Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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Parte seconda “VA’, VENDI I TUOI BENI E SEGUIMI” (1723-1732)

15. - MISSIONI E MINISTERI (1724-1726)

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15. - MISSIONI E MINISTERI

(1724-1726)

 

Nella Napoli del primo Settecento, ancora rinchiusa nella cinta delle mura, le strade parallele da est verso ovest, da via Duomo verso via Toledo (Anticaglia, Tribunali, S. Biagio ai Librai), quadrettavano un mondo prevalentemente aristocratico; intorno ad esso, evidentemente, il popolo minuto, allegramente e freneticamente vivo e relativamente incivilito, assicurava il commercio e i servizi; più in basso a sud-ovest, verso il mare e le Paludi, formicolava invece la plebaglia nella sua miseria fisica e morale.

Il cavaliere de Liguori si era spinto qualche volta in quest’ultima direzione oltre il rione Portanova, dove per tredici anni aveva avuto il suo seggio? Era mai sceso dalla Vicaria e dai suoi certami oratori, lungo le rampe, fino a Via Lavinaio e alla grande Piazza Mercato? Le carrozze borghesi preferivano non arrischiarsi in questi bassifondi insicuri, paradiso incontrastato di saltimbanchi e di magnaccia, di cimici e di topi, di risse e di risate, di canti, chitarre e mandolini. Un poeta napoletano, Luigi Serio, scriverà: “ E vero che a Londra, diversamente che a Napoli, non trovi neppure un uomo solo scalzo; ma, se poi trovi colà un uomo che rida, io mi faccio ammazzare1 .

Piazza Mercato era il centro di questa Napoli, che spesso rideva per non piangere, il cuore della parte più misera e più densamente popolata della capitale, con i suoi fondachi, piccoli cortili dove in baracche innominabili si intasavano decine di famiglie numerose e con i suoi labirinti di vicoli stretti e senza sole, spesso profondi, umidi e tortuosi come fondi di crepacci, tra mura marce alte sei o sette piani. Nessuna carrozza penetrava in questi cunicoli di talpa, ingombri di bancarelle, laboratori, botteghe e mucchi di immondizia; vi ballonzolavano solo le poche carrette tirate a braccia dei venditori ambulanti, sotto la volta dei panni stesi ad asciugare sulle cordicelle tirate tra le case. Purificandone un po’ il tanfo pestilenziale, l’aria marina, malgrado i bastioni delle vicinissime banchine, si incuneava in questi “vicoliniformicolanti di oziosi, di affamati, di barcaioli, di commercianti, di

 

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contrabbandieri e di bambini nudi, nel baccano dei giochi, delle liti, dei bandi per il pesce e degli schiaffi delle onde contro la riva.

Come mai il tesoriere del buon re Dagoberto aveva fatto lega con i lazzaroni? A due passi dal Mercato, su Via S. Giovanni a Mare, pochi scalini portano in una delle chiese più originali della vecchia Napoli, costruita nel 1270, S. Eligio Maggiore, superbo monumento di gotico primitivo, potente e spoglio. Posto da secoli nel cuore stesso della miseria napoletana, aveva avuto la fortuna di non avere parrocchiani tanto ricchi da preoccuparsi di ricoprirlo con cornici rococò. I suoi sei o settemila parrocchiani costituivano nel 1720 l’umanità più disprezzata e più temuta della capitale, da cui era partito nel 1647 il maremoto umano sollevato da Masaniello che per poco tempo aveva sommerso tutta la città. Chi può non si avventuri in questa giungla 2 .

Il pomeriggio di sabato 18 novembre 1724 arrivarono a S. Eligio quarantatréfratelli” e cinque novizi delle Apostoliche Missioni, guidati da Don Giulio Torni, tra i quali, commosso, felice, Alfonso de Liguori. Dopo aver pregato insieme: “Vieni, Spirito Santo...”, si divisero in due gruppi che, al canto delle litanie della Madonna, croce in testa e agitando un campanello, si mossero secondo direzioni prestabilite per radunare la povera gente. Ognuna delle due piccole processioni, ingrossata già dai curiosi attirati lungo il percorso, si fermò al primo crocicchio intonando un canto per richiamare altra gente. Poi il predicatore - Torni per il primo gruppo, Gizzio per il secondo: con chi stava, Alfonso? - indirizzò al popolo un invito pressante all’ascolto della parola di Dio: il “sentimento di apertura” della durata di cinque minuti. Ciascuna processione quindi si mosse di nuovo, portandosi più lontano, per fermarsi ancora alla stessa maniera e gonfiarsi di piazza in piazza. Finalmente - allora si dava tempo al tempo - si ricongiunsero in chiesa dinanzi al SS. Sacramento esposto sull’altare per la “predica grande”che apriva la missione.

Alfonso, cantando in testa alla sua processione con la sua vocesonora e chiara”, entrò sotto l’alta volta a doppio spiovente di S. Eligio, seguito da un corteo di pezzenti. Era la sua prima missione. Settimana memorabile - per lui, per la sua futura congregazione, per la Chiesa - questa che va dal 18 al 26 novembre 1724, e già un segno di Dio: veniva mandato dapprima ai più poveri, ai più disprezzati, alla feccia sociale e morale del suo popolo. Dio è amore e “i santi vanno fin nell’inferno”.

Per le prediche e per il duro ministero del confessionale c’erano quaranta sacerdoti e per Alfonso, semplice chierico alle prime armi, il lavoro consisteva prima di tutto nell’osservare attentamente i maestri nei vari esercizi che riempivano tutta la giornata, perché in quei tempi, nella società pre-industriale, i fedeli interrompevano il lavoro per

 

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“fare la missione”, come noi oggi quando vogliamo fare un periodo di stretto ritiro.

Il Giornale (cioè il diario della congregazione) annota le presenze di ogni membro. Alfonso seguiva, cominciando dall’aurora, la “meditazione”, la messa e i “soliloqui” (atti prima e dopo la comunione suggeriti con ampio sviluppo da un missionario), poi la “predica del mattino”, sulle verità fondamentali della fede o sui vizi da estirpare, di tre quarti d’ora assicurati dal canonico Gizzio. Ogni sera partecipava per un’ora o a una delle “usciteprocessionali per richiamare i fedeli lungo i crocicchi e le piazze con i “sentimenti di notte” o all’animazione di coloro che, durante questo stesso tempo, in chiesa commentavano e sgranavano a lungo i misteri e le ave del rosario; poi, costituitasi l’assemblea davanti al SS. Sacramento esposto, era tutto orecchi per la “predica grande” (cinque quarti d’ora) del veterano Don Filippo Aveta sui novissimi, che terminava con il miserere, seguito da un lungo atto di contrizione ispirato dalla stessa “predica grande”. Dopo la benedizione con il Santissimo, congedate le donne e i bambini, i missionari e gli uomini di buona volontà, armatisi di corde o di catene, si flagellavano con forza le spalle (ognuno le proprie!) in espiazione e in implorazione per se stessi e per tutti “i poveri peccatori”.

Durante le sue prime missioni, il nostro novizio fu solo un attento uditore? No. Se seguiva regolarmente gli studi era già pienamente “in missione”: missione di animazione del canto e della preghiera del popolo; missione di fraterna visita ai malati e ai vecchi nei tuguri (Dio mio! che orrore e promiscuità e, malgrado tutto, che fede e speranza scritte su quelle sporche pareti ricoperte di immagini di Cristo e di Maria, unicalettura” di quei poveri analfabeti!); missione di riconciliazione, insieme al “prefetto di pace”, presso nemici dai rancori tenaci e violenti (era indispensabile un santo che fosse anche giurista, perché spesso gli accordi dovevano poi essere ufficializzati dinanzi a un notaio o a un magistrato); missione presso i recalcitranti, gli induriti e gli empi, che bisognerà andare a cercare, nelle case, nelle botteghe, nei circoli e per le strade “finché non si trovino e si riconducano”, come la pecorella smarrita; missione, infine, presso i ragazzi raccolti tutti i giorni, come la domenica a S. Angelo a Segno, Crocifisso in mano, lungo vicoli, piazze e banchine, per insegnare loro Gesù Cristo e prepararli ai sacramenti.

Frattanto- le chiese non mancavano nel territorio della parrocchia di S. Eligio - altri novizi evangelizzavano altri ragazzi; missionari davano al popolo la grandeistruzionecatechetica, che la regola voleva forte e semplice, semplice, semplice; un “ fratelloqualificato predicava ai sacerdoti gli esercizi spirituali (ogni parrocchia, non dimentichiamolo, contava un “reggimento” di chierici. Ad esempio, quella

 

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dove abitava Alfonso, S. Angelo a Segno, una delle più minuscole della diocesi - cinquecento anime - , aveva al suo servizio fino a venti ecclesiastici; quella battesimale invece al Borgo dei Vergini - ventimila abitanti - ne occupava centocinquantotto, per tre quarti sacerdoti 3.

Le “grandi manovre” della missione a S. Eligio Maggiore durarono otto giorni di intensa rianimazione cristiana attraverso la formazione nella fede e la conversione del cuore. La durata degli interventi dei missionari della cattedrale era di almeno otto giorni, al massimo quindici 4 .

 

La seconda missione del nostro novizio, sei mesi più tardi, sarà di quindici giorni, perché il cantiere era quasi doppio e poco numerosi i missionari (soltanto sedici).

Sabato 9 giugno 1725, guidati dal padre superiore don Giovanni Venato, gli apostoli, tra i quali Gizzio e Torni, presero il mare per l’isola di Procida a venticinque chilometri da Napoli, popolata allora, quasi come oggi, da circa 11.000 abitanti per lo più pescatori e ortolani. Alfonso, avendo solo gli ordini minori, riceverà gli stessi compiti della precedente missione, anche se il quadro era diverso: Procida (3,75 chilometri quadrati), altopiano di fiori, di vigneti e di frutteti, poggiato sulle acque più azzurre del mondo, era un paradiso terrestre, nei cui giardini però si nascondevano pur sempre il serpente e il peccato. La redenzione urge dappertutto.

A S. Eligio ogni confratello raggiungeva facilmente la propria tavola e il proprio letto, a Procida invece Alfonso sperimentava per la prima volta la vita di stretta economia dei missionari in campagna, vita che sarà la sua pressappoco fino all’episcopato.

Chierici secolari, ordinati solo perché dotati di beneficio ecclesiastico o di patrimonio costituito dalla famiglia, essi avevano una rendita, che per la diocesi di Napoli doveva essere almeno di quaranta ducati annui. Era una situazione confortevole, dal momento che “a Napoli e nell’Italia meridionale si stimava che un artigiano, la sua donna e quattro bambini potessero vivere convenientemente con quattro ducati al mese5. Personalmente Alfonso non poteva lamentarsi: aveva vitto e alloggio in casa, un patrimonio di quaranta ducati annui da percepire sulle rendite della proprietà Cardovino (o Carduino) a Marianella 6, la pensione del collegio dei dottori e la sua parte delle entrate del Seggio di Portanova. Però chi conosce il padre e la storia della prima sottana di Alfonso è autorizzato a pensare che una parte notevole finisse nella scarsella paterna, una volta onorata la sua partecipazione alle opere di misericordia: Incurabili, sacerdoti della Misericordiella...

I missionari delle Apostoliche Missioni perciò non accettavano

 

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donionorari e nemmeno il nutrimento dalle comunità cristiane o da privati dei luoghi dove essi evangelizzavano, tanto che chi contravveniva a questa norma era escluso ipso facto dalla congregazione. Affittavano o prendevano in prestito casa, letti, vasellame e pagavano di tasca propria un domestico per cucinare e tenere in ordine il loro “convento”, per tutta la durata della missione luogo di preghiera, di silenzio, di gioia comune, di indispensabile riposo. Ciascun confratello versava la sua quota per il cibo e il lume, dal momento che il riscaldamento era sconosciuto e l’acqua non si pagava; la congregazione e le offerte volontarie dei suoi membri finanziavano i viaggi (imbarcazioni sul mare, cavalli a terra). Paradossalmente i confratelli, divisi a Napoli, vivevano in comunità durante il lavoro apostolico fuori città.

Anche durante i viaggi, imbarcazioni o vetture diventavano piccoli monasteri ambulanti, alla maniera di Teresa d’Avila, dove si recitava insieme l’ufficio divino e si leggevano passi della Scrittura o della storia della Chiesa. In testa andava il calesse del superiore con il Crocifisso legato davanti 7.

 

Il noviziato alle Apostoliche Missioni durava almeno sei mesi e Liguori al suo ritorno da Procida ne contava otto; si restava però novizi finché non si era suddiaconi. Con la sua grafia elegante e sicura, che abbiamo sotto gli occhi, Alfonso scrisse al cardinale Pignatelli:

Em.mo Signore, supplica umilissimamente l’Em.za V. il clerico Alfonso de Liguoro e l’espone come si ritrova aver preso gl’Ordini Minori a dicembre del passato anno 1724. E perché desidera entrare negli Ordini Sacri nella prossima Ordinazione di settembre. Pertanto supplica l’Em.za Sua degnarsi di dispensargli questi tre mesi d’interstizi, che vi bisognerebbero, acciocch’esso supplicante possa prendere, il Santo Suddiaconato, stantecché si trova avanzato d’età, compendo 29 anni appunto nel detto mese di settembre venturo”.

La dispensa venne accordata il 5 agosto e dopo il ritiro presso P. Cuttica, il sabato delle quattro tempora di autunno, 22 settembre 1724, Alfonso fu ordinato suddiacono nella basilica di S. Restituta da Mons. Domenico Invitti, napoletano, canonico titolare della cattedrale, arcivescovo in partibus di Sardia, da un anno ausiliare (come lo chiameremmo oggi) del vecchio cardinale 8 . Il solenne impegno di casto celibato preso allora da Alfonso dinanzi a Dio e alla Chiesa fu la ratifica pubblica e gioiosa del voto privato, che datava senza dubbio fin dal ritiro del 1714 presso i Gesuiti della Conocchia. Ed eccolo ufficialmente In forza del breviario (era lungo!) uomo della lode e della preghiera per tutto il mondo.

Finalmente suddiacono, il novizio accettato con altri quattro dal-

 

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la consulta del 17 settembre e ammesso con voto unanime e segreto nell’assemblea generale del ottobre, poté passare tra i “fratelli” Alla professione della fede cattolica, all’affermazione dell’Immacolata Concezione di Maria e all’impegno di predicarla (si ricordò dell’analoga promessa fatta al momento del suo lontano dottorato tredici anni prima?), Alfonso aggiunse l’impegno di “fratello”:

Inoltre io, Alfonso Maria de Liguori... decido fermamente per quanto è nelle mie forze di cooperare con Cristo nostro Signore e i pastori della Chiesa cattolica romana per la salute delle anime, soprattutto con le sante missioni, di osservare diligentemente tutte e singole le prescrizioni delle Regole e Costituzioni di questa Congregazione delle Apostoliche Missioni, nella quale per grazia di Dio oggi sono ammesso, e di ubbidire ai Superiori pro tempore che dirigono la stessa Congregazione. E prego la divina clemenza perché mi dia la grazia di perseverare fino alla perfetta consumazione. Amen”.

Un caloroso abbraccio da parte di tutti i “fratelli”, al canto dello Ecce quam bonum (Sal. 133), sottolineò il pieno ingresso nella famiglia.

All’inizio del Giornale 1725-1726, Don Alfonso de Liguori figura, per la prima volta, al 106° posto tra i 111 fratelli viventi della congregazione (dodici vescovi, tra i quali il cardinale Pignatelli e, quale vicedecano anziano, ammesso nel 1677, il principe Orsini di Gravina, allora Benedetto XIII); d’ora in poi fino alla sua morte nel 1787, ogni anno, il Giornale porterà nell’elenco dei fratelli viventi il nome di Alfonso de Liguori con la data di aggregazione, ottobre 1725. “Questa congregazione, dice Tannoia, fu per esso finché visse la diletta Madre9  cui era legato da una partecipazione attiva, non senza drammi, e da un amore reciproco fatto di collaborazione fiduciosa che invecchierà nell’affetto. Nel 1779-1780 passerà in testa all’elenco, decano per età e anzianità.

Per il momento era il decano... dei giovani. Ascoltava, consultava, approfittava avidamente della ricca biblioteca della congregazione e delle sue riunioni del lunedì nelle quali, oltre a promuovere il fervore sacerdotale, venivano particolarmente affrontati da una parte le difficoltà pastorali e i casi di coscienza più comuni nelle missioni e dall’altra la pratica di una predicazione popolare e robusta, capace di convertire 10.

 

La predicazione della parola di Dio sarà tra poco il primo grande ministero di Alfonso. Frattanto, dal 31 ottobre al 12 novembre di questo Anno Santo 1725, intervenne piuttosto come uditore alla missione tenuta in cattedrale da cinquantaduefratelli” e sette novizi. Fece senza dubbio il catechismo ai ragazzi, ma, assillato dagli studi,

 

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trovò solo due volte il tempo per ascoltare la predica grande di Giulio Torni.

Malgrado ciò, il 10 dicembre, il nostro suddiacono per la prima volta portò il suo ministero fuori della chiesa locale, facendo parte di una colonna di calessi dei preti della cattedrale (disputati da tutto il Regno), i quali, sballottati e salmodianti, presero, croce in testa, la strada verso nord-est. Verso quale porzione del popolo di Dio?

Dopo Maddaloni i nostri missionari scoprirono a destra il Taburno, una montagna brulla di 1394 metri, poi, dopo Moiano, improvvisamente un altro paesaggio, più austero e chiuso; in una cornice di aspre montagne, una vasta conca di culture e frutteti con al centro, su uno zoccolo roccioso, un gioiello di cittadina, S. Agata dei Goti, la sede vescovile.

Dal 10 al 25 dicembre (quindici giorni, missione lunga) quegli apostoli, chiamati da Mons. Gaeta, evangelizzarono la città e i suoi “casali”: sette parrocchie, cinquemila abitanti, circa ottanta sacerdoti. Al nostro nuovo fratello fu affidato il ministero del catechismo ai bambini. Quando questi fortunati ragazzi e ragazze avranno quarant’anni e più, accoglieranno trionfalmente quale vescovo il loro fervoroso catechista d’oggi!

Dopo aver condiviso con loro la grazia e la gioia del Natale, egli ritornò a Napoli (c’era certamente il “lunedì” 7 gennaio 1726), mentre compagnie di confratelli continuavano in gennaio e in febbraio le missioni in gran parte della sua futura diocesi: Valle di Maddaloni, Frasso, Airola, Moiano, Arpaia... nomi, popolazioni, che un giorno riempiranno il suo cuore e la sua vita 11 . Per ora era seminarista e sua prima missione lo studio: ritornò prontamente ai suoi libri, ai ritiri dai Lazzaristi, ai ragazzi del catechismo, agli sfortunati fratelli degli Incurabili e delle prigioni ecclesiastiche. Per lui infatti anche Napoli era missione.

Ma tener fede a tutti questi impegni diventava impossibile anche a un risparmiatore di sonno e a un gran lavoratore come lui. Prima di tutto uomo di Dio, non aveva mai pensato che lavorare fosse pregare, per cui l’ora e mezza dell’ufficio divino non prendeva il posto delle sue orazioni e adorazioni, ma le prolungava e, una volta divenuto diacono, avrebbe dovuto anche predicare. Rifuggendo dall’idea di ridursi a “membro onorario” o a “fratello assente”, il 23 marzo 1726, quindici giorni prima del diaconato, presentò le dimissioni dalla confraternita della Misericordiella, ma si assicurò prima che il fratello Ercole prendesse il suo posto, non potendo dimenticare i preti forestieri o delinquenti, tanto da lui amati e serviti.

Sabato 6 aprile 1726, con la dispensa di sei mesi di interstizio,

 

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divenne diacono sempre per le mani di Mons. Invitti, all’altare maggiore della chiesa metropolitana.

Diacono! Che gran passo avanti nel suo avvicinamento al Cristo, ai fratelli! I suoi nuovi compiti? Servire alla mensa della Parola e delL’Eucaristia. Alfonso non scrissedisse niente della sua esultanza, che però possiamo immaginare, come possiamo intuire la gioia del cardinale che gli diede subito la delega per la predicazione in tutte le chiese della capitale.

Tutte infatti attendevano il celebre avvocato di ieri, ma la prima ad ascoltarlo fu la parrocchia di S. Giovanni a Porta, per l’adorazione delle quarantore, sua vecchia passione. Commentò il passo di Isaia 63, 19 - 64, 1:

 

“Se tu squarciassi i cieli e scendessi...

Come il fuoco incendia le stoppie

e fa bollire l’acque...”.

 

In seguito questo tema gli verrà mille volte alle labbra dinanzi all’incarnazione di Dio e alla sua presenza nell’Eucaristia. Ci sembra di ascoltarlo ancora, leggendo il primo discorso della sua Novena di Natale ( 1758):

“Oh se ti degnassi, mio Dio - diceva il profeta, allorché non era ancora venuto in terra il divin Verbo - di lasciare i cieli e scendere qui tra noi a farti uomo! . . . Ah, che a questa fiamma che voi accenderestecuori umani, l’anime più gelate arderebbero del vostro amore. Ed in fatti dopo l’Incarnazione del Figlio di Dio, che bell’incendio d’amore divino s’è veduto risplendere in tante anime amanti! È certo che solo dagli uomini è stato più amato Dio in un solo secolo, dopo che Gesù Cristo è stato con noi, che in tutti gli altri quaranta secoli antecedenti alla sua venuta. Quanti giovani, quanti nobili, e quanti ancora monarchi hanno lasciate le loro ricchezze, gli onori, ed anche i regni, per ritirarsi o in un deserto o in un chiostro, poveri e disprezzati, per meglio amare questo lor Salvatore! Quanti martiri sono andati giubilando e ridendo a’ tormenti ed alla morte! Quante verginelle han rifiutate le nozze de’ grandi per andare a morire per Gesù Cristo, e così rendere qualche contraccambio d’affetto ad un Dio che s’è degnato d’incarnarsi e di morire per loro amore!

Sì, tutto è vero, ma - veniamo ora alle lagrime - è succeduto lo stesso in tutti gli uomini ? Han tutti cercato di corrispondere a questo grande amore di Gesù Cristo?”12 .

Ogni giorno la solenne adorazione delle quarantore si teneva in una chiesa diversa, Alfonso ne divenne ben presto il titolato predicatore, svuotando le altre chiese, tanto da non sapere più dove mettere le persone accorse ad ascoltarlo 13.

 

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Non essendo ancora sacerdote, non poteva né ascoltareassolvere i peccatori e il sinodo diocesano, che si tenne dal 9 all’11 giugno, non lo rassicurò certo di fronte a questo ministero, del quale non si sapeva più se fosse di giustizia o di misericordia:

Avvertiamo ed esortiamo nel Signore tutti i confessori a non esporsi essi stessi alla dannazione eterna per i peccati degli altri perdonati con troppa facilità. Perciò rifiutino l’assoluzione sacramentale o la differiscano per tutto il tempo necessario a coloro che trovano legati dalla cattiva abitudine del peccato o a coloro che incontrano nell’occasione prossima di ricadervi, ecc.”14 .

Erano le consegne bicentenarie di san Carlo Borromeo (1538-1584) e se Francois Genet dovette fremere di gioia nel suo... purgatorio (si stava per rifiutare l’assoluzione!), il nostro diacono non poté che tremare un po’ di più di fronte alle sue future responsabilità.

 

Frattanto dava parte del suo tempo e del suo cuore a dei peccatori, per i quali non esisteva più il rischio di recidività o di occasione prossima: i condannati a morte.

Nell’aprile 1519 un cavaliere genovese, Ettore Vernazza, e un canonico regolare di S. Agostino, Don Callisto dei Fornari di Piacenza, avevano fondato a Napoli la Compagnia di S. Maria succurre miseris, chiamata anche dei Bianchi della Giustizia: “ bianchi ” perché portavano tunica e cappuccio bianchi, “della giustizia” perché davano amore e pietà a coloro dei quali la società pretendeva fare “giustizia”?, trascinandoli urlanti all’ultimo supplizio. Fino ad allora a Napoli era sembrato cosa buona non assisterli; il disprezzo farisaico delle “persone perbene” li ammazzava prima ancora che la mannaia o la corda avesse avuto la loro testa.

Da duecento anni (1525) la compagnia aveva la propria sede in una cappella dell’ospedale degli Incurabili, con il compito di assistere spiritualmente e circondare di tenerezza i condannati nei giorni precedenti l’esecuzione. Ogni volta che un usciere della giustizia portava il fatale biglietto, quattro fratelli, a turno, accompagnati da tutti quelli che potevano unirsi loro - ne occorrevano almeno tredici - partivano in processione per la Vicaria, mormorando i sette salmi penitenziali; prendevano teneramente in cura l’Afflitto e lo circondavano, pregando insieme, mentre scendeva al Mercato, dove i criminali “di classe” erano attesi dalla mannaia e quelli comuni dalla corda: sfumature! L’amore evangelico ignorava però queste finezze e i Bianchi raccoglievano con la stessa pietà rispettosa il corpo di qualsiasi suppliziato, lo portavano processionalmente al loro oratorio tra la salmodia triste e implorante dei Miserere e dei De profundis, celebravano per lui L’ufficio e la messa esequiale e lo seppellivano come un fratello, come

 

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un figlio. Del resto quei poveri sventurati morivano tutti con evidenti segni di pentimento e di speranza.

Ricoperto il feretro di terra benedetta e piantata la croce sul tumulo, non c’era altro da fare che raccogliere le pale e lavarsi le mani? Nemmeno a pensarlo! Spesso l’impiccato lasciava vedova e figli che piangevano nella vergogna e nella miseria e i Bianchi se ne prendevano cura, questuando in gruppi di otto per la città tutti i sabati, dopo che ognuno aveva contribuito di tasca propria.

Commoventi questi napoletani! Che importa se la loro religiosità tutta meridionale non si esprime come quella dei Lapponi? Oggi ci diciamo cristiani maturi e decantati, ma i poveri cristi torturati che ci circondano hanno forse la stessa fortuna dei malati, degli schiavi, dei prigionieri, dei suppliziati della Napoli di allora? “ Avevo fame... ero nudo, malato, prigioniero...”, qui è il banco di prova della “vera religione”. A Napoli l’esteriorità espansiva di una pietà fatta di processioni e di canto andava di pari passo con l’amore dell’Afflitto, con l’A maiuscola per rispetto.

Condurre i “giustiziandi” al supplizio, alla tomba, al cielo era certo cosa buona, ma era ancora meglio salvare una testa o far cadere delle catene. I fratelli più anziani o più influenti avevano la missione di darsi da fare per liberare dalle prigioni della Vicaria o dalle catene dei banchi delle galere i detenuti più indispensabili alle loro famiglie e più “innocenti”; una missione, questa, a misura dell’ex-avvocato di Castel Capuano, figlio del comandante della Capitana!

La compagnia, che in teoria doveva contare cento membri (cifra tonda, raramente raggiunta), benché avesse sempre a capo un sacerdote, il P. Governatore, era soprattutto una confraternita di laici, tanto che le regole primitive interdicevano di ammettervi più di dodici ecclesiastici. La proporzione un po’ alla volta andò rovesciandosi, fino al punto che, alla vigilia della rivoluzione dell’89, vi saranno solo sacerdoti. Quale fosse il rapporto laici-preti al tempo di Alfonso non sappiamo.

Ad ogni modo, nel febbraio-marzo 1725 Alfonso presentò alla confraternita, della quale per quell’anno P. Governatore era lo zio Pietro Marco Gizzio, le tre istanze in scritto di rigore per la ammissione e la seconda domenica di pasqua, 15 aprile, divenne membro effettivo della Compagnia di Santa Maria succurre miseris: nella sua vita, come nel Vangelo, ad ogni svolta importante la Madre di Gesù era sempre presente. Si deve forse all’esempio di Alfonso e alla sua forza di persuasione se negli anni seguenti vi entreranno amici e confidenti spirituali, quali il gesuita Domenico Manulio e gli oratoriani Nicola Sicola e Tommaso Pagano.

Al momento dell’ammissione egli era chierico con gli ordini mi-

 

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nori ma già maggiore era il suo credito alla Vicaria e alle galere; ora diacono e ben presto sacerdote sarà spesso nelle celle e a fianco dei condannati a morte.

Spesso”, che significa?

Il banditismo era stato soffocato dal viceré Gaspare de Haro y Guzman, marchese del Carpio (1683-1687), ma gli assassini restavano numerosi, anche se il diritto di asilo li sottraeva la maggior parte delle volte al castigo. In una città dalle cinquecento chiese i sicari avevano a portata di mano un pugnale per colpire e un luogo sacro dove trovare impunità! E’ vero che si rischiava il patibolo solo per omicidio, ma i viceré del XVIII secolo, maestri nel dominare la plebaglia di Napoli con le tre effe: feste, farina e forca, a secondo del loro umore concedevano la corda anche per una serie di delitti minori, che oggi non passerebbero neppure per il tribunale.

Le cifre sono eloquenti: dal 1556 al 1786 le esecuzioni capitali accompagnate dai Bianchi (3.256 in tutto) passarono da 38 a 3,6 in media per anno; per gli anni 1725-1735, soprattutto sotto il conte di Harrach (1728-1733) che ebbe la mano pesante, si può far salire la cifra a sei per anno: una ogni due mesi. D’altra parte sappiamo che, diventato sacerdote, Alfonso dovette accompagnare almeno due volte la forca fuori Napoli, a Sommana di Caserta (giugno 1727) e a S. Giorgio a Cremano (novembre 1729).

Il P. de Liguori non farà molte confidenze riguardo a questo macabro ministero esercitato per otto anni, ma, oltre ad alcune pagine nelle sue opere pastorali, redigerà, per i sacerdoti che assistono i condannati, un piccolo compendio pratico, dove affiorano commossa pietà e grande esperienza di questi tragici colloqui intimi (1775)15 .

I “fratelli”, sapendosi anch’essi tutti condannati a morte con sospensiva indeterminata, si assicuravano tra loro la suprema cortesia dei suffragi e della sepoltura. Alfonso, che resterà sempre nella compagnia adempiendone fino alla fine i doveri compatibilmente con la distanza, 1’8 maggio 1783, da vescovo in pensione, scriverà al segretario dei Bianchi:

“Ho fatto sentire a chi tiene il libro delle messe, che ne applicasse due per lo nostro defunto fratello, e credo che già si sieno celebrate

Mi persuado che tra breve dovrete prendervi, anche per me miserabile l’incomodo di avvisar la mia morte16 .

 

Ma si corse il rischio di inviare ai Bianchi il suo avviso di morte... cinquantotto anni prima, quando ancora non si poteva mettere la stola sacerdotale sul suo feretro, perché iI surmenage e le penitenze furono sul punto di ucciderlo già nell’estate del 1725.

Le penitenze... Benvenuta la psicanalisi che permette ai delicati

 

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uomini d’oggi di relegare digiuni, cilizi e discipline nell’armamentario ripugnante del masochismo! I cristiani dei primi secoli invece, nello slancio della fede e del battesimo, condividevano la vita di Cristo unendosi alla sua passione fino al martirio: amore per amore fino alla sofferenza e alla morte. Nella loro scia l’ascesi cristiana, più che padronanza di sé, vuole essere testimonianza alla carità del Cristo nella conformità alla sua vita e quindi a ciò che ne costituì il vertice: la sua passione e la sua morte volontaria e redentrice. Il Salvatore avrebbe potuto redimerci a minor prezzo, ma come avremmo noi conosciuto l’insondabile abisso del suo amore? In mancanza di martirio, ciò che armava i santi contro se stessi era l’esigenza mistica di rendergli lo stesso amore, unirsi e conformarsi a lui Crocifisso, “completare nella nostra carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col. 1, 24). S. Pier Damiani (1007-1072) fu il grande iniziatore di queste macerazioni, ma il gioviale Filippo Neri si flagellava tre volte la settimana insieme ai compagni e il dolce Francesco di Sales, studente di diritto a Padova, nel 1590 si ridusse in fin di vita, perché a un duro lavoro univadigiuni, flagelli, cilizi e veglie ”. Sappiamo che Alfonso aveva scelto Francesco per modello e non amava le mezze misure. Dopo il diaconato si impegnò a predicare a Napoli quasi ogni giorno e non per un fervorino di dieci minuti; fu il classico bicchiere d’acqua in un vaso già pieno fino all’orlo, come testimonia Tannoia:

Mutando stato Alfonso, mutò anche sistema nel vivere. Benché prima non vivesse, che da moriggerato Cavaliere, addivenuto Ecclesiastico adottò un’altra vita in tutto singolare. Studio, ed orazione, e Chiesa fu sistema, che stabilì a se medesimo. Soprattutto si diede a crocifiggere di proposito la propria carne, e nel negare a se stesso qualunque sollievo. Cilizj, digiuni, discipline giornali, istrumenti di penitenza, e varj nell’esecuzione, effusione di sangue, tutto pose in opera per calcare quanto più poteva da vicino le vestigie del Crocifisso L’astinenza del vitto anche fu somma e singolare; ed il sabato non passavalo che in pane ed acqua in onore di Maria Santissima”.

Con tale regime era facile ad Alfonso non incontrarsi a mensa con il padre, che si rodeva per l’inquietudine, perché se detestava il chierico, amava profondamente il figlio della sua carne, del suo cuore, del suo orgoglio.

“Se si afflisse D. Giuseppe suo Padre, continua Tannoia, e si afflisse di troppo vedendo spostato da’ Tribunali Alfonso, maggiormente si affliggeva di presente, vedendo, che colle sue austerità e colle tante fatiche, era per abbreviarsi la vita. Viepiù era in pena sua Madre, perché avevalo sempre presente; e se consolavasi per un verso in vedere il come interessavasi nel servizio di Dio, affliggevasi per l’opposto,

 

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temendo, che andasse a perdere la vita. Piangeva D. Anna, e non finiva di affliggersi coi sacerdoti suoi compagni; e pregavane il P. D. Tommaso Pagano, che moderato l’avesse nelle tante fatiche, che si addossava, e posto avesse freno alle sue eccessive mortificazioni.

Quanto si temeva, tanto accadde. Non poteva la machina del Corpo oppresso dalle fatiche, né lo Spirito dissipato da tante applicazioni mentali reggere più di quello si credeva. Non passarono pochi mesi, da che preso aveva il diaconato, che Alfonso si vide infermo, ed in pericolo della vita. Una notte, tra le altre, si stimò disperato dai Medici, ed alle ore sette se gli ordinò in fretta il S. Viatico. In questo stato Alfonso avendo fede a Maria Santissima, chiese con grande istanza di volere in quell’ora la prodigiosa Statua, che si venera nella Chiesa della Redenzione de’ Cattivi, avanti il cui Altare erasi sciolto dal Mondo, ed offerto tutto a Dio. Non si mancò consolarlo. La Statua fu subito portata in casa; ed essendosi esposta avanti il suo letto furono così efficaci le preghiere di Alfonso, e così pronta la Vergine in esaudirlo, che si vide in quel mentre migliorato, e fuori di pericolo. Fu cosi crudele l’infermità, che non durò meno di tre mesi a potersi ristabilire17.

La Madonna della Mercede l’aveva “liberato” una seconda volta perché lo voleva sacerdote. Da parte sua Liguori aveva fretta di recuperare il tempo perduto e, sentendosi ritornare le forze, alla fine di ottobre scrisse al suo arcivescovo: “...perché mancano tre mesi d’interstizij per compire l’anno; pertanto supplica V. Em.za degnarsi dispensargli li detti tre mesi, secondo la grazia fatta anche ad altri, mentre esso supplicante si ritrova in età di trent’uno anno”. Ammesso il 31 ottobre dal Pignatelli alle ordinazioni sacerdotali delle quattro tempora di dicembre, Alfonso raccolse per un’ultima volta la documentazione, gia esibita ad ogni tappa precedente: gli attestati di assiduità ai ritiri domenicali del P. Cuttica, ai “lunedì” delle Apostoliche Missioni, agli uffici festivi e ai catechismi settimanali di S. Angelo a Segno impegni che, benché non facciano notizia, hanno nella loro regolarità un peso notevole di formazione e di fatica, accanto alla preghiera, allo studio e alle missioni.

Il Giornale durante i nove mesi del suo diaconato non parla di missioni, eccetto quella di Ognissanti allo Spirito Santo, né per lui né per nessun’altro. Dimenticanza del segretario, Don Francesco de Novellis? I cronisti, questi eroi, qualche volta sono stanchi. Del resto per sei mesi, dalla metà di giugno, Alfonso, ammalato e convalescente, fu assente dalle assemblee e dal catechismo a S. Angelo a Segno per tre mesi e mezzo come nota il buon rettore curato D. Aniello Pacifico.

Questa malattia fu un vero terremoto, perché, unita al folgorante successo del diacono predicatore, cambiò qualcosa nel clima familiare

 

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e cittadino nei suoi riguardi. Il 2 dicembre, accanto al padre e ai fratelli Gaetano e Ercole, Don Alfonso, tra la sorpresa del nobile consiglio che lo accolse calorosamente, tornò ad occupare il suo seggio alla Piazza di Portanova, da cui mancava dal 10 giugno 1723, prima del dramma del processo perduto. Vi comparirà ancora di tanto in tanto fino al 1732, poi la lontananza da Napoli non gli permetterà di dare il suo parere e il suo voto sugli affari della città. Quasi mai più...18. Altre preoccupazioni, altri orizzonti, altre altezze chiameranno il sacerdote, il fondatore, il vescovo, lo scrittore, ma chi tre anni prima era stato schernito dai colleghi come un cavaliere decaduto, lasciava oggi la sala del consiglio con il rispetto di tutti e già la venerazione di molti. In sottana, accanto al padre!

Una settimana dopo, pieno di gioia, si rinchiuderà, con altri quindici diaconi, nella casa dei figli di san Vincenzo de’ Paoli per dieci giorni di ardente solitudine in preparazione all’ordinazione sacerdotale.

 

 

 

 





p. 191
1 Citato da Croce, Storia del Regno di Napoli, p. 34.



p. 193
2 Cf. F. NICOLINI, La giovinezza di G.B. Vico, p. 27; D’ARIA, op. pp. 178-183, 416-417; DE MAIO, p. 98



p. 195
3 Cf. VALENTINI, op cit., p. 318.



4 Cf. Regulae Clericorum Saecularium Congregationis Apostolicarum Missionunt sub Patrocinio S. Mariae Reginae Apostolorum, Napoli 1777, pp. 115-119, 148-157. queste regole, stabilite nel 1646, adattate dai “fratelli” alle missioni interne nel 1688, approvate il 25 aprile 1698 dal cardinale A. Pignatelli, furono ristampate senza cambiamenti nel 1777.



5 Lalande, citato da VAUSSARD, op. cit., p. 220. Lalande scriveva nel 1765-1766, cioé subito dopo che il costo della vita, molto stabile a napoli nel secolo XVIII, subì un incremento in seguito alla carestia del 1764; cf. R. ROMANO, prezzi, salari e servizi a napoli nel secolo XVIII, Milano 1965, p. 140.



6 Cf. Contributi, p. 26; SH 10 (1962), pp. 334-336.



p. 196
7 Regulae, pp. 142-147; GALASSO- RUSSO, op. cit., p. 449, nota 35.



8 Per i documenti ufficiali dei tre ordini sacri di Alfonso e del suo titolo patrimoniale,

cf. “S. Alfonso”, 4 (1933), pp. 96-97 e SH 10 (1962), pp. 329-336.



p. 197
9 TANNOIA, I, p. 33



10 Regulae, pp. 99-101.



p. 198
11 KUNTZ, Annales, i, p. 89; “Giornale” delle Apostoliche Missioni, 1725-1726. questa missione e’ sfuggita alla sagacità di SH 8 ( 1960), certo perché annotata su pagine non numerate del “giornale”. i biografi parlano anche di una missione di Alfonso a caserta prima del sacerdozio; ma essa è ignorata dal “giornale” e giustamente, perché il suo unico testimone al processo apostolico di S. Agata aveva allora solo... tre anni e cade in evidente confusione, cf. Summarium, pp. 25 e 92.



p. 199
12 Opere ascetiche, IV, p. 21.



13 TANNOIA, I, p. 34.



p. 200
14 Synodus dioecesana 1726; “De poenitentia”, XVIII, citato da TELLERIA, I, p. 114.



p. 202
15 Cf. BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI, MS XV, e. 5: E. PONTIERI, in “Campania Sacra”, 3 (1972), pp. 1-26; l’articolo è seguito dal testo integrale del 1525 dei Capituli et Constituzioni... de Bianchi; solo una confusione ha fatto attribuire la fondazione dei Bianchi della giustizia nel 1430 a S. Giacomo della Marca, allora in Ungheria. Cf. anche GALANTI, 1. IV, c. IV; t. III, p. 174; TELLERIA, I, pp. 109-110; VAUSSARD, op. cit., pp. 139-144; CROCE, Storia..., pp. 131-132; DE MAIO, op. cit., pp. 130-132.



16 Lettere, II, p. 639.



p. 204
17 TANNOIA, I, pp. 32, 34-35.



p. 205
18 Cf. “S. Alfonso”, 6 (1935), pp. 204-205; Contributi, pp. 46-47.



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