IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
Parte seconda “VA’, VENDI I TUOI BENI E SEGUIMI” (1723-1732) 18. - AL COLLEGIO DEI CINESI ( 1729-1732) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Le Cappelle serotine avevano completamente cambiato lo scorrere delle serate di Alfonso, mentre quello delle giornate restava identico, con il suo ministero di predicazione e di confessione e con la partecipazione alle campagne apostoliche dei missionari della cattedrale.
Intanto gli anni si susseguivano carichi di avvenimenti piccoli e grandi.
Nei giorni 17 e 18 ottobre 1727, da mezzogiorno a mezzogiorno, si scatenò su Borgo dei Vergini un disastroso cataclisma. Napoli conosceva di tanto in tanto uragani da diluvio, con torrenti di acqua e di fango che scendevano giù da Antignano, Scudillo, Capodimonte e Miradols, convergendo sul borgo; la lava dei Vergini, detta così per analogia con la lava del Vesuvio, era proverbiale e temuta, perché arrivava a danneggiare abitazioni e a mietere vittime umane. In quei giorni d’ottobre la sua furia superò ogni limite: crollarono alcune case e il palazzo Scordovillo, comprato da Don Giuseppe al Supportico Lopez fu investito in pieno; si aprirono crepe e, sfondate le porte, fu invaso da fango e da pietre. Temendo un crollo totale, i locatari dei bassi della taverna, delle botteghe e dei due appartamenti superiori si diedero alla fuga in fretta e furia “senza nemeno pagare le piggioni”, come dice il rapporto del proprietario.
Due giorni dopo, con atto notarile del 20 ottobre 1727, il comandante della Capitana, in procinto di partire con la squadra reale verso i Presidi (le fortezze napoletane) della Toscana, fece procura in favore di Don Alfonso de Liguori, suo figlio sacerdote, per la vendita di questo maledetto palazzo al “ prezzo medesimo che per esso Ill.mo Sig. D. Giuseppe fu la casa predetta comprata l’anni passati dal m.co Giuseppe Scordovillo ”, con l’aggiunta dei cinquecento ducati spesi per i miglioramenti nel corso di dieci anni! L’uomo di guerra non eliminava certo in lui l’uomo d’affari.
Il figlio però non era né l’uno né l’altro e quale agente immobi-
- 235 -
liare fu meno convincente che come predicatore. Al ritorno dalla lunga spedizione, il 24 gennaio 1728, il padre ingaggiò perciò un imprenditore per sterrare, puntellare e riparare la costruzione; poi, nel gennaio 1729, d’intesa con i vicini, fece scavare da un capomastro un canale di imbrigliamento per le terribili acque. Terminati i lavori, alla fine del 1730, entrerà tra le sue mura, a pochi passi da quelle che avevano accolto i primi passi del suo focolare, ritrovando la chiesa battesimale dei figli, S. Maria dei Vergini, e i vecchi vicini, i Lazzaristi e la Misericordiella. Giuseppe e Anna però lasceranno gli appartamenti a D. Marco Cafaro, affittati da vent’anni in via Tribunali, non senza nostalgia e rattristati inoltre da tre perdite.
Il 6 marzo 1728 era morto D. Domenico de Liguori, seguito il 26 agosto dalla vedova, Donna Geronima d’Amico, che, benché non fosse la madre di D. Giuseppe (D. Domenico si era sposato tre volte), tuttavia era stata per Alfonso la nonna. Furono sepolti a S. Angelo a Segno, fatto che ci fa supporre che avessero abitato con il comandante e la sua famiglia, patriarchi amorevoli e amati, assistiti da Alfonso nella vecchiaia e negli ultimi giorni 1 .
Forse per rimpiazzare in qualche modo l’avo, dopo due anni di totale eclisse, il giovane sacerdote prese nuovamente parte alle deliberazioni della Piazza di Portanova, il 15 luglio e il 5 dicembre 1728 e il 28 febbraio 1729 2 .
A metà giugno 1729, alla vigilia dei trentatré anni, scoccò anche per Alfonso l’ora di lasciare definitivamente la casa paterna. “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gen. 12, 1): era la voce interiore udita fin dal giorno della sua “conversione”, ma il capitano di galera l’aveva costretto a differire sine die il suo esodo. Comprendendo il dramma rappresentato per il padre dal suo accesso agli ordini sacri, Alfonso aveva subito per sei anni la “ prigionia ” di casa sua, dove viveva nel pieno viavai del mondo, delle visite, delle presentazioni e delle inevitabili chiacchiere, esposto per di più alle indiscrezioni dei familiari per la sua preghiera, i suoi digiuni, il suo vestito di povero, la sua biancheria macchiata di sangue, che lo rendevano imbarazzante e imbarazzato. Quanto sentiva la mancanza di una piena vita comunitaria, con i due valori, apparentemente in contraddizione, della solitudine e della partecipazione, che pure gustava con i suoi amici nel corso del ritiro mensile! 3.
Frattanto tra il padre e il figlio s’era instaurato un clima di pace; L’ora del pieno accordo suonò durante la missione che ogni anno si dava per la festa di tutti i Santi, qualche volta in cattedrale e abitualmente allo Spirito Santo. Quella sera di fine ottobre 1728 Don Giuseppe, ritornando dal palazzo reale per via Toledo, giunto all’altezza
- 236 -
dello Spirito Santo, sentì dalle porte aperte la voce del predicatore. Era la voce del figlio. Sceso da carrozza, si aprì un varco tra il popolo soggiogato che riempiva l’immenso edificio, ascoltò, si commosse fino alle lagrime al pensiero di aver fatto tanto soffrire quel figlio, che Dio chiaramente chiamava al Vangelo. Per la prima volta un grazie gli sgorgò dal cuore e, preso da questi pensieri, riguadagnò Via dei Tribunali. Quando a sua volta Alfonso rientrò, gli andò incontro, stringendolo a sé tra i singhiozzi:
- Figlio mio, Io vi ho obbligazione: voi questa sera mi avete fatto conoscere Iddio: Figlio, vi benedico, e mille volte vi benedico per aver eletto uno stato così santo, e così caro a Dio! 4 .
Alfonso ormai sentiva che, per quanto potesse costargli, il padre non si sarebbe più opposto alla sua partenza. Era venuta l’ora dei grandi cambiamenti: i nonni se ne erano andati, Gaetano sarebbe stato diacono in dicembre, Ercole, ricco erede, sognava matrimoni... Alfonso partì, all’improvviso sembra.
Come Abramo - ma forse ne aveva coscienza - “partì senza sapere dove andava” (Ebr. 11, 8). Non entrò tra gli Oratoriani del suo cuore e del suo primitivo progetto, ma al Collegio dei Cinesi, perché aveva un’idea ben precisa nella testa o almeno un’altra ricerca...
Facciamo allora conoscenza con questo Collegio dei Cinesi !
- Buongiorno, amico mio. Preparati per la Cina.
Matteo Ripa (1628-1746) sapeva appena che esisteva una Cina. Era il 1705.
Nato a Eboli ventitré anni prima, Matteo, dopo una giovinezza tormentata e burrascosa come le sue montagne, era stato orientato verso il seminario dal P. Antonio Torres (1636-1713), superiore generale dei Pii Operai, un santo, un mistico; ordinato sacerdote, era venuto a chiedere al famoso direttore spirituale che cosa dovesse fare ora per il Signore e per la Chiesa. E prima ancora che avesse aperto bocca, Torres gli buttava là:
E Torres allora gli spiegò la cosa pressappoco così:
- Torno ora da Roma, dove ho appreso che le missioni in Cina sono in pieno sviluppo, grazie a Dio e ai Gesuiti. L’arboscello però cresce storto e ha bisogno di un supporto romano ben dritto e vigoroso. Innocenzo XII nel 1695 ha detto no alla liturgia in cinese e Clemente XI ha da poco proibito ai cristiani i riti cinesi (1704). Ora un membro della famiglia pontificia, Mons. Charles Maillard de Tournon, è andato laggiù per far conoscere e rispettare le decisioni pontificie. Però per stabilire durevolmente in Cina la Chiesa romana, occorrono
- 237 -
sacerdoti cinesi formati alla romana e il papa mi ha chiesto per tale missione due giovani preti capaci e generosi. Figlio mio, è il tuo posto, va’ a Roma e mettiti a sua disposizione. Durante il tuo soggiorno nella città eterna, avrai un direttore spirituale indicatissimo nel mio confratello Tommaso Falcoia (1663-1743), rettore dei Pii Operai e parroco a S. Lorenzo ai Monti, che il papa vorrebbe mandare in Cina. Che fortuna! I miei peccati me ne rendono indegno! Va’ e che Dio ti benedica! 5 .
Ripa partì per Roma nel novembre 1705 e vi trascorse due anni sotto la direzione spirituale e in intimità con il Falcoia che, animato dallo stesso ardore missionario, probabilmente nel 1707, chiedeva a Dio “il morire ucciso martirizzato per difesa del vostro santissimo Nome, per la fede ed onore del vostro benedettissimo figliuolo Giesù Cristo”.
Con grande disappunto, Falcoia rinchiuso da altri incarichi nella piccola gabbia del Regno di Napoli, non potrà mai involarsi verso l’Oriente e il martirio e potrà solo inviarvi il suo giovane amico 6 .
Verso la fine di ottobre 1707, Matteo Ripa si imbarcò a Londra insieme al lazzarista M. Pedrini e all’agostiniano G. M. Bonjour con la missione pontificia di recare a Mons. de Tournon la berretta cardinalizia, ricompensa dello zelo con il quale si era adoperato per imporre le direttive romane. Dopo ventisette mesi di movimentata navigazione (Ripa parlerà spesso del Capo di Buona Speranza, dove aveva fatto scalo, e delle sue popolazioni abbandonate), sbarcarono a Macao il 5 gennaio 1710, ma la berretta rosso sangue figurerà solo sul feretro del povero Tournon, che morrà cinque mesi più tardi.
Ricco di zelo e di doti, Ripa fu, durante i suoi quindici anni cinesi, un missionario di prima qualità, sostenuto dal P. Falcoia da lontano con lunghe lettere infuocate, ondate di eloquenza che sgorgavano... dal suo calamaio. E impossibile resistere alla tentazione di citare almeno questo brano del 3 agosto 1715:
“Mio caro D. Matteo... non havete lasciat’i parenti, L’amici, la patria per mettere un europeo in Cina, a far che costì sia un uomo di più; o per trovar ivi amici stranieri, o per trovarvi la gratia delL’Imperatore Cinese... Costà sete venuti a dilatare il Regno di Dio... Come, dunque, in più di cinque anni, che sono costà non ha tropp’operato questo fine? Come non è ancora convertit’a Dio benedetto almeno mezza Cina per le vostre opere?... Io spero di sentirli girare in similitudinem fulguris coruscantis... Fra tanto l’anni passano, e resterà in Cina la nominata, che v’è stato un buon Pittore europeo: ma non già quella, che v’è stat’un apostolo. Resteranno le vostre pitture, ma non già l’imagini di Dio riformate secundum similitudinem Filii sui.. ”.
Ripa infatti si era introdotto a Pechino grazie ai suoi quadri ispirati
- 238 -
a Solimena e a Giordano e, come l’astronomia ai Gesuiti, così i suoi orologi gli avevano aperto il palazzo imperiale fin dal 1711. Ben presto noto nella capitale come disegnatore, Ma Kuo-hsien (era questo il suo nome cinese) diffuse liberamente la fede cristiana e nel 1714 fondò il suo seminario all’occidentale, evidentemente, con rito latino e filosofia-teologia tomista. La persecuzione gli venne in un primo momento da parte di altri missionari in quella tragica “ disputa dei riti ”, nella quale si giocò e si perdette la possibilità di cristianizzazione dell’Impero cinese. Nel 1715, preoccupato dalla tenace incomprensione del Santo Ufficio, il grande imperatore K’ang-Hsi, benché colto, aperto e tollerante, espulse dalla Cina il nuovo legato di Clemente XI, Mons. Mezzabarba, con tutti i missionari, ad eccezione dei “ sapienti Gesuiti ” e di Matteo Ripa, del quale restava mecenate e protettore. Nel 1722 però moriva e Ma Kuo-hsien dovette ritornare in Italia, portando con sé, tenace e audace, il suo seminario.
Fece sensazione a Napoli al suo sbarco, il 19 novembre 1724, insieme con quattro allievi e un maestro cinese, infatti si incontravano ad ogni angolo di via turchi e persiani, arabi ed etiopi, e dal canto loro gli intellettuali subivano il fascino di Confucio e del celeste Impero, ma non si era mai visto sul lastricato di pietra nera vesuviana un solo cinese in carne ed ossa.
Saranno necessari cinque anni di vita errabonda tra Roma, Vienna e Napoli per Ripa e i suoi cinesi, prima di ottenere il permesso di fondazione. Finalmente, con l’appoggio di Gaetano Argento, presidente del Sacro Real Consiglio, e con l’aiuto finanziario di Benedetto XIII e di Carlo VI, il nostro missionario comprò dagli Olivetani sulle pendici di Capodimonte la loro casa di campagna, detta “ il paradiso ”, con l’adiacente chiesa. Con il suo giardino dagli alberi sontuosi e le sue due terrazze sulla città, il golfo e il Vesuvio, la grande villa Pirozzi, che non aveva certo rubato il suo soprannome, il giorno di pasqua, 25 aprile 1729, divenne il Collegio dei Cinesi, canonicamente La Sagra Famiglia di Gesù Cristo.
La Regola della nuova fondazione, che riceverà l’approvazione pontificia il 7 aprile 1732, stabiliva due categorie di membri: i collegiati e i congregati. I primi erano gli alunni cinesi o indiani (in realtà fino al 1750 saranno tutti cinesi) che, dopo un anno di prova, facevano, oltre i voti di povertà e di ubbidienza, quello di diventare sacerdote, di partire per le missioni restandovi per tutta la vita e, infine, di militare sempre sotto l’autorità dell’istituto. I congregati, senza voti, erano i sacerdoti, i chierici e i fratelli laici, che si impegnavano per tutta la vita (ascritti) ad assicurare la direzione dell’opera, la formazione dei seminaristi e le varie incombenze domestiche, e, secondo la possibilità di ognuno, partivano per le missioni in Estremo Oriente.
- 239 -
Questo era il progetto sulla carta, ma nella realtà anche il più bel castello comincia sempre con tre o quattro pietre ben aggiustate. Nella primavera del 1729 Ripa poteva contare su quattro “ collegiati ” e due o tre “ congregati ”, dei quali uno ancora adolescente, costretto inoltre ad assentarsi più volte, ritenne indispensabile, al fine di rimpolpare la nascente comunità, di inquadrare i giovani, di assicurare il ministero nella chiesa e di rendere redditizia la costruzione, aprire un focolare per sacerdoti e chierici napoletani, che, convittori, vivranno a proprie spese rendendo un certo numero di servizi e in cambio potranno, eventualmente, proseguirvi gli studi condividendo, in ogni caso, un’atmosfera sacerdotale e apostolica 7 .
Uno dei primi convittori fu l’ex-avvocato Gennaro Sarnelli, seminarista non ancora tonsurato. Di debolissima salute poteva forse aspirare alle missioni in Oriente? Per ora voleva solo liberarsi dalla mondanità e dalla sua famiglia, per immergersi nella preghiera, nella penitenza e nello studio in preparazione agli ordini sacri, anche a costo di pagare una pensione e prestare i suoi servizi di “ maestro volontario ” ricevendo in cambio solo un pasto al giorno, e che pasto! Così Sarnelli entrò nel “ paradiso ” il 4 giugno 1729, sei settimane dopo la sua apertura, e gli fu facile portare con sé l’amico Alfonso.
“Esaminando Alfonso l’eccellenza dell’Opera, e le rare qualità del Fondatore, il gran fervore, che vi era tra quei Congregati, così Cinesi, che Napoletani, e come Gesù Cristo veniva amato da tutti tra la povertà, e l’incomodo, risolvette unirsi al Ripa, e partecipare anch’esso in qualità di Convittore de’ primi fervori di quel santo luogo. Non tanto il chiese, che l’ottenne. Troppo ben conosceva il Ripa chi egli fosse, e quale acquisto facevasi in Congregazione, ricevendosi un Soggetto così degno, e tanto interessato per la gloria di Gesù Cristo e per la salute delle Anime. Vi fu dunque ammesso Alfonso con consolazione così sua, che di quei Congregati verso la metà di Giugno del medesimo anno 1729. Questa risoluzione fuori di aspettativa, anche dispiacque non poco a D. Giuseppe suo Padre, rincrescendogli il vedersi privo della presenza di un figlio, ch’ei considerava, non più come figlio, ma come Angelo visibile di Casa sua. Se ne afflisse sì, ma non ebbe cuore di contraddirlo” 8
In poche essenziali righe della sua Storia (III, p. 8) Ripa ci dice di più sulle intenzioni del suo nuovo convittore:
“Conviveva fra noi anche il Signor D. Alfonso de’ Liguori, Sacerdote di molto credito, non tanto per la sua nascita, essendo Cavaliere di questa Città, quanto per la bontà di sua vita, e per lo dono di Dio, che ha nel Missionare. Questi venne a convivere in questa Casa in qualità di Convittore fin dai primi mesi, che io con i Cinesi ci venni ad abitare... e benché mai non fu ascritto a questa nostra Congrega-
- 240 -
zione, viveva però col desiderio di ascriversi, anzi nudriva un animo assai pronto di andare a predicare il Santo Vangelo nella Cina, come più volte aveva espresso al suo direttore ”, il P. Pagano.
Perché allora non si impegnò come congregato?
Doveva fare i conti con il suo tenero, irascibile padre, con il quale si poteva fare solo un passo alla volta, ma il suo progetto era fermo, discusso con il P. Pagano, incessantemente acuito dall’amicizia con i giovani cinesi, dai racconti del P. Ripa, dalle notizie portate da un raro ma prolisso corriere. Del resto, nell’atrio di ingresso, doveva solo alzare gli occhi per vedere l’affresco, fattovi dipingere dal fondatore: il globo terrestre sormontato da una croce color sangue, con il mandato missionario del Cristo: “ Andate in tutto il mondo. Predicate il Vangelo ad ogni creatura”.
Il direttore o l’amministratore dell’Ospedale Elena d’Aosta, che dal 1910 occupa il “paradiso” dei Cinesi, vi fa visitare con gentilezza e rispetto il deposito farmaceutico, che per più di tre anni fu la camera di Alfonso de Liguori, al secondo piano, di fronte alla chiesa. Grande per quel tempo (6 metri per 8) e alta (6 metri), fu senz’altro scelta dal nuovo venuto come il cielo sulla terra, benché a molti potesse sembrare una prigione. Diversità di finestre e di amori! Attraverso una grande apertura, falsamente promettente. Io sguardo inciampava subito su tre muri che formavano come un camino verso un fazzoletto di cielo: nessun panorama, mai sole, poca luce, la prigione; però - che fortuna! - un finestrino si apriva verso la chiesa e dava direttamente sul tabernacolo e la statua della Vergine dei Martiri: veramente il paradiso per Alfonso.
Vi abitava solo da un mese, quando poco mancò non partisse per l’altro mondo.
La bella Napoli conosceva a volte le terribili collere degli uragani o delle tempeste, quando non erano quelle dello stesso Vesuvio. Quel mercoledì 13 luglio 1729 un’afa soffocante aveva oppresso per tutta la giornata la città; la sera a palazzo reale, per il compleanno della contessa di Harrach, sposa del viceré, si teneva un gran galà: sulle terrazze, al chiarore di quattrocento lampade, dame e cavalieri, damigelle e zerbinotti si dondolavano al suono dell’orchestra. La notte era scesa da due ore, quando improvviso si abbatté sulle toilettes e sulle musiche un violento uragano: tutte le lampade furono scaraventate a terra tra la furia dei lampi e dei tuoni e il fuggifuggi smarrito delle Altezze sotto una pioggia apocalittica, mentre chicchi enormi di grandine bombardavano parrucche e acconciature e facevano a brandelli alberi e giardini dal Vomero a Torre del Greco.
Alla stessa ora, mentre Matteo Ripa, al Collegio dei Cinesi, face-
- 241 -
va ricreazione in camera sua con Liguori, Sarnelli e sette altri confratelli subitanea la tempesta fu su loro, terribile il superiore trascinò il suo piccolo mondo impaurito nella camera di Alfonso e, aperto il finestrino, s’inginocchiò di fronte al SS. Sacramento e alla Regina dei Martiri, intonando le litanie della Madonna: Kyrie eleison!... Sancta Maria!... Non si era ancora a metà, quando un fulmine cadde in mezzo a loro con un bagliore e un fracasso da finimondo, spegnendo la lampada e scaraventandola a terra. Seguirono pochi istanti di terribile silenzio, durante i quali ognuno, in preda a shock, credendosi l’unico sopravvissuto, temette che anche un minimo movimento potesse far crollare l’intero edificio. Finalmente il quattordicenne Saverio Borgia, ritornato pienamente in sé, con le sue urla “risvegliò” gli altri, dando il la a un concerto di gemiti, grida, preghiere, durato un quarto d’ora, durante il quale nessuno pensò a “far luce” sulla situazione. Alla fine, al chiarore di una lampada trovata dal sacerdote G.B. di Micco, si constatò che ognuno era sano e salvo, tranne il P. Ripa, riverso, senza vita, raggiunto dalla folgore prima al nodo della gola e poi lungo il fianco sinistro fino al ginocchio, segnato da una bruciatura rossa larga un dito. In un primo momento lo si credette morto, ma poi, ritornato in sé senza ancora riuscire a dare segno di vita, sentiti i De profundis e i lamenti, raccomandò la sua anima a Dio, aspettando l’assoluzione e il trapasso. Né l’una né l’altro arrivò e, con uno sforzo disperato, riuscì a mormorare:
- Io non sono morto, né morirò, ponetemi sopra del letto.
Altro colpo di folgore, ma di gioia questa volta. Fatti venire i suoi cari cinesi e il canonico Gizzio, che stava predicando i primi ritiri della casa, finalmente, ricevuta l’assoluzione, poteva morire in pace, circondato da tutti i suoi...
In realtà, grazie a Dio, Ripa si riprese molto rapidamente e la vita a La Sagra Famiglia di Gesù Cristo poté essere organizzata. Alfonso vi farà presto la conoscenza, decisiva per il suo futuro, di Tommaso Falcoia, padre spirituale di Ripa negli anni romani, suo corrispondente fedele e, si può ben dire, suo direttore lungo tutto il periodo cinese, che tra una missione e l’altra passava spesso ai Cinesi. Ex-superiore generale dei Pii Operai dopo Antonio Torres, era lo specialista che poteva consigliare “suo figlio” (così fino ad allora chiamava il Ripa) nell’organizzazione di una comunità religiosa, per cui quasi sicuramente era la prima autorità morale della nascente impresa, contrassegnata dal suo autoritarismo minuzioso, dalla sua alta statura missionaria e dalla sua spiritualità, centrata nell’imitazione del Salvatore, ereditata dal Torres 9 .
Sarnelli e Liguori non saranno i soli del gruppo di ecclesiastici
- 242 -
delle Cappelle serotine e dei ritiri mensili a S. Gennaro a “passare ai Cinesi”, ma saranno seguiti poco dopo, in qualità di congregati, dai sacerdoti Vincenzo Mannarini e Gennaro Fatigati, che, all’approvazione romana del 1732, costituiranno il governo canonico con il titolo rispettivamente di primo e di secondo assistente del superiore generale. E interessante notare che le pietre di fondazione dell’Opera dei Cinesi provenivano dal “gruppo Alfonso de Liguori”; il P. Fatigati (1707 - 1785), che sarà il successore di Ripa dal 1746 al 1785, gli resterà amico per tutta la vita; anche Mannarini, ma ne riparleremo...
Però il più intimo, l’emulo nell’eroico dono di sé sarà Gennaro Sarnelli, che vivrà in stretta fraternità con Alfonso ai Cinesi per quasi dieci mesi, fino all’8 aprile 1730, quando, vittima della dura intolleranza di Ripa, con il cuore pesante, sarà costretto a riguadagnare la casa paterna al Largo del Real Palazzo. Il fondatore, che li avrebbe voluti entrambi impegnati per tutta la vita come congregati, moltiplicherà le sue pressioni e, di fronte ai rifiuti di Sarnelli che, malato, vorrà conservare la propria libertà di non partecipare agli atti comunitari, lo congederà, non del tutto in buona fede, come eccentrico e sleale, dicendo per scusarsi: “Mi occorrono maestri sani, non malati”. Una specie di amoroso dispetto!
Questi dieci mesi di “convivenza” salderanno definitivamente con il fuoco dello zelo l’amicizia di Alfonso e Gennaro; il primo, senza ancora saperlo, formava il secondo a dargli il cambio alle Cappelle serotine; spesso lasciavano insieme il “ paradiso ”, quando Liguori non era in missione, per la visita alle Cappelle, ritornando a tarda notte, ognuno con un grappolo di peccatori da confessare, ma Gennaro non era ancora sacerdote, per cui il raccolto di entrambi era tutto per Alfonso, che andrà a riposare solo dopo aver dato ad ognuno il suo tempo e il suo amore, come solo lui sapeva: “ Escono di notte, e portano peccatori ” scriverà in modo incisivo il P. Gaspare Caione 10 .
Gennaro venne rimandato e Alfonso conservato, benché le istanze del fondatore si fossero scontrate in un identico rifiuto 11 , ma il Liguori, con il suo vivo desiderio di partire per la Cina, gli lasciava una solida speranza. Inoltre ne aveva per ora grande bisogno, avendogli affidato quasi tutto il ministero pastorale della chiesa: uffici, celebrazioni, predicazione e confessione. Fu subito ressa, folla, folla felice nella navata troppo piccola (vi si potrebbero pigiare trecento persone?), piena ogni giorno come nelle domeniche e nelle feste.
I penitenti soprattutto, che accorrevano non solo dai quartieri vicini (Fonseca, Vergini, Sanità), ma anche dall’altro capo della città (soprattutto dalle zone a lui care della riviera: Castello, Orefici, Mercato), gli lasciavano appena il tempo di prendere in fretta un boccone,
- 243 -
in ginocchio, spesso molto tempo dopo il pasto comunitario. A sera dopo le quotidiane quarantore delle quali restava in tutta Napoli il predicatore quasi titolare, si chiudeva - le testimonianze sono concordi - nel confessionale fino a tarda notte, con quel suo carisma di mettere sottosopra le anime con poche parole: peccatori cambiavano vita, cortigiane diventavano sante, focolari si votavano al fervore e ai poveri, giovani donne (fino a quindici alla volta) entravano in clausura altre decidevano di vivere in casa da consacrate - monache di casa - secondo una prassi allora frequente e che noi perciò non abbiamo scoperto oggi. Tannoia, tra gli altri ricordi riferiti dal P. Fatigati, ci conserva la storia di una certa Fortunata “zitella di grande spirito”, che abbandonò il fidanzato per sposare Gesù Crocifisso; e quella della povera Maria “quanto vuota di Dio, altrettanto piena di Mondo”, che cadeva, si tirava su, ricadeva nei suoi disordini, con la stessa sincerità.
- Maria, le disse un giorno il confessore a corto di risorse, ti sei data tutta a Dio?
- Tutta.
- Ma tutta, e di cuore? - Tutta.
- Essendo così, va’, e tagliati i capelli e vestiti Teresiana 12 .
Gennaro Fatigati ci ha dato anche dettagli preziosi su quanto riuscì a carpire delle penitenze con le quali Alfonso “pagava” questo ministero di redenzione, ora che padre e madre non stavano più là a sorvegliarlo: condiva con mirra, centaurea, assenzio o altre polveri amare il misero nutrimento; in ginocchio al refettorio, mai seduto nella sua camera e con sassi nelle scarpe; non contento di portare continuamente cilizi e catenelle appuntite, si flagellava più volte al giorno, spesso fino al sangue; dormiva sulla nuda terra o su una tavola, quando si coricava... perché passava notti intere in preghiera, al finestrino della sua camera o in chiesa, con il suo Amico del tabernacolo.
L’esempio dei santi lo stimolava ancor più delle stesse punte di ferro e la lettura delle loro vite costituì sempre uno dei tonici del suo fervore, trovandovi lo stimolo a non fare di meno. Sconvolgente sarà la testimonianza del suo giovane amico Giambattista Coppola, divenuto prima parroco di S. Maria dei Vergini e poi vescovo di Cassano: “Le penitenze di Alfonso sono tali, che sapendosi, supereranno di molto anche quelle di S. Pietro di Alcantara”13 .
Chi conosce, solo per averne letto qualcosa, questi fervori e queste austerità pensa che Dio li ricambi largamente con gioie spirituali e intimità che appagano... Apra il vangelo del Figlio prediletto: quanti Tabor e trasfigurazioni si contano? Certo il Signore addolcisce con il latte e con il miele le labbra aride di coloro che sono solo all’inizio,
- 244 -
ma li svezza ben presto con le purificazioni dei torridi deserti e con la partecipazione all’agonia e all’abbandono del Crocifisso. Così tratta i suoi amici: “E per questo che ne avete tanto pochi!” gli diceva Teresa d’Avila, la “seconda mamma” di Alfonso; e il suo modello, Francesco di Sales, si sentì per un periodo “il maledetto dei maledetti”; più vicina a noi, Teresa di Lisieux ha passato due anni in un abbandono tale da strapparle questa confessione: “ Non avendo più la felicità di avere la fede, mi sforzo di farne le opere ”; e Bernardette Soubirous fu “assalita da terrori morali”.
Abbandono e terrori morali furono le due sbarre della croce portata da Alfonso in questo periodo.
Il Tannoia scrive: “Avendo Iddio ritirata la mano alle solite sue consolazioni, non viveva, dimorando in questo Collegio (dei Cinesi), che una vita arida e desolata. Nella Messa non ritrovava divozione: L’Orazione gli era di tedio: cercava Iddio, e nol rinveniva. Mi disse il P. Fatigati, che navigava di continuo contr’acqua, e che volendo esprimere il suo stato, soleva dire: Vado da Gesù Cristo, e mi ributta: ricorro alla Madonna, e non mi sente. Vale a dire, che quant’operava tra queste oscurità, tutto era guidato dalla pura fede, e non facevalo, che colla punta dello spirito, risoluto di dar gusto a Dio, ancorché per esso non vi fosse né Paradiso, né Inferno”.
Ma dava veramente gusto a Dio? Questo dubbio atroce era il suo supplizio.
Quand’era seminarista ai primi passi, aveva subito, così di sfuggita, la purificazione degli scrupoli: “ All’inizio della mia conversione - dirà più tardi all’amico e sacerdote Don Salvatore Tramontano - fui tormentato da ansietà e dubbio. L’ubbidienza cieca al P. Pagano mi liberò da quelle angustie ” 14 .
Perché ricominciarono nel 1726 al tempo del suo diaconato? Influsso dell’insegnamento rigorista? Nuove fiamme di un Dio più vicino e perciò più esigente? Primi accostamenti alle responsabilità di un ministero che incuteva timore?
Cominciando da questo stesso periodo (e non fu certo un caso), Alfonso tenne in tasca o in un cassetto la sua agenda - prontuario di 88 pagine, formato 113x65 mm, rilegata in cartapecora. Voleva affidarle un appunto? La apriva a casaccio e buttava giù con la sua fine grafia, sulla prima pagina che capitava, qualche breve periodo in stile telegrafico o nomi, cifre, frasi solo iniziate e lasciate in sospeso, parole da cabala spesso neppure terminate. La stessa paginetta può così presentare frasi tracciate a cinque o sei anni di intervallo e le circa settantacinque date del quadernetto, dal 1726 al 1743, non permettono, anzi ci lasciano molto lontani dalla possibilità di situare tutti i frammenti. Solo uno studio attento del contenuto, dell’inchiostro e della grafia riesce a sug-
- 245 -
gerire a volte una datazione approssimativa: molti passi sono stati completati o soprascritti in periodi successivi 15 .
Il contenuto di questo prezioso documento? Contabilità, schemi di prediche, qualche strofa, liste di nomi, formule liturgiche, facoltà ricevute dai vescovi, uno schema di regole redentoriste e perfino la ricetta di un “balsamo simpatico”; soprattutto però, secondo il titolo che egli stesso ha scritto all’inizio, “cose di coscienza”: problemi personali e risposte ricevute dai suoi direttori, risoluzioni, preghiere, discussioni di casi di coscienza, direttive pastorali. A volte è difficile stabilire se un paragrafo concerne Alfonso stesso o se invece si tratta di una nota del moralista riguardo i suoi penitenti; alcuni passi sono sottolineati o scritti in caratteri maiuscoli; altri, numerosi, restano e resteranno per noi dei veri enigmi.
Il quaderno inizia nel 1726 con la ripresa delle inquietudini interiori e le pagine 11 e 12, probabilmente tra le prime, riportano un “esame di coscienza” del diacono su alcuni “giuramenti fatti”, per noi oscuri o secondari, riguardo la castità, L’elemosina, il digiuno del sabato, la lettura spirituale, ecc. Tre annotazioni fermano l’attenzione a p. 12:
“7. Il giuramento di communicarsi per le tentazioni... sta allargato sino alla prima domenica ventura...
8. Per il giuramento della Confessione la Domenica, basta confessarsi una volta dentro la settimana...
9. Per il giuramento della Religione, precettato la terza volta non pensarvi più..”.
Nel 1729-1730 il suo nuovo orientamento verso un istituto secolare e le missioni in Estremo Oriente richiederà una puntualizzazione del suo precedente impegno per la vita religiosa: fino a che punto vi si era impegnato? voto o giuramento?... Da moralista e da uomo di legge, Alfonso ragiona sul suo caso a p. 13:
“Dubitandosi almeno, se vi è stato voto, non son tenuto al voto com’è certo appresso tutti. In quanto al giuramento: l) E’ probabile che non sia riservato, come (afferma) Jam. con La. Sanch. ecc. Onde sta tolto da Pagano. 2) La nuova vocazione stante la chiamata, la vita stretta, il bene delle anime, qualche necessità di me, apparisce certamente che son mutate le circostanze et è de meliori bono. Onde concluso che non ci si pensi più come aveva ordinato Pagano, né si scriva per la dispensa ”.
Per ritornare al 1726, le pagine 15 e 16 riportano una serie di nove “precetti” ricevuti dal P. Pagano, confermati anche da Giulio Torni:
“1. Vi stava il precetto di non confessarsi cose passate, se certamente non potevasi giurare che fosse peccato grave, e non confessato. Ma appunto per levare ogni inquietudine, stanteché le confessioni non
- 246 -
sono state maliziosamente mancanti, e stante la ragione generale, che per l’integrità materiale non deve procurarsi col grave danno della coscienza per l’inquietudine, e della salute. Perciò è stato ingiunto nuovo precetto di non confessare nissuna cosa passata.
2. Per l’Officio. Più precetti di non ripetere (le parti recitate distrattamente)... In altro peccaresti ripetendo, sì perché contro il precetto, sì perché s’aprirebbe la via a scrupoli, et aperta poco più bene si reciterebbe l’officio, e la coscienza sempre sarebbe inquieta perdendo la pace, e la salute...
3. Dire l’officio accompagnato quando puoi, e se ‘I compagno mutila, purché non in materia grave, sei scusato da veniale... Et non sei tenuto a ripetere niente se non costa aver parte notabile mancato.
4. Confirmato il precetto, o consiglio ad 8 ottobre 1726, di superare i scrupoli, semprecché non è evidente peccato. E di communicarsi se non è evidente il mortale...
5. Precetto di non corrigere alcuno se non suddito per non esser tenuto per carità; almeno non farlo se prima non se lo consigli, s’intende di certi peccati diuturni; basta, la carità non obbliga con grave incommodo, così Torni e Pagano...
6. Nelle maledicenze basta affatto, secondo S. Tommaso, il non avere compiacenza interna né esterna.
7. Circa le visite di Quarantore, andarvi ogni giorno con un’ora e mezza di adorazione. Quando però d’inverno fusse tramontana torbida con vento, o quelli libecci, cioè quando piove, e spiove con vento, allora se son lontane le Quarantore andare ad una chiesa vicina...
8. Ne’ catarri quando mi sento grave, stare due giorni a letto, senza né meno dir messa, ma la gravezza dev’esser notabile.
9. Non fare niuna correzione fraterna”.
Alle coscienze che giustamente son dette “poco scrupolose”, tutto questo timore di offendere Dio parrà cosa da deridere, ma non a chi conosce i tormenti dell’amore! In questi anni - cerniera 1726-1727, la delicatezza d’animo fece camminare il diacono, prima, e il novello sacerdote, poi, sull’orlo dello scrupolo, ma la docilità e la sincerità dell’amore che lo ispiravano lo preservarono dall’impegolarvisi.
Nel 1728 da semplice penitente diventava confessore, confessore suo malgrado, per ubbidienza all’arcivescovo. Se esercitassero questo ministero solo coloro che esso lascia senza inquietudini, non vi sarebbero nei confessionali che amorali o pazzi.
Le pagine 3, 4 e 19 testimoniano che il novello confessore aveva lungamente interrogato e discusso con il P. Pagano sulle domande da porre o non porre. Nella pagina 16 nota:
“Nel 1728 confermato da Pagano il precetto di superare i dubbi
- 247 -
dove non è evidente il male, e poi non confessarsene, e non pensarvi se non è certo, et evidente il grave.
In quanto alle cose fatte in confessionario non pensarvi più, per ordine espresso Pagano, non badando nemmeno a rimediarvi per evitare il danno proprio, come Pagano.
Nella sospensione non si pecca, perché se vi fosse l’obbligo di deponere non si oprarebbe, onde sempre s’intende di superare lo scrupolo non di peccare per la risoluzione convenevole. Pagano. Replicato: operare senza deponere, e senza discorso.
Replicato: non pensarvi più dicendo: così ordina il confessore Confirmato anche pare evidentemente male ma oscuramente...”.
E chiaro che Pagano parlava a una coscienza timorata e Alfonso leggeva e rileggeva le direttive ricevute, riprese sinteticamente in alcune pagine (22, 27, 28a, 29, 45) e rispettate con amore.
Solo l’amore infatti lo gettava in questi timori, che lo facevano fremere di fronte anche alla sola ombra del peccato ed era l’amore a liberarlo. Una delle sue poesie commenta questa frase di san Bernardo: “ Lo schiavo teme la frustra, il servitore gode anticipatamente il salario, il figlio onora il padre. Ma io che sono sposa amo amare, amo essere amata, amo l’Amore! ”:
“ La Sposa non vive che sol per amare:
Non serve all’Amato che sol per amore:
Non teme l’Amato, se non per timore
Di non contentare appieno il suo cor.
Castigo più grande, che d’esser privata
Del caro suo Amore, non sa paventare.
Non spera già premio, suo premio è l’amare,
L’amore è la speme di tutto il suo amor ” 16 .
Così, nel fuoco dell’aridità che lo torce come un ramo secco, Alfonso irradiava contemporaneamente questo puro amore dal quale era stato interamene conquistato, paradossalmente conservando la sua libertà grazie all’ubbidienza: se l’obbligo “non è chiaro, gli ripeteva il suo direttore, sei obbligato ad operare con fare quel che ti piace” (pp. 20, 28b, 41, 51).
Il nostro cartesiano sta per sfuggire alla ragione e gettarsi nel vuoto, sospeso al paracadute dell’ubbidienza? Sì e no. No, quando si trattava di dirigere gli altri e lo dimostrerà chiaramente, sì, quando si trattava di se stesso, perché allora ognuno è cieco quanto Saulo a Damasco, prima che Anania gli avesse ridato la vista (Atti, 9, 8-19). Le pagine 43-45, del 1730, “ragionano” proprio su questa teologia dell’ubbidienza al direttore in quanto rappresentante di Dio, rifacendosi a
- 248 -
san Benedetto, a san Bernardo e (due volte) a santa Teresa d’Avila per concludere:
“Pagano: 1° gennaio 1730 - Superare, e fare ciò che non è evidente male, senza fermarsi, senza discorrere, e trovar ragioni, distrarsi, ed operare coll’obbedienza di non trovar ra(gioni), nella prima sospensione operare senza fermarsi. Qui vos audit me audit. Vade ad Ananiam; così vuole Dio per nostra umiltà. E tutti dicono così, ancorché para male. E al fare il contrario, vi è scrupolo, come di ubbriacarsi volontariamente, potendo così perdere la mente, e rendersi inabile ecc.
In ciò dunque come puoi risolvere, che non sia scrupolo, quando il contrario non è certo, e ‘I Confessore dice esser così?... e così tu dici agli altri ”.
In realtà proprio questo diceva ai suoi penitenti del Collegio dei Cinesi, a quelli dell’intera città, a quelli del Regno, dal momento che il suo zelo veniva sempre più richiesto, diventava sempre più carico; la sua vita a pieno ritmo era tutto l’opposto di un’esistenza meschina predisposta agli scrupoli.
Ma come poteva il “rettore” della chiesa dei Cinesi trovare ancora la forza e il tempo per predicare i santi esercizi qua e là per Napoli, alle monache e alle confraternite, per partecipare alle missioni degli illustrissimi e anche per essere presente, anche se più raramente, alle loro riunioni del lunedì?
“ Per quanto rifletto, ed ho veduto cogli occhi, dirà il P. Fatigati al Tannoia, non perdeva Alfonso Liguori, vivendo tra di noi, un minuzzolo di tempo: o predicava, o confessava, o faceva orazione, o studiava ”.
L’amico rivelava così il segreto dell’attività prodigiosa di Alfonso, che, caso unico nella storia della Chiesa, quasi in questo periodo, fece voto di non perdere mai un minuto.
Matteo Ripa poi contava per la sua congregazione su questo “mostro” di lavoro; Alfonso da parte sua bramava “di andare fino alla Cina a spargere tra gl’infedeli il lume del Vangelo, nella speranza di dar la sua vita per la fede”, ma “fu assicurato dal suo direttore non esser questa la volontà del Signore su di lui” 17 . Questa affermazione di Berruti ha la cauzione dello stesso Alfonso a pagina 26 del diario intimo (1730-1732?):
“Per il proposito di donare i libri alla Casa de’ Cinesi: fu un proposito interno solo, senza animo certo di obbligarsi allora...
Per il giuramento di trovare genti ecc. Pagano. Non ora che sono mutate le condizioni”.