Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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Parte prima “NOBILE, GIOVANE E RICCO” (1696-1723)

12. - PROCESSO PERSO O CAUSA VINTA? (1723)

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12. - PROCESSO PERSO O CAUSA VINTA?

(1723)

 

“A 29 agosto 1758 nella ricreazione, la sera, con occasione ch’erano il giorno antecedente 1 come compiti tanti anni che il Nostro Padre s’era dato a Dio, disse varie cose su questo soggetto... Difendeva il Nostro Padre d’avvocato il signor duca di Gravina in una lite di seicentomila ducati incirca, che verteva colla casa de’ duchi di Toscana. E perché l’affare era di tanta conseguenza, ci aveva studiato molto e molto tempo. Il punto stava in dichiarare se un feudo era nuovo o antico. Il Padre Nostro sosteneva ch’era vecchio e ci aveva fatto un lungo discorso, quando uno de’ giudici, forse il signor Magiocco, disse che si fosse letto il diploma della concessione, ove si trovò espressa la clausa "in novam". E pure questa scrittura era stata varie volte letta dal Nostro Padre... Queste cose sono quasi nelli stessi termini state raccontate in questa sera, 29 agosto, dal Nostro Padre, ed io dopo mezz’ora mi posi a scriverle”.

Decretiamo senz’altro la “penna d’oro” al giovane P. Pasquale Bonassisa per questa confidenza colta al volo e fissata con cura. Il suo umile foglio, sottratto dopo quasi duecento anni al sonno degli archivi, farà giustizia di una lunga leggenda su un avvenimento chiave dell’avventura di Alfonso de Liguori 2 .

Con astuta umiltà, in quella sera del 29 agosto 1758, il fondatore dei Redentoristi disse tanto quanto bastava per far associare i suoi figli al suo ringraziamento e per permettere loro di... ingannarsi sulla sua abilità professionale. Nella ricerca affannosa di spiegazioni, Tannoia e gli altri biografi finiranno col perdere la strada nel dedalo dei diritti lombardo e angioino. Secondo loro la carta decisiva del processo di evidenza abbagliante sarebbe passata cento volte sotto gli occhi dell’avvocato, sfuggendo alla sua attenzione, e con un solo colpo avrebbe gettato a terra il castello in pietra di un’arringa sicurissima di se stessa. Sconfitto, Alfonso avrebbe lasciato per sempre il foro con una apostrofe degna di Corneille, ma, data la situazione, ridicola e incoerenze: “Mondo, ti ho conosciuto!”. Sulla bocca di un adulto responsabile,

 

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infatti, le parole giuste secondo le circostanze sarebbero dovute essere: “Alfonso, ti ho conosciuto! Sei un imperdonabile distrattone!”.

Il “provvidenzialeaccecamento del grande avvocato, prima, e poi l’illogicità del suo proposito gettavano l’ombra di più dubbi su tutta la scena. Ma come far luce?

Tannoia dava la data di quel processo: 1723; la posta in gioco: da cinquecento a seicentomila ducati; il nodo della lite: un feudo del quale bisognava determinare se la concessione fosseantica” o “nuova”; infine il nome di uno dei protagonisti: il granduca di Toscana. Si interrogava però sul cliente di Alfonso: un Ruffo? un Orsini? o qualche altro “de’ primi Magnati del Regno”?

Fortunatamente negli anni Quaranta di questo secolo un felice ricercatore portò alla luce nell’archivio generale dei Redentoristi la nota presa a caldo dal P. Bonassisa la sera del 29 agosto 1758, che indicava il cliente di Alfonso: il duca di Gravina, allora Filippo Orsini. Dato che nel 1723 non erano stati certo molti i processi del duca di Gravina contro la Casa di Firenze, diventava possibile la speranza di risolvere l’enigma, anche se, non dimentichiamolo, i nomi degli avvocati non figuravano negli incartamenti del tempo. E infatti Raimondo Telleria nell’archivio di Stato di Napoli identificò il feudo in questione: Amatrice; e scoprì le precise rivendicazioni degli Orsini nei riguardi dei Medici. A sua volta, Oreste Gregorio, frugando nell’archivio di Stato di Firenze, ritrovò in tutta la sua ampiezza e nei minimi particolari quello che per il nostro avvocato era stato il processo della sua vita 3 .

 

Per comprendere il gioco, bisogna risalire fino a Carlo V.

Il grande imperatore, che conosceva bene l’arte dello spogliare i suoi oppositori per arricchire i suoi valorosi capitani, nel 1538 concedeva ad un certo Alessandro Vitelli l’investitura del feudo di Amatrice: a lui e a tutti gli eredi legittimi del suo sangue, uomini e donne, per sempre (successoribus ex suo corpore legitime descendentibus... in perpetuum). Amatrice era allora un piccolo centro di 1216 fuochi nel nord degli Abruzzi, nell’attuale provincia di Rieti. Alla morte di Alessandro il feudo passò al figlio Giacomo, che ebbe due figlie: Beatrice e Isabella. Quest’ultima sposò Ippolito della Rovere e la pronipote Vittoria creerà l’astuto imbroglio che Alfonso tenterà di dipanare.

Alla primogenita Beatrice Vitelli, erede naturale di Amatrice, che aveva sposato nel 1586 Virginio Orsini di Bracciano, successe il figlio Latino e quindi il nipote Alessandro.

Le cose cominciarono ad imbrogliarsi nel 1648, quando Alessandro Orsini per aver ucciso la moglie, dopo tredici anni di matrimonio, fu condannato a trent’anni di prigione, con notevoli danni e interessi da pagare a destra e a manca. Per “finirlo”, l’unico figlio, Felice,

 

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gli richiese per via giudiziaria 245.560 scudi, per vendicare l’onore della madre, ma morirà ben presto, senza figli alla corte di Vienna, lasciando tutti i suoi beni - perciò anche la baronia di Amatrice - all’imperatore Leopoldo I.

La “sua” baronia? Il padre, che gli era sopravvissuto, all’uscita di prigione, riprese il suo feudo, lasciando all’imperatore solo ipoteche, difficili da stabilire, più difficili ancora da valutare.

Ecco in prospettiva le basi per un primo processo.

 

Ma eccone un secondo.

Uscito di prigione, Alessandro Orsini di Bracciano non aveva eredi, ma aveva debiti a non finire. Dovendo in particolare 150.000 ducati più una rendita annuale di 4.000 al cugino Domenico Orsini, duca di Gravina e Solofra, con un atto notarile del 1688, confermato dall’assenso regale, gli cedette in garanzia la baronia di Amatrice, “assicurandogliene il godimento, a lui e ai suoi eredi, senza che alcuno possa molestarli, finché non ne avranno ricavato tutto il loro dovuto”.Così gli Orsini di Gravina presero il posto a Amatrice degli Orsini di Bracciano.

Quattro anni dopo nel 1692, morto il principe Alessandro Orsini, sfinito dagli anni, dai malanni e dai debiti, si scatenò sulle sue spoglie la caccia dei creditori. Ma la Real Camera della Sommaria, che stava all’erta come il ragno nell’angolo della sua tela, volle appagare tutte le sue brame, servendosi per prima: il feudo di Amatrice ritornò alla Corona (di Spagna) e gli altri beni vennero gettati nelle fauci insaziabili del fisco, senza che restasse neppure un carlino per gli altri creditori. Dopo tutto, né l’imperatore di Germania, né gli Orsini di Gravina erano discendenti diretti - ex suo corpore - del capitano di Carlo V, Alessandro Vitelli...

 

A questo punto si fece avanti la pronipote di Isabella Vitelli, la granduchessa di Toscana Vittoria di Montefeltro della Rovere, vedova del granduca Ferdinando II de Medici, che come gli altri faceva la posta alla coppa montagnosa delineata da Amatrice intorno al suo soleggiato lago, sapendosi discendente diretta del capitano di Carlo V. Nel 1692, alla morte del cugino Alessandro Orsini, per far valere i propri diritti, scelse quale procuratore a Napoli il giureconsulto Michele Geronimo Cattaneo.

Apprese ben presto, però, che Amatrice le avrebbe apportato anche pesanti oneri di fronte al fisco spagnolo, all’imperatore e soprattutto agli Orsini di Gravina...

Ma che importa! Per una testa coronata un’altra testa coronata può ben darsi da fare con le mille astuzie del diritto!

 

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- Signora granduchessa, lei, come solo titolo per rivendicare il feudo di Amatrice, ha la concessione antica fatta da Carlo V al suo antenato Alessandro Vitelli. Proprio di questo diritto di sangue, di questo diritto antico lei si avvale per reclamarlo. Però lo vorrebbe libero dalle sue pesanti ipoteche. La comprendiamo, Serenissima, e non dobbiamo metterci a litigare. Versi allora al fisco la somma di 28.000 ducati (la tariffa antica) e per lei verrà a costituirsi un diritto completamente nuovo, libero dai debiti di Alessandro Orsini

Ingiustizia stridente, ma ufficiale, contro gli Orsini di Gravina!

La cedolare reale, che si può leggere negli archivi di Stato di Napoli, dice infatti:

“Il 3 maggio 1693 il fisco cede in beneficio alla Serenissima granduchessa di Toscana la città di Amatrice con tutto il suo stato in feudo nuovo (in feudum novum), con tutti i diritti annessi” e con l’impegno di liberare il fisco di ogni evizione, restituzione o rivendicazione d’altri aventi diritto.

Si deve fare ben attenzione al testo: il fisco temeva di vedersi ritorcere contro i creditori di Amatrice, che pure aveva l’iniquità di spogliare.

Il tiro mancino però fu ben presto sanzionato dall’assenso reale e il 29 maggio 1693 il conte di S. Stefano, Francesco de Benavides, viceré, “investi in feudo nuovo, in beneficio di detta Serenissima granduchessa di Toscana Vittoria Montefeltria - della Rovere, assente, il predetto Dott. Michele Geronimo Cattaneo”.

Senz’altro per cattiva coscienza e nella speranza di prevenire ogni contraccolpo, il privilegio di concessione, rilasciato in copia il 4 giugno, ricorreva a questa clausola: “Verum li beni, entrate e ragioni si fussero intese cesse in novum feudume vi ritornava ancora in un documento annesso, come il criminale sul luogo del delitto:

“E perché la transattione seguita con detta Serenissima... si fusse pagata l’adoha iuxta la tassa antica, ancorché fusse stato quello venduto in feudum novum et iuxta feudum novum....

La porta quindi era stata chiusa a quattro mandate sulla faccia dei creditori del feudo antico. Così si trafficava allora il “ diritto ”, ma che fine faceva la “giustizia”?

Gli Orsini di Gravina tentarono un’offensiva, ma Cattaneo, contestando i loro titoli, li impigliò nel groviglio delle leggi e impose loro il silenzio; Vittoria della Rovere divenne così baronessa di Amatrice ma per pochi mesi. Alla sua morte il 6 marzo 1694, il feudo passò al figlio, il granduca Cosimo III de Medici (1642-1723), e questo losco affare, al pari di tanti altri, avrebbe potuto dormire fino al giudizio universale, se...

 

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Nel 1716 si apriva a Napoli un lungo processo relativo alla baronia di Amatrice, che l’imperatore Carlo VI in persona, contro Cosimo III de Medici, rivendicava per sé. In forza di quale diritto? Del testamento di Felice Orsini fatto a Vienna in favore dell’imperatore Leopoldo I, suo padre.

Era lo stesso problema che, per un altro cliente, avrebbe dibattuto l’avvocato de Liguori: la transazione in feudum novum, trafficata dal fisco con la granduchessa Vittoria, liberava il feudo di Amatrice dalle precedenti pendenze?

Procuratore degli Asburgo era Giuseppe Sorge, che come giureconsulto “ebbe credito e riputazione grandissima sopra tutti i contemporanei4 e inoltre (buon per noi) ebbe la rara passione di scrivere pubblicando due Allegazioni e un Ristretto sulla causa del suo imperiale cliente e una monumentale opera giuridica 5 nella quale veniva ripreso il dibattito. La sua argomentazione si riassumeva in due proposizioni:

“Un feudo concesso con assenso reale a chi di diritto può ereditarlo, non è nuovo ma antico”. Questo primo punto però non riscuoteva l’unanimità degli specialisti in diritto feudale.

“Un feudo di cui si mantiene il possesso in forza di una transazione con il fisco è antico e non nuovo, perché il fisco non dava l’investitura di un feudo, ma solo lo liberava, dietro pagamento, degli obblighi che eventualmente lo gravavano di fronte allo Stato. Tale era anche il parere dei migliori specialisti.

La forza del punto di vista di Sorge è evidente.

Contro di lui, il procuratore del granduca, il marchese Giovanni Battista Cecconi, aveva scelto due eccellenti avvocati, Ruffo e Camarota, e mobilitato per assisterli un’équipe gagliarda composta da Rocca, Jovino, Bruno, D’Onofrio con a capo Caravita. Tra tante dita, per tanti anni (1716-1724) dovette scorrerne di denaro!

Lasciamo per ora da parte questo processo imperiale, di cui ci interessano solo due fatti:

- Sorge, stella del diritto napoletano, sosteneva il punto di vista, che sarà perorato da Alfonso, e cioè che il feudo, ceduto dal fisco ai Medici, non era con questo liberato dei suoi antichi debiti

- Il presidente del Sacro Real Consiglio, Domenico Caravita, era per il “ feudo nuovo ”, e cioè con gli avversari di Alfonso che, ora, stava per entrare in lizza.

 

Filippo Orsini di Gravina fu forse stuzzicato dallo scalpore prodotto dal processo imperiale contro i Medici? Il feudo, che si disputavano Vienna e Firenze, era del padre, il principe Domenico Orsini, al quale era stato ingiustamente sottratto da Vittoria delIa Rovere.

 

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Pur non avendo alcun diritto di sangue per rivendicarlo (non era discendente di Alessandro Vitelli), ne deteneva però il titolo creditizio del 1688, corroborato dall’assenso reale, con il quale Alessandro Orsini, l’assassino, ipotecava Amatrice in favore di suo padre: 150.000 ducati + 4.000 ducati di rendita annua + gli interessi maturati dal 1692, anno della sua evizione, il tutto faceva tra i 500.000 e i 600.000 ducati. Il duca di Gravina decise allora di ricorrere anche lui alla Real Camera della Sommaria, per ottenere il pignoramento del feudo o il pagamento di questo enorme debito.

Gli Archivi di Stato di Firenze ci hanno conservato la corrispondenza con la quale Cecconi e il granduca facevano pressioni su Mauleone, presidente della Sommaria, e sullo stesso viceré, il cardinale d’Althann (Sua Eminenza ha dimostrato speciale gradimento per il dono dei due piccoli orsi, maschio e femmina!). Influenze politiche e bustarelle sono cose vecchie come la “giustizia

Nel 1719 la causa arrivò davanti alla Sommaria che, mentre sembrava esitare a respingere l’analoga richiesta di Carlo VI, rimandò il duca di Gravina a mani vuote: due pesi e due misure...

Orsini allora si appellò al Sacro Real Consiglio, la corte suprema, scegliendo per avvocato, mediante il suo procuratore Pulchiarelli, Alfonso de Liguori, non solo perché ai loro occhi era il migliore non avendo mai perso una causa, ma anche perché una solida amicizia legava Ie due famiglie: dal 1715 Filippo di Gravina faceva vivere Gaetano de Liguori con un beneficio ecclesiastico di suo patronato.

Per un intero mese l’avvocato sfogliò, documento dopo documento, il fitto incartamento, consultò il diritto feudale lombardo e angioino, si informo minuziosamente sulla giurisprudenza, lavorando senz’altro con Sorge, dal momento che identiche erano le cause e comune il bersaglio, Cosimo III de Medici. In tutta coscienza arrivò a questa convinzione: se la lettera del diritto, iniquamente mascherata nel 1693, dava forse possibilità di controversia, l’equità non permetteva scappatoie, non potendo nessuno liberare Amatrice dalle sue giuste ipoteche. Alfonso, che senz’altro ricordava bene il supremo principio del Codice di Giustiniano, che aveva commentato per la sua tesi di laurea. “In ogni cosa, la giustizia e l’equità vincono sulla lettera della legge”, si fece una convinzione così forte e imbastì un’arringa così chiara da essere certo della palma della vittoria.

La causa andò in ruolo nel 1723, probabilmente alla fine di luglio 6 . La sua importanza era tale da richiedere una corte composta da due “rote”, quindi almeno dieci giudici; la posta in gioco, la qualità dei contendenti, la difficoltà di un soggettoimbrogliato”, la reputazione degli avvocati attiravano tutta la Napoli degli uomini di legge e dei principi. Avversario di Alfonso era Antonio Maggiocchi, che le

 

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informazioni segrete davano come una “persona dotta, onesta... e necessaria. Di molta bontà ed integrità. Da tutti applaudito... Ben veduta dal pubblico7 . Si prospettava un bel duello, malgrado nessuno ignorasse in che direzione andassero i favori del potere e quelli dello stesso presidente Caravita. Tutti ammiravano il coraggio di Alfonso e tremavano un po’ per lui.

Ma Alfonso non tremava. Convinto di stare con la lettera del diritto (al momento giusto lo avrebbe provato allo stesso amico Caravita!) e di avere dalla sua parte l’equità (la cosa che maggiormente contava) arrivò quel mattinotronfio e pettoruto ”, come dice Tannoia.

All’ora fissata, secondo l’usanza, un giudice commissario, presentati i termini della causa e postane in rilievo l’eccezionale importanza, diede la parola all’avvocato degli Orsini, Alfonso de Liguori, che parlò in piedi 8 . E’ facile immaginarcelo giostrare con intelligenza e forza, profondendo testi e riferimenti storici, secondo l’uso del tempo, per mettere in evidenza il principio che vedeva d’accordo i migliori giuristi: “Un feudo antico, che assume una nuova qualità, non diventa per questo nuovo. Poi dovette sottolineare il palese atto di ingiustizia che aveva privato dei loro diritti gli Orsini di Gravina, creditori ipotecari di Amatrice, mentre lo stesso sovrano non poteva sottrarre titoli di proprietà a dei terzi innocenti. La granduchessa, del resto, nella sua investitura del 1693, aveva pagato la tassa antica; perché mai antica se non per il fatto che “una nuova qualità non rende nuovo un feudo”?

La scintillante e rigorosa argomentazione di Alfonso fece vibrare l’uditorio in un mormorio di ammirazione; ancora una volta aveva vinto. Che potrà mai aggiungere Maggiocchi?

Alzatosi, Maggiocchi non si prese neppure il fastidio dell’arringa:

- Il signor de Liguori non sa dunque leggere? I testi sono i testi...

E fece leggere da un cancelliere la transazione del 1693 con tutte le sue clausole; le parolein novum feudumricaddero quattro volte, come rintocchi a morto, su Alfonso e sul suo cliente.

Il Sacro Real Consiglio acconsentì, come dinanzi a una evidenza...

Chiaramente i giochi erano stati fatti prima, con la benedizione del cardinale viceré: il potere aveva atterrato il diritto, calpestato l’equità.

Come colpito da un fulmine, L’avvocato dalle mani pulite restò un attimo interdetto, poi rosso di collera, pieno di vergogna per la toga che portava, sordo alle consolazioni ipocrite del presidente Caravita, uscì, a testa bassa, dalla sala dell’udienza e dal palazzo, ripetendo dentro di sé:

- Mondo, ti ho conosciuto... Addio Tribunali!

Come un automa, senza sapere se a piedi o in carrozza, risalì Via dei Tribunali e, arrivato a casa, si chiuse in camera, senza vedere nes-

 

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suno, non facendosi più vivo né a pranzo né a cena, nonostante i richiami e le suppliche della madre e di tutta la casa sconvolta. Il padre al ritorno l’indomani trovò il palazzo in lacrime e, conosciutane la causa, corse alla porta del figlio: chiamò, bussò, insistette, ordinò. Invano. La collera salì.

- Alfonso sen muore, gemeva Donna Anna.

- Che muoja, rispondeva l’ufficiale ormai fuori di sé.

Il terzo giorno Alfonso non ce la fece più a resistere alle invocazioni della madre e, aperta la porta, si lasciò mettere tra i denti una fetta di melone, delizia tutta napoletana, che per lui fu più amara del fiele, come ricorderà più tardi.

 

Cessata la burrasca, sul relitto sconquassato la dolce forza di Dio completò il suo trionfo: un processo perso, una causa vinta. Alfonso si congedò da tutti i clienti, ruppe le sue relazioni mondane e non frequentò più né amiciparenti, neppure per una partita a carte o per uno scintillante recital di clavicembalo. Divideva il suo tempo tra la chiesa della Madonna della Mercede, l’ospedale degli Incurabili e la sua stanza, dove si immergeva lungamente nella preghiera o nella lettura delle vite dei santi, trovando soprattutto il suo paradiso, due o tre ore al giorno, nel santuario della città in cui aveva luogo l’adorazione del SS. Sacramento.

Dall’oggi al domani non lo si vide più ai Tribunali e la sua assenza, dopo tutto il fracasso della quercia abbattuta, non meravigliò nessuno i primi mesi; solo pochi intimi del foro sospettarono il dramina della sua coscienza: “Molte cause si perdono, aveva confidato ad un avvocato amico, per l’esattezza, ed onestà degl’Avvocati; i Giudici si possono ingannare in materia di fatti; Le circostanze dei fatti sono innumerabili; Non ci vuol molto a travedere; Fatto un danno, come si ripara? La nostra Professione è pericolosa. Per salvarci l’anima bisogna abbandonarla”. Vi era entrato carico di ambizione, discioltasi ben presto dinanzi al fuoco della realtà. “Ammazzarsi” in questo mondo per rischiare l’anima nell’altro era pagare troppo cara una gloria fatta di fumo. E per una giustizia aleatoria!... “Disse un giorno a D. Giuseppe Capecelatro: Amico mio, la nostra vita è troppo amara, troppo pericolosa; noi facciamo una vita infelice, e passiamo pericolo di fare mala morte. Io voglio lasciare i Tribunali, che non fanno per me, perché voglio salvarmi l’anima9.

Pur dicendo questo, non troncava ancora in maniera irrevocabile, non tanto perché non sapeva cosa fare, ma soprattutto per paura del dramma familiare che ne sarebbe derivato: suo padre non sarebbe sopravvissuto.

 

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Tuttavia il colpo di tuono del processo Orsini-Medici aveva annunziato l’uragano ormai inevitabile.

- Qualche risoluzione sta facendo Alfonso, si dicevano gli angosciati genitori.

Un affare, che stava molto a cuore a Don Giuseppe, sembrò l’occasione propizia per rimettere Alfonso sulla buona strada:

- Occupatene tu da domani, disse il capitano al figlio.

- Signor Padre, fatevi servire da chi volete, che il Tribunale non fa più per me: io altro negozio non ho, che quello dell’Anima mia.

Don Giuseppe scoppiò in singhiozzi; quel terremoto aveva dunque proprio raso al suolo la gloria del figlio e la fortuna della casa.

- Questo momento di crisi passerà, insinuava Anna.

- No. Alfonso è capo tuosto e non è per mutar sistema.

- La domenica 29 agosto fece perdere a Don Giuseppe le ultime illusioni, se ancora gliene restavano. Il giorno prima l’imperatrice Isabella, sposa di Carlo VI, aveva compiuto trentadue anni e il viceré, per quell’anno, aveva spostato al giorno dopo i festeggiamenti e le solennità 10 . Il comandante della Capitana, che si faceva un dovere di partecipare alla cerimonia del baciamano, chiese al figlio di accompagnarlo; vaghe scuse di Alfonso e insistenze del padre che a stento riusciva a trattenersi.

- Che vengo a farci? Tutto è vanità.

Don Giuseppe esplose:

- Faccia ciocché vuole, e vadane ove vuole!

Di fronte a questa uscita furiosa, Alfonso fece marcia indietro:

- Non v’inquietate Signor Padre; eccomi qua, son pronto a venirci.

- Faccia ciocché vuole!

E piantandolo , Don Giuseppe montò in carrozza, evitò il palazzo reale e andò a sfogare la sua amarezza nella campagna di Marianella.

Lacerato tra il padre e Dio, anche Alfonso imboccò l’uscio per andare a dimenticare la sua sofferenza agli Incurabili: era quello il suo “palazzo”, dove, lontano dalle persone eleganti, dai principi, dal cardinale d’Althann, lo aspettavano i suoi “viceré”...

Mentre placava la sua ferita curando quelle dei poveri, si verificò l’evento decisivo della sua vita: improvvisamente Alfonso si vide in una grande luce, l’edificio gli sembrò scosso dalle fondamenta e il suo cuore intese una voce, distintamente:

- Lascia il mondo, e datti a me.

L’avvocato rimase un istante interdetto, poi ritornò in sé e ai suoi ammalati; però, mentre lasciava l’ospedale al termine del suo ufficio di samaritano, giunto a metà della scalinata esterna, gli sembrò di nuovo che tutta la costruzione crollasse e sentì la stessa voce:

 

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- Lascia il mondo, e datti a me.

Alfonso si fermò, vinto interiormente:

- Mio Dio, ho troppo resistito alla vostra Grazia: eccomi qua, fatene di me quello che volete.

Se ne andò alla sua cara chiesa della Redenzione dei Cattivi, per gettarsi ai piedi della Madonna della Mercede, sprofondando nell’invocazione alla Madre di Dio, finché una nuova luce lo avvolse e una forza lo sollevò:

- Addio mondo e vanità! A voi la mia vita, Signore! Titoli e beni della mia casa, eccoli in olocausto al mio Dio e a Maria...

In piedi, con il gesto del cavaliere che dichiara la sua resa, si strappò dal fianco la spada con tutto ciò che questa rappresentava, per sempre, deponendola sull’altare ai piedi della sua Sovrana e del suo divin Figlio 11 . Avevano vinto:

- Prometto di ritirarmi tra i padri Girolamini.

 

Il 29 agosto resterà per lui “ il giorno della sua conversione e il santuario della Redenzione dei Cattivi l’appuntamento della sua riconoscenza, per tutta la vita, ogni volta che ritornerà a Napoli. Missionario, vescovo, non potrà passare per la capitale senza ritrovare i due poli della sua vita di studente e di avvocato: la Madonna della Mercede e, ottocento metri più in , la cappella della Visitazione dai Girolamini.

Uscendo dalla piccola chiesa della Mercede, andò certamente dai Girolamini, dal P. Pagano, che dopo il dramma dei Tribunali, era stato tenuto al corrente, quasi ogni giorno, del cammino interiore del suo penitente. Quella sera se lo vide comparire in camera rosso in viso, sconvolto, senza la spada. Che era successo? Lui, sempre assiduo, non lo si era visto per tutta la giornata alla confraternita dei dottori... Rapidamente Alfonso raccontò il dramma del mancato baciamano, la voce degli Incurabili, la “resa” della Mercede:

- Eccomi qua, padre, voglio farmi prete nella vostra comunità. Ditemi subito di sì.

- Calma, figlio mio. Non sono cose queste da stabilirsi su di un piede: per lo meno voglio un anno di tempo, per darvi risposta.

- Un anno? Io non voglio differirlo neanche un giorno.

Dio è grande, dovette pensare il P. Pagano, ascoltando questo penitente che era stato scolpito meravigliosamente dalla grazia sotto i suoi occhi da più di vent’anni. E concluse:

- E tra di tanto raccomandiamoci tutti e due a Gesù Cristo ed a Maria SS.

Alfonso ritornò a casa sua... meglio, a casa dei suoi genitori, perché il suo corpo troverà qui vitto e alloggio, ma il suo spirito e il suo

 

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cuore non lasceranno più l’oratorio. I suoi familiari del resto non lo vedranno a tavola per tre giorni che, come Paolo di Tarso atterrato sulla strada di Damasco, volle passare in un digiuno assoluto: tre giorni nutriti e ubriacati di gioia contro i tre giorni del mese precedente ricolmi di amara stizza. La madre fece finta di accettare i mille pretesti trovati da Alfonso per scusarsi della sua assenza ai pasti; il padre non era ancora ritornato da Marianella

Fu un digiuno di luci e di fervori, equilibrati ogni sera dalla saggezza del P. Pagano.

- Voglio lasciare tutto subito, per essere tutto di Gesù Cristo tra i figli di san Filippo.

- Tutta la comunità non chiede di meglio che accogliervi immediatamente, ma la prudenza vuole che si aspetti l’assenso di vostro padre.

Rientrato il padre a Napoli, iniziarono per Alfonso le docce scozzesi: scene di tenerezzafacendogli presente il grave danno, che faceva a sé, ed a casa sua ” e scoppi di furore contro la “ sua mal consigliata ostinazione”. Prova atroce per un figlio tutto cuore e finezza, eppure tenerezza e furore non fecero altro che fortificare il suo proposito, come un nodo di cui ci si accanisce a tirare i due capi dello spago.

D’ora in poi Don Giuseppe avrà solo Gaetano e Ercole - Antonio era gia monaco - per accompagnarlo a corte, a teatro, alle serate mondane, ai consigli della Piazza ancestrale; Alfonso conserverà fino alla morte il diritto di presenza e di voto alle sedute di Portanova, però dopo il 10 giugno 1723 non lo si vedrà più per tre anni e mezzo 12.

 

Piacesse al cielo che non lo si vedesse più anche al palazzo de Liguori! La sua rottura, sulla quale non aveva fatto ancora parola in famiglia, sprofondava il padre in uno stato di intolleranza viscerale:

- Prego Dio, esclamò un giorno Don Giuseppe, o che tolga me, o tolga voi dal Mondo, che non ho cuore di più vedervi!

- Solo Iddio, si disse allora Alfonso, è quello che ci contenta, e che resta soddisfatto di noi. Cosa poss’io sperar dal Mondo, se anche mio Padre mi abomina, e non è contento di me?

E decise il passo definitivo:

- Sig. Padre, io vi vedo afflitto per me; ma sono a dirvi, che io non sono più di questo Mondo: ho risoluto, perché Iddio così m ispira, farmi Girolimino: prego non averlo a male, e farmi degno di vostra benedizione.

Don Giuseppe, distrutto, scoppiò in gemiti e scomparve in camera sua.

Non volendo accettare l’inaccettabile, mise sottosopra parenti e

 

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amici per incrinare la sicurezza del figlio, fino ai Benedettini dei Santi Severino e Sossio, dove Antonio de Liguori aveva preso il saio con il nome di Benedetto Maria. L’abate del monastero, Don Giambattista di Miro, fratello del Don Vincenzo del Sacro Real Consiglio, sarà un meraviglioso avvocato del diavolo:

- Mio caro Alfonso, questa crisi di malinconia (oggi avrebbe parlato di depressione) passerà; siete il primogenito e la primogenitura comporta dei doveri, essendo una vocazione e una responsabilità. I talenti, di cui Dio vi ha colmato, l’alta benevolenza, che la corte di Vienna nutre per la vostra famiglia e che permette di tutto sperare, sono per voi e per i vostri fratelli... Non pensate solo a voi, non rovinate ogni cosa per voi stesso e per gli altri sotto pretesi lumi di Dio, che sono solo, ve lo giuro io, padre abate, illusione del demonio.

Ma era come soffiare sul fuoco!

- Persuadetevi, P. Abate, come ne sono io persuaso, che Iddio non mi vuole nel Mondo, ma mi vuole Ecclesiastico; ed io debbo, e voglio corrispondere alla chiamata di Dio, e non a’ desiderj di mio Padre.

Iddio mi chiama, non posso contraddire”: tale era la sua risposta ai “buoni apostoli” che lo pressavano da ogni parte.

Alfonso mobilitò per la sua battaglia lo zio materno, Mons. Emilio Cavalieri, che si trovava a Napoli a causa della salute e per affari della diocesi 13 , mentre i genitori pretendevano requisirlo per la loro:

- Oh bella! io ho rinunciato al Mondo, ed alla primogenitura, rispose lo zio Emilio, per salvarmi; e volete, che mi perdo l’anima, e vada all’Inferno io, e mio nipote?

Stesso sostegno vigoroso ricevette Alfonso da parte del lazzarista Cuttica (un’autorità per suo padre), dall’oratoriano Pagano (la voce stessa di Dio per la madre), dal canonico Pietro Marco Gizzio, cugino di Donna Anna e giudice ecclesiastico diocesano 14 (un uomo che pesava nella Chiesa e nella famiglia).

Don Giuseppe non poté fare a meno di vacillare e si arrivò a un compromesso: Alfonso sarà sacerdote, dato che si è incaponito, però non nella comunità dei Girolamini, ma diocesano; abiterà perciò nella casa paterna.

Nella casa paterna viveva già un chierico tonsurato (nessuna paura: si tonsurava con discrezione... la parrucca!), Gaetano, da otto anni beneficiario e che non si decideva mai per il seminario. Don Giuseppe, così, si illudeva di salvare qualche speranza di ripensamento da parte del suo primogenito. O forse lo vedeva già arcivescovo, cardinale, viceré? In un secolo se n’erano già visti cinque di cardinali viceré. Da parte sua Alfonso accettò questo compromesso solo come un primo passo per andare più lontano.

 

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Restava l’incontro con l’arcivescovo di Napoli, da venti anni il cardinale teatino Francesco Antonio Pignatelli, nipote del defunto papa Innocenzo XII (1691-1700), che sicuramente conosceva da vecchia data il comandante della Capitana e il brillante avvocato, ma cascò dalle nuvole quando sentì il motivo della loro visita:

- Costui vorrà farsi prete!

- Così non fosse, rispose Don Giuseppe, ma il fatto sta che così ha risoluto.

Il 27 ottobre 1723, all’età di ventisette anni, Alfonso de Liguori, deposto l’abito secolare, indossò con gioia la sottana portata dalla parte austera del clero napoletano 15 .

 

Frattanto, nel corso di questa drammatica estate del 1723 la Real Camera della Sommaria aveva riaperto il processo imperiale riguardante Amatrice. Il 31 agosto Cecconi faceva sapere alla corte di Firenze che la causa del Medici navigava tra gli scogli: l’investitura da parte di Carlo V era stata in perpetuum in favore del loro antenato e dei suoi discendenti. La Serenissima Vittoria l’aveva quindi ricevuto per trasmissione ereditaria (in feudum antiquum) più che per transazione (in feudum novum). I Medici erano perciò tenuti per giustizia a pagare i debiti che gravavano sulla baronia.

Toh ! proprio la tesi di Sorge e di Carlo VI! Esattamente la stessa che da poco aveva parallelamente difeso- e perso- Alfonso de Liguori!

- Ma rassicuratevi, aggiungeva Cecconi, il cardinale viceré (che pure rappresentava Carlo VI, re di Napoli dal 1707! Che stranezza!) farà magnanimamente pressione in favore del granduca e noi ci stiamo assicurando il favore del marchese Mauleone, presidente del Tribunale della Sommaria...

Mentre Cecconi preparava in questa maniera i suoi clienti a cedere qualcosa, l’imperatore, consigliato da Sorge e da una commissione di alti funzionari napoletani, propose la seguente transazione:

- Datemi 90.000 ducati e vi dispenso da ogni altro debito gravante su Amatrice.

Firenze cominciò con il rifiutare in maniera netta, adducendo la nullità del testamento di Felice Orsini in favore dell’imperatore Sorge contrattaccò con forza e - sorpresa! - il suo punto di vista si impose un po’ alla volta, facendo abbassare il tono agli avvocati dei Medici e avviando l’affare a una “felicesoluzione. Come in un film poliziesco, siamo agli ultimi cinque minuti in cui si risolve il mistero!

In realtà l’unico vero processo riguardante Amatrice era stato quello che aveva opposto il duca di Gravina al granduca di Toscana 600.000 ducati erano l’unico debito, evidente, enorme, che gravava su

 

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questo feudo antico. Il credito di Filippo Orsini di Gravina costituiva un titolo molto più incontestabile del testamento invocato da Carlo VI, che era sembrato fare causa comune con lui contro i Medici, ma in realtà aveva tutto l’interesse a fargli perdere il processo per aver libero il terreno. Checché ne fosse della giustizia! I partigiani degli Asburgo, gli uomini già a posto e quelli che cercavano di ben piazzarsi in corte, si fecero perciò una “coscienzacontraria al Gravina, a cominciare dal viceré, e, mentre in un primo tempo sembravano lavorare contro il loro padrone in favore dei Medici, di fatto lo servivano efficacemente - d’accordo con lui, non c’è dubbio - respingendo l’istanza dell’Orsini. Dopo che questi era stato soppiantato dal Sacro Real Consiglio (tribunale d’appello inappellabile, non dimentichiamolo), Amatrice diventava un “gentile affare” tra gli Asburgo e i Medici regolabile dalla Real Camera della Sommaria e finirà con la transazione proposta dall’imperatore, che lascerà un gentil feudo ai Medici (al granduca Gian Gastone, 1671-1737, salito da poco sul trono di Firenze) e procurerà 90.000 ducati agli Asburgo. La “novità” del feudo non aboliva i debitiantichi”, come sosteneva fermamente il grande Sorge e, con lui, Don Alfonso de Liguori ex-avvocato del foro di Napoli.

 

 

 

 





p. 146
1 Questo “giorno antecedente” è un errore di memoria di Alfonso, cf. in seguito la nota 10.



2 AGR, XXVII, 33; F. Kuntz, Commentaria de vita D. Alphonsi, VI, p. 73.



p. 147
3 TELLERIA, I, pp. 88-90; O. GREGORIO, in Archivio storico per le Provincie napoletane, Nuova Serie, 34 (1953-1954), pp. 181-203, e in “Asprenas”, 7 (1960), pp. 117-121.



p. 150
4 TRASCHINI, Dizionario biografico universale, vol. V, Firenze 1840, P. 135; citato da O. GREGORIO, loc. cit.



5 Jurisprudentia forensis, Napoli 1740-1744, 11 tomi. Il dibattito su Amatrice vi e’ trattato nel tomo V, De feudis. Cf. L. GIUSTINIANI, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, t. III Napoli 1788: “G.Sorge”.



p. 151
6 Contributi, p- 46



p. 152
7 ASN, Sezione Giustizia, Pandetta Nuova 4a/107-18.



8 GALANTI, 1. I, c. IV; t. I, pp. 244-245.



p. 153
9 RISPOLI, op. cit., p. 19.



p. 154
10 Nel turbamento della giornata, questo dettaglio sfuggirà alla memoria di Alfonso. nel suo ricordo, l’avvenimento resterà collegato con il compleanno della regina, il 28 agosto. Cf.

TELLERIA, I, p. 91, n. 19; SH 7 (1957), p. 241. Indurrà cosi confratelli e biografi nello stesso

piccolo errore di calendario



p. 155
11 Lo spadino che oggi si vede a S. Maria della Mercede è solo un facsimile di quello depostovi da Alfonso, che purtroppo e’ stato venduto per comprare la corona d’argento che adorna la statua: Cf. “S. Alfonso”, 4 (1933), p. 72.



p. 156
12 “S. Alfonso”, 6 (1935), pp. 204-205.



p. 157
13 SH 14 (1966), pp. 385-386.



14Analecta”, 11 (1932), pp. 45-46; Contributi, p. 29.



p. 158
15 Per tutto questo capitolo, cf. TANNOIA, I, pp. 21-29.



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