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16. - SONO SACERDOTE...
Alfonso de Liguori non fu ordinato sacerdote dallo zio materno vescovo di Troia. Mons. Emilio Cavalieri s’era spento l’11 agosto 1726 a sessantatré anni, lasciando il ricordo di un santo austero, vigoroso e zelante; strenuo lavoratore e di vasta cultura, aveva raccolto una biblioteca di ventiduemila volumi; amico di san Paolo della Croce (1694 - 1775), fondatore dei Passionisti, era però morto in disgrazia presso Benedetto XIII e mortificato da un Visitatore Apostolico privo di qualsiasi benevolenza; le sue ultime sofferenze erano state mitigate e le sue esequie presiedute dall’amico e vicino, il teatino Domenico de Liguori, vescovo di Lucera dal 1718 1.
Alfonso non fu ordinato nemmeno da questo suo cugino, ma da Mons. Invitti il 21 dicembre 1726 all’altare maggiore della chiesa metropolitana. Fu un avvenimento per tutta Napoli dalla nobiltà alla magistratura e al popolo minuto, perché dopo il suo diaconato “né di altro si parlava in tutta Napoli, che delle virtù di Alfonso e dello Spirito Apostolico da cui vedevasi animato” 2.
La storia non dice di più, però non ci vieta di intuire lo shock interiore di chi scriverà: “ Considerate, sacerdote mio, che Dio non potea farvi più grande nel mondo di quel che vi ha fatto. Ed a qual maggiore altezza potea Dio sollevarvi, che rendervi suo ministro in terra degli affari di sua maggior gloria? ”; e ancora: “ E’ certo che non può un uomo fare un’azione più sublime e più santa, che celebrare una messa ” 3.
L’indomani, domenica, la chiesetta di S. Angelo a Segno fu certamente troppo piccola per tutti i partecipanti alla prima messa del celebre avvocato. Quale l’emozione della madre, quali i sogni cardinalizi del padre? Ricordarono la profezia di Francesco de Geronimo? Certo è il terremoto interiore di Gaetano, terzogenito dei Liguori, che, chierico prebendato ma incerto da 11 anni, uscì finalmente dal suo letargo e si decise per il sacerdozio, dandosi agli studi e ai catechismi dei seminaristi; sarà ordinato nel settembre 1730 4.
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Antonio, il secondogenito che era già prete, avendo dieci anni prima, il 21 marzo 1716, professato nel monastero benedettino dei SS. Severino e Sossio (L’attuale archivio di Stato) fu certamente presente alla prima messa del fratello maggiore, mentre Barbara (suor Maria Luisa) e Annella (suor Marianna) restarono evidentemente dietro le grate di S. Girolamo. La “ piccola ” Teresa Maria con il duca Domenico del Balzo, barone di Presenzano, sposato nel 1720, è facile immaginarli alla festa, insieme al beniamino Ercole, che aveva da poco compiuto i vent’anni. In favore di quest’ultimo, sul quale ormai riposava la speranza della stirpe Liguori-Cavalieri, sei settimane dopo, il 7 febbraio 1727, Alfonso rinunzierà dinanzi al notaio Carlo Palmieri al suo diritto di primogenitura, cioè all’eredità paterna, perché “ ora già grazie al cielo è giunto il sacerdotio ” 5.
Alfonso era sacerdote. E con questo? Se ne contavano già troppi in città e nel Regno, tanto che per le vie di Napoli correva allora un vecchio proverbio: “ Se vuoi andare all’inferno, fatti prete ”. Il nostro avvocato pero non aveva cambiato rotta per arenarsi nella sabbia di un sacerdozio accomodante; come precedentemente s’era fissato i suoi “comandamenti” di uomo di legge, si tracciò ora quelli di sacerdote:
“1. Son Sacerdote; La mia Dignità supera quella degli Angeli; dunque debbo avere una somma purità, e per quanto posso essere un Uomo Angelico...
2. Iddio ubbidisce alla mia voce, ed io debbo ubbidire alle voci di Dio, della sua Grazia, e dei Superiori Ecclesiastici.
3. La Santa Chiesa mi onora, ed io debbo onorare la Chiesa colla santità della vita, collo zelo, colla fatica, e col decoro.
4. Offro Gesù Cristo all’Eterno Padre, e debbo essere rivestito delle virtù di Gesù Cristo, e prepararmi a trattare col Santo de’ Santi.
5. Il popolo Cristiano mi considera come un Ministro di riconciliazione con Dio e debbo essere Io sempre caro a Dio, e godere di sua amicizia.
6. Il Giusto vuole col mio virtuoso esempio confermarsi nella buona e santa vita, ed Io debbo dare buoni esempj, sempre, ed a tutti.
7. I poveri peccatori aspettano da me di essere liberati dalla morte del peccato, ed io debbo farlo colle preghiere, coll’esempio, colla voce, e coll’opera.
8. Ho bisogno di fortezza, e coraggio per vincere il Mondo, l’inferno e la corruzione carnale, e colla Divina Grazia debbo combattere, e vincere.
9. Mi debbo preparare colla Sapienza per difendere la Santa Religione, ed abbattere gli errori, e l’empietà.
10. I rispetti umani, e le amicizie del mondo le debbo odiare,
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ed abborrire come cose d’inferno; queste cose discreditano il Sacerdozio.
11. Debbo maledire l’ambizione, e l’interesse, come la peste dello Stato Sacerdotale; tanti Sacerdoti per l’ambizione hanno perduta la Fede.
12. Mi necessita la serietà, e la carità, e debbo essere cauto, accorto, specialmente colle donne, ma non superbo, aspro, e disprezzante.
13. Il raccoglimento, il fervore, la soda virtù, l’esercizio delL’Orazione devono essere la mia continua occupazione, se voglio piacere a Dio.
14. Solo debbo cercare la gloria di Dio, la santificazione delL’anima mia, e la salvezza del mio prossimo, a costo anche della vita.
15. Son Sacerdote; Devo ispirare virtù, e glorificare il Sommo, ed Eterno Sacerdote Gesù Cristo” 6
Il novello sacerdote, trentenne, ha così delineato con mano ferma il suo profilo interiore, mentre i contemporanei ci dipingono i suoi tratti, il suo comportamento e il suo carattere.
Il seminarista Mazzini aveva notato un giovane cavaliere “pulitamente vestito, di bello aspetto, e di portamento serio, modesto, e gentile, che dinotava una persona di non ignobili Natali” 7, con la parrucca tutta ricci in sempre precario equilibrio. Da quando rinunciò allo spadino, Liguori, gettata nella spazzatura la parrucca, non portò nemmeno la “ zazzera ” di capelli lunghi, annodati sulla nuca, come i borghesi (la proibirà più tardi anche ai suoi religiosi). Tannoia, che gli fu vicino per quarant’anni, ci dà questo attento ritratto:
“Era Alfonso di statura mediocre, ma grandetto di testa, e vermiglia la carnagione. Fronte spaziosa egli aveva, occhio attraente, e quasi ceruleo; naso aquilino, bocca ristretta, e graziosa, e quasi sorridente. Neri i capelli, e folta aveva la barba, e da se stesso, senza soggettarsi al rasojo, colle forbici smozzicavesela. Nemico di capellatura, anche da sé solevasela accortare. Perché miope, faceva uso di occhiali, ma toglievaseli, o predicando, o trattando con donne. Sonora e chiara aveva la voce. Spaziosa che fosse la Chiesa, e lungo il corso delle Missioni, giammai gli mancò, e tale conservolla anche decrepito. Aveva un’aria che imponeva, un fare serio, ma misto di giovialità. Se giovanetto tutto concorreva a renderlo amabile, anche vecchio e decrepito, grazioso egli era, e di comune compiacimento” 8.
Il nostro testimone però aggiunge: “Il temperamento anzi che flemmatico portavalo alla bile; ma per impero di virtù ammiravasi in esso piacevolezza, e somma mansuetudine”. Era pur sempre figlio del bollente comandante delle galere, ma anche della dolce Donna Anna, della Grazia e di un lungo sforzo su di sé: “Presente a se stesso,
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aveva sempre tra le mani la propria Anima. Sorpresa di passione in esso non si osservò”.
Tale noi già lo conosciamo e tale sarà sempre sino alla fine. un carattere resistente come un diamante. Cominciando l’ammirevole opera, consacrata a Lo spirito di S. Alfonso M. de Liguori, il P. Celestino Berruti scrive:
“Qual fosse l’indole di Alfonso, ce lo attestano tutti gli scrittori della sua vita. Dotato dall’autor della natura di un temperamento vivace, sanguigno e collerico, mentre era naturalmente propenso alla compassione e bontà di cuore, era in pari tempo inclinato alle opere sublimi con prontezza, energia e costanza. Da ciò derivava, che, preso una volta il suo partito, mantenevasi fermo ed immobile come uno scoglio in mezzo alle onde: ma non determinavasi giammai ad alcuna risoluzione senza la maturità dello esame, e senza prima consultare il volere del cielo con assoggettarsi umilmente al parere di savi direttori, e con lo spargere al cospetto dell’Altissimo incessanti preghiere. Quindi le opere da lui intraprese andarono felicemente a termine, senza ch’egli punto si sgomentasse per le opposizioni che in gran numero riceveva dagli uomini. Or questo carattere osservasi mirabilmente in tutte le azioni di sua vita: carattere dolce, compassionevole, mansueto, affettuoso, ma costante del pari, e fermo a tutte le prove: Spiritus benignus, stabilis, securus (Sap. 7, 23)”.
Precisa Tannoia: “Ma se austero con sé, con tutti pietoso egli era, e compassionevole”, al punto che il suo direttore degli anni trenta, Mons. Falcoia, in una lettera, nella quale sottolineerà “ le sue belle maniere ”, lo inviterà perché “ custodisca il suo cuore da certe tenerezze, che dann’odore d’attacco; quantunque spiritualissimo” 9.
Questo è il ritratto fisico e morale del novello sacerdote; si può aggiungere un ultimo tratto: per rispetto alla presenza di Dio era sempre a testa scoperta, anche nella maggiore calura dell’estate o nel più rigido freddo dell’inverno:
- Copritevi, gli si diceva qualche volta, rischiate di prendere un malanno.
- Io son caldo di testa e non posso soffrire alcuna cosa in capo! 10.
A parte la mitra e la berretta liturgica, non ebbe mai altro sulla testa se non il filo che reggeva il suo pince-nez; alcuni pittori gli faranno uno zucchetto violaceo, per amore del colore e per ricordare che il loro “soggetto” fu anche vescovo.
Ma Don Alfonso, come soffrirà in seguito d’essere vescovo, così ora era felice d’essere sacerdote, perché poteva celebrare l’Eucaristia, finalmente! Oltre questo, l’ordinazione sacerdotale, ponendo fine al
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periodo di tirocinio pastorale da seminarista nella sua parrocchia, gli dava libertà di darsi tutto al ministero della predicazione, che del resto aveva già esercitato da diacono con tanto fuoco e tanto successo. D’ora in poi ricomparirà a S. Angelo a Segno (e al massimo per altri due anni ) solo quando non sarà preso altrove dalle missioni per il Regno o dalla predicazione nella sua città dalle cinquecentoquattro chiese, come dire mai, eccetto per la messa del mattino. Lasciamo parlare Tannoia:
“Se da Diacono non vi era giorno vuoto per Alfonso, asceso al Sacerdozio... si può dire, che videsi così affollato di fatiche, che non aveva tempo a poter respirare. Una occupazione non era sbrigata, che già era invitato per l’altra; e facevasi a gara da’ Rettori delle Chiese a chi prima lo poteva avere in beneficio de’ proprj figliani. Tante Congregazioni richiesta gli fecero per li Santi Esercizj, e per altri sermoni; tanti Monasteri di Monache (Napoli ne contava trentasette) vollero anch’esse profittare di sua parola. Le Chiese di maggior concorso, e di prima figura in Napoli si prevenivano l’un l’altra per averlo specialmente nelle solennità delle Quarantore” 11.
Perché si correva ad ascoltare Alfonso? Infatuazione per il grande avvocato di una volta? Curiosità per argomenti piccanti? Splendore e ampollosità del periodare oratorio? Sublimità di pensieri nuovi?...Tutte cose vane!
“ Animato dallo spirito di Dio, continua il nostro biografo, non predicava Alfonso che Cristo Crocifisso. Non vi erano frasche nelle sue prediche, ed apparati vani d’inutili erudizioni. Tutto era nerbo, e sostanza, con istile piano, e familiare. Oltre di ciò, non vi era cosa, che non concorresse nella di lui persona, o che nol singolarizzasse nel suo Apostolato. Nobiltà de’ natali, che confondeva qualunque spirito superbo; rarità di talenti, e di doni naturali, che lo distinguevano tra gli altri Predicatori. Maggiormente predicava in esso la sua modestia, il suo raccoglimento, la sua somma umiltà, e sommo disprezzo del mondo; soprattutto faceva della grande impressione la vita penitente, che in esso si ammirava, e che condannava l’altrui delicatezza.
Ancorché non fossero le prediche di Alfonso adornate de’ bei concetti, e tessute con istile pomposo e fiorito, non è che solamente erano a portata della gente rozza, e popolare. Avevano queste il sapore della Manna. Ci trovava pabolo, e sentivalo con piacere così L’uomo idiota, che letterato: tutti e due vi restavano compunti; anzi i letterati più che ogn’altro vi concorrevano, e lo sentivano con soddisfazione. Il suo uditorio con maraviglia di ognuno, vedevasi composto di Ecclesiastici riguardevoli, così Regolari, che Secolari; di Avvocati, Procuratori, e Togati; di Dame d’alto bordo, e Cavalieri; né ci era persona, che non uscisse di Chiesa compunto, e col capo chino.
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Spesso spesso v’interveniva Nicolò Capasso, quel miracolo di sacra, e di profana letteratura, ma famoso per le sue satire. Incontrandolo un giorno Alfonso, perché Amico, lepidamente gli disse:
- D. Nicola vi vedo sempre alla mia predica: volete forse farmi qualche satira?
- No, disse il Capasso, son persuaso, che non attendo da voi fiori, e periodi contornati; vengo, e vi sento con piacere, perché voi predicate Cristo Crocifisso, e non già voi medesimo ”.
A quel tempo la compunzione suscitata dalla Parola di Dio portava il peccatore al sacramento della riconciliazione, perciò la facoltà di confessare “quest’è quanto sospiravasi da migliaia di Anime, che affidar gli volevano le proprie coscienze”.
Ma Alfonso non sentiva tutta la sicurezza necessaria per sedere in questo tribunale, del quale gli avevano insegnato più le esigenze di giustizia che la missione di misericordia e, incline allo scrupolo, non era portato a dare facili assoluzioni e ancor meno a rifiutarne in nome della dottrina rigida che, da seminarista, aveva “difeso con calore”. Per fargli vincere ogni incertezza fu necessario un precetto formale del cardinale Pignatelli, in forza dell’ubbidienza promessa da ogni sacerdote al suo vescovo il giorno dell’ordinazione e solo nel dicembre 1727 Alfonso si presentò alla commissione sinodale per l’esame di giurisdizione. L’arcivescovo si affrettò a dargli per tutta la diocesi la facoltà di ricevere le confessioni di qualsiasi categoria di penitenti 12 e Alfonso, tremante, si mise al confessionale, deciso a tenere insieme i due capi della catena: le esigenze della dottrina rigida e la tenerezza evangelica di Cristo per i peccatori...
Fortunatamente, avvocato di professione, assiduo degli ospedali e delle prigioni, già la sapeva lunga sulla miseria umana; inoltre, cartesiano di formazione e uomo del suo tempo (quello dei Lumi), non si riteneva dispensato in forza dell’autorità dei maestri dal vagliare personalmente le loro ragioni; infine v’era il passaggio “come attraverso il fuoco” dalle teorie scolastiche alla realtà viva. Una cosa è tenere in mano un manuale di teologia morale e altra cosa è averle piene del sangue redentore da dare o rifiutare a persone concrete amate da Cristo fino alla morte. E quando in nome del probabiliorismo si tratta di dire a un fratello: “Tu devi fare questo o non devi fare quello, per quanto ti possa costare, sotto pena di rifiuto dei sacramenti e sotto minaccia dell’inferno per sempre”, ci si sente meno sicuri che nel pesare la portata di un ragionamento casistico nell’indifferenza della propria camera. Che peso ebbe tutto questo in Alfonso?... Lasciamo parlare i testimoni interrogati dal Tannoia:
“Non tantosto si vide sedere al Tribunale della Penitenza, che
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accerchiato ne venne il nuovo Confessore da una moltitudine di Penitenti. Prodigioso era il numero di qualunque ceto e condizione, che da ogni parte ci concorreva. Tutti accoglieva Alfonso con una carità sopraffina; e siccome la mattina era il primo a presentarsi in Chiesa, cosi era l’ultimo a levarsi dal Confessionale. Stimava Alfonso quest’impegno, e lo ripeteva essendo vecchio, come il più profittevole per le Anime, e ‘l meno soggetto a vanità per un Operario Evangelico; perché, diceva, per mezzo di questo più ché per qualunque altro ministero, le Anime si riconciliano immediatamente con Dio, e loro si applica con soprabbondanza il sangue di Gesù Cristo
Non era Alfonso di que’ tali Confessori, che con aria brusca, e sopraciglio grave ricevono i Peccatori; e che con alto tuono li licenziano come incapaci delle Divine Misericordie. Per quanto austero ei fosse con se medesimo, aveva per gli altri, maggiormente co’ peccatori, una mansuetudine indicibile, e sommamente allettatrice... Dir soleva: Quanto più le Anime si veggono infangate ne’ vizj, e possedute dal Demonio, tanto maggiormente dobbiamo accoglierle, ed abbracciarle per strapparle dalle braccia del Demonio, e riporle nelle braccia di Gesù Cristo. Non ci vuol molto a dire: và dannato; non posso assolverti; Ma non si considera, che quell’Anima è prezzo del Sangue di Gesù Cristo. Essendo vecchio diceva: non ricordarsi aver licenziato veruno senza averlo assoluto; molto più con sgarbo, ed asprezza.
Non è che Alfonso assolvesse alla rinfusa disposti, o indisposti, che fossero; ma, come in altra occasione ei stesso si spiegò, abbracciavasi i peccatori, e riempendoli di fiducia nel sangue di Gesù Cristo, dava loro caritativamente de’ mezzi per uscire dal peccato; e che così animati ritornar si vedevano pentiti e compunti”. Poteva allora assolverli, perché (è necessario ricordarlo?) frattanto il confessore aveva “ cacciato il demonio con la preghiera e il digiuno ”, i cilizi e le discipline a sangue. Ma di questo Francois Genet si era dimenticato di parlare nella sua Teologia morale
Allievo decisamente indocile, Alfonso si rifiutava allo stesso modo di imporre penitenze punitive:
“Era Alfonso anche indulgente anzicché rigido nella Penitenza Sacramentale. Soleva dire: imponghiamo quella Penitenza, che volentieri si accetta, e siamo sicuri che si faccia, e non carichiamo i penitenti di cosa, che a stento si accetti, e volentieri si lascia... La Penitenza dev’essere salutare; facciamo che si prenda orrore, non alla Penitenza, ma al Peccato.
Per Penitenza salutare ei imponeva il ritornar da lui, e frequentare la Confessione, e Comunione; ascoltar la Messa ogni mattina, e meditare tra di quella la Passione di Gesù Cristo, o qualche massima
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de’ Novissimi. A tal’effetto ristretto aveva queste meditazioni in un libreccino, che donar soleva. Similmente imponeva visitar ogni sera Gesù Sacramentato, e qualche imagine di Maria SS., e recitar il Rosario; ed essendo capi di casa, farlo in comune colla famiglia. Digiuni, macerazioni, e simili le consigliava, ma non le precettava. Compunto il Penitente, diceva Alfonso, lo fa da sé; ma precettato, se lascia la penitenza ripìglia il peccato. Con questa sua dolce, ma utile condotta, affezionava i penitenti alla Sacramentale Confessione, e distoglievali dal peccato”.
Questo “libreccino” di ventiquattro pagine, le Massime eterne, che l’efficace confessore dava ai suoi incalliti peccatori, da lui composto verso il 1728 e spesso stampato e ristampato anonimo, fu la prima opera di uno scrittore che ne pubblicherà più di centodieci. Ma è solo un opuscolo insignificante! potrà pensare qualcuno.
No, e un’invenzione pastorale particolarmente saggia, dal momento che, tenendo conto delle edizioni postume, si arriva a catalogarne 421 italiane e 753 straniere 13.
Le Massime eterne contengono sette meditazioni, ognuna in tre punti stringati, tese a strappare il peccatore alla sua condotta, perché prima di far respirare un annegato, bisogna tirarlo fuori dell’acqua. Per Alfonso i tre atti preparatori della meditazione sono: mettersi alla presenza di Dio, pentirsi umilmente, chiedere il lume divino. Poi aggiunge:
“Leggi passo passo la meditazione. Dopo ogni punto considera quella massima eterna. Finita la considerazione, fa’ ]a risoluzione particolare di levarti il tale e tale vizio, e fa’ i seguenti atti”. Seguono formule molto dense di fede, di speranza e di contrizione perfetta.
Le sette meditazioni (fine dell’uomo, urgenza di provvedervi, peccato mortale, morte, giudizio finale, inferno, eternità delle pene), con frasi corte, irresistibili, essenziali, mirano esclusivamente a strappare il peccatore alla seduzione cui è soggetto. Impossibile sfuggire a tale presa: bisogna morire, morire al peccato.
Non si sfuggiva al suo straordinario potere! L’imprudente che veniva ad ascoltarlo per curiosità o per disperazione, abboccava, era uncinato, trascinato al suo confessionale, dove anche il cuore più chiuso si apriva. Per dirla in breve era un raggio di tenerezza che scioglieva l’ostinato o un colpo di tuono che risvegliava il comatoso. Tale fu il caso di quel giovane gentiluomo, che racconterà la sua vicenda al P. Tannoia.
Si presentò ad Alfonso con una lunga lista di enormità, spacciandole con l’indifferenza con la quale si recita la tavola pitagorica, senza aggiungere una parola di rammarico. Il confessore, che aveva ascoltato
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apparentemente impassibile, quando tutto quel marciume finì di colare, gli chiese con dolcezza:
- Non hai altro da dire?
- Non ho più che dire, rispose freddamente l’incosciente.
- Non hai più che dire? - ripigliò Alfonso - Il ciuffo ti manca - per esser Turco: che più volevi fare di quello che hai fatto? Dimmi che male ti ha fatto Gesù Cristo?
Non aggiunse altro.
Freddato, sbalordito, pentito, il nostro filibustiere si sentì morire e “ essendosi posto nelle mani di Alfonso, più nol lasciò per fin che visse ”. La sua vita fu lunga e grande la sua santità! Si chiamava Giovanni Olivieri: lo ritroveremo in seguito 14.
Le Massime eterne erano solo il primo passo di una lunga corsa, nella quale Alfonso non lasciava certo a mezza strada quelli che si affidavano a lui.
“I mezzi, che Alfonso teneva per condurre alla perfezione suoi penitenti, non erano che la Meditazione, e la Preghiera; la Mortificazione della carne, e quella delle passioni: la Meditazione come specchio, in cui ognuno vedeva le proprie deformità, e la Mortificazione come il Ministro, che risecava quello che non conveniva... Colla Meditazione... anche la Preghiera; ed altro non ripeteva: Chi prega certamente si salva, e chi non prega certamente si danna. Tutti coloro, soleva dire, che si sono salvatì, si sono salvati col pregare, e tutti coloro che si sono dannati, si sono dannati per non aver pregato.
Tra tutt’i mezzi però il mezzo de’ mezzi era per Alfonso la Comunione frequente, ed il visitare giornalmente il Divin Sacramento. Confessa egli medesimo in quell’opuscolo tutto divino della Visita al Sacramento, che tutto il bene, non altronde eragli pervenuto, essendo secolare, che da Gesù Sacramentato. Oh che bella delizia, soleva dire, starsene avanti un Altare, e parlare alla familiare con Gesù Sacramentato. domandargli perdono dei disgusti dati: esporgli i` proprj bìsogni, come fa un Amico ad un altro Amico, e chiedergli il suo Amore e la pienezza delle sue grazie. Soprattutto, stando in Napoli, animava i Penitenti a volerlo corteggiare esposto nelle Quarantore. Vedevasi esso con somma edificazione starsene più ore estatico avanti il Sacramento, e con esso i suoi Penitenti, facendogli onorata corona.
Esigeva ancora Alfonso una filiale confidenza verso la divina Madre. Siccome tutto il bene, soleva dire, ci perviene dal divin Padre mediante Gesù Cristo, così ogni bene ci perviene da Gesù Cristo per mezzo di Maria. Voleva, che ognuno ogni giorno visitato avesse qualche sua immagine, che onorata si fosse col santo Rosario, e si avesse un effigie della medesima a capo del letto. Esigeva nelle feste di Maria
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Santissima, che tutti si dovessero comunicare; anzi nel decorso della Novena dava loro delle pratiche divote, per così disporsi a ricevere delle grazie; ed in ogni Sabbato, ed in tutte le sue Vigilie, consigliava, siccome lo praticava esso medesimo, il digiuno in pane, ed acqua”.
Una regola di vita per élite, penserete?
“Ancorché portato per i poveri, e per la gente minuta, non per questo ricusò Alfonso la direzione delle persone di riguardo, anche di Dame e Cavalieri. La sua rete non ricusava qualunque pesce. In queste persone aveva di mira l’autorità, e l’esempio: cioè quel gran bene, e quel sommo male, che col loro esempio e comando operar potevano nelle persone a sé soggette. Ebbe sempre bensì in sommo orrore il frequentare le case di questi. Tutti ascoltava in Chiesa; e nel Confessionale non vi era parzialità né di grado, né di onore. Era così sodisfatto ognuno di sua condotta, che benché confuso si vedesse col popolo minuto, tuttavolta era contento di qualunque incomodo, purché avevasi la consolazione di esserne diretto”.
La sua vita del resto stava per ancorarsi in mezzo ai piccoli, tra i quali farà sorgere una legione di santi.
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