Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
Lettura del testo

Parte prima “NOBILE, GIOVANE E RICCO” (1696-1723)

11. - “TU PUOI DARMI QUANTO VUOI; NON M’INGANNI, O MONDO, NO” (1710 - 1723)

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11. - “TU PUOI DARMI QUANTO VUOI; NON M’INGANNI,

O MONDO, NO”

(1710 - 1723)

 

“Fu figlia del signor d. Francesco De Liguori, e della signora d. Virginia Raitano, principi di Presiccio... chiamata d. Teresa... benché fosse dotata di molti pregi naturali, che la rendeano gradevole al mondo, e non le fosse mancata una ricca dote...” 1 .

In questi termini, discreti ma suggestivi, lo stesso Alfonso ricorderà nel 1761 la cugina Teresina, lontana di parentela ma non per l’età (era nata nel 1704) e soprattutto per l’amicizia tra le due famiglie che, già vicine al Borgo dei Vergini, continuarono a frequentarsi anche dopo il trasferimento dei Liguori-Cavalieri al quartiere Purgatorio.

Belli e grandi sono i progetti dei genitori per i loro primogeniti! Ben presto perciò, prima del 1710, Giuseppe e Anna da una parte, Francesco e Virginia dall’altra avevano sognato, poi discretamente discusso e infine deciso, in segreto, un matrimonio tra Alfonso e Teresina. Dei due “innocenti”, l’uno di tredici anni era intento ai suoi studi di diritto e l’altra di soli cinque anni ai suoi giochi infantili nell’educandato delle Carmelitane del SS. Sacramento. Quando Teresina sarà messa al corrente? Dal canto suo, Alfonso sembra rifarsi proprio alla sua personale esperienza, quando più tardi rimprovererà il fratello Ercole di voler fidanzare prematuramente il primogenito Giuseppe. Scriverà allora: “Peppo è troppo picciolo (il poveretto aveva appunto tredici anni) per trattare di casarlo, e - come sento - la figliuola pure è molto picciola... è cosa scabrosa il trattare ora di un matrimonio, che non si potrà effettuare che almeno tra lo spazio di sei o sette altri anni... Torno a dire, di questo matrimonio non ne fate sapere niente a Peppo2 . In realtà Peppo a suo tempo sposerà un’altra e a non avranno molti figli.

Il progetto di matrimonio Alfonso-Teresina, complottato fin dal 1709 e lungamente carezzato dai genitori, s’imporrà in maniera tanto forte nella tradizione familiare e redentorista da cristallizzarsi addirit-

 

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tura in una versione leggendaria, alla quale Tannoia darà credito... e lunga vita.

La piccola principessa, a tutti i suoi doni, titoli e ducati aggiungeva uno zero a destra che moltiplicava il tutto per dieci: era figlia unica. Don Giuseppe si dava da fare e i complimenti tra le due famiglie riscaldavano calorosamente la temperatura, da una parte e dall’altra, perché il giurista in erba era anche lui un partito seducente....Fino al giorno in cui, maledizione!, rimasta incinta Donna Virginia, le relazioni volsero verso il fresco autunnale. Poi la nascita di un figlio un maledetto piccolo Cesare, fece dire addio a feudi, ducati, matrimonio e a un Don Giuseppe sconvolto, che da allora frequentò solo la sua galera. Il freddo invernale aveva gelato l’amicizia e fatto cadere i ponti tra i due palazzi...

Alfonso continuava a mantenere un’indifferente neutralità, tra il disappunto stupito della sua tenera promessa e l’irritazione dei principi di Presicce (o Presiccio), scherniti nella loro fierezza signorile e straziati nelle loro speranze per Teresina...

Ma qualche mese dopo il capitano tornava a darsi da fare per l’opportuna morte dell’erede che aveva restituito alla sorella tutte le sue “grazie”:

- Allora a che punto siamo con questo matrimonio?

Fu di nuovo primavera, dato che i Presicce, feriti per se stessi ma felici per la loro figlia, si aprivano al nuovo sole, però il piccolo fiore, altero, non tornò a schiudersi:

- Quando era vivo mio Fratello, io non era buona per Alfonso Liguori; ora ch’è morto, sono buona: si vede, che si vuole la roba, non me: bastantemente ho conosciuto cosa sia il Mondo; voglio non curare il Mondo, e sposarmi con Gesù Cristo.

Ritornò al suo carmelo, per morirvi a venti anni “in odore di santità” il 30 ottobre 1724.

Un vero libretto per opera buffa in tre atti degno di N. Piccinni Fortunatamente la storia vera rischiara meglio il ruolo dello stesso Alfonso in tutta questa faccenda e si mostra meno dura con Don Giuseppe e tanto più dolce con Teresina... e con Gesù Cristo 3 .

In realtà principe di Presicce, duca di Pozzomauro e unico erede dei feudi e della fortuna era Vincenzo Bartilotti, figlio di primo letto di Virginia Raitano. L’anno seguente il matrimonio di questa con Don Francesco de Liguori, nacque la nostra Teresina (3 aprile 1704), seguita poi da una Antonia (1707) e dal famoso Cesare (1711). Intanto la morte di Vincenzo Bartilotti nel 1709 lasciava, secondo i diritti del maggiorasco semplice (la primogenitura napoletana di allora non antifemminista) titoli, domini e denaro a Teresina de Liguori e sarebbero rimasti a lei anche se in seguito fosse nato un intero reggimento di fratelli. Per

 

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lo spazio di dieci anni sarà perciò principessa e duchessa fortunata

Don Giuseppe, il cui occhio vigile di marinaio scrutava l’orizzonte, fece rotta a tutta forza verso questo “Capo di Buona Speranza” e con l’autorità paterna dell’epocaconcluse” il futuro matrimonio, verbo, questo, adoperato da ben quattro testimoni al processo apostolico.

Gli stessi però riferirono anche “il rifiuto costante” di Alfonso e il più informato, Alessio Pollio (1742-1813), per venticinque anni servitore personale del nostro vescovo, affermerà di avere appreso “anche dalla bocca del Ven. Servo di Dio” che si doveva a lui la decisione della sua piccola fidanzata di darsi all’Amore più grande 4 . Infatti, come Teresa di Lisieux, entrò nel carmelo a quindici anni, dopo aver rinunziato con atto del 21 aprile 1719 ai suoi feudi in favore del fratello Cesare, “affinché possa fare un matrimonio degno del rango della sua famiglia 5 .

Il 1719 fu lo stesso anno in cui il cuore e i pennelli di Alfonso, giovane avvocato ventitreenne in piena ascesa professionale, ci davano lo sconvolgente quadro del suo Crocifisso e il volto di pura bellezza della “Donna della sua vita”, la Madonna. Quarantadue anni più tardi il P. de Liguori scriverà in trenta capitoletti la Vita e morte della Serva di Dio Suor Maria Teresa de Liguori, monaca nel venerando monastero del SS. Sacramento in Napoli, dell’Ordine di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, e defunta nell’anno 1724, a venti anni e sette mesi, di tisi, come Teresa di Lisieux, nella pace e nell’amore, dopo cinque anni di ardente preghiera, di povertà e di umiltà, di ubbidienza e di prove, di amore e di unione con Dio. “Ho un gran desiderio di morire”, dirà tutta tesa a raggiungere pienamente colui che Alfonso le aveva insegnato ad amare.

 

Don Giuseppe non si diede per vinto, dal momento che Alfonso era un partito brillante, ambito dalle migliori famiglie per le loro figlie. I testimoni al processo apostolico faranno parola di altri “matrimoni vantaggiositessuti ostinatamente dal padre e respinti dal figlio con la stessa ostinazione. Tannoia avanzerà un cognome senza nome: la figlia di D. Domenico del Balzo, duca di Presenzano; ma la pista si rivela subito falsa, in quanto Domenico del Balzo, che nel 1720 a trent’anni sposò la stessa sorella di Alfonso, Maria Teresa, non aveva avuto figli da un primo fugace matrimonio 6 .

Riguardo alle altre pretendenti sappiamo solo che il brillante avvocato le frequentava come un supplizio e unicamente per risparmiare al padre l’amarezza di un categorico rifiuto, adducendo di tanto in tanto a pretesto una crisi di asma o di quel “catarro” che lo avrebbe reso

 

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nonagenario: “Vedete bene, padre, azzardava allora, che non son fatto per il matrimonio”.

Il clavicembalo suonato magistralmente gli permetteva spesso di dimenticare le spine di queste fastidiose serate e a volte di far cadere definitivamente l’ambiguità. Più tardi racconterà sorridendo la gustosa scenetta di una cantante che una sera si era piazzata vicinissima al pianista, viso contro viso; se l’ispirato virtuoso girava la testa a sinistra, la signorina si precipitava a sinistra; se si volgeva verso destra, la diva ritornava a destra, finché indispettita per il correre di qua e di , abbandonò partitura e musicista, esclamando furiosa: “Questo paglietta, oh che arteteca che tiene!” 7 (il popolo dava agli avvocati il soprannome di paglietta, per il cappello di paglia che avevano l’abitudine di portare nella stagione calda).

In base a questo atteggiamento poco incoraggiante non può quindi meravigliare se Alfonso dichiarerà più tardi ai suoi direttori spirituali Andrea Villani e Giovanni Battista Di Costanzo riguardo a queste serate mondane: “Mio Padre mi ci portava, e quella non mancava di farmi finezze; ma io, grazie a Dio, non ci feci un peccato veniale8 .

 

Il peccato sarà per tutta la vita l’unica paura del nostro cavaliere, per delicatezza di coscienza attinta dallo Spirito Santo, dalla confessione settimanale col P. Pagano e dalla santa madre che però gli aveva sfortunatamente comunicato anche, per eredità psicologica e per educazione, una tendenza allo scrupolo, causa più tardi, da giovane sacerdote, di aspri tormenti.

In questo contesto materno di “innocenza” - niente di meno “innocente” di questa parola! - si colloca un dettaglio per noi sconcertante, riportato dal fedele Tannoia:

“Anche in questa età spiccava in Alfonso, con modo tutto particolare, un amor sommo per la Purità. Stimavala esso la gioia più cara dell’Anima sua. Benché giovanetto, non si vide mai in lui, conversando tra gli uguali, segno, o parola, che adombrato avesse questa bella virtù. Tutto era onestà in Alfonso. Ne viveva così geloso, che di lontano ne temeva i pericoli. Anche nella notte, dubitando tral sonno qualche involontario toccamento con se stesso, che offeso avesse la santa Purità; mettendosi a letto, mi disse D. Gaetano suo Fratello, che restringeva le proprie mani in una manetta di cartone ben grossa, fatta a borza, per così evitare in se stesso anche dormendo ogni toccamento men puro9.

Senza dubbio, Alfonso non diede molta importanza a questi “guanti”; siamo noi a restarne sconcertati, forse per mancanza di informazione.

 

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Nel secolo XV, con chiaroveggenza portata sfortunatamente all’estremismo, Giovanni Gersone (1363-1429) aveva tentato di attirare l’attenzione dei genitori e degli educatori sulle pratiche sessuali e sulla conseguente colpevolezza dei bambini e degli adolescenti, ma i suoi contemporanei avevano lasciato cadere nel deserto la voce e gli scritti di questo “precursore”. Le sue idee però ripresero forza a partire dal secolo XVII, cristallizzandosi, nei collegi e nelle famiglie dei ricchi, in un’ansiosa pedagogia della “modestia”: sorveglianza onnipresente, stretta segregazione dei giovani dai domestici e dalla strada (anche il nostro Fonso ne fu vittima), sospetto ossessivo, ricorso generoso al “peccato mortale” e al terrore dell’inferno 10 . Tutta questa asetticità, non senza finezza ma neppure senza pericoli, determinava una sensibilità più viva, una tensione insieme più timorosa e affascinata, insomma una maggiore erotizzazione.

A questo fenomeno culturale molto noto, che ha drammatizzato anche la prima metà del XX secolo, occorre aggiungere, proprio in questo scorcio del Settecento, un ingiustificato allarmismo medico, oggi incredibile, sulle “nefaste conseguenze”, fisiche e mentali, della masturbazione adolescenziale e giovanile: arresto della crescita, epilessia, impotenza, isteria, deteriorizzazione del midollo spinale, naufragio dell’intelligenza e della memoria... Insomma un inferno già quaggiù, prima dell’altro! Per le mani, diventate anche nel sonno il nemico numero uno del bambino e dell’adolescente, la facoltà di medicina... e il commercio inventarono e lanciarono sul mercato tutta una panoplia di “gogne di castità” per imprigionarle: scatole, sacchetti, manicotti, bende, camiciole di forza, guanti muniti di punte metalliche ! e altri “apparecchi di misericordia”; più tardi anche operazioni chirurgiche, che l’Europa, dimentica del suo passato prossimo, rimprovera oggi al continente nero 11 .

Da quando il nostro giovane avvocato dormì con le “mani libere”? Uomo di intelligenza e del giusto mezzo, diede ad ognuno il suo: da una parte non parlerà della masturbazione giovanile né nei suoi trattati di morale, né nei suoi sermoni sulla impurità o sui doveri dei genitori, dall’altra resterà teneramente riconoscente alla madre per averlo protetto e armato contro il peccato: “Quanto di bene riconosco in me nella mia fanciullezza, e se non ho fatto del male, di tutto son tenuto alla sollecitudine di mia Madreamerà ripetere 12 .

 

Dopo di lei sorgente viva della sua forza spirituale restava sempre la comunità dei Girolamini: il P. Pagano, le liturgie, le confraternite. “Decorato che fu colla Laurea Dottorale, fe’ passaggio, due anni dopo, dalla Congregazione de’ Giovanetti Cavalieri, a quella de’ Dottori... e fuvvi aggregato a’ 15 agosto 1715, avendo di età anni dician-

 

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nove. Grande era il bene, che da Congregati in quel tempo si operava in questa sacra Adunanza, come tuttavia si prosiegue con edificazione di tutta Napoli. Animati quei degni Sacerdoti dallo spirito del glorioso S. Filippo lor Fondatore, non trascurano mezzo, per veder imbevuti dello spirito di Gesù Cristo questi tali Congregati, e renderli colle loro sollecitudini cari a Dio, ed utili allo Stato. Alfonso volle profittarne anch’esso. Che se fanciullo gustato aveva tra quei Padri il primo latte della pietà; adulto gustar voleva anche gli alimenti più sostanziali”.

Ogni settimana e anche più spessofrequentava al solito la stanza del P. D. Tommaso Pagano suo direttore nello spirito. Questi era il suo Angelo tutelare; a questi esponeva i suoi dubj; né si appartava in qualunque caso dai di lui consigli: vale a dire, che adulto, ed in questo stato, non si scemò, ma si accrebbe in lui pietà, e divozione. Frequentava i Sacramenti; assisteva agl’infermi negli ospedali; amava con l’orazione la mortificazione di se stesso, e delle proprie passioni; né saliva in Tribunale, senza prima aver assistito alla S. Messa (Don Buonaccia era sempre in casa) e soddisfatto in Chiesa alle proprie divozioni. Ogni otto giorni interveniva in Congregazione; e non trascurava verun obbligo di quei Congregati13 . Ritrovava, anche se a un altro livello, la stessa vita dell’oratorio, che gli era familiare fin dall’infanzia: preghiera e riflessione, letture e conferenze, vespri e laudi, amicizia e distensione.

Nella sua Selva il P. de Liguori aprirà la predica da farsi agli uomini durante le missioni sul “gran bene che apporta il frequentare le congregazioni” con questo testo della Sapienza: “Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni” (7, 11). Lo faranno esplodere in questo grido la sua ventennale esperienza e la sua viva gratitudine per la parola di Dio ascoltata, per l’assiduità ai sacramenti soprattutto all’eucaristia, per la filiale devozione alla Madonna: sono i tre punti della sua esortazione, i tre grazie del congregato dell’Oratorio 14 .

 

La confraternita dei dottori era sotto il patrocinio della Vergine della Visitazione, perché aveva scelto quale opera di carità la visita e la cura dei malati del più grande ospedale di Napoli, Santa Maria del Popolo, sinistramente chiamato Incurabili: mille e trecento giacigli, mille e trecento miserie, fisiche e mentali di uomini e di donne, la maggior parte irreversibili; tutti poveri, naturalmente, dato che i ricchi venivano curati in casa.

L’ospedale era allora la piaga purulenta in cui si fissavano i mali di una società, organicamente ineguale e inconsapevolmente ingiusta, e in esso marcivano i rifiuti dell’umanità in una puzza e in un contagio inimmaginabili. “Le carceri e gli ospedali sono le cloache di una nazio-

 

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ne, le quali disonorano e degradano la specie umana”, scriverà Galanti che riguardo agli Incurabili aggiungerà: “Esso non è che un luogo pestilenziale, dove tutti i mali si accumulano e si moltiplicano15 .

La confraternita dei dottori della Visitazione vi manteneva con le sue elemosine quarantotto posti e offriva le sue cure a trecentodieci malati. Un testimone racconterà di aver visto il nostro futuro moralista, particolarmente colpito dalla vista delle vittime della sifilide 16servire gl’infermi, in unione degli altri Fratelli, col distintivo di Avvocato, nella casa degl’lncurabili, rifare i letti, e con somma carità e divozione ristorarli, e dar loro da mangiare17 .

Il “ distintivo di avvocato ” potrebbe meravigliare, ma era quasi una celebrazione in onore del Cristo sofferente quella che i confratelli della Visitazione, proprio in quanto dottori, svolgevano insieme la domenica a turni settimanali. Queste “ rote ” della misericordiasedevano ” senza spada ma in toga, come quelle della giustizia a Castel Capuano. Il mondo dell’Ancien Régime non si meravigliava del fatto che come scriverà Galanti, “ le società attuali ci presentano da una parte gli spettacoli della magnificenza, della voluttà e del lusso: dall’altra parte quelli della mendicità, della miseria, del dolore ”. Inconsapevole del dovere di abolire queste divisioni sociali, l’Ancien Régime le assumeva come una fatalità naturale, ma le scavalcava anche nella maniera più naturale del mondo, in un accostamento barocco, senza cattiveria da una parte e dall’altra, delle condizioni più disparate.

“ Si viveva nel contrasto: la grande nascita o la fortuna aveva a fianco la miseria... Malgrado lo stridore, questa eterogeneità non sorprendeva, appartenendo alla diversità del mondo, che conveniva accettare come un dato naturale. Un uomo o una donna di classe non provava nessun imbarazzo nel visitare, con i suoi sontuosi abiti, i miserabili delle prigioni, degli ospedali o delle strade mal coperti da pochi cenci. La giustapposizione di questi estremi non imbarazzava gli uni più di quanto umiliasse gli altri. Ancora oggi resta qualcosa di questo clima morale nell’Italia meridionale18 .

Chiuso nell’ambito della sua classe e immerso nei suoi studi, il nostro figlio di famiglia che cosa aveva potuto finora capire dell’immensoabisso ”, che separa fin da questo mondo Lazzaro dal ricco Epulone? L’ingresso nella confraternita della Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana, per anni, l’uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: “ Quello che fate al più piccolo dei miei, lo fate a me ”. Questo povero, questo crocifisso è il Cristo: “ Avevo fame... avevo sete... ero malato... ero Io! ”. Come non averci pensato

 

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prima? Il Cristo aveva scelto di essere dalla parte dei poveri e dei sofferenti. L’amore di Dio non si era piegato sull’uomo, ma si era fatto uomo; non aveva “ scavalcatoprovvisoriamente la distanza che lo separava dai piccoli, ma l’aveva soppressa. L’amore non sopporta distanze.

Non potendo rivoluzionare la società - non sembra che abbia intravisto questa possibilità - , Alfonso, contemplatore del Verbo incarnato e crocifisso, capirà ben presto che il Vangelo non poteva adattarsi a questa giustapposizione di disuguaglianze istituzionalizzate, accontentandosi della “ carità ” dei ricchi per i poveri; Napoli meravigliata non tarderà molto a vedere questo elegante gentiluomo passare definitivamente nel mondo dei poveri. La sua Novena di Natale, pubblicata nel 1758, frutto di circa mezzo secolo di approcci al Cristo, svilupperà questi temi: “ Il Verbo Eterno da Dio s’è fatto uomo; da grande s’è fatto piccolo; da signore si è fatto servo; da innocente si è fatto reo; da forte si è fatto debole; da suo si è fatto nostro; da beato si fe’ tribolato; da ricco si fe’ povero; da sublime si fe’ umile19 . Alfonso de Liguori però non aspetterà quarant’anni per tirarne le conseguenze.

 

Il nostro avvocato si votò ai poveri anche in un’altra confraternita cara ai Liguori, quella di S. Maria della Misericordia, detta Misericordiella, la cui sede si ergeva quasi di fronte al Supportico Lopez al Borgo dei Vergini; fondata nel 1532 da san Gaetano da Thiene, riuniva un giorno al mese i confratelli, che, deposte le spade e rivestita una tonaca bianca con mozzetta rossa, iniziavano con il piccolo ufficio della Madonna una lunga mattinata di preghiera, di predicazione e di Eucaristia.

Quali le opere di misericordia delle quali si facevano carico? Seppellivano gli indigenti del quartiere, accompagnandoli almeno in numero di trenta con il loro salmodiare; tenevano una locanda che ospitava gratuitamente con cortesia signorile per tre giorni i preti pellegrini o stranieri, arrivando fino a lavarne i piedi se necessario; curavano in un ospedale accanto alla locanda i preti indigenti servendoli personalmente con premura e rispetto; infine ogni settimana, rivestiti del camice e della mozzetta, a quattro a quattro, andavano per la città, tendendo la mano per i loro protetti. Dura prova per la loro fierezza ! Alfonso non parlerà mai di sé, ma racconterà che Gennaro Sarnelli, suo confratello, prima ai Tribunali e poi nella sua congregazione, “ andava cercando elemosine per tutta Napoli... con tanta ripugnanza, ch’egli poi diceva sentirsi morire per lo rossore20

Parte del denaro raccolto serviva anche a sollevare gli ecclesiastici detenuti nelle carceri dell’arcivescovato o della nunziatura, per i

 

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quali l’ultima domenica del mese era quasi una festa, quando i confratelli della Misericordiella portavano un po’ di sole al loro cuore e al loro stomaco: una calda amicizia e un buon pasto!

Si entrava nel noviziato della confraternita a diciotto anni con un severo esame scritto e con il voto dell’assemblea generale. Perciò per più di dieci anni, dal 1714 al 1726, Alfonso de Liguori, in camice bianco e mozzetta color sangue, questuò ogni settimana attraverso Napoli per i preti poveri o colpevoli; per più di dieci anni li servì con le sue mani e col suo cuore, accumulando esperienze, scoperte, confidenze, che incideranno profondamente su di lui. Più tardi scriverà: “ Gesù è morto per fare un sacerdote21 , per ora fissava sulla tela la sua contemplazione interiore del Cristo morto per amore.

Il 23 marzo 1726, a quindici giorni dal diaconato, Alfonso si dimetterà dalla confraternita di S. Maria della Misericordia, perché i suoi impegni (teologia, catechismo, missioni, breviario, predicazione) lo rendevano “ molto mancante nell’assistenza dovuta agli esercizi della medesima ”, però di essa egli conserverà, come un fiore che morirà solo con lui, il piccolo ufficio della Madonna che celebrerà filialmente ogni giorno, malgrado allora il breviario fosse tanto lungo. Questo grande lavoratore sarà, più ancora, un gigante della preghiera 22 .

 

A diciotto anni, terminato il suo tirocinio, Don Alfonso era per il padre un “ uomo fatto ”. Don Giuseppe, che l’aveva introdotto al suo fianco alla Misericordiella, d’ora in poi lo condurrà ogni anno a fare I ritiri con se tra i Gesuiti della Conocchia o tra i Lazzaristi del Borgo dei Vergini, suoi antichi vicini. Lo portava anche a teatro, ai ricevimenti mondani e voleva che facesse bella figura a quelli organizzati in casa.

Ne andava giustamente fiero in quanto per la quotazione dei Liguori e dei Cavalieri alla corte imperiale e per la partenza folgorante del giovane avvocato, tutti lo vedevano promosso a breve scadenza al senato del Regno, il Sacro Real Consiglio di S. Chiara 23 .

Alfonso invece mirava ad altre cime. “ Se aveva a cuore... farsi strada ne Tribunali, e rendersi glorioso colla sua saviezza, nientemeno vedevasi impegnato, per avanzarsi nello spirito, e rendersi caro a Dio24 . Dovunque c’era bisogno di cristiani e di santi; il foro però ben presto l’aveva deluso e il peso di Dio si era fatto più pesante, tanto che, fin dal suo primo ritiro alla Conocchia, nel 1714, sembra fosse stato calamitato e irresistibilmente polarizzato dall’assoluto dell’Amore. Quarantaquattro anni più tardi, il 29 agosto 1758, in una conversazione coi suoi confratelli, ricorderà ancora il nome del predicatore, il santo gesuita Nicola Maria Boviglione, e la “ molta impressioneoperata in lui. In ogni caso data proprio da questo periodo l’idea, la

 

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risoluzione e forse anche il voto di farsi teatino, come i due cugini e vicini, i fratelli Domenico ed Emanuele de Liguori, il cui irradiamento apostolico era già considerevole a S. Paolo Maggiore e in tutta la città 25 .

 

Di qui nacque il lungo dramma di nove anni (1714-1723), con il rifiuto di tutti i meravigliosi progetti di matrimonio accarezzati da Don Giuseppe e l’impossibilità di svelare il suo segreto a un padre, dominatore e collerico, che non avrebbe potuto né comprenderlo, né sopportarlo.

Alfonso attendeva l’ora di Dio mantenendo verso il padre una soggezione accettata e misurata, una riservatezza discreta che gli aggiungeva fascino e un rispetto timoroso, mai in difetto, tranne una volta.

Quella sera, al momento del commiato dopo una brillante riunione di dame e di gentiluomini in casa Liguori, un servo non si era trovato al suo posto per far luce con la fiaccola. Il comandante fu così colpito nel suo amor proprio da questa incrinatura dell’etichetta che, appena usciti gli invitati, prese in disparte il lacchè e, facendo del fortuito incidente un crimine, fuori di sé, in un andare e venire furibondo, lo vituperava con un crescendo di rimproveri senza fine. Alfonso, che soffriva per il povero domestico, non resistette più:

- Che cosa è, Signor Padre, quando cominciate non la finite più !

L’espressione era troppo giusta per poter essere sopportata e Alfonso, a portata della mano paterna, ricevette un ceffone, che non dimenticherà più. La mano di un capitano di galere non era certo quella delicata di una signorina e quale oltraggio uno schiaffo in presenza di un valletto a uno dei primi avvocati del Regno, per di più cavaliere!... Alfonso senza una parola si ritirò in camera.

All’ora di cena il suo posto restò vuoto e la madre, che era andata a chiamarlo, lo trovò in lagrime, ai piedi del crocifisso, sconvolto non dall’affronto subito o dalla brutalità del padre, ma per avergli mancato di rispetto:

- Ho avuto torto, mamma. Te ne prego, fa’ che mi perdoni! Si presentarono insieme all’irascibile ufficiale, che di fronte ad Alfonso, confuso in scuse commosse, troppo felice per uscirne avvantaggiato, lo abbracciò e lo benedisse, segretamente vergognoso di sé e pieno di ammirazione per un figlio più grande di lui, dal momento che era più facile a un cavaliere dare l’assalto alle galere turche che padroneggiare la sua collera o la sua fierezza... I servi di casa, d’ora in poi, sperimenteranno uragani più rari e meno tonanti.

 

Tra questi ci fu uno schiavo fortunato. Nato a Rodi verso il 1697, Abdallah, catturato nel corso di una caccia ai pirati, era stato scelto per

 

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il gruppo di schiaviturchi ” al servizio in casa Liguori e destinato da Don Giuseppe per le sue buone disposizioni (si sa, questi prigionieri non erano certo angeli custodi e a volte uccidevano anche il padrone) come lacchè personale del suo primogenito. Abbottonato nella ricca livrea, Abdallah serviva il giovane padrone, seguendolo dovunque andasse, tribunali, chiese o ospedali.

Un bel giorno chiese di farsi cristiano tra lo stupore generale in quanto nessun musulmano in schiavitù in casa Liguori aveva mai formulato una simile richiesta e Abdallah non era stato spinto dal suo padrone, che si era guardato bene dal “ pregarlo ”. Pressato da domande, il giovane moro spiegò:

- Mi son mosso dall’esempio del mio Padrone, non potendo essere falsa questa Religione, in dove il mio Padrone vive con tanta onestà, e divozione, e con tanta umanità verso di me.

Raggiante Alfonso fece esaminare il catecumeno da un Oratoriano suo parente, il P. Marcello Mastrillo, che concluse:

- Ma si, è cosa seria. Datelo a me e me ne incarico io di istruirlo nella fede.

Felicissimo l’avvocato gli “ diede ” lo schiavo, nella misura in cui era nelle sue possibilità il “ darglielo ”. Il P. Mastrillo, infatti, dovette versare il riscatto alle galere reali, in quanto Don Giuseppe, ufficiale superiore, non era tenuto a comprare i prigionieri mori di cui aveva bisogno, ma si limitava a “ prenderli in prestito ” dalla marina militare.

Tra i Girolamini Abdallah cadde ammalato e il nuovo padrone lo fece ricoverare presso i Fratelli di S. Giovanni di Dio. Una notte cominciò a chiamare con insistenza perché voleva subito il battesimo che gli fu impartito con il nome di Giuseppe Maria da Mastrillo e dal vicario della parrocchia S. Tommaso a Capua, prontamente accorsi.

- Eccoti felice, gli disse allora il P. Mastrillo, ora riposati.

- Non è tempo di riposo, rispose il neofita, perché or ora dovrò esser in Paradiso.

E morì a diciotto anni “ a capo di mezzora... con aria ridente ”. Il suo atto di battesimo e di ingresso in cielo portava la data del 20 giugno 1715 26 .

 

Anche Alfonso non ne contava di più. Dottore dal 1713, esercitava già da un anno e il fervore degli inizi, che avrebbe potuto crollate come fuoco di paglia, resisteva alla prova del tempo e della realtà, perché la messa e l’orazione quotidiana, le lunghe adorazioni eucaristiche, l’amore alla Madonna, la frequenza all’oratorio mantenevano intatte le sue prime risoluzioni. Forse Alfonso era di un metallo diverso dal nostro?

 

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Informato e preciso, Tannoia ci rassicura:

“ Troppo segnalata, fino a questo tempo, fu la virtù di Alfonso; ma non v’è cosa tanto da temersi nell’uomo, quanto la propria incostanza... Confessava Alfonso, essendo vecchio, che in quest’età sofferto aveva non poco raffreddamento nello spirito; e che erasi veduto in pericolo di perdere Iddio, e l’Anima. Le continue conversazioni, nelle quali da suo Padre veniva introdotto; il teatro, che per ubbidire al medesimo, spesso spesso frequentava; l’assistere, o sedersi a tavolini, benché in giuoco di puro divertimento, avevano a poco a poco divagato in maniera il suo cuore, che più non provava, come per l’innanzi, quell’ardore per la virtù; né più gradiva quella manna, che per l’addietro faceva la delizia del suo Cuore. Aggiungasi l’applauso, che da per tutto godeva; le richieste in matrimonio, i felici augurj de’ servidori; i saluti, che non mancavano, o dalle Signorine, o dai loro Parenti: tutte queste cose titillarono in modo le sue passioni, che alterato il cuore, più non sperimentava il solito fervore. Così intiepidito qual era, picciolo che fosse il motivo, tralasciava volentieri or uno, or un altro esercizio di pietà. Se più persistito fosse, come ei diceva, in questo suo raffreddamento, non poteva mancare di piombar un giorno in qualche fosso27 .

Nell’introduzione alle sue Visite al SS. Sacramento (1745) lo stesso Alfonso confesserà: Nel mondo “ per mia disgrazia son vissuto sino all’età di 26 anni... Credetemi che tutto è pazzia: festini, commedie, conversazioni, spassi, questi sono i beni del mondo, ma beni tutti pieni di fiele e di spine: credete a chi ne ha l’esperienza e la sta piangendo28 .

È rimpianto tardivo di un santo, la cui viva fiamma ha ridotto in cenere ogni cosa della sua vita mondana: vita di tempo perduto (il crimine dei crimini per il Liguori) certo; vita di incanto, sicuramente; vita di peccato? Lo si può giudicare dalla “ spina ” che lo aveva affascinato maggiormente, il teatro.

Benché a quel tempo i vescovi e gli stessi pubblici poteri facessero spesso perseguire i commedianti girovaghi, istrioni di fiera, per i “ fiammiferi d’impudicizia ” da loro smerciati, il grande teatro non era mai stato oggetto di fulmini da parte della Chiesa universale. Nei secoli XVII e XVIII le Chiese riformate di Francia, i messieurs di Port-Royal, l’arcivescovo e i parroci di Parigi, Bossuet e il corteo dei suoi seguaciscomunicavano ” gli attori, ma Alfonso de Liguori, avvocato prima e poi moralista, ignorava queste scaramucce gallicane, che passavano il mare verso la Nuova Francia, ma non le Alpi verso l’Italia 29 .

Il P. de Liguori, quella sera del 29 agosto 1758, quando per miracolo si lascerà andare alle confidenze, ricorderà che nella sua giovinezza aveva frequentato molto il teatro S. Bartolomeo, non per riem-

 

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pirsi l’occhio dei volteggi delle ballerine e delle grazie delle prime donne (era tanto miope e si toglieva gli occhiali! ), ma per lasciarsi letteralmente inondare, tutto orecchi, dalla musica, in quanto il teatro napoletano nell’inizio del secolo XVIII era l’opera.

Tagliati gli ultimi ponti della scena con il verosimile, L’opera cantava gli stessi dialoghi, adattando parole, frasi e azione alla musica promossa sovrana e, addolcendo il dramma, lo faceva naufragare tra i flutti dell’orchestra e del bel canto.

Sua patria naturalmente era la musicale Italia e Napoli (precisamente il teatro S. Bartolomeo) il centro da cui si irradiava sul mondo con Alessandro Scarlatti e la sua scuola, conquistando ogni città italiana, ogni capitale europea.

“ L’Europa adottava con entusiasmo l’opera italiana. L’Italia, che ne ha dato il modello, è la sorgente inesauribile da cui partono le onde sonore; fornisce all’Europa intera tanto la musica che gli interpreti è la stessa Melodia. Così i suoi melodrammi invadono le nazioni vicine Parigi vorrebbe resistere; ma il genio che oppone agli italiani è pure italiano, Lulli (1632-1687). Amburgo resta a lungo fedele alla musica tedesca, ma finisce per cedere. Il mondo dell’opera non è più che una colonia italiana.

Da dove derivano, a loro volta, questo trattamento di favore e questa egemonia? La letteratura era solo un’umile serva, alla quale la musica imponeva le sue leggi. La musica esigeva qua un’aria, un duetto, più in un coro; voleva che tanti versi a tale ritmo venissero riservati al tenore, al basso; comandava perfino il vocabolario, che doveva offrire solo ciò che era armonioso. Allo scrittore essa chiedeva docilità e destrezza, permettendogli solo di ubbidire al compositore, al maestro d’orchestra, alla prima donna. E la lingua italiana, più ricca e più sonora, più armoniosa e più varia di tutte le altre lingue europee, riguadagnava qui il prestigio, che aveva perso per quanto riguardava I espressione delle idee.

La musica italiana, che delizia! che zampillar di suoni sfuggente a ogni norma! che calda ricchezza! che abbondanza! che trionfante facilità! Generosa, inesauribile, offriva a un pubblico che non ne poteva più fare a meno ciò che non aveva la musica francese e ciò che non aveva la musica di nessun altro paese: la verve, il brio, il carattere. Sì, il carattere, sempre sottolineato, sia per la vivacità, sia per la tenerezza. Non cercava un’armonia dolce, uguale, unita, non procedente se non per passaggi, prudente, logica: essa osava, rischiava; e con le sue stesse arditezze inebriava l’anima30 .

Fu la sola ebbrezza alla quale si abbandonò veramente l’allievo di Gaetano Grieco, ed essa lo salvò dalle altre. Un giorno, parlando dei

 

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pericoli del mondo a un giovane discepolo, Bernardo Maria Apice, Alfonso si lascerà andare a questa confidenza:

“Io ho frequentato i Teatri, ma grazie a Dio non ci commisi un peccato veniale: ci andava per dilettarmi della Musica; mi fissava in questo, e non pensava ad altro ” 31 .

Dio stava per prenderlo interamente, senza lasciarlo più pensare ad altro.

 

La sera del sabato 28 marzo 1722, ai primi vespri delle Palme, una quarantina di signori, in piccoli gruppi, entravano per uno stretto ritiro di otto giorni nella casa dei Preti della Missione (i Lazzaristi) di Piazza dei Vergini: Carafa, Filomarino, Spinelli, Ruffo, Francesco, Giuseppe e Carlo Capecelatro, il “ Signore D. Giuseppe de Liguori e il s. D. Alfonso suo figlio”. Francesco Capecelatro, duca di Casabona, intimo di Alfonso, lo aveva condotto con sé: semplice desiderio di spartire con un amico un tempo forte di fede o mano tesa a un fratello che sentiva slittare via? La vita dei santi è intessuta di grazie decisive che portano nomi e volti di uomini.

Al nome di Francesco Capecelatro bisogna aggiungere quello del predicatore, il P. Vincenzo Cuttica, di cinquant’anni, superiore della casa, “ uomo tutto di Dio, e sempre degno di memoria... avendo Iddio nel cuore e sulle labbra ”, come dice Tannoia.

“La Grazia, che lo (Alfonso) seguiva, e non volevalo abbandonare, facendosi sentire alla porta del cuore, li fe’ conoscere qual era il divario tra il tempo presente, ed il passato: che seguendo il mondo né anche saziavasi di ghiande; amando Iddio per l’addietro, e sedendo alla Mensa dell’Agnello, vedevasi satollo, non avendo che desiderare.

Profondato in queste meditazioni, furono per esso questi Esercizi un’acqua serotina, che cadde a tempo sopra un terreno, che già già minacciava inaridirsi; e germogliare si videro in cuor suo quei semi di pietà, che le spine delle passioni, se non estinte, per lo meno incominciato avevano a soffocare. Entra a momento la luce di Dio nell’Anima sua; piange Alfonso il suo divagamento ; e risoluto promette a Dio emendare in meglio quello, che stolto aveva intrapreso. Questo, che aborrì piangendo a’ pie’ del Crocifisso in questi Esercizj, quest’istesso detestava anche vecchio con lagrime di dolore32 .

I figli di san Vincenzo de’ Paoli, che nutrivano i loro esercizianti con la spiritualità tanto positiva della scuola francese - “ le verità e l’eccellenza di Gesù Cristo nostro Signore ” - , non trascuravano per questo la carta vincente del timore. Nella predica sull’inferno, il P. Cuttica scosse fortemente gli animi con il quadro dell’Anima dannata, visibile ancora oggi nella chiesa dei Lazzaristi a Napoli: una grande immagine del Crocifisso, in carta incollata su tela, con il bordo

 

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inferiore bruciato dall’impronta delle mani infuocate di una dannata, che sarebbe apparsa al suo amante nel 1711 a Firenze. Portato a Napoli nel novembre 1712 dal P. Bernardo Giuseppe Scaramelli, questo quadro veniva mostrato in tutti i ritiri, perciò i Liguori l’avevano già visto tutte le volte che avevano seguito gli esercizi spirituali a Piazza dei Vergini. Questa volta, allora, L’impressione sul nostro avvocato fu più viva per effetto della sua tiepidezza? Sta di fatto che nelle prediche o nelle meditazioni sull’inferno, che ci lascerà, Alfonso non farà alcun accenno a questo quadro.

Il sabato santo, 4 aprile 1722, le campane del Gloria squillarono su un Alfonso diverso che aveva dato un addio definitivo al mondo e alle sue vanità, anche al teatro, e aveva promesso ai piedi del Crocifisso di vivere nel celibato, per Dio solo e la sua salvezza. Le sue “ visite ” saranno d ora in poi agli Incurabili e al SS. Sacramento.

Le sue Canzoncine spirituali saranno piene del ricordo di questo sradicamento vittorioso. Tra cento altre ecco una strofa:

 

“ Tu puoi darmi quanto vuoi,

Non m’inganni, o mondo, no.

Va’, dispensa i beni tuoi

A chi stolto li cercò.

Pompe vane, o rei piaceri,

Non sperate ch’io vi speri.

Ch’altro Ben m’innamorò... ” 33 .

 

Fino alla morte Alfonso proclamerà che i santi esercizi del 1722 erano stati la più grande misericordia ricevuta da Dio nella sua vita e non verrà mai meno nel suo ringraziamento al Signore e all’amico, il cavaliere Capecelatro 34 .

Sei mesi più tardi, il 21 settembre 1722, ancora nel fervore del t ritiro ed evidentemente per fortificarsi nelle lotte senza tregua, in cui lo avrebbero impegnato le sue scelte irrevocabili, Alfonso ricevette la confermazione dalle mani di Mons. Giuseppe Maria Positano, vescovo di Acerra. A ventisei anni!

Perché tanto tardi? I sinodi diocesani non dicevano niente sull’età e non avevano, del resto, niente da segnalare riguardo a questo sacramento: I uso era di conferirlo agli adulti di venti, trenta o... sessanta anni 35 .

Forte della propria esperienza e della riflessione sulle Vittorie dei martiri, Alfonso teologo vedrà nella confermazione “la fortezza di spirito”, “la forza a combattere contro i nemici”, la “forza d’amare con amore più forte della morte”, la “forza per soffrire ogni cosa per Dio, e per combattere per la Fede senza timore36 .

 

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Alfonso attingerà abbondantemente la forza d’amare anche nell’Eucaristia: comunione più volte la settimana, visita quotidiana al SS. Sacramentoesposto alla venerazione delle Quarant’ore in qualunque Chiesa vicina, o lontana che fosse. Non corteggiavalo per momenti, come si suole da’ mezzamente divoti; ma stavasene a contemplarlo per più ore, con edificazione del pubblico, e con soddisfazione non poca del proprio cuore. Godeva vederlo corteggiato sugli Altari, e maggiormente se con pompa di apparato37.

Fuoco di paglia di pochi mesi?

“Questo pio esercizio, continua Tannoia, non fu mai da lui interrotto in tutto il tempo, che stiede in Napoli da Secolare, e da Sacerdote, e sempre che da congregato si portava in Napoli, né anche mancava visitarlo ove sentivalo esposto alla pubblica venerazione. Mi attestò il nostro P. D. Giovanni Mazzini, che anche secolare vedevasi estatico per più ore ginocchione avanti del Sagramento, che vedevasi immobile cogli occhi fissi nell’Ostensorio, e così alienato da sensi, che talvolta senzaché se ne accorgesse se gli vedeva decaduta la parrucca a mezza testa. Che questa somma divozione del Servo di Dio verso Gesù Sagramentato era tale, che attirava l’ammirazione, e faceva la confusione di tanti Ecclesiastici, ancorché divotissimi ”.

- Chi è? ci si chiedeva.

Si veniva a vederlo, si ritornava a rivederlo, si invidiava il suo fervore, lasciandosi conquistare; nacquero sante amicizie come quella di Giovanni Mazzini, allora seminarista diciottenne 38 .

L’innamorato porta sempre fiori alla sua amata. Nella vicinissima parrocchia di S. Angelo a Segno, l’altare era sempre riccamente fiorito a spese di Alfonso.

Offrire fiori alla propria donna durante la luna di miele significa essere sposo novello, portargliene ancora dopo trent’anni di matrimonio significa essere profondamente innamorati. “ Quest’ossequio di adornare il sacro altare di varj fiori, scrive Tannoia, fu costante in Alfonso in tutta la sua vita. Vivendo tra noi, anche procurava i semi più preziosi, e colle proprie mani cogliendone i fiori nel giardino, rendevane adorno l’Altare. Invidiava quelle innocenti creature, come si spiega in una sua canzone, che avevano in sorte stare notte, e giorno d’intorno al loro Creatore39 :

 

Fiori felici voi, che notte e giorno

Vicini al mio Gesù sempre ne state;

Né vi partite mai, finché d’intorno

Tutta la vita al fin non vi lasciate.

 

Oh potess’io far sempre il mio soggiorno

In questo luogo bel dove posate!

 

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Ahi qual sorte saria la mia, qual vanto,

Finir la vita alla mia Vita accanto! ” 40 .

 

Nella settimana santa del 1723 Alfonso seguì di nuovo il ritiro del P. Cuttica, ravvivando il suo proposito “di solo attendere a Dio ed a se stesso, e di non voler sapere di Matrimonio ”. Nella logica di questa scelta, che rifiutava di assicurare la discendenza ai Liguori, fece un grande passo avanti: “risolvette ancora voler cedere la primogenitura a D. Ercole suo Fratello, senza lasciare i Tribunali41.

Ma non riportava al servizio della giustizia costanti successi?

 

 

 

 

 





p. 127
1 Vita e morte della suor Teresa M. de Liguori, ed. Marietti, IV, p. 669.



2 Lettere, II, p. 504



p. 129
3 Contributi, pp. 48-58, corretti e completati da SH 6 (1958), pp. 264-270; 7 (1959), pp. 214-215.



p. 130
4 Summarium, pp. 60, 61, 62, 66.



5 ASN, Manoscritti 230, n. 5133. Questo documento toglie ogni attendibilità all’ipotesi di TELLERIA in SH 6 (1958), p. 268 di un “fidanzamento ” di Alfonso con la seconda figlia dei Liguori-Raitano, Antonia, mai ereditiera. Inoltre, le testimonianze del Summarium sono in favore di Teresa e inesistenti per Antonia.



6 TANNOIA, I, pp. 14, 20-21; SH 6 (1958), p. 270; “ S. Alfonso ”, 23 (1962), pp. 113-116.



p. 131
7 Summarium, p. 64, par. 33.



8 TANNOIA, I, p. 20; Summarium, p. 62, PAR. 22.



9 TANNOIA, I, p. 13



p. 132
10 PH. ARIES, L’enfant et la vie familiale sous l’Ancien Régime, Paris 1973, pp. 148-166.



11 J. VAN USSEL, op. cit., pp. 198-231.



12 TANNOIA, I, p. 7.



p. 133
13 TANNOIA, I, p. 12.



14 Selva di materie predicabili, parte III, c. VIII, par. 2: Marietti, III, pp. 265-267. cf. Le Glorie di Maria, parte IV, IV, ossequio 7: Opere ascetiche, VII, pp. 344-348.



p. 134
15 GALANTI, op. cit., 1. IV, cc. IV, VIII.



16 TELLERIA, I, p. 67; S. ALFONSO, Sermoni compendiati, XLV, 10: Marietti, III, p. 553.



17 TANNOIA I, p. 12.



18 ARIES, op. cit., pp. 315-316.



p. 135
19 Novena del Santo Natale: Opere ascetiche, IV.



20 Riproduzione di tutte le opere del S. di Dio d. Gennaro Sarnelli, Napoli 1848, t. i, p. 29.



p. 136
21 Selva..., parte I, c. I 4, ibid., 8.



22 Contributi, pp. 58-64; TELLERIA, I, pp. 67-68.



23 TANNOIA, I, p. 14.



24 TANNOIA, I, p. 12



p. 137
25 TANNOIA, I, pp. 12-13; TELLERIA, 1, pp. 62-63.



p. 138
26 TANNOIA, I, pp. 13-14; Summarium, p. 69, par. 64; Contributi, p. 48, n. 2; TELLERIA, I, pp. 69-70.



p. 139
27 TANNOIA, I, p. 16.



28 Opere ascetiche, IV, pp. 296-297.



29 CH. URBAIN-E. LEVESQUE, L’Eglise et le théatre, Paris 1930: Introduction, pp. 8-65. cf. J. LAFLAMME - R. TOURANGEOU, L’Eglise et le théatre au Quebec, Montréal 1979.



p. 140
30 HAZARD, op. cit., t . II, pp . 206-207 .



p. 141
31 TANNOIA, I, p. 18.



32 TANNOIA, I , p. 17.



p. 142
33 GREGORIO, Canzoniere alfonsiano, p. 299, III strofa.



34 TANNOIA, I, pp. 17-18; Summarium, p. 70, par. 72; TELLERIA, I, pp. 81-83; AGR, XXVII, 33



35 ASDN, Processo apostolico, Responsio ad animadversiones, p. 19.



36 Istruzione al popolo, parte II, c. III, 6: Marietti, IX, p. 954; Istruzione e pratica pei confessori (Homo Apostolicus), c. XIV, 53: ibid., p. 326; Novena dello Spirito Santo, VI: Opere ascetiche, I, p. 256; SH 4 (1956), p. 274.



p. 143
37 TANNOIA, I, p 19



38 Summarium, pp. 70-71, 72-73.



39 TANNOIA, I, p. 19.



p. 144
40 GREGORIO, op. cit., p. 235.



41 TANNOIA, I, pp. 19-20.



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