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Parte seconda “VA’, VENDI I TUOI BENI E SEGUIMI” (1723-1732) 13. GLI ANNI DI SEMINARIO: FORMAZIONE E... DEFORMAZIONE? (1723-1726) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
FORMAZIONE E... DEFORMAZIONE?
Ottobre 1723: in città e sul mare, placidi giochi dorati del soIe nella sontuosità dell’autunno napoletano; nel luccichio delle acque del golfo, mille imbarcazioni danzavano un ritmo lento e sempre nuovo La pace cullava un’Italia e un’Europa, che finalmente potevano respirare e riposare.
Senza il “colpo di testa” del figlio, il comandante de Liguori, fedele servitore della casa d’Austria, avrebbe potuto dire col vento in poppa: Voga galera! Nel palazzo reale infatti un vescovo ungherese, il cardinale Friedrich Michael d’Althann, rappresentava Carlo VI, arciduca d’Austria e imperatore di Germania.
A Roma si spegneva Innocenzo XIII e il 29 marzo 1724 gli succedeva sulla cattedra di Pietro con il nome di Benedetto XIII (17241730) il cardinale Pietro Francesco Orsini di Gravina, zio del principe Filippo Orsini, lo sfortunato cliente di Alfonso de Liguori.
Sulla cattedra di S. Asprenio aveva messo salde radici fin dal 1703 il cardinale Francesco Pignatelli, uomo fermo e buono che benediceva a piene mani il passato, ma voltava le spalle al futuro, cioè alla secolarizzazione della scienza, della filosofa, della politica, all’anticurialismo impaziente e a volte anche violento 1. Sarà per un decennio il vescovo di Don Alfonso de Liguori, seminarista prima e poi sacerdote della diocesi di Napoli, che contava allora circa mezzo milione di “anime”, ripartite in ottanta parrocchie, delle quali quarantuno servivano i piccoli centri della campagna e dell’isola di Procida e trentanove si dividevano l’agglomerato urbano 2 .
“L’amplissima città di Napoli... un bosco per la comodità di nascondervi i delitti e i delinquenti ”, in questi termini scriveva alla Santa Sede quarant’anni prima (1683) il cardinale Innico Caracciolo, riferendosi sfortunatamente a preti e ad ordinandi indegni 3 , che, sempre in vetrina, rendevano piccanti le cronache dei turisti del tempo, proprio come oggi “tutti i farabutti hanno una foto sui giornali” (Jacques Brel). Nacque così il mito del sacerdote napoletano ricco e
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sprovveduto, ozioso e violento, frequentatore di balli e di gonnelle, approfittatore cinico della superstizione popolare, che passava la vita nelle bische disertando le chiese.
Ma la complessa realtà impone al contrario mille sfumature a questa dura e maligna ignoranza.
“Nel campo della religione si manifestano senz’altro con maggior risalto i contrasti che sembrano essere la caratteristica dell’epoca...
La religione impregna tutte le manifestazioni esteriori della vita, tanto pubblica che privata. Il clero, eccessivo nel numero, il più grande proprietario terriero in tutti gli Stati italiani, beneficiario di privilegi esorbitanti soprattutto in materia giudiziaria, re imperioso delle coscienze, presenta in tutti i suoi gradi, dai più alti ai più umili, una varietà così ampia di tipi da scoraggiare qualsiasi tentativo di classificazione, qualsiasi giudizio d’insieme. Comprende prelati sibaritici e autentici santi, grandi letterati e vicari incolti, monaci dissoluti o nullafacenti ed educatori ammirevoli, confessori indulgenti di fronte alle peggiori debolezze morali e predicatori rigidi, impregnati di massime gianseniste. E’ possibile dare solo una pallida idea di questa complessità di atteggiamenti nella vita quotidiana. Soprattutto non dimentichiamo che sarebbe altrettanto falso farsi un giudizio di tutto il clero del Settecento unicamente sulla base o degli abati galanti e pomposi delle stampe d’epoca o dei redattori eruditi delle gazzette ecclesiastiche o della innumerevole folla di funzionari del governo pontificio ” 4 .
Tutto ciò, più che per il resto della penisola, era senz’altro vero per Napoli, come ne faceva fede lo stesso Caracciolo il quale, nella sua relazione a Roma del 1683, aggiungeva che il suo clero “per grazia di Dio si distingueva per bontà e dottrina” 5 .
V’erano allora a Napoli due cleri? Diciamo piuttosto quattro: due cleri secolari, diversi tra loro come il giorno e la notte, e due cleri regolari che costituivano una via di mezzo più o meno crepuscolare 6 .
I regolari, cioè 4.500 monaci, chierici e fratelli laici, occupavano ben 104 conventi. La loro stragrande maggioranza, costituita soprattutto da monaci invischiati nelle ricchezze, lungo il XVIII secolo sprofonderà sempre più nella decadenza e nel disprezzo, mentre una dozzina di Congregazioni o di Ordini, nuovi o riformati, poveri e ardenti di zelo, saranno valido aiuto dei vescovi e di Gesù Cristo nella predicazione del Vangelo, nell’animazione dei gruppi laicali, nella direzione spirituale, nell’educazione dei ragazzi e degli adolescenti. Insieme ad Alfonso ne abbiamo gustato il fior fiore tra i Pii Operai (Emilio Cavalieri, Tommaso Falcoia), i Lazzaristi, gli Oratoriani.
Tra questi due estremi arrancava un “terzo partito”, diviso parimenti tra Dio e mammona, il servizio dei poveri e il desiderio di inquadrare le classi dirigenti, e forse bisogna ricercare proprio nell’ambizione
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dei Teatini, in concorrenza con i Gesuiti, il fattore che distoglierà Alfonso dalla sua prima risoluzione di raggiungere i cugini Domenico ed Emmanuele de Liguori nel vicino convento di S. Paolo Maggiore.
Molto più profondo era il fossato che separava i due cleri secolari della capitale. Non parliamo per ora del clero della provincia, più povero e spesso incolto, che Alfonso incontrerà nel corso delle missioni e nella sua diocesi di S. Agata dei Goti.
Nella chiesa metropolitana c’era più differenza tra clero “diocesano” e clero “marginale” che tra cacciatori e... bracconieri!
Dal 1667 al 1685 la Chiesa napoletana aveva avuto a capo il cardinale Caracciolo, novello Carlo Borromeo, e da allora il clero “diocesano” era stato reclutato con discernimento, istruito con competenza e formato alla liturgia e alla catechesi. Infatti fin dal suo primo anno di episcopato, Caracciolo, per animare spiritualmente i candidati al sacerdozio, aveva chiamato a Napoli i Preti della Missione, che ancora nell’età eroica della loro storia, veri figli di san Vincenzo de’ Paoli impregnati delle grandi idee della “scuola francese”, non avevano par; nel formare veri sacerdoti di Gesù Cristo. Così il corpo ecclesiastico “diocesano”, forte di quasi duemila chierici dei quali tre quarti sacerdoti, faceva onore alla Chiesa e a Dio.
Una quarta parte sarebbe già stata largamente sufficiente per le 504 chiese, che “imbottivano” l’area partenopea, ma sfortunatamente l’arcivescovo non aveva il monopolio delle ordinazioni secolari, essendogli praticamente impossibile non solo eliminare il Cappellano Maggiore della corte, il Nunzio di Roma e i vescovi che vivacchiavano nella capitale, ma anche impedire a tutto il marciume ecclesiastico dell’intero Paese di affluire verso la metropoli.
Il Cappellano Maggiore, al quale spettava la giurisdizione sulla reggia, sull’università, sull’esercito e su una dozzina di chiese scelte dal re per una sua particolare devozione e generosità, spesso tonsurava teste vuote o folli, ungeva mani criminali, consacrava lupi dai denti affilati, rivestiti per poco, per troppo poco tempo di pelle di agnello. Alcuni nobili, per sfuggire al fisco, lasciata la spada, prendevano con devozione sottana e breviario, ma immediatamente dopo aver teso le palme al santo crisma, tornavano al ferro e alle abitudini spadaccine Vescovi vicini, o parassiti nella grande città, ingenui o... affaristi, e lo stesso Nunzio Apostolico, quando non imponevano personalmente le mani ad indegni, firmavano facilmente lettere dimissoriali che aprivano le porte del santuario a cacciatori di “sinecure” ben dotate e a “svaligiatori” di sacramenti. Saltare il muro era più facile che passare per la porta stretta delle disposizioni diocesane; esisteva certo un diritto canonico, ma nell’intreccio di giurisdizioni in concorrenza lo stesso diavolo in persona sarebbe riuscito a trovare un titolo di ordinazione!
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Quanti erano questi preti ai margini del clero “diocesano”, dediti a brulicare e a pescare sul fondo di quella “sentina di preti”, come più tardi sarà denunziata dal Tanucci? Tremila, a dir poco, ma forse il doppio, dal momento che durante la peste del 1656, in questa diocesi che contava solo 1.900 sacerdoti secolari e 2.761 religiosi, ne furono seppelliti ben 8.000!
Ahimè! Malgrado si fosse battuto aspramente, tanto a Roma che a Napoli, contro queste ordinazioni “selvagge”, il cardinale Caracciolo (al pari dei suoi successori) non era riuscito a estirpare la “mafia” ecclesiastica sempre rispuntante del clero “marginale”, ma aveva dato al suo clero diocesano un tale slancio spirituale e culturale da portarlo negli anni 1700-1740 al suo “periodo aureo”. “Lo spirito del clero napoletano” fu allora “l’esempio di tutto il Regno e potrei dire di tutto il mondo”, scriverà trent’anni dopo lo stesso P. de Liguori, ricordando il bel tempo del suo seminario 7 .
La Chiesa non è uscita tutta in armi dal cervello di Cristo, come Minerva da quello di Giove. Tanto peggio per quelli che preferiscono crederlo per loro tranquillità!
I seminari, ad esempio, furono istituiti dal concilio di Trento col decreto del 14 luglio 1563. Quello di Napoli risaliva al 1568 e, come gli altri italiani del tempo, si atteneva alla formula proposta dal concilio, analoga ai collegi universitari, che prevedeva un’unica istituzione per chierici dall’età di dodici anni fino al sacerdozio.
“Eccettuata la prima infanzia, persisteva nei secoli XVII e XVIII l’arcaica mescolanza di età nella restante popolazione delle scuole, dove ragazzi dai dieci ai quattordici anni, adolescenti dai quindici ai diciotto anni, giovani dai diciannove ai venticinque anni frequentavano le stesse classi. Sino alla fine del Settecento non si ebbe l’idea di separarli” 8 .
Facevano eccezione i seminari francesi, nei quali dalla metà del XVII secolo era prevalsa l’idea di Monsieur Vincent: “Non ho mai sentito dire che un seminario siffatto sia riuscito per il bene della Chiesa... I nostri signori prelati sembrano desiderare tutti di avere seminari di preti, di giovani” e lo stesso, verso il 1645, aveva sdoppiato il proprio trasferendo i giovani degli studi umanistici al Petit-Saint-Lazare 9 .
Nel seminario di Napoli il piano degli studi, approntato dal cardinale Cantelmo Stuart (1691-1702), uomo di grande cultura, prevedeva prima tutte le materie del ciclo “secondario”: grammatica, latino, greco, toscano (italiano), filosofia (logica, fisica), retorica, geometria, aritmetica, astronomia; poi le discipline propriamente ecclesiastiche: teologia scolastica e dommatica, diritto civile e canonico, teologia morale, sacra scrittura ed ebraico 10 ; programma ambizioso ma rispettato,
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al contrario della facoltà di teologia dell’università, le cui cinque cattedre (dommatica, tomismo, scolastica, sacra scrittura e morale) erano, lo abbiamo visto, arcaiche e disertate.
Un centinaio di “interni” vivevano nello Studium episcopale all’estremità nord-est del Duomo; più numerosi ancora gli “esterni” facevano ressa ai corsi; erano animati spiritualmente dai Lazzaristi del Borgo dei Vergini 11 .
Rettore del seminario era il canonico Pietro Marco Gizzio (16621741), cugino di Donna Anna, chiamato affettuosamente zio da Alfonso secondo il costume napoletano. Uomo dei poveri, non geniale ma di fede, di ferro, di cuore, sarà collocato dal confratello alle Apostoliche Missioni, Giuseppe Sparano, nelle sue Memorie, al primo posto nella galleria degli uomini illustri della Chiesa di Napoli, sotto il lungo episcopato di Francesco Pignatelli (1703-1734); nel 1708, con vera sincerità, aveva rifiutato la mitra e, rieletto più volte a superiore annuale delle Apostoliche Missioni (la congregazione di missionari diocesani dell’arcivescovato napoletano), era “rettore eterno” del seminario: quarant’anni, interrotti solo dai sette nei quali era stato vicario generale (1701-1703 e 1710-1741) 12 .
Suo “nipote” evidentemente frequentò il seminario da esterno, pero gli esterni, allora, erano più seguiti degli interni d’oggi. Ogni domenica dovevano riunirsi dai Lazzaristi per condividervi la preghiera, la divina parola e i sacramenti (Alfonso ritrovava il P. Cuttica dei suoi indimenticabili ritiri) e nel pomeriggio raccoglievano i ragazzi delle rispettive parrocchie per catechizzarli; i giorni festivi non domenicali (allora una trentina, l’equivalente del nostro mese di ferie) servivano all’attare intorno al proprio parroco. Si preparavano ad ogni ordine sacro con dieci giorni di stretto ritiro, sempre dai Lazzaristi, e dovevano frequentare a scelta la riunione settimanale di una delle tre associazioni ecclesiastiche diocesane: o quella dell’Assunta fondata dal gesuita Pavone (1611), o quella di S. Maria della Purità fondata da Antonio Torres, uno dei Pii Operai (1680), o quella di Propaganda, chiamata correntemente delle Apostoliche Missioni (1646), della quale avremo occasione di parlare a lungo 13 .
Il fine di queste congregazioni secolari era triplice: formare veri uomini di Dio e sostenerli nel fervore; assicurare la loro formazione permanente mediante conferenze, esercizi di predicazione e di catechesi, dispute apologetiche e studio pratico dei problemi morali; predicare insieme le missioni parrocchiali 14. L’adunanza settimanale delle Apostoliche Missioni, per cui optò Alfonso, aveva luogo il lunedì pomeriggio.
Tale programma nutriente e generoso, al quale bisogna aggiun-
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gere ancora per due anni e mezzo gli impegni della Misericordiella in favore dei sacerdoti forestieri, malati o carcerati, è una pagina di storia viva del nostro seminarista. Possediamo infatti il suo dossier di chierico e di ordinando: quarantasei documenti originali, attestanti per quattro anni la sua “ assistenza ”, il suo “ intenso zelo ”, il suo “ fervore ”, e le firme del parroco, Don Aniello Pacifico, del P. Cuttica, di Don Michele de Salone delle Apostoliche Missioni, sembrano quasi presenze affettuose e ammirate 15 .
Le attestazioni del superiore dei Lazzaristi, Vincenzo Cuttica, pungono la nostra curiosità, testimoniando anno dopo anno la presenza di Alfonso ai ritiri domenicali solo “una volta il mese”, non ogni settimana come era di norma. Certamente al nostro ex-avvocato era stato permesso di non sradicarsi dalla sua confraternita dei dottori, della quale resterà membro per tutta la vita; ritrovava così il suo P. Pagano del quale continuava a essere penitente e discepolo.
Senza dubbio i parrocchiani di S. Angelo a Segno, piccola chiesa per una altrettanto piccola parrocchia (cinquecento anime) 16 , a cinquanta passi da casa sua, restarono prima sorpresi, poi meravigliati nel vedere il principino accolto sedici anni prima, diventato il grande avvocato de Liguori, servire ogni mattina la messa e poi, in sottana e a piedi (addio parrucca, addio carrozza!), andarsene a scuola in fretta.
Il lacchè personale, tollerato per amor di pace (Don Giuseppe lo voleva!), lo seguì per qualche tempo, trascinato dietro, come una croce sul lastricato nero, per derisione; poi scomparve per lasciar vedere per le strade solo il più povero dei sacerdoti 17 .
Allo Studium vescovile le discipline teologiche si articolavano in quattro anni, con un regime molto elastico che univa corsi pubblici e lezioni private. Il corpo dei professori era di alta qualità intellettuale e pastorale: Gennaro Maiello, che sarà il vicario generale più famoso del secolo; Gennaro Fortunato, ben presto vescovo di Cassano (1729); Tommaso Faenza, Bartolomeo Cacace e Francesco de Rosa, “fratelli” delle Apostoliche Missioni; Giacomo Martorelli, stimato ellenista; infine Giulio Niccolò Torni (1672-1756), amico e fervente partigiano di Vico, che lo chiamava “ il dottissimo ”, censore ufficiale della sua Scienza nuova, del quale anche Alfonso de Liguori nelle sue opere scriverà tante volte con affettuoso rispetto: “il mio celeberrimo e sapientissimo maestro, Don Giulio Torni” 18 .
Su questo punto capitale, Tannoia nota: “Prese per Maestro, così per la Dogmatica, che per la Morale il Canonico D. Giulio Torni, di poi Vescovo di Arcadiopoli, uomo a niuno il secondo in questa facoltà, come si vede dalle varie opere, che a beneficio comune già diede alle stampe. Professò mai sempre Alfonso per finché visse una special vene-
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razione verso un uomo così degno, e nelle sue opere Teologiche non altrimenti lo cita, che col distintivo di suo Maestro”.
Al suo arrivo in seminario l’ex-avvocato, accettato con il dovuto rispetto, si applicò alla dommatica, alla morale e alla sacra Scrittura, uniche discipline che ancora mancavano al suo bagaglio, sotto la direzione di un maestro del quale gli si lasciò la scelta. In teologia (dogma e morale) “prese” il migliore, Giulio Torni, signore dell’intelligenza, al quale “il tomismo, come egli stesso diceva, era spuntato con le prime unghie”, che l’introdurrà subito in quella cattedrale unica al mondo che è l’opera di Tommaso d’Aquino 19 .
E ne fece quindi un tomista? Notiamo prima di tutto che, in contrasto con l’aurora del Rinascimento prima e dell’Illuminismo poi, la logomachia scolastica aveva mummificato il tomismo fino alla parodia A questi ripetitori ad mentem Divi Thomae mancava proprio lo “ spirito del divin Tommaso”: il dinamismo vitale e l’apertura al nuovo, che sorgeva dovunque in un mondo la cui vecchia volta era volata in frantumi dinanzi ai telescopi di Copernico, Keplero e Galileo. “Satana! Satana!”, borbottavano gli impauriti scolastici. Alfonso, cartesiano di formazione, giudice e avvocato di professione, si sentirà maggiormente a suo agio nella corrente teologica, nata verso la metà del Seicento, che si fondava sulla Scrittura, sulla Tradizione dei Padri e sull’esperienza cristiana e che porterà uno dei sacerdoti più illuminati del secolo, Antonio Genovesi (1713-1769), a chiedere nel 1767 la sostituzione della teologia scolastica (la “barbara”, come oserà dire) con un a catechismo storico della religione cristiana”, in altre parole con una a Storia della Salvezza”20 . Tuttavia nell’irradiamento del Torni, Alfonso diventerà e resterà sempre un lettore assiduo e appassionato di san Tommaso, suo compatriota, senza però impegolarsi nel tomismo come sistema di pensiero.
Anche Bonaventura, amico personale di Tommaso d’Aquino, era tranquillamente antitomista, benché teologo, cioè “uomo di Dio” illuminato dall’alto dalla Rivelazione, dal di dentro dallo Spirito, dall’esterno dalla sua fedeltà al reale; la sua “sapienza” ispirata ricorreva per esprimersi ai “buoni servizi” di una “serva”, la filosofia, offertagli dalla sua cultura, cioè il platonismo agostiniano, ma quattro secoli più tardi sarebbe potuto essere benissimo il cartesianesimo.
Alfonso de Liguori, anch’egli dottore della Chiesa, sarà certo più tomista di Bonaventura, ma senza dubbio più vicino a quest’ultimo che a san Tommaso. In ogni caso, come i suoi due grandi predecessori, sarà essenzialmente se stesso, senza legarsi ad alcuno, in quella solitudine che è la condanna dei piccoli e la forza dei grandi. Tommaso poté essere altro che tomista? Anche Alfonso non sarà che alfonsiano: l’in-
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contro con Dio, l’unione con il Cristo, la vita cristiana, l’annunzio della salvezza lo appassioneranno più di qualsiasi speculazione gratuita, anche se sarà un pensatore profondo e rigoroso, un dialettico temibile, uno scienziato in teologia e non solo in quella morale. Un domenicano, un maestro della teologia moderna, ha scritto:
“Passando sotto silenzio altri nomi (di teologi del XVIII secolo), finiremo col più grande, diventato dottore della Chiesa. Citato soprattutto come moralista, sant’Alfonso gode tuttavia di grande autorità in ogni problema, non soltanto a causa del suo titolo di dottore della Chiesa, ma anche a causa della straordinaria imparzialità del suo giudizio teologico, talmente libero da ogni passionalità di scuola o di famiglia che sarebbe difficile su questo punto trovargli un eguale, salvo san Tommaso e san Bonaventura” 21 .
Il suo cammino intellettuale, scaturito dalla pratica forense, consistette nel girare e rigirare instancabilmente le proprie idee alla luce sempre nuova delle sue meditazioni, delle sue letture, delle sue consultazioni (consulterà tanto!), della sua esperienza, della sua preghiera. Sarebbe stato capace certo di speculare su “ l’essere o il non essere” di un campo di grano o di un chicco di frumento, ma al diavolo simili giochetti intellettuali! Lo appassionava, invece, impastare pane buono, masticabile dai denti dei poveri. Che il popolo di Dio mangi: questa sarà la rotta della sua filosofia, per questo sarà “Redentorista” 22 . In questo suo cammino si incontrerà con san Tommaso e si daranno la mano: “Ben compreso l’equiprobabilismo (il sistema morale del Liguori) può passare a buon diritto come una soluzione tomista” 23 .
Quando si avvicinò a Torni in qualità di discepolo avido e fiducioso, Alfonso non guardava tanto lontano! Eppure la sua lunga marcia iniziò proprio così, con la totale lealtà e l’immensa capacità di lavoro che già conosciamo.
Per la dommatica il maestro gli mise tra le mani la Medulla theologica del lazzarista Louis Abelly (1604-1691), vescovo di Rodez, discepolo prediletto e storico di Vincenzo de’ Paoli. Le preferenze del Torni andavano a questo manuale, apparso in due volumi nel 1650 e nel 1651, forse perché Abelly, fedele al titolo, aveva veramente estratto il “midollo” dai migliori autori di teologia, da san Tommaso al “beato” Francesco di Sales o perché, erede della bontà evangelica di Monsieur Vincent, era decisamente antigiansenista. Queste due qualità, ad ogni modo, gli avevano fatto meritare l’epigramma poco mordente di Boileau nel canto IV del suo Lutrin:
“Che ognuno prenda in mano il morbido Abelly”.
La Medulla era soprattutto altamente didattica. Il 17 gennaio
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1782 (avrà allora ottantacinque anni) Alfonso scriverà al P. Di Costanzo: “In quanto poi alla teologia, quando sarà tempo, non vi partite da Abelly. Mgr Torni faceva gran conto di Abelly, mentre questo autore si spiega chiaramente e con molta distinzione e brevemente” 24 .
Il tomista Torni, da buon pedagogo, ne apprezzava il metodo cartesiano delle “idee chiare e distinte” ma ancor più la dottrina La fortuna di Abelly, uno dei rari autori francesi del tempo che seppe difendersi dalle idee gallicane, è stata durevole (due secoli di ristampe), perché per primo mise in mano ai seminaristi un manuale di sicura ortodossia. Insegnò ad Alfonso de Liguori l’infallibilità del papa quando parla ex cathedra, quale vicario di Cristo e voce di tutta la Chiesa; contro i giansenisti sostenne che Dio vuol salvare tutti gli uomini dando a ciascuno la grazia sufficiente per osservare i comandamenti; con l’assoluzione, diceva, basta l’attrizione e non imponete penitenze pesanti e non rifiutate l’assoluzione a un recidivo ben disposto; per la comunione è sufficiente essere esenti da peccato mortale... in una parola la dottrina tradizionale.
Abelly fu perciò il bersaglio dei giansenisti. “Ho voluto vedere Abelly, scriveva Antoine Arnauld nel 1686, che non avevo mai visto. L’ho fatto comprare. E un meschino autore attrizionista, probabilista e sufficientista a oltranza... E tuttavia sarà ben presto l’unico libro letto nei seminari” 25 .
Sì, Monsieur Arnauld, per una volta tanto lei è stato profeta! E se il teologo Alfonso de Liguori ha avuto una partenza felice per diventare dottore della Chiesa, è giusto sottolineare che lo deve al lazzarista Abelly e, attraverso lui, a Vincenzo de’ Paoli.
Con la Théologie morale dell’avignonese Francois Genet (16401703), composta sotto lo stimolo del futuro cardinale Etienne Le Camus, vescovo di Grenoble, e pubblicata nel 1676, siamo trasportati su un altro pianeta: altro Dio, altro Vangelo, altra Chiesa. I cinque vescovi, che ne fanno da garanti, presentano come un energico antidoto contro la “morale lassa” l’opera di Genet deciso probabiliorista.
Probabiliorista? A quale categoria di esseri può mai rimandare questo strano epiteto? In teologia morale il probabiliorista pretende che nel dubbio di coscienza si è sempre tenuti a mettersi dalla parte del più sicuro, a seguire l’opinione “più probabile” (in latino probabilior), cioè praticamente la legge, che per lui ha sempre priorità sulla libertà. E’ perciò rigorista: che lo voglia essere nella sua condotta personale, è affar suo; ma un confessore, un manuale di morale può imporre tutto ciò agli aItri?
Ebbene Genet nel suo enorme manuale in sette volumi insegna il probabiliorismo ai confessori; “Bisogna, egli dice, nel concorso di
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un’opinione meno probabile seguire necessariamente quella più probabile”, plasmando le sue soluzioni con il conio di una severità che lo pone tra gli autori più rigidi.
Proprio per questo fu incoraggiato, protetto, spinto avanti. Un sacerdote coraggioso (ma non fino al punto da usare il proprio nome!) ne denunziò, con lo pseudonimo di Jacques Remonde, il “giansenismo” in due volumi di Remarques (1678), ma gli andò male, perché il Santo Ufficio mise all’indice il suo scritto e dichiarò la Théologie morale di Genet esente da errori ( 1679). Poco prima, il 20 agosto 1677, il Maestro dei Sacri Palazzi, Capizucchi, aveva già espresso il clima della Sede Apostolica: “Una teologia eccellente; una dottrina sana, solida, sicura e necessaria per la correzione dei costumi”. Che si aspettava ancora a mettere il bacolo pastorale in mano a questo pastore incorruttibile? Egli aveva, è vero, solo trentasette anni, ma la giovinezza è un difetto del quale ci si corregge facilmente! Nominato subito da Innocenzo XI canonico teologo di Avignone, ricevette otto anni dopo (1685) la mitra di Vaison-la-Romaine e infine, supremo onore, fu scelto dal grande Bossuet per il suo seminario di Meaux: la sua morale ispirerà il clero francese nell’assemblea del 1700. Si può immaginare allora il clima in Francia, a Roma e ben presto a Napoli!
Oggi sappiamo che ad ogni nuova edizione i volumi di Genet venivano sottoposti all’esame di Antoine Arnauld e che, dunque, presso i giansenisti trovavano solo incenso, come un testo santo. Il confessore veniva in essi invitato soprattutto alla severità: severità nell’esame dei penitenti e severità nell’impartire, pardon!, nel negare l’assoluzione, tanto che ben trenta pagine impegnano in coscienza il sacerdote a rifiutare il perdono di un Dio che pure chiede agli uomini di perdonare settanta volte sette. E come fioccano le penitenze, malgrado il concilio di Trento! Le condizioni richieste per la comunione sono poi tante che conviene piuttosto starne lontano; così, ad esempio, “non si deve consigliare a una persona di comunicarsi subito dopo essere caduta nel peccato mortale, benché contrita e umiliata” e, beninteso, assolta, ma “al contrario astenersi per qualche tempo per il rispetto dovuto a questo grande sacramento”. E si prevede come normalissimo il caso di confessori che differiscano la comunione ai propri penitenti.
Tutto ciò è accompagnato da testi dei Padri e dei concili, filtrati però da una cernita intenzionale che dà solo quelli più severi: quante altre citazioni sarebbe possibile ritrovare negli stessi Padri e concili che pongono in crisi le sue? 26 .
Era necessario che un’opera così salutare fosse esportata a beneficio dell’intero orbe cristiano e perciò, tradotta in latino, fu edita a Parigi (1702-1703) e, per ben quattro volte, a Venezia, con una dedica al papa Clemente XI; approvata da più di centosessanta concili e sino-
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di particolari italiani, fu ben presto seguita in tutta la penisola e perfino nella capitale della cattolicità 27 , Ecco il motivo per cui troviamo Genet tra le mani di Alfonso e dei moralisti del seminario napoletano.
L’importanza di tutto ciò forse sfugge per il momento al lettore non avvertito, che può avere l’impressione che ci siamo lasciati prendere la mano da una digressione erudita. Deve ricredersi, perché occorre misurare tutta l’ampiezza e la forza della “marea nera” del rigorismo, se si vuol comprendere il primo orientamento morale di Alfonso, i suoi drammi di coscienza, il colpo di genio con il quale rifiuterà questa corrente e l’energia che dovrà spendere per tutta la vita per farla validamente rifluire da ogni parte.
Tornando al nostro seminarista, è impossibile evitare un difficile interrogativo: come mai Torni, famoso antigiansenista, con una mano dava ai suoi allievi il benigno Abelly per la dommatica e con l’altra consegnava il rigorista Genet per la morale?
Al riguardo Alfonso sarà esplicito:
“Sappia V. P., scriverà nel 1764, ch’io nel fare gli studj ecclesiastici ebbi per miei direttori a principio maestri tutti seguaci della rigida sentenza; ed il primo libro di morale che mi posero in mano fu il Genetti (Genet), capo de’ probabilioristi; e per molto tempo io fui acerrimo difensore del probabiliorismo” 28 .
Bisogna pesare bene questa testimonianza fatta e pubblicata quarant’anni dopo: “tutti i maestri” di etica di Alfonso (quello del seminario e il “prefetto dei casi” delle Apostoliche Missioni), tutti i professori del seminario erano rigoristi e il loro discepolo li seguirà, Genet in mano, “acerrimamente” e “per molto tempo”.
Anche Torni? Si deve pensare che questo appassionato del “ morbido Abelly ” non fosse proprio dei più rigoristi; ma che fosse rigorista, come dubitarne? Nel 1762 e poi nel 1765, Mons. de Liguori preciserà con gli stessi termini, ma al singolare:
“Io per me confesso la verità, che quando cominciai a studiar la teologia morale, perché fui diretto a principio in tale studio da un maestro della rigida sentenza, impresi a difendere la medesima con molto calore” 29 e il suo maestro in morale e in dommatica, come sappiamo da Tannoia, fu Torni.
Le cose cominciano a imbrogliarsi per davvero quando, in tre diverse Dissertazioni in latino, pubblicate nel 1749, 1755 e 1762, il P. de Liguori ripete con le stesse parole questa testimonianza sulla tappa successiva al suo seminario e al suo “lungo periodo” rigorista:
“In seguito però, applicandomi all’apostolato delle missioni, mi sono reso conto che la dottrina benigna era seguita da molti uomini
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di grande saggezza e probità, a cominciare dall’illustre e molto dotto D. Giulio Torni, mio maestro” 30 .
Non si bara con i fatti! E necessario, dunque, tenere entrambe le estremità della catena - Torni rigorista, Torni indulgente - e cercare gli anelli intermedi, che si estendono a lungo nello spazio e nel tempo.
Nello spazio: non si respira la stessa aria sul Monte Bianco e nelle strade di Napoli o di Parigi. Vescovi, professori e compilatori di manuali, uomini di studio e di tavolino, vivevano a grande altezza, molto al di sopra del ministero e della vita della povera gente; preti ligi .al dovere, del resto, più idealisti che realisti, strombazzavano il rigore più di quanto non modulassero la benignità. In una “cristianità”, nella quale nessuno sfuggiva al potere spirituale, l’ebbrezza dei diritti di Dio e delle sue leggi poteva dare alla testa al primo bicchiere: il Signore non chiedeva forse ai suoi sacerdoti come a Giovanni Battista di “preparargli un popolo perfetto” (Lc. 1, 17)? I Vincenzo de’ Paoli e gli Abelly, specialisti delle missioni popolari, camminavano invece terra terra e, nel permanente contatto con la vita e i peccatori, diventava indispensabile o abbandonare il ministero o ripudiare il rigorismo della prima…deformazione.
“Formato” dal domenicano Gregorio Selleri, allora Maestro dei Sacri Palazzi, Torni, probabiliorista moderato nelle sue Notae ai Commentaria di Estius 31 , non poteva non esserlo nel suo insegnamento: Roma, lo abbiamo visto, parteggiava per Genet; la dottrina imposta nel seminario, quella che regnava (almeno teoricamente) alle Apostoliche Missioni, quella seguita da “un’infinità di parroci” napoletani era il probabiliorismo. Infine Torni era “il teologo dell’Eminentissimo”: come non condividere la teologia e la pastorale dei suoi arcivescovi, che da Cantelmo a Spinelli (1691-1754) erano rigoristi militanti 32 ?
Però la familiarità, nelle missioni, con la cruda realtà del nostro povero mondo, l’ascolto sincero della buona novella, gli interrogativi di giovani compagni d’apostolato, infine l’età, che versa sempre il suo elisir di indulgenza, faranno scendere Torni dalle pure altezze del rigorismo.
In questo senso giocherà il tempo, un lungo tempo (“molto tempo”) sia per Alfonso che per il “suo maestro”.
“Più tardi, scriverà il Liguori nel 1749, 1755 e 1762, più tardi mi son reso conto che la dottrina rigida non aveva che pochi maestrie pochi discepoli, gli uni e gli altri votati più alla speculazione che al ministero del confessionale” 33 .
E’ proprio nella sua attività, “nelle missioni che Alfonso scoprì in gran numero gli uomini di segnalata probità e di grande saggezza che praticavano la dottrina benigna” e certo non senza sorpresa e non senza gioia incontrò tra gli avversari del probabiliorismo il più vene-
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rato dei suoi vecchi maestri, Giulio Torni. La vita e l’esperienza portano a simili trasformazioni...
La grandezza di Alfonso consisterà prima da giovane sacerdote probabiliorista nel non aver mai rifiutato l’assoluzione34 (ma a prezzo di quali e quante angosce); poi nell’intraprendere magnanimamente, a prezzo di una lunga vita di lavoro e di lotte, lo smantellamento, nella sua congregazione e nella Chiesa intera, del gigante rigorista, che sprezzando il Vangelo imponeva un vero terrorismo spirituale “d’un intollerabile rigore”. Questo giudizio sul Genet sarà proprio del P. de Liguori 35 .
docente del seminario cf. Contributi, pp. 168 ss.; TELLERIA, I, pp. 102-104; DE MAIO, op. cit.,