arriveranno al Real Consiglio, ma per arrivarci saranno oggetto di inchieste segrete giunte fino a noi, attestanti all’unanimità la loro competenza e la loro integrità. Del resto agli inizi del Settecento le sentenze del Sacro Real Consiglio arrivavano lontano, fuori dell’Italia, invocate nei tribunali dell’intera Europa e avevano peso nelle Due Sicilie, diventando dovunque giurisprudenza 18; non era ancora venuto il tempo nel quale l’economista Antonio Genovesi (1713-1769) avrebbe stigmatizzato l’amministrazione della giustizia a Napoli come incompatibile con i principi cristiani 19.

Non era quindi cosa assurda o ingenua nel 1713 entrare nel giro e pretendere di lottare per la giustizia. A chi si chiedesse, non senza umorismo, se Alfonso si sia fatto santo perché avvocato o perché fuggito dai tribunali, si potrebbe rispondere: perché non per l’una e l’altra cosa? Ogni volta che si presentava al combattimento, aveva occhi ben aperti sulle tentazioni del foro e sguardo ben fisso sui suoi doveri, come

 

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testimoniano questi dodici comandamenti dell’avvocato tracciati per iscritto con l’aiuto, senz’altro, del P. Pagano:

“L’avea in una cartolina, e spesso li meditava.

1. Non bisogna accettare mai Cause ingiuste, perché sono perniciose per la coscienza, e pel decoro.

2. Non si deve difendere una Causa con mezzi illeciti, ed ingiusti.

3. Non si deve aggravare il Cliente di spese indoverose, altrimenti resta all’Avvocato l’obbligo della restituzione.

4. Le Cause dei Clienti si devono trattare con quell’impegno, con cui si trattano le Cause proprie.

5. È necessario lo studio dei Processi per dedurne gli argomenti validi alla difesa della Causa.

6. La dilazione, e la trascuratezza negli Avvocati spesso dannifica i Clienti, e si devono rifare i danni, altrimenti si pecca contro la giustizia.

7. L’Avvocato deve implorare da Dio l’ajuto nella difesa, perché Iddio e il primo Protettore della giustizia.

8. Non è lodevole un Avvocato, che accetta molte Cause superiori a suoi talenti, alle sue forze, ed al tempo, che spesso gli mancherà per prepararsi alla difesa.

9. La Giustizia, e l’Onestà non devono mai separarsi dagli Avvocati Cattolici, anzi si devono sempre custodire come la pupilla degli occhi.

10. Un Avvocato, che perde una Causa per sua negligenza si carica dell’obbligazione di rifar tutt’i danni al suo Cliente.

11. Nel difendere le Cause bisogna essere veridico, sincero, rispettoso, e ragionato.

12. Finalmente, diceva Alfonso, i requisiti di un Avvocato sono la Scienza, la .Diligenza, la Verità, la Fedeltà, e la Giustizia20 .

Questo piccolo trattato di morale professionale, assolutamente non superato, non era certo di tutto riposo, tanto che da quel momento, come dice Tannoia, Alfonso rinunciò a ogni divertimento, anche alle partite a carte dai vicini Cito, rimpiazzandole con le riunioni in casa del presidente Domenico Caravita.

 

Il crogiolo, che allora affinava l’élite intellettuale e politica di Napoli, non era certo l’università soffocata dal potere, ma la ventina di “accademieprivate, dove liberamente grandi spiriti, uomini e donne di carattere, preti e laici pensavano, ricercavano e si confrontavano; diritto, letteratura, filosofia, scienza, storia, sacra scrittura, teologia alimentavano il fuoco in questi focolari che illuminavano l’avvenire. C’era anche chi, avendone il tempo, frequentava parecchi di questi circoliilluminati21.

 

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Ogni giorno, perciò, il nostro novello avvocato raggiungeva avidamente al Largo Donnaregina, dietro la cattedrale, casa Caravita. Il patriarca di questa famiglia ducale, Don Nicola, era stato da poco il suo professore prestigioso di diritto feudale; l’accademia da lui fondata era allora la più quotata della città; il figlio Don Domenico, era il più alto magistrato del Regno dopo il viceré. si era formato Luigi Perrone, presso il quale Alfonso faceva tirocinio, e si ritrovavano Gaetano Argento, Costantino Grimaldi, Alessandro Riccardi, Giambattista Vico, Pietro Giannone: grandi nomi, grandi cristiani dilaniati, pieni di fede ma militanti anticurialisti.

Drammatica era stata la recente battaglia di questi uomini contro le usurpazioni del clero in favore dell’autonomia dello Stato, per la vera libertà della Chiesa di fronte alle sue ricchezze e al suo potere. Colpo su colpo, tra il 1707 e il 1710, avevano scritto contro la sovranità politica del papa su Napoli; contro l’attribuzione all’estero delle rendite ecclesiastiche del Regno; contro la manomorta della Chiesa che congelava un terzo della proprietà nazionale; contro uno scandaloso diritto di asilo che trasformava i luoghi santi in riparo paradisiaco per malviventi e loro prostitute. Colpo su colpo, N. Caravita, Riccardi, Argento, Grimaldi si erano fatti mettere all’Indice da Roma e promettere l’inferno da due canonisti napoletani che miravano alla mitra (e l’avranno! ). Mentre li ascoltava, il più giovane Giannone ( 1676-1748) aguzzava la penna per la sua Istoria civile del Regno di Napoli (1723) e per il suo Triregno che gli costeranno la scomunica, l’esilio e la morte in una prigione piemontese 22.

Tra comunicazioni appassionate e dibattiti giuridici Alfonso respirerà per dieci anni nei saloni Caravita questo clima inebriante, che alle volte sapeva anche di bruciato, e ascolterà a lungo la contestazione fatta da ottimi cattolici a una Chiesa di dominio e di privilegi, diventando immune per sempre dalla tentazione curialista. Però dove sta il giusto mezzo? Il 6 agosto 1713 l’imperatore Carlo VI, sconfinando al di della “legittima difesa”, invadeva a sua volta il diritto della Chiesa, decretando che tutti i rescritti, brevi, editti e bolle di Roma non avrebbero avuto valore nel Regno, se non dopo l’exequatur reale. Uno dei drammi più gravi della vita di Alfonso sarà questa “guerra dei cent’anni” sulle frontiere tra Chiesa e Stato.

Il nostro giovane cavaliere, che parteciperà pienamente all’assemblea di questi “anzianidopo i due anni di apprendistato, per il momento era preso più che da questa preoccupazione dai certami giuridici organizzati ogni sera dal figlio di Caravita, il quarantenne Don Domenico, “uomo savio, e timorato di Dio” (Tannoia dixit e non sono certo, per un uomo di legge, epiteti scontati), già presidente del Sacro Real Consiglio. Intorno a lui si era costituito un circolo di giovani avi-

 

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di di apprendere, l’élite sociale e intellettuale degli avvocati all’inizio della carriera, per i quali sugli articoli più imbrogliati della legislazione egli “montavaprocessi fittizi, dove i contendenti si affrontavano con slancio dinanzi a lui che fungeva da giudice e segnava i punti. Vi prendeva molto gusto e i giovani, da parte loro, avevano tutto da guadagnare, molto più che nel gioco a carte 23.

 

In realtà Alfonso ne profittava e ben presto per i corridoi dei tribunali e dei salotti della capitale cominciò a correre la voce: è competente, questo novello avvocato, e lavoratore e abile e - meraviglia! - onesto più di quanto sia permesso quando si ha la possibilità di rubare Inoltre per parte di madre era un Cavalieri e i Cavalieri, ben piazzati in corte a Vienna dal 1707, erano da generazioni i re del palazzo; lo zio Giuseppe era ministro e i suoi migliori amici - ne contava pochi ma tutti di primo piano - Muzio di Maio e Vincenzo di Miro, che amava Alfonso come un figlio, facevano parte anch’essi del Sacro Real Consiglio. Certamente riunivano i loro sforzi per procurare una scelta clientela al giovane avvocato, al quale, secondo quanto afferma Tannoia, pur non avendo a ancora compito i quattro lustri di sua età ”, le cause anche molto importanti già affluivano.

Quali cause? Nessun documento svela il segreto e perciò qualcuno ha concluso che questo grande giurista si sarebbe limitato al ruolo di consulente legale, senza mai perorare, neppure per un cane schiacciato da una carrozza! Può essere, ma a condizione di dire altrettanto di tutti gli altri avvocati napoletani del suo tempo, dal momento che gli archivi di Stato osservano per tutti lo stesso silenzio. Gli incartamenti! della sezione Giustizia, fortunatamente conservati tuttora, contengono l’esposizione della causa e la sentenza giustificata dalle ragioni di fatto e di diritto, con la firma del notaio ma non con il nome degli avvocati. La storia appartiene agli scrivani non agli oratori. Verba volant, scripta manent.

Tannoia, che si è affaticato per cinquant’anni a rincorrere testimoni e a farli parlare, non ha inventato niente, rifacendosi alle testimonianze, come dice, dei “nostri vecchi”: i redentoristi Gennaro Sarnelli (1702 - 1744) e Cesare Sportelli (1701 - 1750), che prima di seguire Alfonso fondatore erano stati suoi colleghi nel foro di Napoli; Gaspare Cajone (1722 - 1809) e Celestino de Robertis (1719 - 1807), che, prima di seguirlo anch’essi nelle missioni, vi eserciteranno dopo di lui e raccoglieranno vive testimonianze. Tannoia (1727 - 1808), che conobbe Sportelli, apparteneva alla generazione di Cajone e de Robertis, i quali ispirarono e lessero le sue “memorie”. Non possiamo dimenticare Giovanni Mazzini (1704 - 1792), amico giovanile di Alfonso, che prima di essere tra i compagni della prima ora, anche se non viveva a Castel

 

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Capuano essendo seminarista, era a conoscenza del fatto che “tra poco tempo, come afferma Tannoia, affidate gli furono, con istupore di tutta Napoli, anche le cause più gravi”, disimpegnate in modo tale che “tutto rendevalo singolare: vastità di talento, chiarezza di mente, e precisione nel dire; somma onestà, e sommo orrore a cavilli; non intraprendeva causa se non giusta, e fuori di eccezione; umanità coi Clienti, e disinteresse; e quello, ch’è più, tal dominio aveva de’ cuori, che, arrigando ammaliava i Giudici, e mutoli rendevansi i suoi contradittori. Tutte queste, ed altre doti, che possedeva, animavano ognuno a volergli mettere nelle mani i proprj interessi, ed a cercare il suo patrocinio”.

Perciò non si può fondatamente contestare ciò che con competente conoscenza scriveva nel 1834 uno dei primi biografi del santo: “Si osserva nel Catalogo delle Sentenze dall’anno 1715, sino all’anno 1723, che Alfonso esercitò la Professione di Avvocato, nei Tribunali Civili di Napoli, che non avea perduta alcuna Causa24 .

Purtroppo noi abbiamo perso questo Catalogo delle Sentenze, ma dalla storia ci è stato trasmesso un episodio 25 significativo della maestria del patrocinante e del suo progressivo disgusto per le arringhe. Nel corso del 1720 Alfonso vincerà un’importante causa riguardante la sua famiglia contro Domenico Bruno, “celebre avvocato”, che avrà poi una poltrona al Sacro Real Consiglio, descritto dai rapporti segreti come “dotto, onesto e pontuale. Fu Avvocato con honore. Dotto, e d’integrità, benveduto per la gentilezza nel trattare26. Qualche anno più tardi il Bruno, incontrando il suo vincitore ormai prete dei “lazzaroni”, senza alcun rancore esclamerà:

- Dio vel perdoni D. Alfonso. Se avessivo fatto questa mossa tre anni prima; non mi avreste mandato in pazzia, e defraudato il palmario!

- Ho fatto quanto ho potuto per difendere i miei Clienti, risponderà l’ex - avvocato, ma spero non avervi mancato di rispetto; e vi assicuro, che mi sembravano mille anni di allontanarmi dagli strepiti pericolosi del Foro!

- Felice voi, Don Alfonso, che avete scelto bene!

E il vecchio uomo, sorridendo, abbraccerà il giovane sacerdote.

L’atmosfera di incenso e di successo, che si respirava ai Tribunali, non ubriacava il Liguori, che era diventato avvocato solo per volontà del padre con la prospettiva di opulenti onorari e di alti posti nella magistratura. Aveva ubbidito - e che altro poteva fare a dodici anni contro quel diavolo d’uomo?- , però il suo cuore non si era mai adattato alla febbre, spesso maligna, del palazzo. Che voleva da lui il Signore? Prete? Napoli ne rigurgitava, di ottimi e di pessimi... Uno di più, a quale scopo?

 

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Intanto la vita era , divoratrice: Castel Capuano si disputava il giovane avvocato e la Città (l’amministrazione comunale), non dimenticando che prima di tutto era cavaliere del Seggio di Portanova, si affrettava a servirsene prima che i processi l’assorbissero completamente.

Nel dicembre 1717 il nostro giurista, che aveva compiuto vent’anni il 27 settembre, al rinnovo annuale dei mandati, oltre che magistrato patrocinatore per le istanze del Regno, divenne anche magistrato giudicante al Tribunale di S. Lorenzo con un duplice compito:

- “Giudice per l’approvvigionamento del pane”, richiesto dalla Piazza del Popolo e confermato con voto del 4 dicembre da quella di Portanova, alla quale spettava per turno questa funzione. Alfonso dovrà decidere per tutta la città sul contenzioso, civile e criminale, relativo all’approvvigionamento del pane e alle pubbliche panetterie.

- “Giudice del Regio Portulano Maggiore”, designato il 18 dicembre dalla Piazza di Montagna. Dovrà gestire e sorvegliare il suolo pubblicomarittimo”, se cosi si può dire, cioè piazze e strade lungo il mare, porti, spiagge e acque litoranee, decidendo sui casi di contestazione, sconfinamento, deterioramento colpevole di questo vasto demanio municipale e specialmente di contrabbando del sale, tabacco, cioccolato e altre derrate che vi transitavano in abbondanza. Per nostra sfortuna la raccolta delle sentenze del nostro giudice, scoperta nel 1930 negli archivi municipali di Napoli, è andata in fumo durante un incendio prima della pubblicazione che già era stata annunziata 27 . Gli archivisti non hanno scoperto il fuoco, ma il fuoco spesso scopre gli archivi...

Non sappiamo perciò niente di preciso sulle sentenze prodotte dal nostro magistrato e sui “profitti, guadagni emolumenti” che gli valsero le sue funzioni municipali e le sue vittorie nel foro. Quale parte fu destinata ai poveri? Quale al riscatto degli schiavi? O tutto finì nelle mani del padre, che si era lanciato in iniziative economiche e in investimenti proprio a partire dal 1715 28, anno nel quale Alfonso, terminato il suo tirocinio, era diventato avvocato di pieno rendimento?

Don Giuseppe arrivava allora allo zenit della carriera e delle ambizioni; un decreto imperiale del 27 luglio 1716 lo trasferiva dal comando della Padrona a quello della Capitana con il grado di luogotenente colonnello e con 55 ducati al mese, la paga più rotonda di tutta la marina. Ritrovava così la Capitana, la galera della sua giovinezza e della sua vita, sempre nave ammiraglia anche se legno rinnovato per tre volte, d’ora in poi ai suoi ordini spesso con l’intera piccola squadra, dal momento che il Capitano generale, il marchese di Fuencalada, uomo d’amministrazione, di corte e... d’acqua dolce, non aveva niente di un lupo di mare 29 .

Su tutta questa gloria la morte, al Gesù Nuovo l’undici maggio, di Francesco de Geronimo, da trent’anni amico e padre dei galeotti,

 

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stendeva un velo di tristezza. Don Giuseppe forse dovette pensare allora con un sorriso rattristato: “Questo santo gesuita ha predetto che il mio primogenito diventerà vescovo e novantenne... Aveva certo il dono dei miracoli il P. Francesco ma non quello della profezia. Il mio Fonso nonagenario? Volesse il cielo! e perché non centenario? Ma proprio vescovo? Ve ne sono ben centocinquanta nel Regno, mentre uno solo è il presidente del Sacro Real Consiglio... E il mio grand’uomo è già partito bene per succedere a Domenico Caravita!”.

Caro colonnello, Dio si diverte e nasconde spesso il suo gioco. Centenario diventerà Domenico Caravita (1670 - 1770) e alla sua morte la suprema magistratura passerà al vicino e amico di Alfonso, Don Baldassarre Cito, che, centenario e ancora presidente, verrà interrogato sul suo antico compagno di gioco, di studio e di foro:

- Avete vissuto quindici anni della giovinezza con Mons. de Liguori. Cercate di ricordare: al tempo in cui è stato avvocato, gli è certo sfuggito qualche scarto, qualche leggerezza...

Il vecchio magistrato, dopo essersi concentrato, la testa profondamente inclinata, con un sacro rispetto protesterà:

- Fu sempre morigeratissimo giovine; direi un sacrilegio, direi un sacrilegio, se dir volessi il contrario 30 .

Quale segreto nascondeva allora il cuore dell’avvocato Alfonso de Liguori?

 

 

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p. 112
1 TANNOIA, I, p. 9.



2 TANNOIA, I, p. 10.



p. 113
3 TELLERIA, I, p 43; A. CIRILLO MASTROCINQUE, “Moda e costume”, in Storia di Napoli,

VI, pp. 774-785.



4 Non cercate né nell’Archivio di Stato, né nell’Archivio Municipale di Napoli i registri consultati

dal P. Oreste Gregorio (cf. “S. Alfonso”, 6 [1935], pp. 202-207; Contributi, pp. 41-48), perché sono

stati distrutti da incendi, rispettivamente nel 1943 e nel 1946.



p. 114
5 A. ROMANO, La Città e il Comune di Napoli, Notizie Storiche 1131-1904 Napoli 1909, pp. 26, 36-42, 83; M. SCHIPA, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, t. I, pp. 29-33;

Contributi, pp. 42-45; “S. Alfonso”, 6 (1935) pp. 202-207; TELLERIA, I, pp. 45-58.



6 TELLERIA I, p. 36.



7 “S. Alfonso”, 8 (1937), PP. 210-216; Contributi, pp. 87-91; TELLERIA, I, pp. 36-40; e soprattutto SH 1 (1953), pp. 61-66.



8 Cf. CROCE, op. cit., p. 172.



p. 116
9 Summarium, p. 72, par. 87.



10 È riprodotta all’inizio del Codice di Diritto Canonico del 1917.



11 SH 3 (1955), pp. 199-201; Cf. Dictionnaire de Théologie catholique, VII, Paris 1927, art.Immaculée Conception”, coll. 1126 ss.



p. 117
12 Le Glorie di Maria: Opere ascetiche, VII, pp. 32, 42.



13 TANNOIA, I, p. 11.



p. 118
14 GALANTI, op. cit., t. I, pp. 240 ss.; SCHIPA, op. cit., t. I, pp. 54 ss.; TELLERIA, I, pp. 54-55.



15 ASN, Sezione Giustizia, Pandetta Nuova 4a/107-18, foll. 22 ss., 166, 200-201, 172.



16 J.- J. BOUCHARD, citato da J. ANGOT DES ROTOURS, St Alphonse de Liguori, p. 22.



17 TANNOIA, I, p. 11; TELLERIA, I, p. 53.



p. 119
18 ASN, ibid., foll. 22-48; TELLERIA, I, p. 53; GALANTI, ibid., pp. 245-246.



19 Citato da DE MAIO, op. cit., p. 336.



p. 120
20 RISPOLI, Vita del B. Alfonso M. de Liguori, p. 16.



21 DE MAIO, op. cit., pp- 69-73.



p. 121
22 DE GIOVANNI, op. cit., pp. 403 ss., 465 ss.; Contributi, pp. 139-142; CROCE, Bibliografia

vichiana, Napoli 1948, t. II, p. 903; DE MAIO, op. cit., pp. 88-95, 131-132.



p. 122
23 TANNOIA, I, p. 11; TELLERIA, I, p. 53.



p. 123
24 RISPOLI, op. cit., p. 19.



25 TANNOIA, I, p. 30; RISPOLI, op. cit., pp. 19-20; “S. Alfonso”, 37 (1966), pp. 5-7.



26 ASN, ibid., n. 14.



p. 124
27 “S. Alfonso”, 6 (1935), pp. 202-207; Contributi, pp. 41-42; TELLERIA, I, pp. 45-47.



28 Cf. precedentemente, pp. 45-47-



29 SH 7 (1959), pp. 231-233, 245-246; “S. Alfonso”, 30 (1959), pp. 54-56. 30 TANNOIA, I, pp.9,

10, 18-19; Summarium, p. 71.



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